Archive pour juillet, 2011

I Salmi : Un canto senza tempo (Gianfranco Ravasi)

 dal sito:

 http://www.apostoline.it/riflessioni/salmi/Salmi_canto.htm
 
 I SALMI:  CANTI SUI SENTIERI DI DIO

Un canto senza tempo

(Gianfranco Ravasi)

« Tra ciò che sentiamo alla lettura dei Salmi e ciò che proviamo alla lettura di Pindaro e Tetrarca c’è la stessa differenza che corre tra la patria e la terra straniera ». Difficilmente si immaginerebbe che questa affermazione è di W. F. Nietzsche, celebre filosofo ateo tedesco del secolo scorso. Noi la poniamo proprio in apertura al viaggio che per diversi mesi condurremo insieme all’interno di quel mondo mirabile di poesia e di preghiera che è la collezione biblica dei 150 Salmi.
In questa tappa ci metteremo quasi nella posizione di Mosè, giunto alla frontiera ultima della sua vita e della terra promessa da Dio al suo popolo: sul monte Nebo, in Transgiordania, prima di morire, egli contempla dall’alto e da lontano  la terra tanto sognata e attesa. Anche noi daremo uno sguardo solo panoramico per ora a questo territorio ideale di fede e di vita, alle sue città e alle sue vie spirituali. Nella prossima puntata, invece, scenderemo dal monte e ci avvieremo per le varie strade del Salterio, alcune oscure e altre luminose, alcune facili e altre tormentate.
Il grande teologo D. Bonhoeffer, morto martire in un campo di concentramento nazista il sabato santo del 1945, nel suo libro Pregare i Salmi con Cristo scriveva acutamente: « Si rimane sorpresi di primo colpo che nella Bibbia vi sia un libro di preghiere. La Bibbia non è infatti tutta una parola di Dio rivolta a noi? Ora, le preghiere sono parole umane e perciò come possono trovarsi nella Bibbia? Se la Bibbia contiene un libro di preghiere, dobbiamo dedurre che la parola di Dio non è soltanto quella che egli vuole rivolgere a noi ma è anche quella che egli vuole sentirsi rivolgere da noi ». E proprio perché è anche parola umana, quella del Salterio è segnata dal riso e dalle lacrime degli uomini, si snoda per le strade tra le speranze e le paure ed è legata ad una lingua (l’ebraico), a una cultura (quella semitica antica), a una storia (quella di Israele), ad uno spazio (quello di Palestina e del nostro pianeta).
È per questo che gli studiosi distinguono nei Salmi vari registri poetici e spirituali – i cosiddetti generi letterari – che riflettono appunto i sentimenti, le attese, gli incubi, le gioie degli uomini di tutti i tempi. Ci sono, allora, gli « inni » che celebrano Dio come Creatore del cosmo e Signore della storia; ci sono le « suppliche » che raccolgono l’eterna domanda dell’uomo di fronte alla sofferenza: « Perché, Signore?… Fino a quando, Signore, starai a guardare?… Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Per sempre? ». Ci sono poi i canti di « fiducia » che esaltano l’abbandono sereno in Dio anche in mezzo alle oscurità: « Come un bimbo in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia », prega il poeta del salmo 131.
Ci sono poi i carmi « messianici » che, sul filo della genealogia e della discendenza di Davide, attendono l’apparizione gloriosa di un re – Messia, giusto e salvatore. Ci sono i testi « sapienziali » che si interrogano sul senso della vita e propongono la fedeltà alla parola di Dio « come lampada per i passi » sul sentiero dell’esistenza. Noi nel nostro percorso attingeremo a questi vari « generi » poetici e spirituali ma ogni lirica-preghiera che leggeremo ci svelerà un volto sempre diverso e nuovo, perché ogni orante mette una punta personale, un tocco intimo, un’annotazione sorprendente, e irripetibile da parte di altri suoi fratelli di fede, che pure hanno composto preghiere sullo stesso tema e con la stessa fiducia in Dio.
Ma queste pagine bibliche ci conquisteranno soprattutto con la ricchezza dei loro simboli, con lo splendore delle loro immagini, con l’intensità dei loro sentimenti e con la potenza della loro speranza. Anche se queste preghiere abbracciano un millennio di poesia e di fede dell’Israele biblico, la tradizione posteriore le ha messe tutte sotto il patrocinio ideale di Davide. Ora, una leggenda giudaica racconta che Davide, inseguito dalle truppe del suo avversario, il re Saul, vagava per le piste bruciate del deserto di Giuda. Con sé aveva solo il suo kinnor, la sua cetra. Una sera coi suoi amici aveva piantato le tende nell’oasi di Engheddi, « la sorgente del capriolo ». Ad una palma aveva appeso la sua cetra e si era ritirato nella sua tenda scura come quella dei beduini. Stanco, Davide sentiva arrotolarsi lentamente su di sé il filo morbido del sonno. Ma ecco, all’improvviso, nel silenzio notturno un suono, dolce e straziante, malinconico e gioioso, dalle mille sfaccettature e modulazioni. Forse era il vento che faceva vibrare la sua cetra… Davide era uscito nell’oscurità della notte ed ecco: le dita di un angelo intessevano quella trama musicale sulle corde della sua lira. E la leggenda conclude: da quella notte Davide ebbe in dono le dita degli angeli per comporre le armonie dei Salmi.
Da quando i Salmi esistono e salgono al cielo, uscendo dal Tempio di Gerusalemme, attraversando i tetti delle nostre chiese, sciogliendosi nell’aria delle processioni, i musicisti e i cantori cercano di ottenere dita e voci d’angelo come nel racconto giudaico.
I Salmi, infatti, suppongono di essere cantati soprattutto nella liturgia. Non per nulla in essi si parla spesso di melodie, di cantori, di musicisti, di fanciulle che battono tamburelli, di danze con timpani e cetre, di trombe festive, di arpe ecc. Anzi, nell’ultimo inno, l’alleluia del Salmo 150, ai sette strumenti dell’orchestra del Tempio (corno, arpa, cetra, timpano, corde, flauti e cembali) si associa i suono universale di « tutto ciò che respira ».
È per questo che i Salmi, oltre che diventare preghiera personale, devono essere la base della preghiera pubblica, comunitaria e corale della Chiesa e dell’intero popolo di Dio. È per questo che i Salmi devono essere cantati, e diventare la lode della liturgia in cui tutti sono chiamati a celebrare nella gioia e nel dolore il Signore: « Voi tutti, giovani e fanciulle, voi vecchi insieme ai ragazzi, lodate il nome del Signore perché solo il suo nome è meraviglioso! » (Salmo 148, 12-13). 

GIANFRANCO RAVASI

(da SE VUOI)

I PROFETI – ZACCARIA: dove sta Dio?

 dal sito:

http://www.apostoline.it/riflessioni/profeti/zaccaria.htm
 
 I PROFETI  -  ZACCARIA: dove sta Dio? 

di LUIGI VARI, biblista 

Nel cammino fatto fin qui, abbiamo parlato spesso della Parola che Dio rivolge al profeta, o al suo popolo. Si ha quasi l’impressione di un filo diretto che permette una comunicazione pienamente soddisfacente. È vero che spesso l’incomprensione entra come parte determinante del rapporto; ma, più che incomprensione, abbiamo parlato di disobbedienza. Può allora nascere un problema in ognuno di noi, un problema fortemente attuale. Noi che non facciamo comunemente esperienza di una parola che ci viene rivolta direttamente, come facciamo ad esercitare il nostro ruolo di profeti? È vero che abbiamo la Bibbia, e nella Bibbia i Vangeli; ma essi non sembrano colmare l’assenza di Dio caratteristica della nostra esperienza di uomini e di donne di inizio secolo XXI. Quelle parole, qualora vengano solo ripetute, ci danno il senso di un’antichità preziosa, mai anticaglia, eppure lontana, più bella, ma meno pratica. È come se ci venisse portata da ammirare una vecchia e preziosa macchina da scrivere, certamente ne riconosceremmo la bellezza, ma mai penseremmo di sostituire con essa il nostro piccolo computer.
Possiamo veramente parlare di un « silenzio di Dio », e noi capiamo che cosa sia essere portatori di una parola; ma che cosa significa essere « profeti del silenzio »? Una situazione non dissimile da quella vissuta dal profeta Zaccaria, impegnato nei primi anni del 500 a. C. in mezzo al popolo che era rientrato in patria e si era messo a ricostruire il tempio dopo la lacerante esperienza dell’esilio. L’esilio, comunque si vedano le cose, fu vissuto come esperienza dell’assenza di Dio. Il Tempio, luogo della Gloria di Dio, era distrutto, Gerusalemme, la città di Dio, era devastata, il popolo deportato… dove sta Dio? Se durante l’esilio, come abbiamo visto, ci sono stati profeti che hanno tenuto viva la fede, ora, dopo il ritorno, si rischia l’avvilimento, il « lasciarsi cadere le braccia », perché Dio non parla più.
Zaccaria vive in questa situazione la sua profezia che non è negazione della difficoltà, ma fede determinata nel fatto che non è possibile che Dio taccia. Cambiano i modi con cui Dio si fa presente nella nostra vita, ma non possiamo pensare che egli smetta di essere presente.
Nasce così la profezia di Zaccaria che si sviluppa in visioni; cioè in simboli da interpretare, in segni da decifrare. Si tratta di credere che le Parola continua ad esserci e sforzarsi di trovarla nei fatti, nelle cose della vita.
Dio è presente nella nostra storia
Sono otto le visioni della profezia di Zaccaria.

La prima visione è quella dei cavalieri (1,8-17), una visione che dà l’impressione che non possa succedere nulla: « Abbiamo percorso tutta la terra: tutta tranquilla » (1,11), al punto che l’angelo del Signore si scoraggia « fino a quando rifiuterai di avere pietà di Gerusalemme (…) sono ormai settanta anni » (1,12). L’esperienza di quiete è, però, illusoria, non è vero che il Signore si dimentica della sua città; infatti la seconda visione mostra le corna egli operai, le corna rappresentano i nemici di Israele, ma ecco è arrivato il momento di distruggere i distruttori, per questo infatti sono mandati gli operai. Il disegno positivo di Dio si chiarisce nella terza visione sempre più segnata dalla speranza, essa mostra una fune per misurare, la fune serve ai muratori per ricostruire le mura; questa ricostruzione è superiore a quella che gli uomini possono desiderare: nuove mura per una città più grande e ancora insufficienti per contenere la gente: « gioisci, esulta, Figlia di Sion, perché, ecco, io vengo ad abitare in mezzo a te (…). Nazioni numerose aderiranno in quel giorno al Signore, e diverranno suo popolo ed egli dimorerà in mezzo a te e tu saprai che il Signore degli eserciti mi ha mandato a te » (2,14-15). La città ricostruita non basta, occorre che essa sia governata e, dopo una quarta visione che parla del sommo sacerdote Giosuè, abbiamo la quinta visione del candelabro e i due olivi, una specie di teoria del buon governo. Si va avanti così fino all’ottava visione, nel tentativo di comprendere i fatti della storia, di non perdere il filo della presenza di Dio, unico filo con il quale è possibile costruire la speranza. Questa speranza viene espressa dai discorsi che fanno da quadro alle visioni.
« Cambiare » perché cresca la speranza
Nei discorsi (cc. 7 e 8) abbiamo la promessa di un cambiamento: « Gerusalemme sarà chiamata Città della fedeltà e il monte del Signore degli eserciti Monte santo » (8,3), cambiamento che significherà situazione di gioia, nata dall’armonia: « Vecchie e vecchi siederanno ancora nelle piazze di Gerusalemme (cioè si potrà vivere la vita arrivando alla vecchiaia, senza distruzione di giovani vite a causa della violenza), ognuno con il bastone in mano per la loro longevità. Le piazze della città formicoleranno di fanciulli e di fanciulle che giocheranno sulle sue piazze » (8,4-5). Una voglia di tranquillità che nasce da una pace realizzata, è il modo con cui il popolo del paese ha voglia di Dio. Una tranquillità per nulla statica, ma che nasce da un cambiamento totale, infatti il cambiamento del nome (Gerusalemme sarà chiamata Città della fedeltà) indica, per la legge che in Oriente il nome identifica la persona, la nascita di una reale novità.
Cambiare, questa è la condizione per far crescere la storia in chiave di speranza. Cambiare: « ecco che cosa dovete fare: parlate con sincerità ciascuno con il suo prossimo: veraci e sereni siano i giudizi che terrete alle porte delle vostre città (la porta è un po’ la piazza della città, là ci si incontrava, si facevano affari e si tenevano anche giudizi, come in un tribunale) » (8,16). Cambiare diventa un imperativo e una responsabilità di ciascuno.
Queste parole che abbiamo ora letto potrebbero essere pronunciate con grande attualità, nelle nostre piazze. Ma chi crede che veramente si possa cambiare? Chi pensa che rapporti limpidi possano sostituirsi alle manovre torbide che andiamo leggendo sui giornali e che sappiamo essere, al di là delle finte meraviglie, una questione assolutamente ordinaria? Nel turbine dello scarico delle responsabilità, mentre i beneficiari di una società gestita con criteri spesso indecorosi, si aggirano come se fossero arrivati solo adesso, risuona forte il comando di Zaccaria: « ciascuno… ».
Io penso che essere uomini di fede, oggi, sia accogliere quell’invito a cambiare, sia rifiutare il compromesso, la furbizia, il depravato meccanismo delle « conoscenze », per avere rapporti limpidi. Ecco ancora la parola, la profezia che ci disorienta. Ancora la difficoltà di scegliere fra speranza: seguire la Parola, e disperazione: seguire « il proprio buon senso »… Eppure sentiamo l’urgenza di dare credito alla Parola, sentiamo l’urgenza di dover dare questa testimonianza. Se noi crediamo che oggi il desiderio di Dio diventa desiderio di cambiamento, dobbiamo permettere a chi cerca di trovare, allora… « in quei giorni dieci uomini di tutte le lingue afferreranno un giudeo per il lembo del mantello e gli diranno: Vogliamo venire con voi perché abbiamo compreso che Dio è con voi » (8,23). Lo troveranno in qualcuno di noi un « giudeo » che si lasci afferrare il mantello? Solo nella misura in cui ciascuno di noi deciderà di cambiare.

(da « Se vuoi »)

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