Archive pour juillet, 2011

Preghiamo con I Padri della Chiesa

dal sito

http://xoomer.virgilio.it/parrocchia_sg_civitavecchia/preghiere.htm

Preghiamo con I Padri della Chiesa

( a cura di Domenico Pennino)

La vita del cristiano e della famiglia cristiana è un continuo progresso all’infinito nella penetrazione inesauribile del Mistero del Dio Uno e Trino, fonte e origine di ogni  unità, essere, verità, bontà e bellezza. Nel grembo fecondo della Chiesa vergine e madre, attraverso la mensa della Parola e del Sacramento, che ci rendono concorporei e consanguinei con Cristo, il cristiano e la famiglia devono immergersi nel mistero del Verbo Incarnato, lasciarsi trasformare, diventando “verba Verbi ”,  sperimentando con l’apostolo Paolo la fecondità del mysterium crucis: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me.” (Gal. 2, 20)  Ed ancora l’Apostolo, senza tregua, incalza sulle necessarie e superlative conseguenze del nostro essere conformati al Figlio Eterno: “dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera.” (cfr. Ef.4, 22-23). Indicandoci infine la sorgente inesauribile di grazia, esclama: “Cristo in voi, speranza della gloria, in lui vi sono tutti i tesori della sapienza e della scienza…in Lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità e voi avete in lui parte alla sua pienezza…Omnia possum in eo qui me confortat! Tutto posso in Colui che mi dà la forza! “(cfr.Col. 1, 27; 2, 3. 9; Fil. 4,13; 1Cor. 1, 24. 30-31). I Padri della Chiesa sulla linea di Paolo e di Giovanni hanno sostenuto l’importanza, il valore e la grazia della preghiera, nonchè la forza trasfigurante della contemplazione “ I concetti creano idoli di Dio solo lo stupore coglie qualcosa …Trovare Dio consiste nel cercarlo incessantemente, vedere Dio è non essere mai sazio di desiderarlo. Egli è l’eternamente  Cercato ( o Zetoumenoj )” sostiene Gregorio di Nissa. S. Agostino, invece, ha messo in rilievo l’inesauribile dinamismo della carità, anima della preghiera, che non può, non deve mai arrestarsi. La legge più importante per crescere nella vita  cristiana e nella vita di preghiera è quella di aggiungere sempre, camminare sempre, progredire sempre. Il progresso della carità è determinato in parte dall’intensità del desiderio. Perciò la tensione è la legge fondamentale e l’umiltà è il fondamento e il punto di partenza, mezzo e garanzia  di progresso nella vita cristiana.
“  Voi ricordate, fratelli miei, quella lettura del Vangelo secondo la quale due sorelle accolsero il Signore: Marta e Maria. Lo ricordate certamente; Marta si dedicava alle molte faccende del servizio e si agitava nella cura della casa. In effetti ricevette in casa, quali ospiti, il Signore e i suoi discepoli. Si affannava scrupolosamente attenta e con la massima devozione, perché presso di lei i santi non venissero turbati da alcuna mancanza di riguardo. Così, mentre era tutta presa dalle molte faccende, Maria, sua sorella, sedeva ai piedi dei Signore e ne scoltava la parola. Marta, che l’attività esasperava e vedeva quella seduta e del tutto incurante del suo affannarsi, si rivolse al Signore. Disse: Ti pare bene, Signore, che mia sorella mi abbia lasciata sola, mentre ecco, mi trovo tanto impegnata a servire? E il Signore: Marta, Marta, tu ti preoccupi di molte cose. Ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarò tolta. Tu hai  scelto una parte buona, ma lei la parte migliore. Tu la buona (è cosa buona infatti darsi da fare nell’onorare i santi), ma lei ha scelto il meglio. Inoltre ciò che tu hai scelto passa. Tu servi chi ha fame, servi chi ha sete, provvedi letti a chi ha sonno, offri ospitalità a chi vuoi entrare in casa; tutte queste cose passano. Verrà l’ora in cui nessuno debba aver ame, in cui nessuno debba aver sete, nessuno debba dormire. Ne segue che ti sarà tolta la tua occupazione. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta. Non le sarà tolta. Ha scelto la contemplazione, ha scelto di vivere della Parola. Che sarà il vivere della Parola senza alcun suono di parola? Ora costei viveva della parola, ma della parola che ha suono. Sarà il vivere della Parola senza alcun suono di parola. La Parola è di per sé la vita. Saremo simili a lui, poiché lo vedremo così come egli è. Questa era la sola cosa: gustare la dolcezza del Signore. Non ci è possibile questo nella notte di questo mondo. Al mattino starò alla tua tresenza e ti contemplerò. Perciò l’Apostolo dice: Non ritengo ancora di esservi giunto. Questa cosa soltanto. Che cosa faccio allora? Dimentico del passato, e proteso a quello che mi sta davanti, mi volgo alla mèta. Proseguo ancora: fino al , premio che Dio ci chiama a ricevere lassù in Cristo Gesù. Proseguo ancora, continuo a progredire, a camminare, mi trovo ancora sulla via, sempre proteso, non sono ancora giunto. Perciò, se anche tu cammini, e vai proteso in avanti, se pensi alle realtà future, dimentica le cose passate, non volgerti indietro a riguardarle, per non fermarti là dove hai posto il tuo sguardo. Ricordatevi della moglie di Lot. Quanti siamo perfetti, dobbiamo avere questo modo di pensare. Aveva detto: Non sono ancora arrivato alla perfezione; e dice: Quanti siamo perfetti dobbiamo avere questo modo di pensare. Io non ritengo di esservi giunto. Non perché io abbia già conquistato il premio o sia già arrivato alla perfezione.; e dice: Quanti siamo perfetti dobbiamo avere questo modo di pensare. Perfetti e non perfetti ad un tempo; perfetti come quelli che sono in cammino, non ancora perfetti come arrivati al possesso. E per farvi conoscere perché l’Apostolo chiami perfetti i viandanti: quelli che avanzano sulla via sono perfetti viandanti; e perché tu sappia che si riferiva ai viandanti, non agli arrivati, non a quanti già detengono il possesso, ascolta ciò che segue: Quanti siamo perfetti dobbiamo avere questo modo di pensare. E se in qualche cosa pensate diversamente, che non s’insinui per caso in voi il pensiero di essere qualcosa. Ora chi pensa di sé che vale qualcosa, mentre è un nulla, inganna se stesso . E chi crede di sapere qualcosa, non sa ancora in che modo bisogna sapere.  Quindi: E se in qualche cosa pensate diversamente, quasi dei bambini, Dio vi illuminerà anche su questo. Nondimeno, dal punto in cui siamo arrivati, continuiamo ad avanzare secondo la stessa linea. Perché Dio ci illumini anche su ciò che pensiamo diversamente, ed a cui siamo .rrivati, non fermiamoci là, ma continuiamo ad avanzare secondo la stessa linea. Considerate che siamo viandanti. Voi dite: Che significato ha « camminare »? Lo dico in breve: « Progredire ». Non vi capiti di non intendere e di camminare con maggior pigrizia. Fate progressi, fratelli miei, esaminatevi sempre, senza inganno, senza adulazione, senza acearezzarvi. Nel tuo intimo infatti non c’è con te uno alla cui presenza ti debba vergognare e ti possa vantare. Vi è colui al quale piace l’umiltà, egli sia a provarti. Anche tu metti a prova te stesso. Ti dispiaccia sempre ciò che sei, se vuoi guadagnare ciò che non sei. In realtà, dove ti sei compiaciuto di te, là sei rimasto. Se poi hai detto: Basta; sei addirittura perito. Aggiungi sempre, avanza sempre, progredisci sempre. Non fermarti lungo la via, non indietreggiàre, non deviare. Chi non va avanti, si ferma; torna indietro chi si volge di nuovo alle cose da cui si era allontanato; chi apostata, abbandona la via giusta. Uno zoppo sulla via va avanti meglio di chi corre fuori strada. Rivolti al Signore… (s.Agost.Disc. 169, 14, 17 – 15, 18). La ricerca del volto di Dio, la contemplazione e la vita vissuta, in relazione al più profondo mistero del Dio Uno e Trino nascosto, rivelatosi e comunicatosi però nella economia della salvezza, trasfigurano il cronos ( tempo cronologico) in kairos ( tempo soteriologico e di grazia) in tutto questo lavoro di studio e di accostamento vitale i Padri ponevano una rigorosa e rara unità di visuali.  Essi erano davvero teologi, parlvano di Dio perché parlvano con Dio, si purificavano per amore di Dio: Non c’è altro modo di conoscere Dio che vivere in Lui. Lasciamoci, allora, guidare da questi “Luminari delle Chiese” (s.Cirillo di Alessandria, Ep. 50 ).

ANNUNZIA, SIGNORE, LA TUA PAROLA
Sant’Ambrogio trasforma in orazione il Salmo 80, 8: “ Nell’oppressione mi hai invocato e io ti ho liberato; ti ho esaudito nel segreto della tempesta; ti ho messo alla prova nell’acqua di contraddizione “
Nei momenti di tribolazione, quando le lotte si scatenano intorno a noi e l’intimo è pervaso da paure, infuria terribile nei cuori la tempesta; siamo immersi nella contraddizione, quando i nostri pensieri ondeggiano come ribolle l’onda del mare, e nella profondità dell’animo nessuna forza spirituale sa placarli! Allora solo la parola di Cristo, che rimette i peccati, riesce a portare bonaccia.
Annunzia, Signore Gesù, questa parola:
la tua parola è medicina; la tua parola è raggio di sole;
la tua parola è lavacro per la nostra impurità; la tua parola è acqua sorgente.
Tu l’annunzi e la colpa viene lavata.
(Amb., Comm. 12 Salmi, 45, 3)

GUARDACI, SIGNORE GESÙ, PERCHE’ SAPPIAMO PIANGERE LE NOSTRE COLPE
Lo sguardo di Gesù e le lacrime di Pietro,  che ha rinnegato il Signore, ma poi si è amaramente pentito, stimolano sant’Ambrogio a una delle sue più ardenti preghiere. Il tema delle lacrime è sentito dal Santo con particolare vibrazione.
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Pietro si rattristò e pianse, perché sbagliò, come tutti sbagliano.
Lacrime preziose, che lavano la colpa!
Si mettono a piangere coloro ai quali Gesù volge il suo sguardo
Pietro negò una prima volta, e tuttavia non pianse, poiché il Signore non lo aveva guardato.
Negò una seconda volta, ma non pianse, poiché il Signore non lo aveva guardato ancora.
Rinnegò una terza volta e pianse un pianto amarissimo.
Guardaci, Signore Gesù, affinché sappiamo piangere il nostro peccato.
Dei santi anche la caduta ci è di vantaggio:
non ci ha danneggiati il rinnegamento di Pietro, ci ha invece giovato il suo ravvedimento.
Pietro pianse, con la più profonda amarezza,
per poter lavare con le lacrime la sua colpa.
Sciogli anche tu, fratello,
nelle lacrime la tua colpa, se vuoi meritare il perdono.
Se ti avviene di sbagliare, Cristo ti è accanto
come testimone delle tue segrete azioni
e ti guarda perché te ne ricordi e confessi il tuo errore.
Imita Pietro,
quando per la terza volta esclama:
“ Signore, tu sai che io ti voglio bene”
Tre volte aveva rinnegato, e per tre volte fa la sua professione.
Aveva rinnegato nella notte,
e alla luce del giorno dichiara il suo amore.
Insegnaci, o Pietro, quanto ti abbiano giovato le lacrime.
Eri caduto prima di piangere,
ma dopo aver pianto
fosti scelto per governare gli altri,
tu che prima non eri riuscito a governare te stesso.
(Amb. Exps. Ev. Luc., X, 87-90.92.)

GUARDA ANCHE NOI, SIGNORE GESÙ
Commentando i giorni della creazione e parlando degli uccelli, sant’Ambrogio prolunga fino a tardi il suo discorso, che viene così a soffermarsi sul canto del gallo”gradevole nella notte” sulla caduta di Pietro, sullo sguardo di Gesù e sul pianto dell’Apostolo che ottiene il perdono.

Dopo il canto del gallo, Pietro, degno ormai di essere guardato da Cristo, passando dall’errore alla virtù, pianse con accorata amarezza
per detergere con le lacrime la propria colpa.
Guarda anche noi, Signore Gesù:
anche noi riconosceremo allora i nostri errori,
e con lacrime di pentimento
laveremo il nostro peccato
e meriteremo di esserne perdonati.
Concedimi, o Cristo, le lacrime di Pietro.
( Amb. Exam., VIII, 24, 88-89)

TU CI LAVI I PIEDI
È ancora la preghiera che Ambrogio innalza nella festa di Pasqua in cui è avvenuto il lavacro battesimale, il cui rito a Milano comprendeva anche la lavanda dei piedi.

Il mio Signore depone la veste, si cinge di un asciugatoio, versa dell’acqua nel catino e lava i piedi ai suoi discepoli: anche a noi egli vuole lavare i piedi; non solo a Pietro, ma anche a ciascun fedele dice:
«Se non ti laverò i piedi, non avrai parte con me ».
Vieni, Signore Gesù, deponi la veste che hai indossato per  me;
spògliati, per rivestirci della tua misericordia. Cingiti di un asciugatoio, per cingerci con il tuo dono, che è l’immortalità.
Metti dell’acqua nel catino, e lavaci non soltanto i piedi, ma anche il capo,
non solo i piedi del nostro corpo, ma anche quelli dell’anima. Voglio deporre
tutta la lordura della nostra fragilità.
Quanto è grande questo mistero! Quasi fossi un servitore lavi i piedi ai tuoi servi, e come Dio mandi dal cielo la rugiada.
Ma non solo tu ci lavi i piedi, ci inviti anche ad assiderci a tavola con te, e ci esorti
con l’esempio della tua condiscendenza: « Voi mi chiamate Signore e Maestro, e dite bene, perché lo sono. Se vi ho lavato i piedi, io che sono il Signore e il Maestro, anche voi lavatevi i piedi l’un l’altro ».
Voglio lavare anch’io i piedi ai miei fratelli, voglio osservare il comandamento del Signore. Egli mi comandò di non aver vergogna, di non disdegnare di compiere quello che lui stesso aveva fatto prima di me; il mistero dell’umiltà mi è di vantaggio:
mentre detergo gli altri, purifico le mie macchie. ( Amb., De Spir. Sanc., I, 12-15)

CRISTO NON VIENE MENO A  NESSUNO
Perché Cristo non venga rapito bisogna essere svegli. Ma anche quelli che si sono addormentati si possono risvegliare e incontrare di nuovo il Signore.

Anche se tardi, si dèstino
quanti si sono lasciati vincere dal sonno,
quanti hanno perduto Cristo.
Cristo non è perduto al punto che non torni più indietro
— pur che lo si cerchi —.
Egli fa ritorno verso coloro che vegliano,
si manifesta a quelli che si destano. Egli è vicino a tutti.
E presente in ogni luogo, poiché riempie ogni cosa.
Cristo non viene meno a nessuno:
siamo noi a venir meno.
A nessuno egli manca, anzi per tutti sovrabbonda.
Infatti dilagò il peccato, perché fosse la grazia a sovrabbondare.
La grazia è Cristo, la vita è Cristo,
Cristo è la risurrezione.
Chi si desta lo trova accanto a sé.
( Amb., Exp. Ev. In Luc., V,116)

TU SOFFRI, SIGNORE, PER ME
La sofferenza di Gesù non deve essere motivo di scandalo. il Figlio di Dio ha assunto per noi integralmente la nostra natura umana: “Come uomo é turbato, come uomo piange, come uomo è crocefisso”

Cristo ha preso la mia tristezza:
non ho paura a parlare di tristezza, poiché predico la croce.
Mia è la tristezza che egli ha provato:
nessuno esulta nell’imminenza della morte.
Per  me patisce,
per  me è  triste,
per  me soffre.
Per  me e in me ha sofferto,
lui che per sé non aveva ragione di soffrire.
Tu soffri, dunque, Signore Gesù,
non per le tue, ma per le mie ferite;
non per la tua morte,
ma per la nostra infermità,
secondo la voce del profeta:
« Soffre per noi ».
(Amb. De fide, II, 7,53,55)

TU SOFFRI, SIGNORE,PER LE MIE FERITE
Contro gli ariani che nell’agonia di Gesù vedono la ragione per negare la sua divinità, sant Ambrogio sottolinea la verità di quel dolore sopportato per noi e in comunione con noi.
Il Salvatore per me si è rattristato e sperimenta il tedio della mia infermità.
Egli ha preso su di sé la mia amarezza, per donarmi la sua gioia;
è disceso sui nostri passi sino all’affanno della morte,
per farci risalire sui suoi passi sino alla vita.
Come ti potremmo imitare, Signore Gesù,
se non ti seguissimo come uomo, se non ti sapessimo morto, se non avessimo veduto le tue piaghe?
Egli « porta i nostri peccati e soffre per noi »:
tu, dunque, Signore, soffri, non per le tue, ma per le mie ferite,
non per la tua morte, ma per la nostra debolezza.
Tu soffrivi non per te, ma per me:
sì, hai conosciuto la debolezza, ma fu a motivo delle nostre colpe.
(Amb., Exp. Ev. in Luc. X, 56-57)

SORGENTE,  PRINCIPIO, AUTORE DELLA GIOIA
Te invoco, o Dio Verità, sorgente, principio, autore della verità di tutto ciò che è vero;  Dio Sapienza, sorgente, principio, autore della sapienza di tutto ciò che è sapiente; Dio che sei la vera, la suprema Vita, sorgente, principio, autore della vita di tutto ciò che vive veramente e sovranamente; Dio-Beatitudine, sorgente, principio, autore della gioia di tutto ciò che è felice; Dio del bene e del bello in tutto ciò che èbuono e bello; Dio-Luce intelligibile, sorgente, principio, autore della luce intelligibile in tutto ciò che brilla di questa luce; Dio il cui regno è questo universo che i sensi ignorano; Dio il cui regno traccia la legge ai regni di questo mondo; Dio dal quale allontanarsi è cadere, al quale ritornare è risorgere, nel quale rimanere è costruirsi solidamente. Uscire da te è morire, ritornare in te è rivivere, abitare in te è vivere. Nessuno ti perde se non viene ingannato, nessuno ti cerca se non è chiamato, nessuno ti trova se non è purificato. Abbandonarti è perdersi, cercarti è amare, vederti è possederti. Verso di te là fede ci spinge, la speranza ci guida, la carità a te ci unisce. Dio per mezzo del quale noi trionfiamo del nemico, a te rivolgo la mia preghiera! (Soliloquia I, 3a)
In questa preghiera troviamo un esempio tipico della lingua di Agostino; un latino semplice e rapido, con costruzioni sintattiche e grammaticali di estrema lucidità, nelle quali il pensiero e l’emozione religiosa e filosofica di Agostino accendono la parola trasformandola in poesia. È impossibile riuscire a tradurre in altra lingua questa perfetta fusione tra pensiero e parola. Riteniamo perciò utile, per chi comprende il latino, dare qui un breve esempio di questa arte agostiniana, trascrivendo in forma versificata il testo originale della preghiera iniziando dal capoverso: « Dio dal quale allontanarsi è cadere… »:

Deus a quo averti, cadere
in quem converti, resurgere
in quo manere, consistere est.

Deus a quo exire, emori
in quem redire, reviviscere
in quo habitare, vivere est.

Deus quem nemo amittit, nisi deceptus
quem nemo quaerit, nisi admonitus
quem nemo invenit, nisi purgatus.

Deus quem relinquere, hoc est quod perire
quem attendere, hoc est quod amare
quem videre, hoc est quod habere.

Deus Cui nos fides excitat spes erigit
charitas jungit.

Deus per quem vincimus inimicum
te deprecor.

DIO, GRAZIE A TE NOI NON MORIAMO COMPLETAMENTE
Dio, grazie a te noi non moriamo completamente. Tu ci ammonisci di essere vigilanti. Grazie a te distinguiamo il bene dal male, fuggiamo dal male e cerchiamo il bene, non cediamo alle avversità. Grazie a te possediamo l’arte di obbedire e l’arte di comandare. Grazie a te impariamo che talvolta ciò che crediamo nostro ci è estraneo, ed è nostro ciò che pensavamo estraneo. Grazie a te ci liberiamo dalle insidie e dagli attacchi del male. E’ per te che le piccole cose non ci diminuiscono. Per te ciò che di migliore è in noi non è soffocato da ciò che vi è di peggiore. Per te la morte è assorbita nella vittoria’ (I Corinti 15, 54). Dio che ci conduci verso dite, che ci spogli di ciò che non è per rivestirci di ciò che è, Dio tu ci rendi degni di essere esauditi. Tu ci fortifichi, ci fai conoscere tutta la verità. Tu suggerisci a noi quel bene che ci impedisce di diventare dei folli, e a nessuno permetti di renderci tali. Tu ci riconduci sulla via buona. Tu ci accompagni fino alla porta, e la spalanchi a coloro che bussano (Matteo 7, 8). Tu ci doni il pane della vita, e grazie a te abbiamo sete dell’acqua che disseta per sempre (Giovanni 6, 35). Tu convinci il mondo del peccato, della giustizia, del giudizio (ibid. 16, 8). Grazie a te non siamo turbati da coloro che non credono. Tu ci insegni a biasimare l’errore di coloro che credono che le anime non acquistino alcun merito dinanzi a te. Per te non diventiamo schiavi della debolezza e della malattia (Galati 4, 9). 0 Dio che ci purifichi e ci prepari alle divine ricompense, vieni verso di me propizio.
(Agost.. Soliloquia I, 3b)

TU,  MIA GIOIA,  MIA RAGIONE,  MIA PATRIA!
Tu sei tutto e, allo stesso tempo, sei quanto ti ho detto nella mia preghiera. Vieni in mio aiuto, o unica sostanza vera e eterna, nella quale non c’è alcun disaccordo, alcuna confusione, alcun mutamento, alcuna manchevolezza, alcuna morte; ma sovrana vi regna la concordia, suprema evidenza e costanza, somma pienezza e vita; alla quale nulla manca e nella quale nulla è superfluo; presso la quale Colui che genera e Colui che viene generato sono una cosa sola. Te servono tutte le cose, a te ubbidisce ogni anima buona. Le tue leggi regolano il muoversi dei poli, fissano agli astri il loro corso, donano al giorno l’ardore del sole, alla notte il dolce chiarore della luna, assicurano all’universo l’equilibrio di cui è capace la materia sensibile. Le tue leggi stabilite per l’eternità non permettono che il moto instabile degli elementi mutevoli sia turbato, e impongono loro il corso regolare dei secoli come un freno per richiamarli a imitare la tua stabilità. Le tue leggi assicurano all’anima il libero arbitrio, ai buoni la ricompensa, ai cattivi il castigo, secondo un ordine necessariamente stabilito. Da te sgorgano per noi tutti i beni, e da noi allontani tutti i mali. Al di sopra dite non c’è nulla, nulla al di fuori dite, nulla senza dite. A te tutto è sottomesso, in te tutto è contenuto, verso dite tutto è orientato. Tu che hai fatto l’uomo a tua immagine e somiglianza, come riconosce ognuno che conosce se stesso, ascoltami. Ascoltami mio Dio, mio Signore, mio Re, mio Padre. Tu mia causa, tu mia speranza, mia gioia, mia ragione, mia patria, mia salvezza, mia luce, mia vita! Ascoltami in quel modo tutto tuo che solo  un  esiguo numero di uomini conosce. 
(Id.,Soliloquia I, 4)

ACCOGLI  IL TUO FIGLIO CHE E’ FUGGITO
Ora sei tu solo che io amo, te solo che seguo, te solo che cerco, te solo che mi sento pronto a servire, poiché tu solo governi con giustizia. E’ solo alla tua autorità che voglio sottomettermi. Ti prego, ordina tutto ciò che vuoi, ma guarisci e apri le mie orecchie perché io possa udire la tua voce. Guarisci e apri i miei occhi perché io possa vedere la tua volontà. Allontana da me ogni leggerezza di spirito perché possa riconoscerti.
Dimmi dove devo volgere il mio sguardo per poterti vedere, e avrò la speranza di fare ciò che tu vuoi. Ti prego, accogli il figlio tuo che è fuggito, o Dio amorevole più di ogni padre. Siano finite le pene che ho sofferto da parte dei nemici che tu tieni sotto i tuoi piedi; abbiano fine le menzogne con le quali mi hanno reso oggetto del loro scherno. Accogli ora il tuo servo che fugge lontano da essi; loro mi hanno accolto bene quando come straniero fuggivo lontano da te. Sento che solo da te io devo ritornare. Si apra, grande,
dinanzi a me la porta alla quale busso. Insegnami come devo fare per arrivare fino a te. Io non ho nulla se non la mia buona volontà. Null’altro so se non il disprezzo che merita tutto ciò che è mutevole e caduco, e la ricerca necessaria di ciò che non muta e che è eterno. Questo io lo faccio, o padre, poiché è la sola cosa che io ora conosco, ma non so un’altra cosa: come arrivare fino a te. Ispirami e guidami, traccia una strada davanti a me. Se è con la fede che ti trovano coloro che si rifugiano in te, donani la fede; se è con la forza, donami la forza; se è con la scienza, donami la scienza. Aumenta in me la fede, aumenta la speranza, aumenta la carità. Quanto meravigliosa e unica è la tua bontà!
(Id.,Soliloquia I. 5)

SE  TU  CI  ABBANDONI  E’  LA  MORTE
Verso dite sono rivolto, ma ti chiedo anche di darmi i mezzi per tendere verso di te. Se tu ci abbandoni, è la morte! Ma tu non ci abbandonerai, perché sei la bontà somma che non si lascia cercare rettamente senza lasciarsi trovare. Rettamente ti cerca chi tu hai reso capace di cercarti in tal modo. Insegnami, o padre, a cercarti. Liberami dall’errore, perché in questa ricerca io non incontri altri che te. Se io non desidero nient’altro che te, possa trovartl o padre mio. Ma se c è in me qualche desiderio di altre cose, purificami tu stesso, e mettimi in grado di vederti. Quanto a questo mio corpo mortale, poiché non so quale utilità possa ricavarne per me e per coloro che amo, lo affido a te, a te padre sapientissimo e buono. Ti domanderò per lui ciò che tu stesso mi avrai suggerito, al momento opportuno. Voglio soltanto invocare la tua amorevolezza sovrana perché io mi possa rivolgere interamente verso di te e nulla mi costi di quanto a te mi conduce. Permetti che anche con questo corpo da condurre e da portare, io viva la temperanza, il coraggio, la giustizia, la prudenza, che ami e comprenda pienamente la tua sapienza, e mi renda degno della tua abitazione, e divenga abitante del tuo regno colmo di felicità.. (Id., Soliloquia I. 6)

LE  MIE TENEBRE  DIVENTERANNO  COME  UN  MERIGGIO
Tu mi giudichi, o Signore. E’  vero che “ nessuno degli uomini sa le cose degli uomini, all’infuori dello spirito dell’uomo che è dentro di lui ” (I Corinti 2, 11). Ma è pur vero che vi è qualcosa nell’uomo che neppure lo spirito dell’uomo sa, lo spirito che pure è dentro di lui, mentre tu o Signore, che lo creasti, sai tutte le cose sue. Ora, io che davanti a te mi umilio e mi ritengo “terra e cenere “ (Genesi 18, 27), tuttavia so dite qualche cosa che di me non so. Certo, ora vediamo attraverso uno specchio, come in enigma, non ancora faccia a faccia (I Corinti 13, 12). Perciò, durante questo tempo in cui vado peregrinando lontano da te sono più presente a me stesso che a te. E nondimeno so che ogni attentato contro di te è impossibile, mentre di me non so a quali tentazioni sia in grado di resistere. Eppure mi sorregge la speranza, perché “ fedele sei tu e non permetti che noi siamo tentati oltre le nostre forze perché possiamo sostenerla” (I Corinti 10, 13). Confesserò quello che so di me e quello che non so. Poiché quello che di me so, lo so perché tu m’illumini, e quello che di me non so, non lo saprò fino al momento in cui “le mie tenebre, davanti al tuo volto diventeranno come un meriggio” (Isaia 58, 10).                                                                                             
( Id.,Confessiones X, 5)

AMO UNA LUCE, UN PROFUMO, UN  AMPLESSO
Signore, io ti amo. Non ho dubbi, sono certo che ti amo. Tu hai percosso il mio cuore con la tua parola e ti ho amato.   Il cielo e la terra e tutto ciò che è in essi, ecco, da ogni parte mi dicono di amarti, né cessano di dirlo a tutti, “affinché non trovino scuse” (Romani 1, 20). Più profondamente sentirai tu misericordia di colui per il quale avrai avuto misericordia, e userai una più profonda misericordia a colui con il quale sarai stato misericordioso; altrimenti il cielo e la terra dicono le tue lodi ai sordi (cfr. Romani 9, 15). Ma cosa amo, amando te? Non una bellezza corporea, non una avvenenza passeggera, non un fulgore come quello della luce piacevole per quei miei occhi, non dolci melodie di canti d’ogni specie, non soave profumo di fiori, di unguenti, di aromi, non manna di miele, non membra felici all’amplesso carnale. Non queste cose io amo, amando il mio Dio. E tuttavia, amo una luce, una voce, un profumo, un cibo, un amplesso, quando amo te mio Dio, luce, voce, profumo, cibo, amplesso dell’uomo interiore che è in me, dove risplende alla mia anima una luce che in nessun luogo può essere contenuta, dove risuona una voce che il tempo non rapisce, dove è diffuso un profumo che il vento non disperde, dove gusto un sapore che la voracità non diminuisce, dove mi stringe un amplesso che la sazietà mai non discioglie. Questo io amo, quando amo te, mio Dio.
(Id., Confessiones X,  6)

Ritorno anelante alla tua sorgente
O verità, luce dell’anima mia, non permettere che mi parlino le mie tenebre. Mi abbandonai ad esse e mi trovaal buio. Ma anche di lì, sì anche dal buio, ti ho amato. Ho sentito la tua voce dentro di me ( Ezechiele 5, 12) che mi invitava a ritornare. L’ho sentita poco per il frastuono prodotto dalle passioni ribelli. Ed ecco, ora ritorno ardente e anelante alla tua sorgente. Fa’ che nessuno mi trattenga. Che io mi disseti e viva. Non devo essere io la mia vita. Da me sono vissuto male, sono stato per me causa di morte. In te, invece, rivivo. Tu parlami, ammaestrami.                                                                                                    (Con fessiones XII, 10)

IL PECCATO ORIGINALE SECONDO SAN PAOLO – PRIMA PARTE , LA SECONDA SOTTO

le note sul sito perché sono molte, divido in due il testo, dal sito:

http://digilander.libero.it/ortodossia/peccato.htm

Giovanni S. Romanidis

IL PECCATO ORIGINALE SECONDO SAN PAOLO

La traduzione è tratta da:
St. Vladimir’s Seminary Quaterly,
vol. IV, nn. 1-2, 1955-1956.
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Indice

Introduzione
La Creazione decaduta
La giustizia di Dio e la Legge
Il destino dell’uomo e l’antropologia
Il destino dell’uomo
L’antropologia di san Paolo
Osservazioni sintetiche
Conclusioni
Note

Introduzione

Riguardo la dottrina del peccato originale com’è contenuta nell’Antico Testamento e chiarita dall’unica Rivelazione di Cristo nel Nuovo Testamento, nel cristianesimo occidentale, specialmente in quello fondato sullo sviluppo dei presupposti scolastici, continua a regnare una grande confusione che, negli ultimi secoli, sembra aver guadagnato molto terreno nelle problematiche teologiche dell’ Oriente ortodosso. In alcune scuole questo problema è stato rivestito di un’aurea di mistificante vaghezza a tal punto che perfino alcuni teologi ortodossi sembrano accettare la dottrina sul peccato originale vedendola semplicemente come un grande e profondo mistero di fede (cfr. Androutsos, Dogmatike, pp. 161-162). Quest’atteggiamento è divenuto certamente paradossale, particolarmente da quando tali cristiani, che non possono definire il nemico dell’umanità [il Demonio], sono gli stessi che affermano illogicamente che in Cristo esiste la remissione di questo misterioso peccato originale. E’ sicuramente un’ opinione molto distante rispetto alla certezza con la quale san Paolo ha affermato che noi « non ignoriamo i pensieri » (noemata) del Demonio (1).
Se si mantiene vigorosamente e con fermezza che Gesù Cristo è l’unico Salvatore ad aver portato la salvezza in un mondo bisognoso d’essere salvato, si deve evidentemente sapere che è la natura del bisogno ad aver procurato tale salvezza (2). Sarebbe davvero sciocco esercitare dottori e infermieri a guarire malattie se nel mondo non esistesse alcuna malattia. Analogamente un salvatore che proclama di salvare delle persone che non hanno alcun bisogno di salvezza, è un salvatore soltanto per se stesso.
Indubbiamente una delle cause più importanti dell’eresia sta nel fallimento a capire l’esatta natura della situazione umana descritta nell’Antico e nel Nuovo Testamento per la quale gli eventi storici della nascita, degli insegnamenti, della morte e risurrezione e della seconda venuta di Cristo, rappresentano l’unico rimedio. Il fallimento di tale comprensione implica automaticamente la distorta comprensione di quanto Cristo ha fatto e continua a fare per noi e della nostra conseguente relazione con Lui all’interno del Regno di salvezza. L’importanza d’una definizione corretta sul peccato originale e sulle sue conseguenze non può mai essere esagerata. Qualsiasi tentativo di minimizzarla o di alterare il suo significato comporta automaticamente un indebolimento e, parimenti, un completo malinteso sulla natura della Chiesa, dei sacramenti e del destino umano.
In ogni indagine che voglia approfondire il pensiero di san Paolo e degli altri agiografi apostolici può esserci la tentazione d’esaminare i loro scritti con definiti presupposti, benché molto spesso inconsci, contrari alle testimonianze bibliche. Se ci si accosta alla testimonianza biblica, all’opera di Cristo e alla vita della comunità primitiva con predeterminate nozioni metafisiche riguardo alla struttura morale di quello che i più definiscono « mondo naturale » e, di conseguenza, con idee fisse riguardo al destino umano e alle necessità dell’individuo e dell’umanità in genere, dalla vita e dalla fede della Chiesa antica, si coglieranno indubbiamente solo gli aspetti che si adattano bene al proprio quadro di riferimento. Allora, se si desidera mantenere costantemente autentica la propria interpretazione delle Sacre Scritture, si dovrà necessariamente procedere a spiegare esaurientemente ogni elemento estraneo ai concetti biblici e, quindi, secondario e superficiale, intendendolo semplicemente come il prodotto d’alcuni malintesi sulla dottrina di certi Apostoli, d’un gruppo di Padri, o di tutta la Chiesa primitiva in genere.
Un approccio appropriato all’insegnamento neotestamentario di san Paolo riguardo il peccato originale non può essere trattato in modo fazioso. E’ incorretto, per esempio, sottolineare eccessivamente la frase di Romani 5, 12 « eph’ho pantes hemarton » per provare che esiste un certo sistema di pensiero riguardo alla legge morale e alla colpa senza prima stabilire il peso delle convinzioni di san Paolo riguardo ai poteri di Satana e alla vera situazione, non solo dell’uomo, ma di tutta la creazione. Sbaglia pure chi tratta il problema della remissione del peccato originale inserendo il pensiero di san Paolo in una struttura antropologica dualistica ignorando, al contempo, i fondamenti ebraici dell’antropologia paolina. Similmente, un tentativo d’interpretare la dottrina biblica della caduta nei termini d’una filosofia edonistica sulla felicità è già condannata al fallimento per il suo rifiuto di riconoscere non solo l’anormalità ma, cosa più importante, le conseguenze della morte e della corruzione.
Un approccio corretto alla dottrina paolina sul peccato originale deve prendere in considerazione la comprensione di san Paolo:
1) sullo stato decaduto della creazione, inclusi i poteri di Satana, la morte e la corruzione;
2) sulla giustizia di Dio e la legge e, infine,
3) sull’antropologia e il destino dell’uomo e della creazione.
Con ciò non si vuole suggerire che nel presente studio ciascun tema sarà trattato dettagliatamente. Tali temi, piuttosto, saranno affrontati solo alla luce del problema principale del peccato originale e della sua trasmissione secondo san Paolo.
La Creazione decaduta
San Paolo afferma energicamente che tutte le cose create da Dio sono buone (3). Allo stesso tempo, insiste sul fatto che non solo l’uomo (4) ma pure tutta la creazione è decaduta (5). Sia l’uomo che la creazione attendono la redenzione finale (6). Così, nonostante il fatto che tutte le cose create da Dio siano buone, il Diavolo diviene temporaneamente (7) « dio di questo secolo » (8). Un basilare presupposto di san Paolo è che, sebbene il mondo è stato creato da Dio come una realtà buona, esso si trova ancora sotto il potere di Satana. Il Demonio, comunque, non ha alcun ruolo assoluto poiché Dio non ha abbandonato la Sua creazione (9).
Secondo san Paolo, la creazione non è quanto Dio intendeva fosse « poiché la creatura è soggetta alla vanità non per volontà propria ma per causa di chi l’ha assoggettata » (10) Perciò la cattiveria può esistere, almeno temporaneamente, come un elemento parassita a fianco o all’interno di quanto Dio ha creato originalmente come buono. Un ottimo esempio di ciò è colui che vorrebbe fare il bene secondo l’ »uomo interiore » ma ne è impossibilitato per l’insito potere del peccato nella carne (11). Benché la realtà creata sia buona e venga ancora mantenuta e governata da Dio, la creazione per se stessa è lontana dalla normalità o dalla naturalità se, per « normale », intendiamo la natura secondo l’originale e finale destino della creazione. Colui che governa questo mondo, contrariamente al fatto che Dio sostiene ancora la creazione e conserva per se un resto di essa (12), è il Demonio (13).
Cercare di rinvenire in san Paolo una certa filosofia naturale con un universo equilibrato da fisse e inerenti leggi ragionevoli secondo le quali l’uomo può vivere serenamente ed essere felice, significa fare violenza alla fede dell’apostolo. Per san Paolo non esiste alcun mondo naturale con un sistema inerente di leggi morali, poiché tutta la creazione è stata sottoposta alla vanità e al cattivo dominio di Satana subendo il potere della morte e della corruzione (14). Per questa ragione tutti gli uomini sono divenuti peccatori (15). Non esiste alcun uomo che non sia peccatore semplicemente perché vive secondo la legge della ragione o la norma mosaica (16). La possibilità di vivere secondo la legge universale implica pure la possibilità d’essere senza peccato. Tuttavia, per san Paolo, questo è un mito poiché Satana non rispetta le leggi della ragione che fanno vivere rettamente (17) e ha sotto la sua influenza tutti gli uomini che nascono sotto il potere della morte e della corruzione (18).
Che sia creduto o meno, il presente, reale ed attivo potere di Satana dovrebbe provocare il teologo biblista. Egli non può ignorare l’importanza attribuita da san Paolo al potere demoniaco. Facendo diversamente non si comprende per nulla il problema del peccato originale e della sua trasmissione e si finisce pure per equivocare il pensiero degli scrittori del Nuovo Testamento e la fede di tutta la Chiesa antica. Riguardo al potere di Satana per opera del quale viene introdotto il peccato nella vita d’ogni uomo, sant’Agostino, per combattere il pelagianesimo, ha chiaramente mal interpretato san Paolo. Il potere di Satana, la morte e la corruzione dallo sfondo teologico dov’erano posti sono stati collocati in primo piano per rispondere alla controversia sul problema della colpa personale nella trasmissione del peccato originale. In tal modo, san’Agostino ha introdotto un falso approccio filosofico-moralistico che è estraneo al pensiero di san Paolo (19) e che non è stato accettato dalla tradizione patristica orientale (20).
Per san Paolo Satana non è semplicemente un potere negativo nell’universo. E’ una realtà personale con volontà (21), pensieri (22) e metodi falsi (23), contro il quale i cristiani devono intraprendere un’intensa battaglia (24) poiché possono essere ancora tentati da lui (25). Egli è dinamicamente attivo (26) e combatte per la distruzione della creazione senza attendere con semplice passività in uno spazio circoscritto per accogliere coloro che decidono razionalmente di non seguire Dio e le leggi morali inerenti ad un universo naturale. Satana è pure capace trasformare se stesso in angelo di luce (27). Ha a sua disposizione miracolosi poteri di perversione (28) e ha per collaboratori eserciti di poteri invisibili (29). Egli è « il bene di questo secolo » (30), colui che ha ingannato la prima donna (31). E’ lui che ha condotto l’uomo (32) e tutta la creazione nel sentiero della morte e della corruzione (33).
Il potere della morte e della corruzione, secondo Paolo, non è negativo ma, al contrario, positivamente attivo. « Il pungiglione della morte è il peccato » (34) che, a sua volta, fa regnare la morte (35). Non solo l’uomo ma tutta la creazione è stata assoggettata alla tirannia del suo potere (36) e ora attende la redenzione. Perciò la creazione stessa sarà consegnata dalla schiavitù della corruzione (37). Assieme con la distruzione finale di tutti i nemici di Dio, la morte — l’ultima e probabilmente la maggior nemica — sarà distrutta (38). Allora la morte sarà inghiottita dalla vittoria (39). Per san Paolo la distruzione della morte è parallela alla distruzione del Demonio e delle sue forze. La salvezza dalla prima significa la salvezza dagli altri (40).
E’ ovvio che le espressioni paoline riguardanti la creazione decaduta, Satana e la morte non offrono alcuno spazio a qualsiasi tipo di dualismo metafisico o a qualsiasi divisione mentale con la quale si farebbe di questo mondo un dominio intermedio quasi esso fosse, per l’uomo, una pietra di guado tra la presenza di Dio e il regno di Satana. L’idea di tre piani nella storia in cui Dio con i suoi seguaci e gli angeli occuperebbero quello superiore, il Demonio la base e l’uomo nella sua carne il piano intermedio, non trova alcun posto nella teologia paolina. Per Paolo tutte le tre realtà si compenetrano. Non esiste alcun mondo intermedio e neutro dove l’uomo possa vivere secondo la legge naturale ed essere giudicato per ricevere la felicità alla presenza di Dio o per meritare il tormento in abissi tenebrosi. Al contrario, tutta la creazione è dominio di Dio ed Egli non può essere contaminato dal male. Tuttavia, nel suo dominio esistono altre volontà che Egli ha creato le quali possono scegliere sia il Regno di Dio sia il regno della morte e della distruzione.
Contrariamente al fatto che la creazione di Dio è essenzialmente buona, il Demonio ha contemporaneamente e parassitariamente trasformato questa stessa creazione in un temporaneo regno per se stesso (41). Il Demonio, la morte e il peccato stanno regnando in questo mondo, non in un altro. Il regno delle tenebre e quello della luce si stanno facendo guerra nel medesimo luogo. Per questa sola ragione l’unica vittoria possibile sul Diavolo è la risurrezione dalla morte (42). Non esiste alcuna fuga dal campo di battaglia. L’unica scelta possibile per ogni uomo è combattere attivamente il Demonio condividendo la vittoria di Cristo, o accettare le falsità del Diavolo volendo credere che tutto va bene ed è tutto normale (43).
La giustizia di Dio e la Legge
Secondo quant’è stato detto, per san Paolo la creazione decaduta ha una natura non duplice. Ne consegue che non esiste alcun sistema morale di leggi inerenti ad un universo normale e naturale. Perciò quello che l’uomo accetta come giusto e buono, partendo dalle sue osservazioni sulle relazioni umane nella società e nella natura, non può essere confuso con la giustizia di Dio. La giustizia di Dio è stata rivelata unicamente e pienamente solo in Cristo (44). Nessun uomo ha il diritto di sostituire la propria concezione della giustizia a quella divina (45).
La giustizia di Dio, com’è rivelata in Cristo, non opera secondo un’obiettiva regola di condotta (46) ma, piuttosto, secondo le relazioni personali di fede e d’amore (47). « La legge non è fatta per il giusto ma per gli ingiusti e i disobbedienti, per gli empi e i peccatori… » (48). La legge non è un male ma un beneficio (49) pure spirituale (50). Tuttavia non è abbastanza perché possiede una natura temporanea e pedagogica (51). Essa dev’essere adempiuta in Cristo (52) e superata con un amore personale secondo l’immagine dell’amore di Dio rivelato in Cristo stesso (53). La fede e l’amore in Cristo devono essere personali. Per questa ragione la fede senza l’amore è vuota. « Se avessi tutta la fede, sì da trasportare le montagne, e poi mancassi d’amore non sarei nulla » (54). Similmente gli atti di fede privi d’amore non sono d’alcun profitto. « Se pure disperdessi, a favore dei poveri, quanto possiedo e dessi il mio corpo per essere arso, ma non avessi l’amore, non ne avrei alcun giovamento » (55).
Non esiste possibilità di vita, seguendo delle regole oggettive. Se, seguendo la legge, vi fosse stata qualche possibilità non ci sarebbe stato bisogno della redenzione in Cristo. « La rettitudine sarebbe stata data nella legge » (56) « Se fosse stata data una legge che avesse il potere di vivificare » (57). allora non sarebbe stata data ad Abramo la promessa della salvezza ma direttamente la salvezza stessa (58). La vita non esiste dove sussiste la legge. La vita è, piuttosto, l’essenza di Dio « l’unico che possiede l’immortalità » (59). Perciò solo Dio può dare vita e lo fa liberamente secondo la propria volontà (60), alla sua maniera e al tempo che sceglie come più opportuno (61).
D’altra parte, è un grave errore attribuire alla giustizia di Dio la responsabilità della morte e della corruzione. In nessun luogo Paolo attribuisce a Dio l’inizio di questi eventi. Al contrario, la natura è stata sottoposta alla vanità e alla corruzione dal Diavolo (62) che, attraverso il peccato e la morte del primo uomo, si è inserito parassitariamente nella creazione della quale faceva già parte anche se, ancora, non ne era il tiranno. Per Paolo la trasgressione del primo uomo ha aperto la via all’ingresso della morte nel mondo (63); tuttavia questa nemica (64) non è certamente il frutto perfetto di Dio. Né può la morte di Adamo, o quella di ciascun uomo, essere considerata la conseguenza d’una decisione punitiva da parte di Dio (65). San Paolo non suggerisce mai una simile idea!
Per giungere ai presupposti basilari del pensiero biblico è necessario abbandonare ogni schema giuridico di giustizia umana con il quale si attribuisce la punizione o la ricompensa secondo le oggettive regole della moralità. Avvicinandosi al problema del peccato originale con uno schema così ingenuo si dovrà credere che ogni lettore attribuisca ad una penalità comune un’offesa comune ragion per cui tutti condividono la colpa di Adamo (66). Questo, però, significa ignorare la vera natura della giustizia divina e negare il potere reale del Diavolo.
Le relazioni che esistono tra Dio, l’uomo e il Diavolo non seguono leggi e regolamenti ma si accordano alla libertà personale. Il fatto che esistano leggi che proibiscono l’uccisione non determina l’impossibilità che tale evento non possa accadere una volta e neppure centinaia di migliaia di volte. Se l’uomo può trascurare l’osservanza di regole e disposizioni di buona condotta, sicuramente non ci si può attendere dal Diavolo l’osservanza di tali regole, visto che quest’ultimo può aiutare l’uomo a prescinderne. La versione paolina del Demonio non coincide certo con quella di chi rispetta semplicemente delle leggi naturali ed esegue la volontà di Dio per sottrarsi alla punizione delle anime in inferno. Ben al contrario, il Demonio combatte Dio attivamente attraverso metodi in cui impiega la maggior falsità possibile cercando di distruggere le opere di Dio con tutta l’astuzia e il potere in suo possesso (67). Così la salvezza per l’uomo e la creazione non può venire da un semplice atto di perdono su qualche giuridica imputazione di peccato, né può provenire dal pagamento di qualche soddisfazione al Diavolo (Origene) o a Dio (Roma). La salvezza può provenire solo dalla distruzione del Demonio e del suo potere (68).
Secondo san Paolo, è Dio stesso che ha distrutto « i principati e le potenze » inchiodando gli scritti dei decreti che erano contro di noi sulla croce di Cristo (69) « poiché è stato Dio che in Cristo ha riconciliato a se gli uomini non imputando loro le mancanze commesse » (70). Benché fossimo peccatori, Dio non s’è rivolto contro di noi, ma ha proclamato la sua giustizia a coloro che credono in Cristo (71). La giustizia di Dio non è accordata a quegli uomini che producono opere dalla legge (72). Per san Paolo la giustizia e l’amore di Dio non sono separati dall’inosservanza di qualche dottrina giuridica d’espiazione. La giustizia di Dio e l’amore di Dio, come sono stati rivelati in Cristo, sono la stessa cosa. Così, nella lettera ai Romani (3, 21-26) l’espressione « amore di Dio » potrebbe essere molto facilmente sostituita da « giustizia di Dio ».
E’ interessante notare che ogni volta in cui san Paolo parla della collera di Dio si riferisce sempre a quella che è rivelata a coloro che sono divenuti disperatamente schiavi, per loro propria scelta, alla carne e al Diavolo (73). Benché la creazione sia tenuta prigioniera nella corruzione, coloro che vivono senza la legge, adorando e vivendo erroneamente, sono senza scusa poiché « le invisibili perfezioni di Lui [Dio] fin dalla creazione del mondo, comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili, quali la sua eterna potenza e la sua divinità » (74); « perciò Dio li abbandonò nelle concupiscenze dei loro cuori lasciando ch’essi disonorassero sconciamente i loro corpi a vicenda… » (75). E ancora: « Dio li abbandonò a sentimenti reprobi » (76). Tutto ciò non significa che Dio ha fatto divenire questi uomini quel che essi sono, quanto piuttosto che li ha abbandonati nello smarrimento totale della corruzione e del potere del Diavolo. Bisogna interpretare così anche altri simili passi (77).
L’abbandono di Dio di un popolo già indurito nel proprio cuore contro le opere divine non è ristretto ai gentili ma riguarda pure i giudei (78). « Poiché, davanti a Dio, non sono giusti coloro che sentono parlare della legge ma saranno salvati solo quelli che la praticheranno » (79). « Coloro che hanno peccato nella legge saranno giudicati dalla legge » (80). I gentili, comunque, pur non essendo sotto la legge mosaica non sono scusati dalla responsabilità del peccato personale poiché essi « non avendo la legge sono legge a se stessi; essi mostrano l’opera della legge scritta nei loro cuori e ciò lo attesta pure la loro coscienza e i loro pensieri per cui vicendevolmente ora s’accusano, ora si difendono » (81). All’ultimo giudizio tutti gli uomini, sotto la legge o meno, udenti o meno, saranno giudicati da Cristo secondo il vangelo predicato da Paolo (82) e non secondo un sistema di leggi naturali. Pure attraverso le invisibili realtà divine — « le invisibili perfezioni di Lui [Dio] fin dalla creazione del mondo, comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili, quali la sua eterna potenza e la sua divinità » — non esiste alcuna cosa simile ad un corpo di leggi morali inerenti nell’universo. I gentili che « non hanno la legge » ma che « fanno per natura le cose contenute nella legge » non rispettano un sistema naturale di leggi universali. Essi, piuttosto, « mostrano l’opera della legge scritta nei loro cuori e ciò lo attesta pure la loro coscienza ». Anche qui si può vedere la concezione paolina delle relazioni personali tra Dio e l’uomo. « Dio stesso le ha manifestate in loro » (83) ed è Dio che sta ancora parlando all’uomo decaduto al di fuori della legge, attraverso la sua coscienza e nel suo cuore il quale, per Paolo, è il centro dei pensieri umani (84) e, nei membri del corpo di Cristo (85), il luogo in cui abita lo stesso Cristo e lo Spirito Santo (86).
Il destino dell’uomo e l’antropologia
Prima d’iniziare il tentativo di determinare il significato del peccato originale, come già precedentemente precisato, è necessario osservare la concezione di Paolo sul destino dell’uomo e la sua antropologia.
Il destino dell’uomo
Sarebbe un controsenso cercare di leggere nella teologia di Paolo una concezione del destino umano che accoglie come normalità le aspirazioni e i desideri di quello che qualcuno chiamerebbe l’ »uomo naturale ». Per l’uomo naturale è normale cercare la sicurezza e la felicità nell’acquisizione e nel possesso di beni oggettivi. I teologi scolastici occidentali hanno spesso utilizzato queste tendenze dell’uomo naturale come prova che, alla fine, l’uomo cerca istintivamente l’Assoluto, possedendo il quale raggiunge l’unico stato in cui è possibile una completa felicità visto che in tale stato è impossibile desiderare qualcosa di più e non esiste nulla di meglio. Questo tipo d’approccio edonistico sul destino umano è ovviamente possibile solo per coloro che ritengono la morte e la corruzione una realtà normale o, al più, la conseguenza d’una decisione punitiva di Dio. In tal maniera costoro accettano che Dio sia la principale causa della morte finendo per attribuirgli realmente il peccato e i poteri della corruzione. Dio stesso diverrebbe sorgente del peccato e del male.
Per san Paolo non esiste alcuna realtà come normale in coloro che non sono posti in Cristo. Il destino dell’uomo e della creazione non può essere dedotto da osservazioni sulla vita dell’uomo e della creazione decaduta. In nessun passo Paolo incoraggia il cristiano a vivere una vita di sicurezza e di felicità secondo lo stile di questo mondo. Al contrario chiama il cristiano a morire a questo mondo e al corpo del peccato (87) e, pure, a soffrire per il vangelo secondo la forza di Dio (88). Paolo asserisce che « quanti vorranno vivere piamente in Cristo saranno perseguitati » (89). E’ certamente un linguaggio forte per chi cerca sicurezza e felicità (90). Non è possibile supporre che, per Paolo, le sofferenze senza amore siano considerate dei mezzi per raggiungere il proprio destino. Tale prospettiva sarebbe quella di chi punta al pagamento del proprio lavoro e non di chi ha relazioni personali di fede e d’amore (91).
San Paolo non crede che il destino umano consista semplicemente nel conformarsi a delle norme e delle regole naturali che rimangono apparentemente immutate dall’ inizio del tempo. La relazione tra la volontà divina e quella umana non comporta né una sottomissione giuridica né una sottomissione edonistica (come insegnano sant’ Agostino e i teologi scolastici) ma piuttosto una relazione d’amore personale. San Paolo asserisce che « siamo collaboratori di Dio » (92). La nostra relazione d’amore con Dio è tale che, in Cristo, non esiste alcun bisogno della legge. « Se vi lasciate condurre dallo Spirito non siete più sotto la legge » (93). I membri del corpo di Cristo non sono chiamati ad un livello di vita nel quale si eseguono impersonali ordinanze. Viene loro richiesto di vivere secondo l’amore di Cristo rivelato in Cristo stesso con il quale non c’è bisogno di legge alcuna poiché, tale amore, non cerca il proprio tornaconto (94) ma vuole donarsi ad immagine dell’amore divino (95).
L’amore e la giustizia di Dio sono state rivelate una volta per tutte in Cristo (96) attraverso la distruzione del Demonio (97) e la liberazione dell’uomo dal corpo di morte e di peccato (98) in modo tale che l’uomo può ora divenire imitatore dello stesso Dio (99) il quale ci ha predestinati a divenire « conformi all’immagine del proprio Figlio » (100) che in nulla cercò di piacere a se stesso ma soffrì per gli altri (101). Cristo morì in modo che coloro che continuavano a vivere non vivessero per loro stessi (102), ma divenissero uomini perfetti, « nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo » (103). I cristiani non vivono più secondo i riferimenti di questo mondo (104), pur vivendo in questo mondo, ma hanno assunto la stessa mentalità di Cristo (105) cosicché in Cristo essi possono divenire perfetti (106). L’uomo non ama più sua moglie seguendo i modelli di questo mondo ma deve amare sua moglie esattamente « come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei » (107). Il destino dell’uomo non è la felicità e l’autosoddisfacimento (108) quanto piuttosto la perfezione in Cristo. L’uomo deve divenire perfetto come sono perfetti Dio (109) e Cristo (110). Simile perfezione può essere assunta solo attraverso il personalistico potere dell’amore divino ed altruistico (111), « che è vincolo della perfezione » (112). Quest’amore non dev’essere confuso con quello dell’uomo decaduto che cerca il proprio tornaconto (113). L’amore in Cristo non cerca il proprio interesse ma quello degli altri (114).
Divenire perfetti ad immagine di Cristo non si restringe al regno d’amore ma è inseparabile parte e forma la salvezza di tutto l’uomo come della creazione. Il corpo umile dell’uomo sarà trasformato per divenire « conforme » al « corpo glorioso » (115) di Cristo. L’uomo è destinato a divenire, come Cristo, perfetto pure nel corpo. « Colui che risuscitò Gesù Cristo dai morti, farà rivivere anche i vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che risiede in voi » (116).
San Paolo afferma che la morte è il nemico (117) venuto nel mondo e riguarda tutti gli uomini a causa del peccato d’un solo uomo (118). La sottomissione alla corruzione non riguarda solo l’umanità ma tutta la creazione (119). Tale realtà, sotto il potere del Diavolo e della morte, è stata evidentemente provvisoriamente frustrata rispetto al suo originale destino. Nelle asserzioni paoline relative al primo e al secondo Adamo è erroneo rinvenire l’idea che Adamo sarebbe morto anche se non avesse peccato. Questo, semplicemente perché il primo Adamo fu fatto (eis psychen zosan), espressione che nell’uso paolino e nel suo contesto significa chiaramente immortale (120). Adamo avrebbe potuto essere stato creato naturalmente mortale, ma se egli non avesse peccato non sussisterebbe ragione di credere che non sarebbe divenuto immortale per natura (121). Ciò ha implicato certamente gli straordinari poteri che san Paolo attribuisce alla morte e alla corruzione.
L’antropologia di san Paolo
Come abbiamo già detto, la legge, per san Paolo, non è solo buona (122) ma pure spirituale (123). Ciò è noto all’ »uomo interiore » (124). Tuttavia l’uomo anche se possiede la volontà per fare il bene secondo la legge, non può trovare la forza (125) perché è « carnale e soggetto al peccato » (126). Se egli stesso, secondo « l’uomo interiore », vuole fare il bene e non può, non è molto distante da chi fa il male e ha il peccato dimorante in sé (127). Così san Paolo si domanda: « Disgraziato che sono! Chi mi libererà da questo corpo di morte? » (128). Essere liberati da questo « corpo di morte » significa essere salvati dal potere del peccato dimorante nella carne. Così « la legge dello spirito di vita in Gesù Cristo mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte » (129).
E’ fuorviante cercare d’interpretare questa frase paolina (130) secondo un’antropologia dualistica che riferirebbe il termine sarkikos solo agli appetiti più bassi del corpo e specialmente ai desideri sessuali ad esclusione dell’anima. Il termine sarkikos non viene utilizzato da san Paolo in tal senso. Altrove san Paolo ricorda alle persone sposate che essi non hanno autorità sui loro corpi e così non si devono privare gli uni agli altri, « salvo che, acconsentendo, per una volta diate voi stessi al digiuno e alla preghiera. Poi, però, siate come prima perché Satana non vi tenti a causa della vostra incontinenza » (131). Ai corinti dichiara ch’essi sono una lettera non scritta con inchiostro « ma con lo spirito del Dio vivente, non in tavole di pietra ma nelle tavole di carne del cuore — en plaxi kardias sarkinais » (132). Cristo fu conosciuto secondo la carne (133) e « Dio fu manifestato nella carne » (134) San Paolo si chiede se, dopo aver piantato realtà spirituali tra i corinti, sia una grande cosa cogliere le sarkika (realtà materiali) (135). In nessuna parte Paolo usa l’aggettivo sarkikos per riferirsi esclusivamente alla sessualità o a quello che comunemente viene definito come desideri della carne contrari a quelli dell’anima.
Sembra che san Paolo attribuisca un potere positivo di peccato alla sarx come tale solo nell’epistola ai galati i quali, avendo iniziato nello Spirito, pensano d’essere divenuti perfetti nella carne (136). Qui la sarx ha una volontà di desiderio contro il pneuma (137). « Le opere della carne sono manifeste e sono le seguenti: fornicazione, impurità, dissolutezza, lussuria, idolatria, venefizi, inimicizie, discordie, gelosie, risentimenti, contese, divisioni, sette, invidie, omicidi, ubriachezze, gozzoviglie e altre simili cose » (138). Molte di queste opere della carne (sarkos) hanno una partecipazione, e spesso un’iniziativa, molto attiva dell’ intelletto, indicazione che in questo passo la sarx, per Paolo, è molto di più di quanto ammetterebbe una qualsiasi antropologia dualistica. In ogni evenienza, la carne come tale vista come una forza positiva di peccato basandosi sulla sopravvalutazione della lettera dove Paolo si infuria contro la leggerezza dei galati (139), non può essere isolata da altri riferimenti in cui il peccato dimora parassitariamente nella carne (140) e dove la carne stessa non solo non è cattiva (141) ma è quella realtà nella quale si è manifestato lo stesso Dio (142). La carne in quanto tale non è cattiva ma si è molto indebolita a causa del peccato e dell’inimicizia dimoranti in essa (143).
che quell’eresia è un prodotto del Demonio.

Publié dans:teologia - antropologia |on 6 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

IL PECCATO ORIGINALE SECONDO SAN PAOLO – SECONDA PARTE

SECONDA PARTE

Per comprendere l’antropologia paolina non bisogna riferirsi all’antropologia dualistica dei greci i quali hanno fatto una chiara distinzione tra l’anima e il corpo quanto, piuttosto, all’antropologia ebraica nella quale sarx e psyche (la carne e l’anima) denotano entrambe l’intera persona vivente e non soltanto una parte di essa (144). Così nell’Antico Testamento l’espressione pasa sarx (ogni carne) viene impiegata per indicare tutte le realtà viventi (145) tra le quali, a maggior ragione e particolarmente, l’uomo (146). L’espressione pasa psyche (ogni anima), viene utilizzata nella stessa maniera (147). Nel Nuovo Testamento entrambe le espressioni pasa sarx (148) e pasa psyche (149) vengono usate in perfetto accordo con il contesto vetero testamentario.
Vediamo dunque, che per san Paolo, essere sarkikos (150) e psychikos (151) significa esattamente la medesima cosa. « La carne e il sangue (sarx kai haima) non possono ereditare il regno di Dio » (152) poiché la corruzione non può ereditare l’incorruzione (153). Per tale ragione un soma psychikon è « seminato nella corruzione ma risuscitato nell’incorruzione; seminato nel disonore ma risuscitato nella gloria (154); seminato nella fragilità ma risuscitato nella forza ». « Viene seminato un soma psychikon e viene risorto un soma pneumatikon. Esiste un soma psychikon ed esiste un soma pneumatikon! » (155) Sia il sarkikon che lo psychikon sono dominati dalla morte e dalla corruzione e così non possono ereditare il regno di vita. Questo può riguardare solo il pneumatikon. « Non è precedente il pneumatikon. (l’ elemento spirituale) bensì lo psychikon (quello animale). Il primo uomo, tratto dalla terra, è terrestre, il secondo uomo, tratto dal cielo, è celeste » (156). Questo primo uomo diviene eis psychen zosan (un’anima vivente). Per Paolo ciò significa esattamente che diviene psychikon, e quindi soggetto alla corruzione (157) poiché « tratto dalla terra è terrestre… » (158). Tali espressioni non ammettono alcuna antropologia dualistica. Un soma psychikon « tratto dalla terra, terrestre o una psyche zosa « tratta dalla terra, terrestre » condurrebbero ad una grande confusione se li si collocasse in un contesto dove esiste un dualismo che pone una distinzione tra l’anima e il corpo, tra il basso e l’alto, tra il materiale e il puramente spirituale. D’altronde cosa dovrebbe essere una psyche zosa visto che proviene dalla terra ed è terrestre? Parlando della morte un dualista non potrebbe mai ammettere che un soma psychikon è seminato nella corruzione. Affermerebbe, semmai, che l’anima lascia il corpo il quale è l’unico ad essere seminato nella corruzione.
Né la psyche né il pneuma sono la parte intellettuale dell’uomo. Non abbiamo alcuna prova di ciò né citando I Cor 2, 11 (tis gar oiden anthropon ta tou anthropou ei me to pneuma tou anthropou to en auto?), né citando I Tes 5, 23 (Autos o Theos tea eirenes hagiasai hymas holoteleis, kai holokleron hymon to pneuma kai he psyche kai to soma amemptos en te parousia tou K. H. I. X. teretheie). Non si possono prendere queste espressioni isolandole dal resto degli scritti paolini per cercare di far parlare Paolo con un linguaggio dualistico tomista come fa, ad esempio, F. Prat ne La theologie de st. Paul, t. 2, pp. 62-63. Altrove, parlando contro la pratica di alcuni individui che pregano pubblicamente in lingue sconosciute, san Paolo dice: « Se io prego con un linguaggio sconosciuto prega il mio pneuma ma la mia mente rimane senza alcun frutto. Cos’ho, allora? Pregherò con il pneuma ma pregherò pure con la mente » Qui viene fatta un’acuta distinzione tra il pneuma e il nous (la mente) (159). Perciò per san Paolo il regno del pneuma non appartiene alla categoria della comprensione umana. E’ in un’altra dimensione.
Per esprimere l’idea d’intelletto o comprensione tutti i quattro evangelisti utilizzano la parola kardia (cuore) (160). La parola nous (mente) è usata una volta sola da san Luca (161). San Paolo, invece, utilizza entrambi i termini kardia (162) e nous (163) per definire la facoltà dell’intelligenza. Il nous, comunque, non può essere ritenuto come se fosse le facoltà intellettuali di un’anima immateriale. Esso, piuttosto, è sinonimo di kardia che, a sua volta, è sinonimo di eso anthropon.
Lo Spirito Santo è inviato da Dio nel kardia (164) o nell’eso anthropon (165), e Cristo deve abitare nel kardia (166). Il kardia e l’eso anthropon sono il luogo in cui dimora lo Spirito Santo. L’uomo si diletta nella legge di Dio secondo l’eso anthropon ma esiste un’altra legge nelle sue membra che muove guerra alla legge del nous (167). Qui il nous è chiaramente sinonimo di eso anthropon che, a sua volta, è il kardia, luogo in cui abita lo Spirito Santo e Cristo (168).
Camminare nella vanità del nous con la dianoia ottenebrata rimanendo, quindi, alienati dalla vita di Dio attraverso l’ignoranza, è un risultato de « l’indurimento del cuore — dia ten perosin tes kardias » (169). Il cuore è la sede della libera volontà umana ed è qui che l’uomo viene accecato (170) e indurito (171) a causa della propria scelta o, viceversa, illuminato nella sua comprensione dalla speranza, dalla gloria e dalla forza in Cristo (172). E’ nel cuore che vengono colti i segreti umani (173) ed è qui che Cristo « darà luce ai luoghi nascosti nelle tenebre e manifesterà i consigli dei cuori » (174).
Sarebbe assurdo interpretare l’utilizzo delle espressioni paoline eso anthropon e nous secondo un’antropologia dualistica ignorando l’uso della parola kardia la quale è in perfetto accordo con gli scritti del Nuovo e dell’ Antico Testamento. Usando le parole nous e eso anthropon, Paolo ha certamente introdotto una nuova terminologia estranea all’uso tradizionale ebraico ma non ha introdotto alcuna nuova antropologia basata sul dualismo ellenistico. San Paolo non si riferisce mai né alla psyche né al pneuma come ad una falcoltà dell’intelligenza umana. La sua antropologia è ebraica, non ellenistica.
Sia nel Nuovo che nell’Antico Testamento si trova l’espressione to pneuma tes zoes (lo spirito di vita), mai to pneuma zon (lo spirito vivente) (175). Si trova pure psyche zosa (l’anima vivente), mai psyche tes zoes (l’anima di vita) (176). Il motivo è semplice: la psyche, o la sarx, vivono solo per partecipazione mentre il pneuma è esso stesso principio di vita, dono di Dio affidato all’uomo (177). Inoltre, il pneuma « è il solo a possedere l’immortalità » (178). Dio dona all’uomo la propria vita increata senza distruggere la libertà umana. In tal modo, la persona non è una forma intellettuale modellata secondo un’essenza predeterminata o secondo un’idea universale di uomo. Il destino della persona non è quello di conformarsi ad uno stato d’automatica contentezza di fronte a Dio dove, per la completa autosoddisfazione e felicità, la volontà umana sia divenuta sterile ed immobile (come, ad esempio, nell’insegnamento neoplatonico di sant’Agostino e, generalmente, nel concetto sull’umano destino da parte dei tomisti cattolico-romani). La personalità dell’uomo non consiste in un’anima immateriale ed intellettuale che ha vita in se stessa e utilizza il corpo semplicemente come luogo da abitare. La sarx o la psyche sono la totalità dell’uomo mentre il kardia è il centro dell’intelligenza. La volontà conserva un’ integra indipendenza e può scegliere se indurirsi davanti alla verità o divenire interiormente ricettiva all’illuminazione divina. Il pneuma dell’uomo non è il centro della personalità umana, non è neppure la facoltà che regola le sue azioni quanto, piuttosto, la scintilla di vita divina donata all’uomo come proprio principio vitale. In tal modo, l’uomo può vivere secondo il pneuma tes zoes o secondo la legge della carne che significa morte e corruzione. La vera personalità dell’uomo, comunque, benché creata da Dio rimane al di fuori dell’essenza divina e mantiene una completa libertà. Questo significa che l’uomo può giungere a respingere l’atto creativo per il quale non è stato consultato, o ad accogliere l’amore creativo di Dio vivendo secondo il pneuma, datogli per tale scopo.
« I desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello spirito portano alla vita e alla pace » (179) Coloro che vivono secondo la carne avranno la morte (180). Coloro che mortificano i desideri della carne, attraverso lo spirito, avranno la vita (181). Lo spirito dell’uomo, privato dello Spirito vivificante di Dio, è particolarmente debole dinnanzi alla carne dominata dalla morte e dalla corruzione (182): « Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? » (183). Ma « la legge del pneumatos tes zoes (dello Spirito che dà vita) in Gesù Cristo ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte » (184). Solo coloro il cui spirito è stato rinnovato (185) dall’unione con lo Spirito di Dio (186) possono combattere i desideri della carne. Solo coloro che hanno ricevuto lo Spirito di Dio ed ascoltato la Sua voce nella vita del corpo di Cristo sono abilitati a lottare contro il peccato. « Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio » (187).
Benché Dio abbia donato all’uomo il principio di vita (lo spirito), egli può ancora partecipare fragilmente alle opere della carne. Per tale ragione è necessario che i cristiani si guardino non solo dalla fragilità della carne ma pure da quella dello spirito (188). Il battesimo, in cui avviene l’unione tra lo spirito dell’uomo e quello di Dio, non garantisce magicamente l’impossibilità di un’eventuale separazione. Divenire nuovamente schiavi alle opere della carne può seriamente comportare l’esclusione dal corpo di Cristo (189). L’uomo riceve lo Spirito di Dio in modo che Cristo possa dimorare nel suo cuore (190). « Voi però non siete sotto il dominio della carne ma dello spirito dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi » (191). Se lo Spirito di Dio dimora nel corpo dell’uomo significa pure che egli è membra del corpo di Cristo. Essere privati del primo significa essere esclusi dall’altro. E’ impossibile rimanere in comunione soltanto con una parte di Dio. La comunione con Cristo, attraverso lo Spirito, è la comunione con l’intera Divinità. Escludere una Persona significa escludere tutte le tre Persone.
« Le opere della carne sono manifeste… » (192) « Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero. Coloro che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio » (193). Sono così, le persone schiavizzate al potere della morte e della corruzione nella carne. Esse devono essere salvate da « questo corpo di morte » (194). D’altra parte coloro che sono stati seppelliti con Cristo attraverso il battesimo sono morti al corpo del peccato e vivono in Cristo (195). Nessuno vive più secondo i desideri della carne ma secondo quelli dello Spirito. « Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è legge. Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri » (196).
E’ chiaro che, per san Paolo, l’unione dello spirito dell’uomo con lo Spirito di Dio nell’esistenza d’amore del corpo di Cristo è vita e salvezza. D’altra parte, vivere aderendo ai desideri della carne dominata dai poteri della morte e della corruzione significa morire: « i desideri della carne portano alla morte » (197). San Paolo in tutte le sue epistole utilizza le categorie di vita e morte. Dio è vita mentre il Diavolo tiene le redini della morte e della corruzione. L’unità con Dio nello Spirito, attraverso il corpo di Cristo nella vita agapica, significa esistere veramente ricevendo salvezza e perfezione. La separazione dello spirito umano dalla vita divina nel corpo di Cristo comporta la schiavitù ai poteri della morte e della corruzione. Tali poteri sono adoperati dal Diavolo per distruggere le opere di Dio. La vita dello Spirito è unità e amore. La vita secondo la carne è disunione e dissoluzione nella morte e nella corruzione.
E’ assolutamente necessario afferrare il significato con il quale san Paolo utilizza i termini di sarx, psyche e pneuma per evitare la diffusa confusione dominante nel campo delle indagini sulla teologia paolina. San Paolo non parla mai in termini di anime razionali immateriali contrarie a dei corpi materiali. La sarx e la psyche sono sinonimi e formano, con il pneuma, l’intero uomo. Vivere secondo il pneuma non è seguire gl’istinti più bassi dell’uomo. Vivere secondo la sarx o psyche significa seguire la legge della morte contrariamente a chi, vivendo secondo lo spirito, vive la legge della vita e dell’amore.
Coloro che sono sarkikoi non possono vivere secondo il loro originario destino d’amore altruistico verso Dio e il prossimo, poiché sono dominati dal potere della morte e della corruzione. « Il pungiglione della morte è il peccato » (198). Il peccato ha regnato con la morte (199). La morte è l’ultimo nemico ad essere distrutto (200). Tanto in quanto l’uomo vive secondo la legge della morte, nella carne, non può piacere a Dio (201) poiché non vive secondo la legge della vita e dell’amore. « Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero » (202). La liberazione dai poteri della morte e della corruzione è venuta da Dio che ha inviato il proprio Figlio « in una carne simile a quella del peccato » per liberare l’uomo « dalla legge del peccato e della morte » (203). Ma benché la forza della morte e del peccato sia stata distrutta dalla morte e dalla risurrezione di Cristo, la partecipazione a questa vittoria può venire solo attraverso la morte a questo mondo con Cristo nell’acqua del battesimo (204). È’ solo morendo nel battesimo e continuando a morire alla mentalità e ai costumi del mondo che i membri del corpo di Cristo divengono perfetti come Dio è perfetto.
L’importanza che san Paolo attribuisce al rifiuto della mentalità mondana per vivere secondo « lo spirito di vita » non può essere esagerata. Cercare di presentare la sua insistenza sul radicale rifiuto della mondanità in vista della salvezza come se fosse il prodotto d’un entusiasmo escatologico, significa smarrire completamente la vera base del messaggio neotestamentario. Se la distruzione del Diavolo, della morte e della corruzione ha significato la salvezza e l’unica condizione per vivere secondo l’originale destino dell’uomo, il significato d’essere passati dal regno della morte e delle sue conseguenze a quello della vita nella vittoria di Cristo sulla morte stessa, dev’essere considerato molto seriamente. Per Paolo passare dalla morte alla vita significa essere in comunione con la morte e la vita di Cristo nel battesimo vivendo continuamente nel corpo di Cristo. La nuova vita nel corpo di Cristo, comunque, dev’essere costantemente contraddistinta da un quotidiano morire alla mentalità di questo mondo, dominato dalla legge della morte e della corruzione e posto nelle mani dal Diavolo. La partecipazione alla vittoria sulla morte non deriva semplicemente dal possesso d’una magica fede e da un vago e generico sentimento d’amore verso l’umanità (Lutero). La totale appartenenza al corpo di Cristo può essere realizzata solo morendo nelle acque del battesimo con Cristo stesso e vivendo secondo la legge dello « spirito di vita ». I catecumeni e i penitenti hanno certamente la fede ma non sono ancora passati attraverso la morte del battesimo alla nuova vita. Non sono nella nuova vita neppure coloro che, dopo essere morti alla carne nel battesimo, non hanno perseverato permettendo, in tal modo, al potere della morte e della corruzione di prevalere sullo « spirito di vita ».
Riguardo all’insegnamento paolino concernente la morte battesimale alla mentalità mondana è interessante notare l’utilizzo che egli fa della parola soma per designare la comunione tra coloro che, in Cristo, costituiscono la Chiesa. Il termine soma in entrambi i Testamenti, a parte Paolo, è prevalentemente usato per designare una persona morta o un cadavere (205). Nell’Ultima Cena, nostro Signore ha utilizzato la parola soma per designare, molto probabilmente, il suo passaggio attraverso la morte. Analogamente ha utilizzato il termine haima per mostrare il suo ritorno alla vita poiché, nell’Antico Testamento, il sangue è un elemento designante la vita (206). In tal modo nell’Ultima Cena, come in ogni Eucarestia, c’è la proclamazione e la confessione della morte e della resurrezione di Cristo. Secondo i presupposti rinvenibili nei discorsi paolini riguardo alla morte battesimale, è possibilissimo descrivere la Chiesa come il soma di Cristo non solo per l’inabitazione di Cristo stesso e dello Spirito nei corpi dei cristiani ma pure perché tutti i membri di Cristo sono morti al corpo del peccato nelle acque battesimali. Prima di condividere la vita di Cristo è necessario divenire un vero soma liberato dal Diavolo morendo alla mentalità di questo mondo e vivendo secondo lo « spirito » (207).
Osservazioni sintetiche
San Paolo non dice in alcun passo che l’intero genere umano è considerato colpevole del peccato di Adamo ed è stato quindi punito con la morte. La morte è una forza cattiva entrata nel mondo attraverso lo stesso peccato radicato nel mondo e regna nella creazione a causa di Satana. Per questa ragione, benché l’uomo possa conoscere le cose buone attraverso la legge scritta nel suo cuore e possa operare quant’è bene, ne è impedito a causa del peccato dimorante nella sua carne. Perciò non è lui che fa il male ma è il peccato che dimora in lui. A causa di questo peccato egli non può trovare la maniera per operare il bene. Deve quindi essere salvato da « questo corpo di morte » (208). Solo in seguito può fare il bene. Cosa vuole dire Paolo attraverso queste affermazioni? Un’appropriata risposta può essere fondata solo quando si tiene in considerazione la dottrina paolina sul destino umano.
Se l’uomo fosse stato creato per una vita di completo amore altruista le sue azioni sarebbero state guidate sempre da un motivo esterno. Si sarebbero mosse sempre verso Dio e il prossimo, mai verso il soggetto agente. Così ci sarebbe stata una perfetta immagine e somiglianza di Dio. E’ ovvio che il potere della morte e della corruzione ha impossibilitato la persona a vivere una tale vita di perfezione. Il potere della morte nell’universo ha portato con sé la volontà dell’autoconservazione, la paura e l’inquietudine (209) che, a loro volta, sono la radice e la causa dell’ autoasservimento, dell’egoismo, dell’odio, dell’ invidia e d’altri simili sentimenti. Poiché l’uomo ha paura di divenire insignificante, si sforza continuamente mettendosi alla prova, davanti a se stesso e agli altri, per mostrare che vale qualcosa. Ha sete di complimenti e paura d’insulti. Cerca il proprio successo ed è geloso di quello degli altri. Gli piacciono le persone come lui e odia coloro che lo odiano. Egli cerca la sicurezza e la felicità nella ricchezza, insegue la gloria e i piaceri fisici e immagina che il suo destino consista nell’essere felice nel possesso della presenza di Dio. La fruizione egoistica di Dio viene immaginata a causa della sua introversa e individualistica personalità incline all’errore e all’egocentrico desiderio di soddisfazione e felicità ritenute come proprio normale destino. D’altra parte egli può divenire premuroso su vaghi principi ideologici d’amore verso l’umanità e continuare, poi, ad odiare i suoi vicini più prossimi. Queste sono le opere della carne delle quali san Paolo parla (210). Sotto ogni azione di colui che il mondo conosce come « l’uomo normale », esiste la ricerca della sicurezza e della felicità. Ma tali desideri non sono normali. Sono la conseguenza della perversione causata dalla morte e dalla corruzione, attraverso la quale il Diavolo invade tutta la creazione, dividendola e distruggendola. Questo potere è così grande che se l’uomo vuole vivere secondo il suo originale destino ne è impedito a causa del peccato che abita nella sua carne (211): « Chi mi libererà da questo corpo di morte? » (212).
Condividere l’amore di Dio, senza qualche concessione per se stessi, significa pure condividere la vita e la verità di Dio. L’amore, la vita e la verità in Dio sono una cosa sola e possono essere fondate solo in Lui. Allontanarsi dall’amore di Dio e del prossimo significa rompere la comunione con la vita e la verità divine, che non possono essere separate dal Suo amore. La rottura di questa comunione con Dio può essere consumata solo nella morte, poiché nulla di creato può continuare indefinitamente ad esistere per se stesso (213). Così, a partire dalla trasgressione del primo uomo, il principio del « peccato (il Diavolo) è entrato nel mondo ed attraverso la morte il peccato, e così la morte ha raggiunto tutti gli uomini. » (214). Non solo l’umanità ma tutta la creazione è stata soggetta alla morte e alla corruzione dal Diavolo (215). Poiché l’uomo è parte inseparabile della creazione, mantiene con essa una continua comunione ed è collegato con la procreazione all’intero processo storico dell’umanità, la caduta della creazione attraverso un uomo coinvolge automaticamente tutti gli uomini nella caduta e nella corruzione. E’ attraverso la morte e la corruzione che tutta l’umanità e la creazione è tenuta prigioniera dal Diavolo venendo coinvolta nel peccato, perché è attraverso la morte che l’uomo decade dal suo originale destino che consisteva nell’amare Dio e il prossimo senza alcun egoismo. L’uomo non muore perché è colpevole per il peccato di Adamo (216). Diviene peccatore [e quindi mortale] perché è assoggettato al potere del Diavolo attraverso la morte e le sue conseguenze (217).
San Paolo dice chiaramente che « il pungiglione della morte è il peccato » (218), che « il peccato ha regnato nella morte » (219) e che la morte è « l’ultimo nemico ad essere distrutto » (220). Nelle sue epistole, è particolarmente ispirato quando parla della vittoria di Cristo sulla morte e la corruzione. Sarebbe veramente illogico cercare d’interpretare il pensiero paolino attraverso i presupposti:
1) che la morte è normale o che, al più,
2) è la conseguenza d’una decisione giuridica divina di punire l’intera umanità per un peccato;
3) che la felicità è l’ultimo destino dell’uomo e che
4) l’anima è immateriale, naturalmente immortale e direttamente creata e concepita da Dio. Perciò essa sarebbe normale e scevra da difetti (scolasticismo romano).
La dottrina paolina dell’uomo sull’incapacità a fare il bene che la persona è in grado di riconoscere secondo l’ »uomo interiore », può essere capita solo se si prende seriamente in considerazione il potere della morte e della corruzione nella carne, che rende impossibile all’uomo una vita secondo il proprio destino originale.
Il problema moralistico esposto da sant’Agostino riguardo la trasmissione della morte ai discendenti di Adamo come punizione per una trasgressione originale è estraneo al pensierio paolino. La morte di ciascun uomo non può essere considerata la conseguenza d’una colpa personale. San Paolo non pensa come un filosofo moralista che cerca la causa della caduta dell’umanità e della creazione nella rottura di oggettive regole di buon comportamento, rottura che esige la punizione di un Dio la cui giustizia è ad immagine della giustizia di questo mondo. Paolo pensa chiaramente alla caduta nei termini di una guerra personale tra Dio e Satana, nella quale Satana non è obbligato a seguire alcuna sorta di regole morali se può essergli di vantaggio. E’ per questa ragione che san Paolo può affermare che il serpente « ha ingannato Eva » (221) e che « non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione » (222). L’uomo non è stato punito da Dio, ma reso prigioniero dal Diavolo.
Questa interpretazione è promossa dalla chiara insistenza paolina che « fino alla legge infatti c’era peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo » (223). E’ chiaro che Paolo nega qualche cosa come una colpa generale personale per il peccato di Adamo. Il peccato rimase comunque nel mondo, visto che la morte ha regnato pure su quelli che non avevano peccato oltre che in Adamo che aveva peccato. Qui il peccato significa evidentemente la persona di Satana, che ha regnato nel mondo attraverso la morte pure prima dell’arrivo della legge. Questa è la sola possibile interpretazione del presente passo, poiché tale spiegazione è chiaramente sostenuta altrove negli insegnamenti paolini a proposito dei poteri straordinari del Diavolo, specialmente in Romani 8, 19-21. Le asserzioni di san Paolo dovrebbero essere prese molto letteralmente quando afferma che l’ultimo nemico ad essere distrutto sarà la morte (224) e che « il pungiglione della morte è il peccato » (225).
Da quanto è stato osservato la famosa espressione eph’ho pantes hemarton (226) può essere sicuramente interpretata in riferimento al termine thanatos che la precede il quale è l’unica parola che si adatta al significato del testo. Riferire eph’ho ad Adamo è impossibile sia grammaticamente che esegeticamente. Simile interpretazione fu inizialmente introdotta da Origene che la assunse, evidentemente, poiché aveva determinati presupposti mentali: credeva nella preesistenza di tutte le anime. Per tale motivo Origene avrebbe facilmente affermato che tutte le anime hanno peccato in Adamo. L’interpretazione di eph’ho come « perché » fu introdotta in Oriente per la prima volta da Fozio (227). Egli affermò che in tal passo esistono due prevalenti interpretazioni — Adamo e thanatos —. Fozio, tuttavia, propendeva per dioti (perché) fondando le sue argomentazioni su un’errata interpretazione di II Cor 5, 4 dove, anche qui, ritenteva eph’ho con il senso di dioti. Tuttavia, in questo passo, è veramente chiaro che eph’ho si riferisce a skensi (eph’ho skenei ou thelomen ekdysasthai). Fozio cerca d’interpretare san Paolo in un contesto di leggi morali naturali e perciò cerca di giustificare la morte di tutti gli uomini a causa d’una colpa personale. Afferma, quindi, che tutti gli uomini muoiono perché seguono i passi di Adamo (228). In ogni evenienza né lui né i Padri orientali accettano l’insegnamento secondo il quale tutti gli uomini sono colpevoli per il peccato adamitico.
Anche con le sole considerazioni grammaticali non è possibile interpretare eph’ho con riferimento ad altra parola oltre che a thanatos. In ogni epoca la costruzione grammaticale della preposizione epi col dativo usata da Paolo, è sempre stata impiegata come pronome relativo per modificare il nome (229) o la frase (230) precedenti. Fare un’eccezione in Romani 5, 12 ritenendo che san Paolo utilizzi un’errata espressione greca per intendere « perché » significa non considerare questa realtà. L’interpretazione corretta di tale passo, sia grammaticamente che esegeticamente, può essere ottenuta solo quando eph’ho è colto per modificare thanatos — kai houtos eis pantas anthropous ho thanatos dielthen eph’ho (thanato) pantes hemarton — « poiché della quale » (morte), o « sulla base della quale » (morte), o « per la qual (morte) ognuno ha peccato ». Satana, essendo lui stesso principio del peccato, attraverso la morte e la corruzione coinvolge tutta l’umanità e la creazione nel peccato e nella morte. Così, essere sotto il potere della morte, secondo Paolo, significa essere peccatore e schiavo del Diavolo, per l’incapacità della carne a vivere secondo la legge di Dio, cioè secondo un amore altruista.
La teoria della trasmissione del peccato originale e della colpa non è sicuramente fondata in san Paolo, che non può essere interpretato né in termini giuridicisti né in termini dualisti i quali operano una distinzione tra una dimensione materiale e una seconda dimensione ritenuta pura e spirituale, parte intellettuale dell’uomo. Non bisogna meravigliarsi se alcuni studiosi biblici sono impotenti quando non possono trovare nell’Antico Testamento qualche chiaro appiglio per sostenere quella che pretendono essere la dottrina paolina sul peccato originale nei termini di una colpa morale e di una punizione (231). Identica perplessità viene espressa da molti moralistici studiosi occidentali quando approfondiscono il pensiero dei Padri orientali (232). Di conseguenza, sant’Agostino è popolarmente ritenuto il primo e l’unico antico Padre ad avere capito la teologia di san Paolo. Ma ciò è chiaramente un mito dal quale sia i protestanti che i cattolico-romani hanno bisogno d’essere liberati.
Solo quando si capisce il significato della morte e le sue conseguenze si può capire la vita della Chiesa antica e, specialmente, il suo atteggiamento verso il martirio. Essendo già morti al mondo nel battesimo e avendo nascosto la loro vita con Cristo in Dio (233), i cristiani non potevano esitare di fronte alla morte. Erano già morti ma vivevano ancora in Cristo. Avere paura della morte significava essere ancora sotto il potere del Diavolo (II Tim 1, 7): « In Dio non abbiamo ricevuto uno spirito di timidezza, ma di forza, d’amore e di saggezza ». Cercando di convincere i cristiani di Roma a non impedire il loro martirio, sant’Ignazio scrive: « Il principe di questo mondo vorrebbe rassegnarmi ad allontanarmi corrompendo la mia disposizione verso Dio. Perciò nessuno di voi che è in Roma lo aiuti » (234). La controversia ciprianense sul rinnegamento di Cristo durante i periodi di persecuzione è stata violenta, proprio perché la Chiesa capiva che era una contraddizione morire nel battesimo e poi negare Cristo per paura della morte e della tortura. I canoni della Chiesa, benché oggi generalmente non vengano considerati per illuminare la comprensione dell’intima fede nella Chiesa antica, sono ancora molto severi verso coloro che rigettano la fede per paura della morte (235). Un tale atteggiamento verso la morte non è il prodotto d’una frenesia escatologica e d’un entusiasmo, quanto piuttosto d’un chiaro riconoscimento di ciò che il Diavolo è, di ciò che i suoi pensieri sono (236), di ciò che sono i suoi poteri sopra l’umanità e la creazione e di come vengano distrutti attraverso il battesimo e la mistagogica vita nel corpo di Cristo che è la Chiesa. Oscar Cullman si è seriamente sbagliato quando ha cercato di far dire agli agiografi neotestamentari che Satana e i demoni sono stati privati del loro potere e che ora « leur puissance n’est qu’apparente » (237). Il maggior potere del Diavolo è la morte, che sarà distrutta solo nel corpo di Cristo, dove il fedele è impegnato continuamente nella lotta contro Satana sforzandosi di praticare un amore altruista. Questo combattimento contro il Diavolo e lo sforzo per praticare un amore altruista è concentrato nella vita eucaristica sociale della comunità locale. « Poiché quando vi riunite frequentemente epi to auto (nello stesso luogo) i poteri di Satana sono distrutti. La distruzione alla quale egli tiene è impedita dall’unità della vostra fede » (238). Allora, se qualcuno non sente la chiamata dello Spirito in sé per la vita sociale dell’amore altruista nell’assemblea eucaristica, è evidentemente sotto l’influsso del Diavolo. « Colui che non si riunisce con la Chiesa ha, con ciò, manifestato il suo orgoglio e condannato se stesso… » (239). Il mondo al di fuori della vita sociale d’amore nei sacramenti, è ancora sotto il potere delle conseguenze della morte e, perciò, è schiavo del Diavolo. Il Diavolo è stato già sconfitto dal momento in cui il suo potere è stato distrutto dalla nascita, vita, morte e risurrezione di Cristo. Questa sconfitta continua solo nel resto di coloro che sono stati salvati prima e dopo Cristo. Sia coloro che sono stati salvati prima di Cristo che coloro che sono stati salvati dopo di Lui lo debbono alla Sua morte e risurrezione. Essi fanno parte della Nuova Gerusalemme. Contro questa Chiesa il Diavolo non può prevalere e, per questo fatto, è già stato sconfitto. Tuttavia il suo potere al di fuori di coloro che sono stati salvati rimane lo stesso (240). Satana è ancora « il dio di questo mondo » (241) ed è per questa ragione che i cristiani devono vivere come se non vivessero nel mondo (242).
Conclusioni
Lo studioso biblico non potrà mai essere obiettivo se il suo esame teologico viene influenzato o diretto da determinati pregiudizi filosofici. La moderna scuola di critica biblica lavora chiaramente in una falsa direzione quando vuole giungere all’essenziale forma originale del kerygma rimanendo all’ocuro dell’essenza vetero e neotestamentaria riguardo allo stato decaduto dell’umanità e della creazione, specialmente quando trascura gli insegnamenti sulla natura di Dio e su quella di Satana. Così nelle tendenze anti-liberali del moderno protestantesimo, viene accolto il metodo di critica biblica e, allo stesso tempo, si cerca di salvare quello che si ritiene essere l’essenziale messaggio degli evangelisti. D’altronde gli studiosi di questa scuola in tutto il loro metodo pseudo scientifico di ricerca, mancano di giungere alle mie identiche conclusioni perché rifiutano ostinatamente di considerare seriamente la dottrina biblica su Satana, sulla morte e la corruzione. Per questa ragione la questione se il corpo di Cristo è risuscitato realmente o no, non viene ritenuta importante (cfr. E. Brunner, Il Mediatore). Quello che per loro è importante è la fede in Cristo quale unico salvatore della storia anche se, molto probabilmente, Egli non è storicamente risorto. Come si salva e da cosa vengono salvati gli uomini è, presumibilmente, una questione secondaria.
E’ chiaro che per san Paolo la risurrezione fisica di Cristo significa la distruzione del Diavolo, della morte e della corruzione. Cristo è la primizia dei risorti (243). Se non esiste alcuna risurrezione non ci può essere assolutamente salvezza (244). Solo una vera risurrezione può distruggere il potere di Satana dal momento che la morte è una conseguenza dell’interruzione della comunione con la vita e l’amore di Dio e, quindi, è la consegna dell’uomo e della creazione al Diavolo. E’ impreciso e poco profondo cercare di fare passare per biblica l’idea che la questione sulla reale risurrezione fisica è di secondaria importanza. Al centro del pensiero biblico e patristico esiste chiaramente una cristologia nella quale si considera un’unione reale con Dio condizionata dalla dottrina biblica su Satana, sulla morte, sulla corruzione e sul destino umano. Satana governa materialmente e psichicamente attraverso la morte. Anche la sua sconfitta deve dunque essere materiale e fisica. La restaurazione della comunione non deve coinvolgere solo l’atteggiamento mentale ma, cosa ben più importante, deve passare attraverso la creazione della quale l’uomo è parte inseparabile. Senza una chiara comprensione della dottrina biblica su Satana e sul suo potere è impossibile capire la vita sacramentale del corpo di Cristo. Proprio per questo la dottrina dei Padri riguardo la cristologia e la Trinità diviene un’insignificante speculazione affidata agli specialisti scolastici. Sia gli scolastici cattolico-romani che i protestanti sono innegabilmente eretici nelle loro dottrine sulla grazia e sull’ecclesiologia semplicemente perché non vedono che la salvezza è unicamente l’unione dell’uomo con la vita di Dio nel corpo di Cristo dove il Diavolo viene ontologicamente e realmente distrutto nella vita agapica. Al di fuori della vita d’unità con Cristo nei sacramenti e nell’unione agapica non esiste alcuna salvezza, poiché il Diavolo domina ancora il mondo attraverso le conseguenze della morte e della corruzione. Le organizzazioni extra-sacramentali come il papato non possono essere viste come l’essenza del cristianesimo perché giacciono chiaramente sotto l’ influenza di convenienze mondane e non hanno come loro unico scopo una vita d’amore altruista. Nel cristianesimo occidentale i dogmi della Chiesa sono divenuti oggetto d’esercizi « logico-ginnici » nelle classi di filosofia. La cosiddetta ragione naturale umana fa da base alla teologia rivelata. Gli insegnamenti della Chiesa riguardo alla Santa Trinità, alla cristologia e alla Grazia non sono accolti per quello che sono: espressione della continua ed esistenziale esperienza del corpo di Cristo che vive della stessa vita trinitaria attraverso la natura umana del Salvatore nella cui carne è stato distrutto il Diavolo e contro il cui corpo (la Chiesa) le porte della morte (Ade) non possono prevalere.
Oggi la missione della teologia ortodossa consiste nel portare un risveglio all’interno del cristianesimo occidentale. Per fare efficaciemente ciò il cristiano ortodosso deve riscoprire le proprie tradizioni e cessare, una volta per tutte, di assumere le corrodenti infiltrazioni della confusione teologica occidentale nella teologia ortodossa. E’ solo ritornando alla comprensione biblica di Satana e del destino umano che i sacramenti della Chiesa possono nuovamente divenire la fonte e la forza della teologia ortodossa. Il nemico della vita e dell’amore può essere distrutto solo quando i cristiani possono confidenzialmente affermare: « Non siamo all’oscuro dei suoi pensieri » (245). Una teologia che non può definire con esattezza i metodi e le falsità del Diavolo è chiaramente eretica perché è già stata ingannata dal Diavolo stesso. E’ per questa ragione che i Padri potrebbero asserire

Publié dans:teologia - antropologia |on 6 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

Day 6 Animals with man and woman

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http://www.artbible.net/1T/Gen0126_Animals_Manwoman/index_4.htm

Publié dans:immagini sacre |on 5 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

La grazia e la giustificazione nel pensiero di San Paolo (Paul O’Callaghan)

dal sito:

http://www.collationes.org/attachments/142_P.O-Callaghan-grazia.rtf

La grazia e la giustificazione nel pensiero di San Paolo

Paul O’Callaghan

I. Contestualizzando la dottrina paolina: la grazia giustificante e le ‘buone opere’
La dottrina paolina sulla grazia si situa soprattutto all’interno del tentativo dell’Apostolo di evitare e superare l’umana tendenza — frutto del peccato — verso l’auto-giustificazione. Secondo gli scritti paolini, l’uomo è peccatore e creatura, e per questa ragione le sue opere sono in qualche modo disordinate in partenza. Perciò soltanto la divina misericordia, gratuitamente comunicata, può salvare l’uomo e dare valore alle sue opere. La grazia, in altre parole, si oppone alle buone opere quando queste vengono considerate e vissute come mezzo necessario per la salvezza, con cui l’uomo può presentarsi davanti a Dio ed esigere riconoscenza.
Paolo adopera il termine ‘grazia’ (cháris) un centinaio di volte. Lo fa sempre al singolare, per designare in genere il favore divino, e in modo specifico l’evento escatologico che ha avuto luogo in Gesù Cristo e che produce il rinnovamento interiore dell’uomo credente. La vita cristiana parte e si incentra sulla donazione di Dio agli uomini e solo secondariamente — come conseguenza, pur necessaria — sull’etica. Gli uomini sono peccatori e hanno bisogno di essere redenti da Gesù Cristo: “perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù” (Rm 3,23s.).

II. Il cammino della grazia: Gesù Cristo
La giustizia ha origine esclusivamente in Dio, secondo Paolo. Però l’unico cammino per raggiungerla è per la fede in Gesù Cristo.
Sono molti i testi che indicano questa dottrina. “Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio” (Rm 5,1-2). “Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti: giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono” (Rm 3,21s.). In Romani 4,24 ss., Paolo spiega che nell’Antico Testamento Abramo veniva giustificato non per mezzo delle sue opere, ma per la fede in Dio (cf. Gn 15,6) in base ad una promessa ancora non vista né verificata; il cristiano, similmente, è giustificato per mezzo della fede in Gesù Cristo.
Nel contempo, ciò che rende possibile la redenzione (o salvezza) per mezzo della grazia, è il fatto che tutti siamo stati creati in Cristo e a causa di Cristo, un tema ricorrente in Paolo (1 Cor 8,6; Col 1,15-20; Eb 1,2-3.10). In altre parole, Cristo viene a salvare un mondo già creato da Lui e indirizzato sin dall’inizio verso di Lui; la grazia, perciò, non è qualcosa di violento, di invadente, di artificialmente aggiuntivo; esiste ed agisce in continuità con il dono divino della creazione.
Bisogna aggiungere, però, che il Cristo non può essere considerato come un mero mezzo che rende disponibile la grazia, perché secondo gli scritti paolini il dono di Dio agli uomini è Gesù Cristo stesso. Vivere nella grazia vuole dire ‘essere (o vivere) in Gesù Cristo’. In un brano famoso della lettera ai Gàlati, Paolo dichiara che “sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).
Questa incorporazione o rivestimento di Cristo, secondo Paolo, ha luogo per mezzo del Battesimo con l’invio dello Spirito Santo. Siamo stati “battezzati in Cristo Gesù” (Rm 6,3). “Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3,27; cf. 2 Cor 5,2; Ef 4,24).

III. Lo stato nuovo del cristiano
Il credente in Cristo, secondo san Paolo, vive in un nuovo stato. Il ‘vivere in Cristo’ non equivale ad una mera assimilazione dello stile di vita e l’esempio del Maestro (Fil 2,5), con un’imitazione, tramite le proprie forze, delle sue virtù e dei suoi atteggiamenti. La realtà è più forte: “Cristo vive in me” (Gal 2,20). Per questa ragione Paolo può dire: “Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Cor 12,9). Cristo si rende presente ed attivo nel cristiano, che perciò vive in Lui, con Lui, per Lui.  Paolo impiega una ricca varietà di espressioni, fortemente collegate tra di loro, per spiegare questa nuova vita che scaturisce dal Cristo e si fa sempre più presente nella vita del credente. Ne possiamo elencare sei.

1. In primo luogo, la ‘nuova creazione’.  La vita che risulta dal dono di Dio viene chiamata da Paolo una ‘nuova creazione’ (Gal 6,15).
Il ‘nuovo uomo’ è “creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4,24). “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco ne sono nate di nuove” (2 Cor 5,17). L’opera di Dio nell’uomo è quella di essere “creati in Cristo Gesù per le opere buone” (Ef 2,10). L’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio (Gn 1,26) viene ‘ri-creato’ in Cristo secondo la sua immagine (Rm 8,29). Da una parte, questa spiegazione fa riferimento alla ‘creazione in Cristo’, già menzionata. La ‘nuova creazione’ quindi è qualcosa di più di una mera metafora. È una vera e propria opera di Dio, l’Unico Creatore. Dall’altra parte, il radicalismo di questa ‘nuova’ creazione ha come punto di arrivo la santità e quindi come punto di partenza il peccato, ovvero le ‘cose vecchie’.

2. La filiazione divina. Il risultato della vita di Cristo nel cristiano, della nuova creazione, è la filiazione divina, perché Cristo è il Figlio di Dio e la sua vita in noi ci rende figli del Padre. Paolo lascia intendere però che non si tratta di una filiazione naturale, originaria, ma del frutto della nuova creazione, come una seconda e successiva fase dell’esistenza umana. Per questo, adopera apertamente il termine ‘figli di adozione’ (Gal 4,6; Rm 5,15-16; Ef 1,3s.).  Nel contempo, è chiaro che la filiazione ricevuta per grazia produce una realtà non dissimile a quella di Cristo. Per questa ragione il cristiano, figlio di Dio, diventa co-erede con Lui (Rm 8,17). Cristo è la causa di questa vita filiale (Rm 8,29), che ci ha meritato sulla croce (Gal 4,5).
La realtà della filiazione divina viene resa presente nel credente, secondo Paolo, dallo Spirito Santo, in qualche modo sperimentato dai cristiani (Rm 8,14.16). Per mezzo dello Spirito possiamo chiamare Dio ‘Padre’ (Rm 8,15; Gal 4,6). Si può dire che l’agire dello Spirito, la nuova vita in Cristo e la filiazione divina interagiscono tra di loro nel modo seguente: Cristo Risorto, entrato nella pienezza della sua Filiazione, è Colui che invia lo Spirito, per trasformarci (Tit 3,6); a sua volta, lo Spirito ha il compito specifico di assimilare il cristiano a Cristo, affinché “Cristo sia formato in voi” (Gal 4,19); perciò si dice che nello Spirito possiamo gridare ‘Abbà, Padre’ (Rm 8,14-16). In poche parole: “Per mezzo di lui [Cristo] possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito” (Ef 2,18).

3. La presenza dello Spirito. Diverse volte Paolo parla della presenza dello Spirito nell’uomo come un aspetto specifico e qualificante della nuova vita. “La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5).
In effetti, lo Spirito viene inviato (Gal 4,6) e ‘concesso’ (Gal 3,5) al credente, ‘riversato’ (Tit 3,5) su di lui. Viene ad abitare in lui: “Lo Spirito di Dio abita in voi” (Rm 8,9). Dio abita in mezzo al Popolo dell’Antico Testamento come in un tempio.  In modo simile il tempio dello Spirito Santo è ora il credente cristiano. “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui” (1 Cor 3,16 s.). “O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?” (1 Cor 6,19). La presenza dello Spirito, in altre parole, consacra l’uomo a Dio, e costituisce un invito pressante a vivere una vita santa. Allo stesso tempo, dice Paolo, la presenza dello Spirito è soltanto un inizio, ‘le primizie’ (2 Cor 1,22; 5,5; Ef 1,14; Rm 8,23). Cristo è la ‘pietra angolare’ perché l’edificio possa crescere bene, “per essere tempio santo nel Signore. In lui anche voi venite edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito” (Ef 2,21-2).

4. La liberazione dal male. Spesso Paolo parla della salvezza in Cristo come un’opera di liberazione e di redenzione.  “L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8,19-21).
L’agire dello Spirito raggiunge lo stesso effetto: “Il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà” (2 Cor 3,17). Anche nella lettera ai Gàlati, Paolo parla della “libertà che abbiamo in Cristo Gesù” (2,4). Di fronte a coloro che vogliono sottomettere i credenti alla schiavitù delle ‘opere della legge’, Paolo ricorda ai cristiani che “Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (Gal 5,1). Allo stesso tempo, insiste che questa nuova libertà non può mai offrire al credente il pretesto di peccare. “Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne” (Gal 5,13).
Paolo, malgrado lo sfondo linguistico di tipo stoico che caratterizza i suoi scritti, non si interessa apertamente alla questione filosofica del libero arbitrio, cioè la capacità umana di scegliere tra diverse opzioni. Parla piuttosto della liberazione dell’uomo — che vive sotto la schiavitù del male/peccato, della legge, della morte, della concupiscenza, del fatalismo — che è il frutto della grazia divina. Consideriamo ora questi particolari della liberazione cristiana.
Prima di tutto, si tratta di una liberazione dal peccato, perché l’uomo, secondo Rm 7, ne è dominato, anche se è stato rigenerato dalla grazia di Cristo, secondo l’insegnamento delle grandi lettere paoline (Gal 5, Rm 8). Dovuto a questa liberazione possiamo trionfare sulla ‘carne’, sull’uomo vecchio, anche se sarà necessaria una battaglia che durerà fino alla morte (Col 3,5-9; Rm 6,12-23; 8,5-13; Ef 4,17s.). Si capisce comunque che non si tratta semplicemente di una lotta contro la mera debolezza della carne, ma una vera e propria lotta spirituale, contro le forze del male. “La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,12).
Più complesso poi è la liberazione dalla legge di cui parla Paolo specialmente nella Lettera ai Gàlati (3,1-5,12). Certamente l’Apostolo non incoraggia i cristiani a trascurare il compimento della volontà di Dio. Anche la legge giudaica scritta (il Talmud) è una guida per la retta condotta. Tuttavia essa non è in grado di produrre la giustificazione dell’uomo. La legge non è fonte di peccato, non ne è l’equivalente, anche se può diventare uno strumento del peccato, perché rivela l’agire peccaminoso dell’uomo e perché l’uomo tende a vantarsi orgogliosamente delle opere compiute in conformità con la legge. Secondo l’Apostolo, la legge è il Pedagogo (Gal 3,24), in quanto preparazione per la venuta del Cristo. Con eccezionale insistenza Paolo insegna che il neo-converso dal paganesimo non ha più bisogno di aggrapparsi alla legge giudaica, ai riti, alle regole alimentari, alla circoncisione, ecc. Tuttavia, il cristiano è obbligato a vivere una vita santa, seguendo in tutto la volontà di Dio (Gal 5,1-6; Col 2,16-23). È lo Spirito Santo ad interiorizzare in ciascuno la volontà divina: “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è legge” (Gal 5,22 s.); “ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la legge” (5,18).
L’uomo viene liberato anche dalla morte. Come nell’Antico Testamento (Gn 3,17-19; Sap 1,13 s.; 2,23), Paolo collega strettamente la morte con il peccato. “Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato” (Rm 5,12). E dopo: “Il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 6,23). In effetti, così come la morte è entrata nel mondo a causa del peccato, essa sarà superata nella risurrezione finale (1 Cor 15,3-58).
Inoltre, Paolo parla della liberazione dalla concupiscenza e dalla debolezza. Dio assiste l’uomo nella sua debolezza. Quando Paolo si lamenta della ‘spina nella sua carne’, il Signore gli risponde: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Cor 12,9). Per questo, conclude, “mi vanterò… ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (ibid). Lo spirito dell’uomo lo tira in su, la carne in giù. Però la grazia è più forte del peccato: “Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti” (Rm 5,15).
Infine, l’uomo viene liberato dal fatalismo, dalle oscure forze del male, e dai sofismi filosofici: “così anche noi quando eravamo fanciulli, eravamo come schiavi degli elementi del mondo… Ma un tempo, per la vostra ignoranza di Dio, voi eravate sottomessi a divinità, che in realtà non lo sono. Ora invece che avete conosciuto Dio, anzi da lui siete stati conosciuti, come potete rivolgervi di nuovo a quei deboli e miserabili elementi, ai quali di nuovo come un tempo volete servire?” (Gal 4,3.8-9). “Fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo.” (Col 2,8).

5. Il perdono dei peccati (la giustificazione). Secondo san Paolo, il primo effetto o frutto della nuova vita in Cristo, dell’incorporazione a Lui, è il perdono dei peccati, ovvero la ‘giustificazione’. Si tratta di una questione molto sviluppata lungo le sue lettere, specialmente in Romani e Gàlati. Come abbiamo visto, la schiavitù da cui viene liberato l’uomo non era imposta dalla materia; neppure ha a che vedere con i semplici limiti della condizione creata. Quando parla dell’uomo e del cosmo Paolo non è dualista. Il punto di partenza per la giustificazione invece è il peccato, e perciò l’opera di rigenerazione, o ‘nuova creazione’, ha come primo effetto la salvezza, oppure il perdono dei peccati. Per questa ragione, in Rm 5,12 si insiste che “tutti hanno peccato”.
Paolo parla della ‘riconciliazione’ tra Dio e l’uomo (Col 1,20). Però si deve notare — anche se sembra qualcosa di ovvio — che non si tratta di una colpa simmetrica, perché soltanto l’uomo ha peccato. Perciò in realtà la riconciliazione è un’opera di misericordia divina, di pura grazia, di perdono gratuito. C’è una riconciliazione, certamente, però essa parte esclusivamente da Dio, l’unico offeso, che non può essere placato dall’abbondanza delle ‘opere’ umane. L’uomo non può prendere l’iniziativa né contribuire direttamente alla sua riconciliazione con Dio. Per questo Paolo insiste che “era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione” (2 Cor 5,19). Il testo dice letteralmente: ‘Dio era in Cristo riconciliando a sé il mondo’.
Quando Paolo afferma che Cristo in diversi modi ‘si fece peccato’, non si tratta ovviamente di peccati personali da Lui commessi. Piuttosto si deve dire che Cristo ha addossato su di sé il peccato dell’uomo, riconciliandolo con Dio nel modo più profondo possibile. “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (1 Cor 5,21). E altrove: “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, poiché sta scritto: ‘Maledetto chi è appeso al legno’” (Gal 3,13, citando Dt 27,26). Cristo non era il peccatore, però è stato lui a farsi volontariamente sacrificio e vittima per il peccato, e il sacrificio fu efficace dovuto alla sua completa innocenza. “Camminate nella carità”, si legge nella lettera agli Efesini, “nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato sé stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” (Ef 5,2). E nella lettera agli Ebrei, “una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli [Cristo] è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di sé stesso” (Eb 9,28).
Scrivendo ai cristiani di Corinto (2 Cor 5,19) Paolo dice che la riconciliazione con Dio implica che le colpe non vengano più ‘imputate’ all’uomo (cf. anche Rm 5,13). Testi di questo genere sono stati interpretati nella tradizione luterana come affermazioni di una giustificazione meramente estrinseca o forense del peccatore.  Ovvero, Dio semplicemente dichiarerebbe il peccatore perdonato in base al gesto sacrificale di Cristo. Cristo prende il nostro posto dinanzi al Padre, e viene castigato per noi. Infatti la parola biblica dikaioún, ‘giustificare’, vuole dire in aramaico ‘dichiarare giusto’. Nel Nuovo Testamento, però, la dichiarazione di innocenza esprime solo una parte del significato dell’espressione ‘giustificazione del peccatore’. Per questa precisa ragione si è inventato un neologismo cristiano in lingua latina, iustificatio, che vuole dire letteralmente ‘rendere giusto’.  Il peccatore infatti viene dichiarato giusto e perdonato, ma viene anche reso giusto. Con l’opera di Cristo si verifica qualcosa che va più in là dell’efficacia dei riti ebraici della purificazione, che esprimono una purezza perlopiù esteriore. Parlando del Battesimo, Paolo insiste: “siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio!” (1 Cor 6,11).

6. L’impegno cristiano per la santità di vita. Il campo di prova per i cristiani giustificati e santificati è quello della santità di vita. Certo, gli uomini non si giustificano in base alle buone opere. Però le buone opere devono essere presenti nella vita del giustificato, come frutto e manifestazione della grazia. I cristiani vengono chiamati da Paolo più di trenta volte ‘i santi’,  quelli cioè che vivono una vita santa e virtuosa. La vita di Cristo presente in loro li spinge ad una vita virtuosa e a diffondere il bonus odor Christi, ‘il profumo di Cristo’ (2 Cor 2,15) verso le persone che hanno intorno a sé. Il peccato, invece, che non è in grado di produrre le opere buone, indica che la nuova vita non è presente ed attuante (Rm 1,29; Gal 5,18).

7. La grazia, perché? Dopo aver descritto, pur in modo succinto, la ricchissima dinamica della vita della grazia e della giustificazione negli scritti si san Paolo, bisogna chiedersi con quale finalità Dio ha voluto dare questo dono agli uomini che credono al suo Figlio fatto uomo? Perché si è ‘in grazia’, ‘in Cristo’? Perché si è destinati a vivere come figli di Dio, a ricevere il regno di Dio in eredità? Queste domande ci portano alle ultime due questioni attinenti alla teologia paolina della grazia: la finalità apostolica della vita dei credenti in Cristo, e il disegno divino di ‘ricapitolare tutte le cose in Cristo’.

IV. Vivendo in Cristo per comunicare la vita di Cristo agli uomini
Paolo parla della ‘grazia’ (cháris) come una realtà semplice, unica, che esprime e contiene il dono di Dio in Gesù Cristo agli uomini. Inoltre, parla della presenza nella vita della Chiesa dei carismi (charísmata), ovvero dei doni divini speciali che facilitano la comunicazione della Buona Novella all’umanità, rendendo possibile la missione universale della Chiesa. Detto diversamente, la grazia cristiana, pur destinata alla giustificazione del singolo, spinge ugualmente verso l’apostolato dei cristiani. Charitas Christi urget nos, ‘la carità di Cristo ci spinge’, dice Paolo (2 Cor 5,14).

1. L’Apostolo Paolo. Certamente Paolo applica questo principio in primo luogo a sé stesso, affermando che “mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (1 Cor 9,22). Egli si sente obbligato ad evangelizzare: “guai a me se non annuncio il Vangelo” (1 Cor 9,16; cf. Rm 1,5; 12,13; 15,15s). Bisogna notare che la grazia della conversione che Paolo ricevette sul cammino di Damasco non era semplicemente quella della conversione personale, ma proprio la conversione per una nuova ed universale missione.  Di Paolo Gesù disse ad Ananìa: “egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome” (At 9,15 s.). E nella lettera ai Gàlati, dice l’Apostolo: “ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunziassi in mezzo ai pagani” (Gal 1,15 s.). Questa grazia di Dio in Paolo divenne poi oltremodo feconda (2 Cor 12,5-10).
La contrapposizione paolina tra la fede e le opere, già accennata, fa riferimento a due questioni. Da una parte, alla vita personale in ogni credente: l’uomo non deve considerare le proprie opere in uno spirito di auto-compiacenza, ma sperare la salvezza solo da Dio in cui crede e da cui riceve la giustizia. Dall’altra parte, però, la contrapposizione tra fede e opere indica anche che i credenti non devono agire in modo tale da stabilire delle frontiere nei confronti della parola di Dio,  della forza salvifica che Dio ha spiegato in Gesù Cristo. La forza del Vangelo non richiede il compimento preciso e scrupoloso di una serie di regole o azioni di tipo istituzionale, ‘le opere della legge’. Detto diversamente, l’appartenenza meramente passiva alla Chiesa, come comunità salvata, non è sufficiente per assicurarsi la giustificazione individuale. È necessaria la fede, che apre l’uomo ai doni divini per sé ed anche per gli altri.
Quindi si possono fare due letture, complementari tra di loro, della contrapposizione paolina tra fede e opere: una lettura più individuale, che guarda alle opere dell’individuo di fronte a Dio e alla necessità della fede personale, la fiducia, l’umiltà; e una lettura più ecclesiale, o sociale, che guarda piuttosto all’appartenenza comune alla Chiesa, all’adesione alla sua dottrina e specificamente alla qualità intrinsecamente espansiva e contagiosa (missionaria) della fede.

2. L’apostolo cristiano. Ci si può chiedere, comunque, se questo forte legame, nella persona di Paolo, tra l’essere in Cristo e l’essere apostolo, come due aspetti inscindibili dalla sua personale vocazione, si verifichi anche nella vita degli altri cristiani. A questa domanda si può rispondere in un modo sostanzialmente positivo.  Tre osservazioni vanno comunque fatte.
In primo luogo, la forza e l’impegno della propria e intrasferibile vocazione come ‘apostolo delle genti’ sembra lasciare all’ombra l’apostolato degli altri cristiani, anche quello degli altri Apostoli (2 Cor 11,22-9). “Grazie a Dio, io parlo con il dono delle lingue più di tutti voi” (1 Cor 14,18). “Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me” (1 Cor 15,10).
Poi, è chiaro che il singolare impegno apostolico di Paolo non costituisce una negazione dell’apostolato degli altri cristiani e neppure quello degli altri Apostoli. Come dimostrano le sue lettere, Paolo contava su molti collaboratori. Si parla dell’impegno missionario ad esempio di credenti come Priscilla e Aquila che per propria iniziativa istruivano il predicatore Apollo (At 18,26).
Infine, dal punto di vista più teologico, Paolo afferma lo stretto legame tra la grazia (la vita di Cristo nei cristiani) e i ‘carismi’, perché tutti e due hanno l’origine nello stesso Spirito e sono guidati dall’amore, ed indirizzati all’amore. “Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti” (1 Cor 12,4-6). Non si può parlare, quindi, di carismi privati, ricevuti in beneficio proprio; sono tutti per il bene della Chiesa e tramite essa in favore dell’umanità. Lo spiega Paolo a lungo nella prima lettera ai Corinzi (12,7-11).

V. Predestinazione e ricapitolazione di tutte le cose in Cristo
Abbiamo appena visto che la grazia di Dio data agli uomini, la nuova vita in Cristo, ha una finalità intrinsecamente missionaria. A ciò si deve aggiungere però che la finalità ultima della grazia sta nella rivelazione definitiva del disegno di Dio in Cristo, ovvero la ricapitolazione di tutta la creazione in Cristo. Questo disegno, nascosto in Dio (il mystérion di cui si parla in Colossesi ed Efesini),  sarà rivelato senz’altro alla fine dei tempi, ma è stato rivelato già in Gesù Cristo, centro della storia della salvezza. Perciò, “quando tutto… sarà stato sottomesso [a Cristo], anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1 Cor 15,28). Consideriamo la questione in tre momenti.
Il primo momento. Il punto di partenza del disegno divino, secondo Paolo, è la predestinazione divina. La salvezza operata da Dio nel mondo trova sempre la sua radice nella predestinazione, fondata sul disegno originario di Dio. Egli parla dei cristiani predestinati “a conoscere la sua volontà” (At 22,14), “ad essere conforme all’immagine del Figlio suo” (Rm 8,29), “ad essere per lui [Dio] figli adottivi mediante Gesù Cristo” (Ef 1,5), “secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà” (Ef 1,11). È chiaro comunque che l’oggetto primordiale della predestinazione è Gesù Cristo in persona, il quale, secondo la prima lettera di Pietro, “fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi” (1 Pt 1,20). L’espressione più compiuta di questa dottrina si trova nel primo capitolo delle lettera agli Efesini.
“Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato… il disegno di ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra” (Ef 1,3-10).
Sono quattro gli elementi principali di questo brano. (1) I cristiani sono stati ‘predestinati’, o ‘scelti’ in Cristo. (2) La finalità di questa predestinazione è quella di diventare ‘santi e immacolati’, ‘nella carità’, vivendo come ‘figli adottivi’. Tutto ciò (3) avviene ‘per opera di Gesù Cristo’, ovvero per la grazia ricevuta ‘nel suo Figlio’, e (4) perché ‘sia benedetto Dio’, ‘a lode e gloria della sua grazia’. Con molta frequenza infatti Paolo insiste che la contemplazione cristiana del graduale dispiegarsi di questo progetto si esprime in primo luogo nella necessità imperativa di lodare Dio, di ringraziarlo per i suoi doni,  appunto perché tutto sia ‘a gloria del nome di Gesù’.
Il secondo aspetto. Se si parla di predestinazione e del progetto divino di portare tutto sotto il dominio effettivo di Dio in Cristo, ci si potrebbe chiedere se non si trovi un certo determinismo in partenza, basato sul disegno divino in cui tutto sia stato previamente deciso e preordinato? Già abbiamo visto che la libertà di cui parla Paolo non si identifica in primo luogo con il libero arbitrio, ovvero con l’autonoma autodeterminazione di ogni uomo, ma piuttosto con la liberazione dalla schiavitù del peccato. Inoltre, la riflessione di Paolo si deve comprendere alla luce del destino del Popolo Ebreo, oggetto della promessa divina (Rm 9-11), e non tanto degli individui umani. Paolo parla nella lettera ai Romani di Dio che sopporta “con grande magnanimità gente meritevole di collera, pronta per la perdizione” (Rm 9,22). E Dio agisce in questo modo “per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso gente meritevole di misericordia, da lui predisposta alla gloria” (Rm 9,23). Però ancora rimane aperta la domanda: non c’è nella forte dottrina paolina della predestinazione, dell’elezione, della vocazione, una certa insinuazione di predeterminismo? Si possono fare tre osservazioni.
Prima, quando Paolo parla di coloro che si perdono, sta pensando alla perdita della promessa da parte del popolo eletto affinché siano salvati i pagani. Non si tratta invece della perdita ‘sicura’ o necessaria di alcuni individui, prevista da tutta l’eternità, come se fosse il prezzo da pagare per ottenere la salvezza degli altri. Parlando del destino del popolo ebraico, Paolo dice che “i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11,29). Poi, la predestinazione non implica un processo automatico di salvezza di alcuni individui; in ogni tappa del cammino del credente, la libera risposta dell’uomo viene suscitata: “quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati” (Rm 8,29s.). Terza, infine, la grazia data non è arbitraria nei suoi effetti, ma è destinata a superare il peccato e a portare l’uomo alla salvezza; l’uomo viene pienamente, spesso faticosamente, coinvolto in questo processo. Inoltre, nella lettera agli Efesini la predestinazione è sempre riferita a Cristo oppure, in Lui, alla collettività cristiana. Afferma spesso che Dio gli ha amato personalmente, gli ha salvato, chiamato, inviato. Però no dice mai che gli ha predestinato. L’oggetto della predestinazione è sempre Cristo, e in Lui il ‘noi’ (Ef 1,4-7).
Terzo ed ultimo aspetto. La ‘ricapitolazione’ di tutto in Cristo compromette l’intera creazione e non solo l’uomo, oppure la Chiesa. Con forza Paolo parla de “l’ardente aspettativa della creazione”, che “è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio… Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (Rm 8,19-23). Il capitolo centrale di questa ricapitolazione sarà la risurrezione corporale dei morti, promessa alla fine dei tempi (1 Cor 15). In quel momento, quando “il Figlio sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1 Cor 15,28).

Giovanni Paolo II (Udienza 21 luglio 1982): 1. “Anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente, aspettando . . . la redenzione del nostro corpo” (Rm 8, 23).

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1982/documents/hf_jp-ii_aud_19820721_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 21 luglio 1982

1. “Anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente, aspettando . . . la redenzione del nostro corpo” (Rm 8, 23).

San Paolo nella lettera ai Romani vede questa “redenzione del corpo” in una dimensione antropologica e insieme cosmica . . . La creazione “infatti è stata sottomessa alla caducità” (Rm 8, 20). Tutta la creazione visibile, tutto il cosmo porta su di sé gli effetti del peccato dell’uomo. “Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm 8, 22). E contemporaneamente tutta “la creazione . . . attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio” e “nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8, 19.20-21).
2. La redenzione del corpo è, secondo Paolo, oggetto della speranza. Questa speranza è stata innestata nel cuore dell’uomo in un certo senso subito dopo il primo peccato. Basta ricordare le parole del libro della Genesi, che vengono tradizionalmente definite come il “proto-vangelo” (cf. Gen 3, 15) e quindi, potremmo dire, come l’inizio della Buona Novella, il primo annunzio della salvezza. La redenzione del corpo si collega, secondo le parole della lettera ai Romani, proprio con questa speranza, nella quale – come leggiamo – “noi siamo stati salvati” (Rm 8, 24). Mediante la speranza, che risale agli inizi stessi dell’uomo, la redenzione del corpo ha la sua dimensione antropologica: è la redenzione dell’uomo. Contemporaneamente essa si irradia, in un certo senso, su tutta la creazione, che sin dall’inizio è stata legata in modo particolare all’uomo ed a lui subordinata (cf. Gen 1, 28-30). La redenzione del corpo è, quindi, la redenzione del mondo: ha una dimensione cosmica.
3. Presentando nella lettera ai Romani l’immagine “cosmica” della redenzione, Paolo di Tarso colloca al suo stesso centro l’uomo, così come “in principio” questi era stato collocato al centro stesso dell’immagine della creazione. È proprio l’uomo, sono gli uomini, quelli che possiedono “le primizie dello Spirito”, che gemono interiormente, aspettando la redenzione del loro corpo (cf. Rm 8, 23). Cristo, che è venuto per svelare pienamente l’uomo all’uomo rendendogli nota la sua altissima vocazione (cf. Gaudium et Spes, 22), parla nel Vangelo della stessa divina profondità del mistero della redenzione, che proprio in lui trova il suo specifico soggetto “storico”. Cristo, quindi, parla nel nome di quella speranza, che è stata innestata nel cuore dell’uomo già nel “proto-vangelo”. Cristo dà compimento a questa speranza, non soltanto con le parole del suo insegnamento, ma soprattutto con la testimonianza della sua morte e risurrezione. Così, dunque, la redenzione del corpo si è già compiuta in Cristo. In lui è stata confermata quella speranza, nella quale “noi siamo stati salvati”. E, al tempo stesso, quella speranza è stata riaperta di nuovo verso il suo definitivo compimento escatologico. “La rivelazione dei figli di Dio” in Cristo è stata definitivamente indirizzata verso quella “libertà e gloria”, che devono essere definitivamente partecipate dai “figli di Dio”.
4. Per comprendere tutto ciò che comporta “la redenzione del corpo” secondo la lettera di Paolo ai Romani, è necessaria una autentica teologia del corpo. Abbiamo cercato di costruirla, riferendoci prima di tutto alle parole di Cristo. Gli elementi costitutivi della teologia del corpo sono racchiusi in ciò che Cristo dice, facendo richiamo al “principio”, in relazione alla domanda circa l’indissolubilità del matrimonio (cf. Mt 19, 8), in ciò che egli dice della concupiscenza, richiamandosi al cuore umano, nel Sermone della Montagna (cf. Mt 5, 28), ed anche in ciò che dice richiamandosi alla risurrezione (cf. Mt 22, 30). Ciascuno di questi enunziati nasconde in sé un ricco contenuto di natura sia antropologica, sia etica. Cristo parla all’uomo – e parla dell’uomo: dell’uomo che è “corpo”, e che è stato creato come maschio e femmina a immagine e somiglianza di Dio; parla dell’uomo, il cui cuore è sottoposto alla concupiscenza, e infine dall’uomo, davanti al quale si apre la prospettiva escatologica della risurrezione del corpo.
Il “corpo” significa (secondo il libro della Genesi) l’aspetto visibile dell’uomo e la sua appartenenza al mondo visibile. Per san Paolo esso significa non soltanto questa appartenenza, ma a volte anche l’alienazione dell’uomo dall’influsso dello Spirito di Dio. L’uno e l’altro significato rimane in relazione alla “redenzione del corpo”.
5. Poiché nei testi precedentemente analizzati Cristo parla della profondità divina del mistero della redenzione, le sue parole servono proprio quella speranza, di cui si parla nella lettera ai Romani. “La redenzione del corpo” secondo l’Apostolo è, in definitiva, ciò che noi “attendiamo”. Così attendiamo proprio la vittoria escatologica sulla morte, alla quale Cristo rese testimonianza soprattutto con la sua risurrezione. Alla luce del mistero pasquale, le sue parole sulla risurrezione dei corpi e sulla realtà dell’“altro mondo”, registrate dai Sinottici, hanno acquistato la loro piena eloquenza. Sia Cristo, sia poi Paolo di Tarso, hanno proclamato l’appello all’astensione dal matrimonio “per il Regno dei cieli” proprio in nome di questa realtà escatologica.
6. Tuttavia, la “redenzione del corpo” si esprime non soltanto nella risurrezione quale vittoria sulla morte. Essa è presente anche nelle parole di Cristo, indirizzate all’uomo “storico”, sia quando esse confermano il principio dell’indissolubilità del matrimonio, come principio proveniente dal Creatore stesso, sia anche quando – nel Discorso della Montagna – Cristo invita a superare la concupiscenza, e ciò perfino nei movimenti unicamente interiori del cuore umano. Dell’uno e dell’altro di questi enunziati-chiave bisogna dire che si riferiscono alla moralità umana, hanno un senso etico. Qui si tratta non della speranza escatologica della risurrezione, ma della speranza della vittoria sul peccato, che può essere chiamata la speranza di ogni giorno.
7. Nella sua vita quotidiana l’uomo deve attingere al mistero della redenzione del corpo l’ispirazione e la forza per superare il male che è assopito in sé sotto forma della triplice concupiscenza. L’uomo e la donna, legati nel matrimonio, devono intraprendere quotidianamente il compito dell’indissolubile unione di quell’alleanza, che hanno stipulato tra di loro. Ma anche un uomo o una donna, che volontariamente hanno scelto la continenza per il Regno dei cieli, devono dare quotidianamente una viva testimonianza della fedeltà a una tale scelta, ascoltando le direttive di Cristo dal Vangelo e quelle dell’apostolo Paolo dalla prima lettera ai Corinzi. In ogni caso si tratta della speranza di ogni giorno, che, a misura dei normali compiti e delle difficoltà della vita umana, aiuta a vincere “con il bene il male” (Rm 12, 21). Infatti, “nella speranza noi siamo stati salvati”: la speranza di ogni giorno manifesta la sua potenza nelle opere umane e perfino negli stessi movimenti del cuore umano, facendo strada, in un certo senso, alla grande speranza escatologica legata con la redenzione del corpo.
8. Penetrando nella vita quotidiana con la dimensione della morale umana, la redenzione del corpo aiuta, prima di tutto, a scoprire tutto questo bene, in cui l’uomo riporta la vittoria sul peccato e sulla concupiscenza. Le parole di Cristo, che derivano dalla divina profondità del mistero della redenzione, permettono di scoprire e di rafforzare quel legame, che esiste tra la dignità dell’essere umano (dell’uomo o della donna) e il significato sponsale del suo corpo. Permettono di comprendere e attuare, in base a quel significato, la libertà matura del dono, che in un modo si esprime nel matrimonio indissolubile, e in un altro mediante l’astensione dal matrimonio per il Regno di Dio. Su queste vie diverse Cristo svela pienamente l’uomo all’uomo, rendendogli nota la “sua altissima vocazione”. Questa vocazione è iscritta nell’uomo secondo tutto il suo “compositum” psico-fisico, proprio mediante il mistero della redenzione del corpo.
Tutto ciò che abbiamo cercato di fare nel corso delle nostre meditazioni, per comprendere le parole di Cristo, ha il suo fondamento definitivo nel mistero della redenzione del corpo.

Gesù insegna alle multitudini

Gesù insegna alle multitudini dans immagini sacre Christ_feeding_the_multitude%20PD%20WEB

http://www.madisondiocese.org/Ministry/Worship/PrayerSacraments/Eucharist/tabid/1664/Default.aspx

Publié dans:immagini sacre |on 4 juillet, 2011 |Pas de commentaires »
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