Archive pour juillet, 2011

Ravasi: «Una generazione senza volti» : «Il Dio biblico ha deciso di svelarsi nelle storie umane ed è lì che occorre cercarlo»

dal sito:

http://www.famigliacristiana.it/chiesa/dossier/narrare-la-vita-di-generazione-in-generazione_270511092113.aspx

Ravasi: «Una generazione senza volti»

Al Festival biblico di Vicenza le « provocazioni » del cardinal Ravasi: «Se il messaggio di fede non sarà consegnato alle generazioni future, saremo incapaci di sottrarci al nulla».

«Il Dio biblico ha deciso di svelarsi nelle storie umane ed è lì che occorre cercarlo»

27/05/2011 

Il cardinale Gianfranco Ravasi durante il suo intervento nel duomo di Vicenza (foto Alessandro Dalla Pozza).Il Festival Biblico è ufficialmente partito con la lectio magistralis inaugurale del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e per la quarta volta applauditissimo ospite della kermesse. Se l’anno scorso il compito di inaugurare l’ultima e più importante parte dell’iniziativa fu affidato al cardinal Dionigi Tettamanzi , quest’anno è il Presidente del Pontificio Consiglio della cultura a intrattenere un migliaio abbondante di persone in un duomo di Vicenza gremitissimo. Il flusso delle generazioni, la vita e la fede nel fluire del tempo, l’incapacità di noi uomini e donne moderni di generare, il valore del silenzio. Questi in breve i punti toccati dal cardinal Ravasi. Di seguito la sintesi del suo intervento.
Nella prima parte della sua meditazione Ravasi, commentando i primi versetti del Salmo 78, ha ricordato che tutti noi siamo stati generati e molti sono stati o saranno “generanti” di altri uomini nel fluire della storia e del tempo. La Bibbia, ha detto Ravasi, è un grande libro di uomini e di donne, di madri, padri, figli e figlie, di clan, di famiglie e di storie di popoli, di maestri e discepoli. Di anelli genealogici di felicità e di tormento. Dio stesso genera il Figlio, Cristo, come diciamo ogni domenica nel Credo. Lo stesso Nuovo Testamento, il Vangelo di Matteo, inizia con una genealogia. La Bibbia, un libro di generazioni umane e divine, insomma, che ha al centro una realtà di generazione ininterrottamente vivente fino a oggi.
Il biblista ha concentrato innanzitutto la sua riflessione sulla filologia delle parole bibliche, importanti perché esprimono realtà profonde. Figlio, ad esempio, deriva da una parola sanscrita che significa “allattare” e in latino significa “libertà”. Generare, insomma, è essere liberi. Il libro del Qhoelet (1,4), ad esempio, dice che una generazione se ne va e un’altra subentra su una terra eternamente ferma. L’autore biblico qui è acido: la terra assiste indifferente alla morte e alla nascita delle generazioni, teatro muto del nostro muoverci. Quando parliamo delle generazioni parliamo allora del tempo, della storia, di qualcosa che passa e scorre. Lo ricorda anche il Siracide, scritto nel  II sec. A.C.: “Come foglie spuntate su albero verdeggiante l’una cade e l’altra sboccia, così sono le generazioni di carne e sangue. Una muore e l’altra nasce”. Il filo del tempo non si spegne mai e la storia delle generazioni, in ultima analisi, è la storia del nostro stesso limite.
Ma il fluire delle generazioni è anche teofania di Dio. La Bibbia non ci invita a decollare verso cieli mitici, un ambiente ineffabile, impalpabile… No, il Dio biblico ha deciso di svelarsi nelle storie umane ed è lì che occorre cercarlo. Gn 1,27 ha un parallelismo per cercare di rendere il concetto più incisivo: “Dio creò l’uomo a sua immagine, a sua immagine lo creò, maschio e femmina li creò”. Dio, insomma, è maschio e femmina e l’immagine più vicina all’essenza di Dio è l’uomo e la donna che insieme generano e, come Dio, dal “nulla fanno essere il creato” attraverso un atto d’amore.
L’uomo e la donna continuano l’opera creatrice di amore di Dio offendo a questi l’occasione di svelarsi attraverso il succedersi delle generazioni. Per questo ad Abramo è fatta la promessa fondamentale del figlio: “conta le stelle … tale sarà la tua discendenza, renderò la tua discendenza come la sabbia della spiaggia”. La generazione di uomini e di donne allora è veramente la trama della vita: della nostra esperienza umana e spirituale, nella storia, non possiamo non essere immessi in questo flusso in cui scorre Dio stesso. Le generazioni, in definitiva, sono la sede della teofania.
Nella seconda parte delle sua meditazione Ravasi, facendo riferimento al capitolo 12 del libro dell’Esodo, ha ricordato che la pasqua ebraica narrata nell’Esodo rappresenta la sequenza delle generazioni, un memoriale da celebrare “di generazione in generazione”,  un luogo, anzi “il” luogo privilegiato in cui i padri insegnano ai figli la storia della salvezza. Le generazioni sono allora come il seme dell’umanità credente, fosse pure, come capiterà spesso bella Bibbia, di generazioni adultere e infedeli, che non sanno conservare l’alleanza con Dio.  L’aggadah, la narrazione della fuga dall’Egitto, è ancora oggi un intreccio di voci, di domande e risposte tra padri e figli. La giovane generazione chiede all’antica il significato del rito per poterlo poi narrare a sua volta alla generazione successiva. Il tema dell’educazione, insomma, si intreccia strettamente con quello della generazione. Lo stesso Concilio Vaticano II ha definito i genitori i primi maestri della fede.
La generazione è dunque l’orizzonte fondamentale entro cui bisogna annunciare la fede. È triste vedere oggi che le generazioni sono mute tra loro, la generazione più vecchia è senza parole, forse ha perso il gusto di quella voce che, quando era piccola, le parlava di Dio, degli eventi salvifici. La stessa società non ha più gli anelli genealogici della narrazione con tutto il calore e la passione di colui che sa di custodire un tesoro. Siamo allora una generazione di smemorati, non ci si raccontano più le grandi cose, i grandi eventi, siamo tutti protesi sul quotidiano, sul giorno che alla fine si spegne. “Chi non ricorda non vive”, diceva il poeta Pasquali. Ed Elliott, ben 70 anni fa, commentava: “Noi stiamo dimenticando il nostro cristianesimo”.
La nostra disgrazia sarà che saremo una generazione senza volti, senza identità. L’appello allora è di custodire di generazione in generazione le meraviglie del Signore perché i nostri figli abbiano a narrare a loro volta le meraviglie del Signore ai loro figli. Noi siamo come nani sulle spalle di giganti. La Bibbia dice che le generazioni sono il luogo dove custodire il passato e costruire il futuro. Se il messaggio di fede non verrà consegnato alle generazioni future, questo significa che non saremo capaci di sottrarci al vuoto e all’inconsistenza del nulla.
Tre indicazioni per concludere: ne “Il Profeta”, opera molto vicina alla sensibilità biblica, Kalil Gibran dice che i figli non ci appartengono, possiamo amarli ma non costringerli ai nostri pensieri perché loro hanno i loro pensieri. Questo dice come le generazioni ci ricordino il limite del tempo. è per noi una lezione di umiltà. Le generazioni sono mille e altre mille, ma noi non possiamo abitarle tutte. Seconda considerazione: la prima lettera di Giovanni  dice che Cristo è stato generato secondo la carne, è stato generato in eterno e che chiunque ami è stato a sua volta generato e conosciuto. Dio è amore. Chiunque crede che Gesù è il Cristo è stato generato, e chi ama colui che ha generato sarà amato da colui che è stato generato. Fede e amore dunque si intrecciano strettamente.
E infine un riferimento al regista Kieslowski, che ha dedicato 10 film a tutti e 10 i comandamenti. “Ho scelto il decalogo perché lo violiamo ogni giorno ma rimane lì, ininterrottamente come muto parlante” ha detto in un’intervista. E così è la voce di Dio che risuona dal Sinai offrendo a Mosè i comandamenti, che continuamente incide ferite alla nostra superficialità, al vuoto che ci circonda.
L’invito allora è, come scrisse il teologo protestante Dietrich Bonhoffer subito prima di morire per mano dei nazisti, di fare silenzio: prima di ascoltare la Parola di Dio e subito dopo averla ascoltata, perché i nostri pensieri siano già rivolti a Dio e perché Egli può parlarci anche dopo che l’abbiamo ascoltata; ma il silenzio è necessario anche la mattina presto, perché Dio deve avere la prima parola del giorno, e la sera, prima di coricarci, perché anche l’ultima parola appartenga a Dio.

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L’eucaristia, una Pentecoste perpetua

dal sito:

http://www.zenit.org/article-27287?l=italian

L’eucaristia, una Pentecoste perpetua

di Federica Rosy Romersa*

ROMA, sabato, 2 luglio 2011 (ZENIT.org).-San Serafino di Sarov (1759-1833), il santo più amato e più venerato dal popolo russo, è stato definito “il cuore fiammeggiante”, l’ideale della santità russa, ma anche una delle figure più luminose in tutta la storia del cristianesimo. Nel famoso colloquio con il suo diletto discepolo Nicola Motovilov, san Serafino gli spiega qual è il vero fine della vita cristiana, dicendo: «Quanto a me, povero Serafino, ti spiegherò adesso in cosa consista realmente questo fine. La preghiera, il digiuno, le veglie e le altre pratiche cristiane, per quanto buone possano sembrare di per se stesse, non costituiscono il fine della vita cristiana, anche se aiutano a pervenirvi.Il vero fine della vita cristiana è l’acquisizione dello Spirito Santo di Dio! Quanto alla preghiera, il digiuno, le veglie, l’elemosina e ogni altra buona azione fatta in nome di Cristo, sono solo dei mezzi per acquisire lo Spirito Santo. Tieni presente che unicamente una buona azione fatta in nome di Cristo ci procura i frutti dello Spirito. Il bene compiuto nel nome di Gesù non solo procura una corona di gloria nel mondo futuro, ma fin da quaggiù riempie l’uomo della grazia dello Spirito Santo, come leggiamo nel Vangelo: “Dio dà lo Spirito senza misura. Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa” (Gv 3,34-35). Nella parabola delle dieci vergini, l’olio che è venuto a mancare a cinque di esse è il simbolo dello Spirito Santo. Sono chiamate perciò “stolte”, perché non si preoccupavano del frutto indispensabile della virtù che è la grazia dello Spirito Santo, senza la quale nessuno può essere salvato. Antonio il Grande scriveva ai suoi monaci che la volontà di Dio è perfetta, dona la salvezza e agisce sugli uomini insegnando loro a fare il bene unicamente con il solo scopo di acquisire lo Spirito Santo, il tesoro eterno, inesauribile, che nulla al mondo è degno di eguagliare. Oh, come vorrei, amico di Dio, che in questa vita tu fossi sempre ripieno di Spirito Santo! Come vorrei, amico di Dio, che tu trovassi questa sorgente inesauribile di grazia e che ti domandassi incessantemente: “Lo Spirito Santo è con me?”»[1].
«Vieni, o Spirito, dal Cuore trafitto di Cristo!»
L’unica vera ricerca della vita è dunque scoprire “come ravvivare il dono dello Spirito Santo ricevuto nel Battesimo e nella Cresima, quando e Chi ci aiuta ad accrescerLo”!
Nell’Antico Testamento si implorava: «Vieni, o Spirito, dai quattro venti» (cf. Ez 37,9), ma ora, dopo il totale sacrificio di Cristo al Padre per la nostra salvezza, possiamo pregare con assoluta certezza: «Vieni, o Spirito, dal Cuore trafitto di Cristo!».
L’Acqua che sgorgò dal Costato di Cristo, insieme con il Sangue: “… uno dei soldati con la lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua” (Gv 19,34), era il simbolo dello Spirito Santo. È da quella “roccia spirituale”, da cui quest’acqua viva si riversa sulla Chiesa per dissetare i credenti. Come la pioggia, nella sua stagione, discende abbondantemente dal cielo e si raccoglie nei penetrali rocciosi di una montagna, finché non trova un varco verso l’esterno e si trasforma in fontana che sgorga in continuazione notte e giorno, estate e inverno, così lo Spirito Santo, che scese e si raccolse tutto quanto in Gesù durante la sua vita terrena, sulla Croce trovò un varco, una ferita, e divenne fontana che zampilla per la vita eterna nella Chiesa.
Il momento in cui Gesù, sulla Croce, “spirò” (Gv 19,30), è anche, per l’evangelista, il momento in cui “effuse lo Spirito”; la stessa espressione greca deve essere intesa, secondo l’uso proprio di Giovanni, nell’uno e nell’altro senso: nel senso letterale di “spirare” e in quello mistico di “dare lo Spirito”; nella nuova versione della CEI (2009) si traduce: “E, chinato il capo, consegnò lo spirito”. L’episodio dell’Acqua e del Sangue, che segue immediatamente, accentua questo significato mistico. Di lì a poco, questo mistero è come rappresentato plasticamente, quando, nel Cenacolo, Gesù risorto “alitò”/“soffiò” sui discepoli e disse: «Ricevete lo Spirito Santo!» (Gv 20,22). Parafrasando un’espressione di Gesù: «La gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro»(Gv 17,22), san Gregorio Nisseno fa dire allo stesso Gesù: «Lo Spirito Santo che hai dato a me, Io l’ho dato a loro!». E ancora i Padri della Chiesa paragonano l’umanità del Salvatore ad un vaso di alabastro, pieno del profumo dello Spirito Santo. Sulla Croce “il vaso di alabastro” fu infranto (cioè il Corpo crocifisso fu spezzato dalla morte), come nell’unzione di Betania, e lo Spirito si effuse, riempiendo di profumo “tutta la casa”, cioè tutta la Chiesa, ma anche tutta l’umanità.
Dunque, proprio perchè Gesù Cristo è per eccellenza pieno di Spirito Santo, con grandissima gioia possiamo affermare che la sua missione principale è quella di donarci il suo Spirito, anzi di “battezzarci in Spirito Santo e fuoco”, secondo l’espressione cara a Giovanni Battista: «Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno neanche di portargli i sandali; Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Mt 3,11). «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”»(Gv 1,32-33). Per Gesù lo Spirito è l’Amore che lo unisce al Padre e quindi ce lo dona per due ragioni: la prima perché si deve compiere la promessa del Padre, che, attraverso il Figlio, dona lo Spirito con infinita abbondanza: «Colui che Dio ha mandato dice le parole di Dio e senza misura egli dá lo Spirito. Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa»(Gv 3,34-35). «Quando verrà il Paraclito, che Io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, Egli darà testimonianza di me» (Gv 15,26).
La seconda ragione perché è il dono più alto di Dio all’uomo, quindi la testimonianza suprema del suo Amore per noi: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). A ragione quindi il papa Benedetto XVI conclude dichiarando: «Portiamo dentro di noi quel sigillo dell’Amore del Padre in Gesù Cristo che è lo Spirito Santo»[2].
Gesù pieno di Spirito Santo
Con Maria SS.ma e san Giuseppe è bello contemplare Gesù pieno di Spirito Santo, così come ce lo presentano i Vangeli. I genitori di Gesù sono infatti i primi testimoni di questa sovrabbondanza d’Amore sia per rivelazione, sia per irradiazione iniziata su questa terra e prolungata eternamente nel Regno della Gloria in Paradiso.
«Lo Spirito Santo scenderà su di te, – annunciò l’angelo a Maria – e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio» (Lc 1,35). «Giuseppe, figlio di Davide, – gli disse l’angelo in sogno – non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,20-21).
Nel racconto del Battesimo di Gesù, leggiamo: «Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: “Tu sei il Figlio mio, l’amato, in te ho posto il mio compiacimento”» (Lc 3,21-22).
Quando si recò nella sinagoga di Nazaret, Gesù attribuì a se stesso quanto si legge nel rotolo del profeta Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione» (Lc 4,18).
Durante la Trasfigurazione, venne una nube (simbolo dello Spirito Santo), che coprì Gesù ed i presenti con la sua ombra. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto: ascoltatelo» (Lc 9,34-35).
Al termine della missione dei settantadue discepoli, Gesù “esultò di gioia nello Spirito Santo” (Lc 10,21) e sempre il Figlio del Padre parla ed agisce nello Spirito. Dice infatti Benedetto XVI: «Il Paraclito, primo dono ai credenti, già operante nella creazione (cfr. Gn 1,2), è pienamente presente in tutta l’esistenza del Verbo incarnato» (Sacramentum caritatis, 12).
Gesù è venuto per battezzarci in Spirito Santo e fuoco
Si può dunque comprendere che la pienezza dello Spirito in Gesù non è tanto fine a se stessa, quanto si identifica con il cuore della sua missione: “battezzarci in Spirito Santo e fuoco”! Grazie ai Sinottici e in particolare al vangelo di Giovanni possiamo essere illuminati su questa verità ancora troppo poco approfondita. Quando infatti Gesù annuncia il Vangelo, non si limita ad una semplice dichiarazione di una nuova realtà di vita e di pensiero, ma vuole concretamente diventare “bella notizia per i poveri, liberazione per i prigionieri, vista ai ciechi, consolazione per tutti gli affitti, grazia permanente del Signore….”.
È pertanto fortissimo in Gesù il desiderio di portare lo Spirito Santo, o meglio di “battezzare in Spirito Sano e fuoco”. Si tratta un desiderio che aumenta man mano che leggiamo i diversi episodi della sua vita apostolica: dagli incontri personali nelle case o lungo la via agli insegnamenti privati agli apostoli, dalle discussioni con gli scribi ed i farisei alle predicazioni alle folle che Lo seguono numerose… Particolarmente significativi sono i colloqui con Nicodemo e la Samaritana. Ai dubbi di Nicodemo sulla rinascita dall’alto, Gesù rispose: «In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito. Non ti meravigliare se t’ho detto: dovete rinascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,5-8). Alle perplessità della Samaritana, Gesù replicò: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere! ”, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva» (Gv 4,10).
Tuttavia la dichiarazione più decisiva circa la sua volontà di accendere il tutto il mondo il fuoco dello Spirito, è quando proclama: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!» (Lc 12,50).
Il “battesimo” è riferito alla sua Morte, perché, come abbiamo già accennato, sarà proprio sulla Croce che si completa e contemporaneamente inizia una nuova incessante “consegna del Suo Spirito”. Così l’aveva annunciato nel grande giorno della festa delle Capanne: «“Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva”. Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato» (Gv 7,37-39).
Nell’Eucaristia Gesù ravviva ed accresce in noi il dono del suo Spirito
Sono due i più grandi desideri espressi da Gesù prima di morire. Il primo viene da Lui manifestato ai suoi discepoli, quando dice loro: «Ho tanto desiderato (è molto intensa l’espressione latina: “desiderium desideravi”) mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione» (Lc 22,15). Con un supremo atto d’amore, Gesù fa capire la necessità della consumazione totale del sacrificio del suo Corpo come aveva già affermato: «E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3,14-15). Ed è ancora nello Spirito che offre se stesso: “con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio” (Eb 9,14). Infine nei discorsi di addio, Gesù mette in chiara relazione il dono della sua vita nel mistero pasquale con il dono del suo Spirito ai suoi (cf. Gv 16,7).
Il secondo grande desiderio dapprima è un’assicurazione: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre»(Gv 14,16). In seguito assume la forma dell’accorata invocazione che innalza al Padre al termine della “preghiera sacerdotale”, quando esclama: «Padre giusto… io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’Amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro». (Gv 17,26).
Gesù ha liberamente affrontato la Passione e la Morte certamente per vincere il maligno e il peccato, ma soprattutto per risorgere con un nuovo Corpo Glorioso che Gli permettesse di rimanere per sempre con l’umanità di tutti i tempi e di tutti i luoghi e per effondere su ciascuna creatura il suo Spirito d’Amore: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). La sua Presenza è dunque permanente e, sotto i segni del pane e del vino, è visibile nell’Eucaristia, che è per eccellenza il sacramento dell’Amore e quindi il segno tangibile dello Spirito Santo e della sua incessante effusione dentro di noi!
Pertanto, dall’Eucaristia, Gesù continua fino alla fine dei tempi la sua missione di “battezzarci in Spirito Santo e fuoco”. È attraverso l’Eucaristia che perennemente il Padre risponde alla preghiera che il suo Figlio amato gli ha innalzato nel Cenacolo: «Padre …. l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro»(Gv 17,26). Infine è attraverso l’Eucaristia che Gesù Risorto ravviva continuamente il dono del suo Spirito in tutti i credenti, come fece la sera di Pasqua: «La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi! ”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Dopo aver detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”» (Gv 20,19-23).
“L’Eucaristia una Pentecoste perpetua: ogni volta che celebriamo la Santa Messa riceviamo lo Spirito Santo”
Fin dal 1972 Paolo VI, durante un’Udienza Generale domandava: «Quale bisogno avvertiamo, primo e ultimo, per questa nostra Chiesa benedetta e diletta? Lo dobbiamo dire, quasi trepidanti e preganti, perché è il suo mistero, e la sua vita, voi lo sapete: lo Spirito, lo Spirito Santo, animatore e santificatore della Chiesa, suo respiro divino, il vento delle sue vele, suo principio unificatore, sua sorgente interiore di luce e di forza, suo sostegno e suo consolatore, sua sorgente di carismi e di canti, sua pace e suo gaudio, suo pegno e preludio di vita beata ed eterna. La Chiesa ha bisogno della sua perenne Pentecoste: ha bisogno di fuoco nel cuore, di Parola sulle labbra, di profezia nello sguardo. La Chiesa ha bisogno d’essere tempio dello Spirito Santo» (Paolo VI, Udienza generale, 29 novembre 1972). Benché le ricchezze del mistero di Cristo siano imperscrutabili, tuttavia alla luce di quanto affermava Paolo VI e di quanto abbiamo considerato, siamo ora in grado di rispondere alla domanda iniziale:«Come ravvivare in noi il dono dello Spirito Santo ricevuto nel Battesimo e nella Cresima, quando e Chi ci aiuta ad accrescerlo?».
È nostra convinzione che finora la risposta più conforme alla grandezza di questo Dono ci è stata offerta dal nostro papa Benedetto XVI, quando nel Messaggio per la XXIII Giornata Mondiale della Gioventù del 2008 (cf. nn. 5-6), affermò:«È con i sacramenti dell’iniziazione cristiana (che sono complementari ed inscindibili): il Battesimo, la Confermazione e, in modo continuativo, l’Eucaristia, che lo Spirito Santo ci rende figli del Padre, fratelli di Gesù, membri della sua Chiesa, capaci di una vera testimonianza al Vangelo, fruitori della gioia della fede.
Per crescere nella vita cristiana, è necessario nutrirsi del Corpo e del Sangue di Cristo: infatti, siamo battezzati e confermati in vista dell’Eucaristia (cf. CCC 1322; Sacramentum caritatis, 17). “Fonte e culmine”della vita ecclesiale, l’Eucaristia è una “Pentecoste perpetua”, poiché ogni volta che celebriamo la Santa Messa riceviamo lo Spirito Santo, che ci unisce più profondamente a Cristo e in Lui ci trasforma».
Similmente anche Giovanni Paolo II aveva dichiarato: «Attraverso la comunione al Suo Corpo e al Suo Sangue, Cristo ci comunica anche il Suo Spirito. Scrive sant’Efrem: “Chiamò il pane suo corpo vivente, lo riempì di se stesso e del suo Spirito. E colui che lo mangia con fede, mangia Fuoco e Spirito. Prendete, mangiatene tutti, e mangiate con esso lo Spirito Santo. Infatti è veramente il mio Corpo e colui che lo mangia vivrà eternamente”. La Chiesa chiede questo dono divino, radice di ogni altro dono, nella epiclesi eucaristica. Si legge, ad esempio, nella Divina Liturgia di san Giovanni Grisostomo: “T’invochiamo, ti preghiamo e ti supplichiamo: manda il tuo Santo Spirito sopra di noi tutti e su questi doni affinché a coloro che ne partecipano siano purificazione dell’anima, remissione dei peccati, comunicazione dello Spirito Santo”. E nel Messale Romano il celebrante implora: “A noi che ci nutriamo del Corpo e del Sangue del tuo Figlio dona la pienezza dello Spirito Santo, perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito”. Così, con il dono del suo Corpo e del suo Sangue, Cristo accresce in noi il dono del suo Spirito, effuso già nel Battesimo e dato come “sigillo” nel sacramento della Confermazione» (Ecclesia de Eucaristia 17).
Benedetto XVI osserva ancora: «È in forza dell’azione dello Spirito Santo che Cristo stesso rimane presente ed operante nella sua Chiesa, a partire dal suo centro vitale che è l’Eucaristia. La conversione sostanziale del pane e del vino nel suo Corpo e nel suo Sangue pone dentro la creazione il principio di un cambiamento radicale, come una sorta di “fissione nucleare” (per usare un’immagine a noi ben nota) portata nel più intimo dell’essere, un cambiamento destinato a suscitare un processo di trasformazione della realtà, il cui termine ultimo sarà la trasfigurazione del mondo intero, fino a quella condizione in cui Dio sarà tutto in tutti (cf. 1Cor 15,28). Ciò che lo Spirito Santo tocca, conclude san Cirillo di Gerusalemme, è santificato e trasformato totalmente» (cf. Sacramentum caritatis, 11-13). Pertanto lo Spirito Santo – afferma il papa – illumina, rivelando Cristo crocifisso e risorto, e ci indica la via per diventare più simili a Lui, per essere cioè “espressione e strumento dell’amore che da Lui promana”. La presenza dello Spirito in noi attesta, costituisce e costruisce la nostra persona sulla Persona stessa di Gesù crocifisso e risorto. Rendiamoci dunque familiari dello Spirito Santo, ci invita il papa, per esserlo di Gesù. In tal modo la nostra vita sarà sempre più un riflesso del grande Mistero eucaristico! L’incoraggiamento di Benedetto XVI ai giovani (cf. Messaggio per la XXIII Giornata Mondiale della Gioventù del 2008, 4-5) vale per tutti: «Lo Spirito Santo è sorgente di vita che ci santifica: ci introduce nel mistero trinitario, permettendoci di vivere in pienezza la fede e accendendo in noi il fuoco dell’amore. Ci rende così missionari della carità di Dio!… Lo Spirito del Signore si ricorda sempre di ciascuno e vuole, mediante voi giovani in particolare, suscitare nel mondo il vento e il fuoco della Pentecoste!». Concludiamo con un Inno di sant’Efrem il Siro, chiamato “la cetra dello Spirito Santo”, proclamato dal papa Benedetto XVI durante l’Udienza generale del 28 novembre 2007:

«Nel tuo pane si nasconde lo Spirito che non può essere consumato;
nel tuo vino c’è il fuoco che non si può bere.
Lo Spirito nel tuo pane, il fuoco nel tuo vino:
ecco una meraviglia accolta dalle nostre labbra.
Il serafino non poteva avvicinare le sue dita alla brace,
che fu avvicinata soltanto alla bocca di Isaia;
né le dita l’hanno presa,
né le labbra l’hanno inghiottita;
ma a noi il Signore ha concesso di fare ambedue le cose.
Il fuoco discese con ira per distruggere i peccatori,
ma il fuoco della grazia discende sul pane e vi rimane.
Invece del fuoco che distrusse l’uomo,
abbiamo mangiato il fuoco nel pane e siamo stati vivificati» (Sant’efrem il Siro, Inno sulla fede 10,8-10).
————————————

1) IRINA GORAINOFF, Serafino di Sarov. Vita, colloquio con Motovilov, scritti spirituali, Gribaudi, Milano 1981, 155-164.
2) Benedetto XVI, Messaggio per la XXIII Giornata Mondiale della Gioventù del 2008, n. 4.
——
*Federica Rosy Romersa è una teologa pastoralista impegnata da anni nell’evangelizzazione.

Publié dans:LITURGIA, LITURGIA - EUCARESTIA |on 4 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

buona notte e buona domenica

buona notte e buona domenica dans immagini...buona notte...e geranium_macrorrhizum_17c

Geranium macrorrhizum Geraniaceae

http://www.floralimages.co.uk/recent2.htm

Publié dans:immagini...buona notte...e |on 3 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

Lasciate che i piccoli vengano a me; Cappella dei bambini

Lasciate che i piccoli vengano a me; Cappella dei bambini dans immagini sacre bamb1

http://www.oasidavid.it/cappellabambini/home.asp

Publié dans:immagini sacre |on 2 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

FEDELTÀ NEL TEMPO (Enzo Bianchi)

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano8/bianchi_lessicointeriore2.htm

FEDELTÀ NEL TEMPO

ENZO BIANCHI

«Ascoltate oggi la sua voce» (Salmo 95,7): nella Bibbia è l’alleanza con il Signore che definisce il tempo di Israele, del popolo di Dio: un tempo esistenziale misurato sul davar, la parola-evento del Signore, e sull’ obbedienza del popolo di Dio a questa parola. TI tempo nella Scrittura è sempre legato alla storicità radicale dell’uomo, alla sua struttura di creatura che nell’ oggi decide il proprio destino tra vita e morte, tra benedizione e maledizione. Per questo la storia è orientata a un télos – fine e meta – svelato dagli interventi di Dio che si manifesta nei progressi e nelle regressioni dell’umanità, ed è storia di salvezza perché Dio chiama continuamente l’uomo a camminare verso la luce, verso una meta che è il Regno, e gli fornisce i mezzi per farlo nell’attesa dello shalom, dono di Dio e coronamento della fedeltà degli uomini.
È questa concezione del tempo che verrà prolungata nel Nuovo Testamento: venuta la «pienezza del tempo» (Galati 4,4), Dio manda suo Figlio, nato da donna, e la sua vita, la sua passione-morte-resurrezione appaiono eventi storici, unici, collocati in un tempo preciso, e inaugurano gli ultimi tempi, quelli in cui noi viviamo nell’ attesa della sua gloriosa venuta, attesa del Regno e del rinnovamento del cosmo intero. Con la prima venuta di Gesù nella carne ha inizio un kairos, un tempo propizio che qualifica tutto il resto del tempo. Gesù, inaugurando il suo ministero, annuncia che il tempo è compiuto (Marco I, I 5), che l’ora della piena realizzazione è iniziata, che occorre convertirsi e credere all’Evangelo (Marco 1,15; Matteo 4,17); di conseguenza occorre utilizzare il tempo: il tempo di grazia è realtà in Gesù Cristo! Passione, morte e resurrezione di Gesù non sono un semplice evento del passato: sono la realtà del presente sicché l’oggi concreto è immerso nella luce della salvezza. Questo è il tempo favorevole, questo il giorno della salvezza (cfr. 2 Corinti 6,2)!
Il primo atteggiamento del cristiano di fronte al tempo è allora quello di cogliere l’oggi di Dio nel proprio oggi, facendo obbedienza alla Parola che oggi risuona. Il nostro rapporto con il tempo, con Chronos tiranno che divora i suoi figli, viene così trasformato per assumere dei connotati precisi: si tratta di saper giudicare il tempo (cfr. Luca 12,56), di «discernere i segni dei tempi» (Matteo 16,3) per giungere a cogliere «il tempo della visita di Dio» (Luca 19,44). Il credente sa che i suoi tempi sono nelle mani di Dio: «Ho detto: Tu il mio Dio; i miei tempi nella tua mano» (Salmo 3I,I5B-I6A). È l’atteggiamento fondamentale: i nostri giorni infatti non ci appartengono, non sono di nostra proprietà. I tempi sono di Dio e per questo nei Salmi l’ orante chiede a Dio: «Fammi conoscere, Signore, la mia fine, qual è la misura dei miei giorni» (Salmo 39,5) e invoca: «Insegnaci a contare i nostri giorni, e i nostri cuori discerneranno la sapienza» (Salmo 90,12). La sapienza del credente consiste in questo saper contare i propri giorni, saperli leggere come tempo favorevole, come oggi di Dio che irrompe nel proprio oggi.
Il cristiano deve «vegliare e pregare in ogni tempo» (Luca 21,36), impegnato in una lotta antidolatrica in cui il tempo alienato è l’idolo, il tiranno che cerca di dominare e rendere schiavo l’uomo. Per Paolo il cristiano deve cercare di usare il tempo a disposizione per operare il bene (cfr. Galati 6,10), deve approfittare del tempo e, soprattutto, quale uomo sapiente, deve salvare, redimere, liberare, riscattare il tempo (cfr. Efesini 5,16; Colossesi 4,5).
Tutto questo perché il tempo del cristiano è tempo di lotta, di prova, di sofferenza. Anche dopo la vittoria di Cristo, dopo la sua resurrezione e la trasmissione delle energie del Risorto al cristiano, resta ancora operante l’influsso del «dio di questo mondo» (2 Corinti 4,4), sicché il tempo del cristiano permane tempo di esilio, di pellegrinaggio (cfr. I Pietro 1,17), in attesa della realtà escatologica in cui Dio sarà tutto in tutti (cfr. I Corinti 15,28). Il cristiano infatti sa – e non ci si stancherà mai di ripeterlo in un’ epoca che non ha più il coraggio di parlare né di perseveranza né tanto meno di eternità, in un’ epoca appiattita sull’immediato e l’attualità – il cristiano sa che il tempo è aperto all’ eternità, alla vita eterna, a un tempo riempito solo da Dio: questa è la meta di tutti i tempi, in cui «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre» (Ebrei 13,8; cfr. Apocalisse 1,17). TI télos delle nostre vite è la vita eterna e quindi i nostri giorni sono attesa di questo incontro con il Dio che viene.
Se questa è la dimensione autentica del tempo del cristiano, allora capiamo in profondità la portata di queste affermazioni di Dietrich Bonhoeffer: «La perdita della memoria morale non è forse il motivo dello sfaldarsi di tutti i vincoli, dell’ amore, del matrimonio, dell’ amicizia, della fedeltà? Niente resta, niente si radica. Tutto è a breve termine, tutto ha breve respiro. Ma beni come la giustizia, la verità, la bellezza e in generale tutte le grandi realizzazioni richiedono tempo, stabilità, « memoria », altrimenti degenerano. Chi non è disposto a portare la responsabilità di un passato e a dare forma a un futuro, costui è uno « smemorato », e io non so come si possa colpire, affrontare, far riflettere una persona simile».
Scritte più di cinquant’anni fa, queste parole sono ancora molto attuali e pongono il problema della fedeltà e della perseveranza: realtà oggi rare, parole che non sappiamo più declinare, dimensioni a volte sentite perfino come sospette o sorpassate e di cui – si pensa – solo qualche nostalgico dei «valori di una volta» potrebbe auspicare un ritorno. Ma se la fedeltà è virtù essenziale a ogni relazione interpersonale, la perseveranza è la virtù specifica del tempo: esse pertanto ci interpellano sulla relazione con l’altro. Non solo, i valori che tutti proclamiamo grandi e assoluti esistono e prendono forma solo grazie ad esse: che cos’è la giustizia senza la fedeltà di uomini giusti? Che cos’è la libertà senza la perseveranza di uomini liberi? Non esiste valore né virtù senza perseveranza e fedeltà! Così come, senza fedeltà, non esiste storia comune, fatta insieme. Oggi, nel tempo frantumato e senza vincoli, queste realtà si configurano come una sfida per l’uomo e, in particolare, per il cristiano. Quest’ultimo, infatti, sa bene che il suo Dio è il Dio fedele, che ha manifestato la sua fedeltà nel Figlio Gesù Cristo, «l’Amen, il Testimone fedele e verace» (Apocalisse 3,14) in cui «tutte le promesse di Dio sono diventate sì» (cfr. 2 Corinti 1,20).
Queste dimensioni sono dunque attinenti al carattere storico, temporale, relazionale, incarnato della fede cristiana, e la delineano come responsabilità storica. La fede esce dall’ astrattezza quando non si limita a informare una stagione o un’ora della vita dell’uomo, ma plasma l’arco della sua intera esistenza, fino alla morte. In questa impresa il cristiano sa che la sua fedeltà è sostenuta dalla fedeltà di Dio all’alleanza, che nella storia di salvezza si è configurata come fedeltà all’infedele, come perdono, come assunzione della situazione di peccato, di miseria e di morte dell’uomo nell’incarnazione e nell’evento pasquale. La fedeltà di Dio verso l’uomo è cioè diventata responsabilità illimitata nei confronti dell’uomo stesso. E questo indica che le dimensioni della fedeltà e della perseveranza pongono all’uomo la questione ancor più radicale della responsabilità. L’irresponsabile, così come il narcisista, non sarà mai fedele. Anche perché la fedeltà è sempre fedeltà a un «tu», a una persona amata o a una causa amata come un «tu»: non ogni fedeltà è pertanto autentica! Anche il rancore, a suo modo, è una forma di fedeltà, ma nello spazio dell’ odio. La fedeltà di cui parliamo avviene nell’amore, si accompagna alla gratitudine, comporta la capacità di resistere nelle contraddizioni.
Jankélévitch definisce la fedeltà come «la volontà di non cedere all’inclinazione apostatica». Essa è pertanto un’ attiva lotta la cui arena è il cuore umano. È nel cuore che si gioca la fedeltà! Questo significa che essa è vivibile solo a misura della propria libertà interiore, della propria maturità umana e del proprio amore! Le infedeltà, gli abbandoni, le rotture di impegni assunti e di relazioni a cui ci si era impegnati, situazioni tutte che spesso incontriamo nel nostro quotidiano, rientrano frequentemente in questa griglia. E dicono come sia limitante, all’interno della chiesa, ridurre il problema della fedeltà e della perseveranza, e quindi del loro contrario, alla sola dimensione giuridica, di una legge da osservare. In gioco vi è sempre il mistero di una persona, non semplicemente un gesto di rottura da sanzionare. Il gesto di rottura va assunto come rivelatore della situazione del cuore, cioè della persona. Anzi, in profondità, la dimensione dell’infedeltà non è estranea alla nostra stessa fedeltà, così come l’incredulità traversa il cuore del credente stesso. Che altro è la Bibbia se non la testimonianza della tenacissima e ostinata fedeltà di Israele a voler narrare la storia della propria infedeltà di fronte alla fedeltà di Dio? Ma come riconoscere la propria fedeltà se non a partire dalla fede in Colui che è fedele? In questo senso il cristiano «fedele» è colui che è capace di memoria Dei, che ricorda l’agire del Signore: la memoria sempre rinnovata della fedeltà divina è ciò che può suscitare e sostenere la fedeltà del credente nel momento stesso in cui gli rivela la propria infedeltà. E questo è esattamente ciò che, al cuore della vita della chiesa, avviene nell’ anamnesi eucaristica.

Omelia (03-07-2011): Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/22956.html

Omelia (03-07-2011)

mons. Gianfranco Poma

Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi

Con questa domenica XIV del tempo ordinario, iniziamo un lungo periodo dell’anno liturgico (circa cinque mesi) nel quale, nel tranquillo succedersi delle settimane, l’ascolto della Parola di Dio, l’Eucaristia e la comunione fraterna, fanno della normalità  della nostra vita umana, con le sue gioie e le sue tristezze, le riuscite e le sconfitte, la condizione in cui si realizza l’esperienza dei figli di Dio. E riprendiamo, in questo anno liturgico, la lettura del Vangelo di Matteo nel quale Gesù¹ è stato presentato come il Messia, che, profondamente inserito nella vita del popolo ebraico, ne realizza le attese portandole al « compimento », ma in modo sorprendente e inatteso: Gesù è il Cristo, il Messia, il Figlio di Dio, Dio con noi, che « discende » per condividere fino in fondo l’esperienza umana, fino alla morte in Croce, e risorge per portare l’umanità  alla comunione con Dio. Il fine a cui tende il Vangelo di Matteo è quello di proclamare che in Gesù Cristo, nel quale la promessa fatta ad Abramo ha raggiunto il suo compimento, tutti i popoli sono chiamati a diventare suoi discepoli, e il popolo di Dio ha ormai i confini dell’universo. Gradualmente, quindi, con una struttura raffinatamente costruita, Matteo in ogni pagina mostra che cosa significhi diventare « discepoli » di Cristo: « Non sono venuto ad abolire, ma a portare a compimento.Io vi dico: se la vostra giustizia non supererà  quella degli Scribi e dei Farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Voi dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli ». Essere suoi discepoli significa credere in Lui, seguirlo, per vivere con Lui la relazione filiale con il Padre « che è nei cieli », significa percepire che l’esistenza umana ha senso solo in una relazione infinita con Dio, ma con un Dio che, rimanendo nel suo mistero, parla con l’uomo come un Padre parla al proprio Figlio.
In ogni pagina del Vangelo, Gesù, il Figlio, mostra il suo impegno nel formare i suoi discepoli, perché entrino in comunione con Lui, gustino la vita che il Padre dona a loro, vita filiale che diventa fraterna nel rapporto con gli altri uomini.
La pagina che la Liturgia ci fa leggere in questa domenica, Matt.11,25-30, è particolarmente significativa, proprio in rapporto alla comprensione della identità  di Gesù, Figlio di Dio, e del significato dell’essere « suoi discepoli ». In questo cap.11 Matteo insiste nel presentare Gesù come l’annunciatore della presenza del Regno dei cieli, cioè della presenza di Dio che realizza le aspirazioni più profonde dell’uomo. Ma ai suoi ascoltatori appare deludente la parola di Gesù che da una parte radicalizza le richieste della Legge che essi ritengono impossibili per le forze fragili dell’uomo e d’altra parte proclama la presenza del Regno. Come è possibile entrare nel Regno dei cieli se non solo non si abbassano le esigenze richieste, ma addirittura sono radicalizzate? « Sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma chi avrà  perseverato fino alla fine sarà  salvato. » (Matt.10,22). Matteo sottolinea lo scarso successo delle parole di Gesù: « .quelli se ne andavano. » « .Gesù si mise a rimproverare le città  perché non si erano convertite » (Matt.11,7.20). La preghiera che oggi leggiamo esprime la reazione personale di Gesù di fronte all’incomprensione dei suoi ascoltatori e contiene la rivelazione della novità  per la quale Gesù ritiene possibile ciò che per l’uomo affidato alle sole sue forze rimane impossibile. Ed è questo l’annuncio evangelico rivolto all’uomo di oggi: l’uomo moderno, diventato potente per la sua scienza e la sua tecnica, l’uomo raffinato nell’esercizio della sua ragione, ha conservata intatta la sua fragilità , dalla quale, da solo, non può liberarsi. La parola di Gesù si fa preghiera: « Rendo lode a te, Padre, Signore del cielo e della terra ». Queste poche parole esprimono in sintesi tutta la novità cristiana: il Dio di Israele, il Signore del cielo e della terra, è il Padre, l’infinito « Tu », al quale Gesù può rivolgersi con riconoscente amore, per rendergli lode e per ringraziarlo. La parola di Gesù, la sua preghiera, è espressione della sua più profonda e personale esperienza: « Tutto a me è stato dato dal Padre mio e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e nessuno conosce il Figlio se non il Padre ». Gesù riconosce che tutta la sua esistenza è « dono » che viene dal Padre: con una sorprendente vicinanza con il Vangelo di Giovanni, anche per Matteo, l’identità di Gesù è essenzialmente quella di « Figlio » che vive della vita che il Padre gli dona. E questa non è una affermazione astratta, metafisica: Gesù afferma che tutta la sua vita consiste nel « conoscere », nello sperimentare il dono del Padre. Tra il Padre e il Figlio esiste questo infinito scambio di conoscenza e di Amore: la carne di Gesù diventa la visibilità  di ciò che il Padre conosce. E Gesù aggiunge:… « e colui al quale il Figlio vuole rivelarlo ». Possiamo trovare qui una splendida definizione di che cosa significhi essere discepoli di Cristo: sono « coloro che Gesù rende partecipi della propria esperienza filiale, del dono della vita del Padre, del significato profondo della relazione con Lui « . All’uomo moderno, sempre in ricerca, Gesù vuole rivelare che il senso e il gusto della vita, si trova entrando con Lui nella relazione filiale con Dio, il Padre la cui « volontà buona » è quella di donarsi agli uomini. Anche all’uomo moderno Gesù chiede di non chiudersi nella propria scienza, di non fare della propria ragione l’orizzonte chiuso della propria verità  o della propria capacità  dialettica lo strumento illusorio per la diffusione del Vangelo (« hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e ai dotti »): il Vangelo è la comunicazione dell’esperienza filiale di Gesù, è l’annuncio dell’infinito Amore del Padre per il Figlio che si è fatto « piccolo » per lasciarsi amare e che vuole attirare a sé tutti coloro che pur all’interno del mondo complesso di oggi e della ricchezza delle conoscenze a cui l’uomo è arrivato, hanno l’umiltà  di farsi piccoli e di riconoscere di aver bisogno di una esperienza di Amore che doni pace e felicità al cuore sempre inquieto dell’uomo.
Gesù conosce la fatica della vita dell’uomo, le sue difficoltà non offre facili illusioni. All’uomo affaticato, deluso, tentato di disperazione, Gesù offre la partecipazione alla propria esperienza filiale, alla comunione con il Padre che diventa progetto concreto di vita: « Venite a me, voi tutti, che soffrite sotto il peso delle preoccupazioni e io vi offrirà il riposo. Prendete su di voi il mio giogo; diventate miei discepoli, io sono mite e umile di cuore: troverete riposo per la vostra vita. Si, il mio giogo è¨ facile da portare e il mio peso è leggero »: all’uomo che entra in comunione con Lui, non offre illusori sconti nella fatica del vivere, offre una esperienza infinita di Amore nella quale anche la fatica diventa riposo.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 2 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

“Hallel” by Baruch Nachson, Chassidic artist in Hebron, Israel

“Hallel” by Baruch Nachson, Chassidic artist in Hebron, Israel dans immagini sacre image001
http://www.biblesearchers.com/prophecy/zechariah/zech8.shtml

Publié dans:immagini sacre |on 1 juillet, 2011 |Pas de commentaires »
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