Archive pour juillet, 2011

Siamo del Signore (Gianfranco Ravasi)

dal sito:

http://www.sanpaolo.org/vita/0906vp/0906vp70.htm 

Siamo del Signore

di monsignor GIANFRANCO RAVASI
    
Oggi, come nel passato, siamo circondati dalle più diverse devozioni e « vie spirituali ». Difficili i riferimenti a Paolo. L’asse portante dell’epistolario, della sua teologia e della relativa spiritualità è la cristologia. 

A conclusione dell’Anno paolino riassumiamo nel dossier il pensiero dell’Apostolo su alcuni temi fondamentali. 

Nella mente di molti cristiani la figura di san Paolo è inesorabilmente inchiodata allo stereotipo del teologo rigoroso e gelido, teorico della nuova religione fondata da Gesù con ben altra intensità. È, questa, un’idea che ha attraversato il pensiero anche di qualche studioso, come l’ottocentesco francese Ernest Renan che, nel suo Saint Paul (1869), non esitava a scrivere che «il vero cristianesimo, destinato a durare eternamente, viene dai vangeli, non dalle epistole di Paolo che, in verità, sono piuttosto uno scoglio e la causa dei principali difetti della teologia cristiana». E continuava elencando i danni perpetrati dall’Apostolo, divenuto «il padre del sottile Agostino, dell’arido Tommaso d’Aquino, del tetro calvinista, del bisbetico giansenista». Proprio il contrario di quel Gesù che è «il padre di tutti coloro che cercano il riposo delle loro anime». Su questa scia anche il nostro Antonio Gramsci non avrà imbarazzo a classificare Paolo come «il Lenin del cristianesimo»!
In realtà, una lettura più accurata delle sue lettere, accompagnata dalla testimonianza della sua attività missionaria lasciataci dal discepolo Luca negli Atti degli Apostoli, smentisce questo ritratto svelando il volto di un pastore consapevole della necessità di fondare seriamente la conoscenza della fede. Se, allora, il suo epistolario rivela un intreccio tra annunzio e vita ecclesiale (si legga, ad esempio, la prima lettera ai Corinzi con la sua puntigliosa descrizione dei problemi che tormentano quella comunità e con le relative proposte pastorali dell’Apostolo), è però altrettanto vero che la riflessione teologica è vigorosa ed esigente (e in questo senso emblematica è la lettera ai Romani, il suo capolavoro di pensiero). Aveva, quindi, ragione Albert Schweitzer, il celebre filantropo e teologo, quando affermava che «san Paolo ha assicurato per sempre nel cristianesimo il diritto di pensare. Parte dalla fede della comunità, ma non ammette di doversi fermare dove quella finisce. Egli fonda per sempre la fiducia che la fede non ha nulla da temere dal pensiero. Paolo è il santo protettore del pensiero nel cristianesimo!».

Analisi del pensiero paolino
Schweitzer curiosamente scriveva queste righe in un’opera del 1930 intitolata Die Mystik des Apostels Paulus: sì, la riflessione non è un percorso intellettuale indipendente rispetto alla spiritualità, ma con essa vigorosamente s’intreccia. È a questo punto legittima una domanda: qual è, allora, il nodo d’oro ove le due dimensioni del credere, quella fiduciale e la razionale s’incrociano? Le risposte date dagli esegeti paolini sono molteplici e le vorremmo ora elencare, non per mera erudizione, ma perché ci permettono di scoprire la complessa ricchezza della visione teologica e spirituale dell’Apostolo.
Così, a partire da Lutero, alcuni hanno visto il cuore della concezione paolina nella giustificazione attraverso la fede, un tema certo capitale in alcune Lettere (R. Bultmann, E. Käsemann, H. Hübner). Altri, invece, come il citato Schweitzer, colgono nell’unione mistica con Cristo (spesso affidata alla preposizione greca syn, « con », variamente unita ai verbi salvifici) il punto focale dell’annunzio paolino (così W. Wrede ed E. P. Sanders).
E la croce di Cristo, segno supremo della nostra redenzione? È proprio questa componente, esaltata in molte pagine paoline, la via scelta da altri studiosi per rispondere al nostro quesito (U. Wilckens, J. Becker). Per stare alla celebre espressione dell’inno incastonato nel capitolo 2 della Lettera ai Filippesi, è là che si consuma la kénosis del Verbo: il Figlio di Dio si « svuota », si « umilia », precipitando nell’abisso della mortalità, scegliendo la crocifissione, la morte più infamante della civiltà antica. Eppure, è proprio da quella croce che ha inizio l’ »esaltazione » pasquale del Risorto che rinnova e domina l’intera creazione.
Lungo questa direzione totalizzante, altri esegeti sono partiti per proporre una diversa concezione della prospettiva fondamentale del pensiero paolino. L’Apostolo è consapevole che la signoria di Cristo abolisce ogni frontiera ed è qui il cuore del messaggio che Paolo annunzia: la costante apertura verso orizzonti universalistici che conducono la Chiesa ad essere testimone fino agli estremi confini del mondo (così K. Stendahl, F. Watson, J. D. Dunn).
Infine, nella complessa analisi del pensiero paolino c’è chi ha visto come fattore decisivo e struttura unificante la cristologia: tra costoro sono da segnalare due figure rilevanti dell’esegesi cattolica del ’900, L. Cerfaux e R. Schnackenburg. Il Vangelo di san Paolo è, anche a nostro avviso, incentrato sul Cristo crocifisso e risorto, umiliato e glorioso, sorgente della nostra salvezza e principio della stessa redenzione cosmica. Si pensi – sia pure soltanto a livello statistico – che delle 535 presenze del nome di Gesù Cristo nel Nuovo Testamento almeno 400 sono accaparrate dall’epistolario paolino.
Frasi come «per me il vivere è Cristo» (Fil 1,21) o «nessuna creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù» (Rm 8,39) ne sono la formulazione tematica essenziale, consapevole com’è l’Apostolo che all’origine della sua vocazione, sulla via di Damasco, c’è quell’essere stato « ghermito », cioè afferrato da Cristo (Fil 3,12), così come la sua intera esistenza è stata «posseduta dall’amore di Cristo» (2Cor 5,14). Ed è per questo che egli deve dedicare tutta la sua vita ad annunziarlo al mondo: «Predicare per me il Vangelo non è un vanto, ma una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1Cor 9,16).

Cristo e l’evento pasquale
Certo, tutte queste traiettorie e altre indicate dagli studiosi hanno un loro significato rilevante per definire l’anima della spiritualità paolina. Non si può ignorare, ad esempio, il peso che ha il nesso tra il dono liberatorio della charis (grazia) divina e la risposta libera della pistis (fede) per l’antropologia teologica dell’Apostolo. Ma il vincolo che annoda la mistica, il paradosso della croce, l’annunzio evangelico, la stessa ecclesiologia («il corpo di Cristo che è la Chiesa», Col 1,24), e persino l’escatologia («Cristo in voi, speranza della gloria», Col 1,27), oltre naturalmente alla soteriologia («raggiungere la salvezza che è in Cristo Gesù», 2Tm 2,10) è sempre e solo Cristo e l’evento pasquale. Egli è la svolta radicale per l’esistenza del credente. Basti solo pensare all’interpretazione del battesimo cristiano offerta in Romani 6,3-6 e basata su uno stretto parallelismo tra la vicenda pasquale di Gesù e l’esperienza del cristiano.
Da un lato, c’è il sepolcro di pietra in cui è calato il corpo morto del Crocifisso. D’altro lato, ecco il sepolcro d’acqua in cui penetra « l’uomo vecchio », cioè il nostro « corpo del peccato », votato alla morte. Il sepolcro di Cristo, all’alba di Pasqua, viene scoperchiato e il Risorto sfolgora nella luce della Pasqua, immerso nella « gloria del Padre ». Similmente dal sepolcro del fonte battesimale esce la creatura umana redenta, ossia l’ »uomo nuovo », libero dalla sindone mortuaria del peccato e pronto a « camminare in una vita nuova ». Cristo, però, agli occhi di san Paolo, è anche alla radice della nuova creazione: il creato, infatti, è proteso «nella speranza di essere liberato dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21), così che «Cristo sia tutto in tutti» (Col 3,11).
Scrive uno dei nostri maggiori studiosi dell’Apostolo, Romano Penna: «Paolo ritiene che Cristo Signore sia l’iniziatore di una nuova stagione della storia e di una nuova identità antropologica dalle ricadute universalistiche, non paragonabile a un re come Davide o a un profeta come Isaia e neppure a un grande legislatore come Mosè, bensì soltanto a chi è anteriore a tutti costoro e non è appartenente al popolo storico di Israele, cioè ad Adamo, progenitore dell’intera umanità (cf 1Cor 15,21-22.45-47; Rm 5,12-21)».
L’asse portante dell’intero epistolario paolino, della sua teologia e della relativa spiritualità è, quindi, la cristologia e questa impostazione è una lezione vigorosa e necessaria anche per i nostri tempi nei quali si corre il rischio di inseguire percorsi religiosi più evanescenti.
A suggello, ci sembrano emblematici due motti paolini. Il primo pone il suo marchio sull’esistenza storica del cristiano: «Questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). L’altro, invece, si apre anche all’oltrevita: «Se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore. Infatti per questo Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi» (Rm 14,8-9).

monsignor Gianfranco Ravasi
presidente del Pontificio consiglio della cultura)  

Bibliografia
Bernard Ch. A., San Paolo mistico e apostolo, San Paolo 2000, Cinisello Balsamo; Cerfaux L., Cristo nella teologia di san Paolo, Ave 1969, Roma; Idem, L’itinerario spirituale di san Paolo, Gribaudi 1976, Torino; Dunn J. D. G., La teologia dell’apostolo Paolo, Paideia 1999, Brescia; Vanni U., « La spiritualità di Paolo », in Fabris R. ed., La spiritualità del Nuovo Testamento, Borla 1985, Roma, pp. 177-228.    

Barbaglio: “Il pensare di Paolo”

dal sito:

http://www.giuseppebarbaglio.it/articoli/n%2036-boxBarbaglio.pdf

Barbaglio: “Il pensare di Paolo”

Paolo è il vero fondatore del cristianesimo? È un pastore o un teologo? Dove ha trovato gli elementi fondamentali del suo pensiero? A Damasco o nella comunità di Antiochia? Che senso hanno le sue lettere? Il suo è un pensiero sistematico, o improvvisato e casuale? È possibile rinvenire un centro del suo argomentare? Non sono poche e di poco conto le domande che si impongono ad un cristiano che desidera approfondire un corpus letterario e teologico così importante del Nuovo Testamento. A tutto ciò aiuta a rispondere un bel libro di Giuseppe Barbaglio, un profondo conoscitore della figura e del pensiero dell’apostolo delle genti.1 In una prima parte del suo lavoro egli studia le caratteristiche formali del pensare di Paolo (pp. 15-100). Esso non si presenta come un pensiero strutturato filosoficamente, ma come un pensare teologico, un « fare teologia » non in vista di una dottrina ben definita (magari incentrata sulla sola fide, gabbia ermeneutica che da secoli imprigiona i suoi scritti), ma dinamicamente inserita in un processo dialogico, una strategia argomentativa, che lo vede interloquire con varie comunità. A partire non da una tabula rasa, ma da una ricca tradizione biblico-giudaica, messa a confronto con le ricchezze culturali del mondo greco-romano e con la vivacità teologica della comunità
di Antiochia, Paolo offre un pensare teologico espresso in forma epistolare. Questa è la forma più adatta con la quale interagire con i destinatari per rispondere alle loro domande e problematiche, e per indurli a un cambiamento di posizioni. « Provocato » e « occasionale » (ma non casuale o incidentale), il pensare di Paolo è « provocatorio » e dialogico, un pensare sempre motivante e argomentante. Paolo non è il fondatore del cristianesimo, ma colui che ha elaborato un pensare ermeneutico o interpretativo. L’unità del suo fare teologia non è dovuta a un tema (sola fide, escatologia ecc.) ma ad un fattore formale, il processo con cui egli pensa Dio e Cristo. La sua è un’ermenutica del vangelo. Paolo rilegge e ridefinisce razionalmente i punti fondamentali del vangelo nelle sue valenze più varie. Esso è predicazione cristiana, cioè polarità di parola efficace e di provocato ascolto di fede; è narrazione dell’evento Cristo, incentrato sul mistero della sua morte, risurrezione e parusia; è potenza divina di salvezza attiva nella predicazione degli evangelizzatori, rivelazione della indiscriminante giustizia di Dio. Il pensare di Paolo è occasionale e non sistematico, ma sempre coerente. Cristo è l’unico ed esclusivo mediatore salvifico per tutti, su un piede di pari dignità e condizioni d’accesso. In quanto crocifisso e risorto egli rappresenta l’intera umanità, rinnovata nel mistero pasquale. L’indicativo della grazia comporta l’imperativo di una risposta da persona viva perché libera nello Spirito. Tutto si realizza secondo le Scritture e si rende presente nell’evangelizzatore conformato al Cristo. Solus Christus, sola fides, sola gratia Christi. Nella seconda parte del libro (pp. 101-318) Barbaglio illustra in concreto, a partire da numerosi blocchi letterari delle sette lettere paoline indisputate, in che modo Paolo pensa e interpreta il vangelo di Cristo. Il cantus firmus del vangelo viene modellato sulle concrete necessità e situazioni delle comunità con le quali egli interloquisce. Una piccola summa del « fare teologia » proprio di Paolo, un vangelo vivo e attuale anche per oggi. (R. Mela)
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1 Barbaglio G., Il pensare di Paolo (La Bibbia nella storia 9bis), EDB, Bologna 2004, € 24,00. Il libro si pone in ideale continuità con il poderoso
volume che lo ha preceduto, sempre dello stesso autore: La teologia di Paolo. Abbozzi in forma epistolare (La Bibbia nella storia 9), EDB, Bologna 1999 (22001),
pp. 784, € 50,50.

Papa Benedetto, su Aquila e Priscilla anche una catechesi del Papa (7 febbraio 2007), dopo il saluto alle diocesi lombarde

su Aquila e Priscilla anche una catechesi del Papa (2007), dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2007/documents/hf_ben-xvi_aud_20070207_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aquila e Priscilla

Aula Paolo VI
Mercoledì, 7 febbraio 2007 

Saluto ai pellegrini presenti nella Basilica Vaticana convenuti dalle Diocesi della Lombardia, in occasione della Visita “ad Limina Apostolorum” dei Vescovi Lombardi:

Cari fratelli e sorelle delle Diocesi Lombarde!

Saluto anzitutto voi, cari Fratelli nell’Episcopato, convenuti a Roma per la Visita ad Limina Apostolorum. Con voi saluto i fedeli che vi accompagnano in questo significativo momento di intensa comunione con il Successore di Pietro. La Chiesa che vive in Lombardia, e qui rappresentata in tutte le sue componenti, ha un ruolo importante da continuare a svolgere nella società lombarda: annunciare e testimoniare il Vangelo in ogni suo ambito, specialmente dove emergono i tratti negativi di una cultura consumistica ed edonistica, del secolarismo e dell’individualismo, dove si registrano antiche e nuove forme di povertà con segnali preoccupanti del disagio giovanile e fenomeni di violenza e di criminalità. Se le Istituzioni e le varie agenzie educative sembrano talora attraversare momenti di difficoltà, non mancano, però, grandi risorse ideali e morali nel vostro popolo, ricco di nobili tradizioni familiari e religiose. Ho visto nel colloquio con voi, cari Fratelli nell’Episcopato, come la Chiesa in Lombardia è realmente una Chiesa viva, ricca del dinamismo della fede e anche di spirito missionario, capace e decisa a trasmettere la fiaccola della fede alle future generazioni e al mondo del nostro tempo. Vi sono grato per questo dinamismo della fede, che vive proprio nelle Diocesi della Lombardia.
Vasto è il vostro campo d’azione. Si tratta, da una parte, di difendere e promuovere la cultura della vita umana e della legalità, dall’altra è necessaria una sempre più coerente conversione a Cristo personale e comunitaria. Per crescere infatti nella fedeltà all’uomo, creato a immagine e somiglianza del Creatore, occorre con coerenza penetrare più intimamente nel mistero di Cristo e diffonderne il messaggio di salvezza. Dobbiamo fare di tutto per conoscere sempre meglio la figura di Gesù, per avere di Lui una conoscenza non soltanto «di seconda mano», ma una conoscenza attraverso l’incontro nella preghiera, nella liturgia, nell’amore per il prossimo. E’ un impegno certamente difficile, ma sono di conforto le parole del Signore: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). È con noi il Signore, anche oggi, domani, fino alla fine del mondo! Si intensifichi, pertanto, la vostra testimonianza evangelica perchè in ogni ambiente i cristiani, guidati dallo Spirito Santo che dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio (cfr.1 Cor 3, 16-17), siano segni vivi della speranza soprannaturale. Il nostro tempo, con tante angosce e problemi, ha bisogno di speranza. E la nostra speranza viene proprio dalla promessa del Signore e dalla sua presenza. Vi incoraggio, cari Vescovi, a guidare l’alacre popolo lombardo su tale cammino, contando in ogni situazione sull’indefettibile assistenza divina. Andiamo avanti con l’aiuto del Signore in questa direzione!

* * *

Aquila e Priscilla

Cari fratelli e sorelle,

facendo un nuovo passo in questa sorta di galleria di ritratti dei primi testimoni della fede cristiana, che abbiamo iniziato alcune settimane fa, prendiamo oggi in considerazione una coppia di sposi. Si tratta dei coniugi Priscilla e Aquila, che si collocano nell’orbita dei numerosi collaboratori gravitanti intorno all’apostolo Paolo, ai quali avevo già brevemente accennato mercoledì scorso. In base alle notizie in nostro possesso, questa coppia di coniugi svolse un ruolo molto attivo al tempo delle origini post-pasquali della Chiesa.
I nomi di Aquila e Priscilla sono latini, ma l’uomo e la donna che li portano erano di origine ebraica. Almeno Aquila, però, proveniva geograficamente dalla diaspora dell’Anatolia settentrionale, che si affaccia sul Mar Nero – nell’attuale Turchia -, mentre Priscilla, il cui nome si trova a volte abbreviato in Prisca, era probabilmente un’ebrea proveniente da Roma (cfr At 18,2). È comunque da Roma che essi erano giunti a Corinto, dove Paolo li incontrò all’inizio degli anni ’50; là egli si associò ad essi poiché, come ci racconta Luca, esercitavano lo stesso mestiere di fabbricatori di tende o tendoni per uso domestico, e fu accolto addirittura nella loro casa (cfr At 18,3). Il motivo della loro venuta a Corinto era stata la decisione dell’imperatore Claudio di cacciare da Roma i Giudei residenti nell’Urbe. Lo storico romano Svetonio ci dice su questo avvenimento che aveva espulso gli Ebrei perché “provocavano tumulti a motivo di un certo Cresto” (cfr “Vite dei dodici Cesari, Claudio”, 25). Si vede che non conosceva bene il nome — invece di Cristo scrive “Cresto” — e aveva un’idea solo molto confusa di quanto era avvenuto. In ogni caso, c’erano delle discordie all’interno della comunità ebraica intorno alla questione se Gesù fosse il Cristo. E questi problemi erano per l’imperatore il motivo per espellere semplicemente tutti gli Ebrei da Roma. Se ne deduce che i due coniugi avevano abbracciato la fede cristiana già a Roma negli anni ’40, e ora avevano trovato in Paolo qualcuno che non solo condivideva con loro questa fede — che Gesù è il Cristo — ma che era anche apostolo, chiamato personalmente dal Signore Risorto. Quindi, il primo incontro è a Corinto, dove lo accolgono nella casa e lavorano insieme nella fabbricazione di tende.
In un secondo tempo, essi si trasferirono in Asia Minore, a Efeso. Là ebbero una parte determinante nel completare la formazione cristiana del giudeo alessandrino Apollo, di cui abbiamo parlato mercoledì scorso. Poiché egli conosceva solo sommariamente la fede cristiana, «Priscilla e Aquila lo ascoltarono, poi lo presero con sé e gli esposero con maggiore accuratezza la via di Dio» (At 18,26). Quando da Efeso l’apostolo Paolo scrive la sua Prima Lettera ai Corinzi, insieme ai propri saluti manda esplicitamente anche quelli di «Aquila e Prisca, con la comunità che si raduna nella loro casa» (16,19). Veniamo così a sapere del ruolo importantissimo che questa coppia svolse nell’ambito della Chiesa primitiva: quello cioè di accogliere nella propria casa il gruppo dei cristiani locali, quando essi si radunavano per ascoltare la Parola di Dio e per celebrare l’Eucaristia. È proprio quel tipo di adunanza che è detto in greco “ekklesìa” – la parola latina è “ecclesia”, quella italiana “chiesa” – che vuol dire convocazione, assemblea, adunanza. Nella casa di Aquila e Priscilla, quindi, si riunisce la Chiesa, la convocazione di Cristo, che celebra qui i sacri Misteri. E così possiamo vedere la nascita proprio della realtà della Chiesa nelle case dei credenti. I cristiani, infatti, fin verso il secolo III non avevano propri luoghi di culto: tali furono, in un primo tempo, le sinagoghe ebraiche, fin quando l’originaria simbiosi tra Antico e Nuovo Testamento si è sciolta e la Chiesa delle Genti fu costretta a darsi una propria identità, sempre profondamente radicata nell’Antico Testamento. Poi, dopo questa “rottura”, si riuniscono nelle case i cristiani, che diventano così “Chiesa”. E infine, nel III secolo, nascono veri e propri edifici di culto cristiano. Ma qui, nella prima metà del I secolo e nel II secolo, le case dei cristiani diventano vera e propria “chiesa”. Come ho detto, si leggono insieme le Sacre Scritture e si celebra l’Eucaristia. Così avveniva, per esempio, a Corinto, dove Paolo menziona un certo «Gaio, che ospita me e tutta la comunità» (Rm 16,23), o a Laodicea, dove la comunità si radunava nella casa di una certa Ninfa (cfr Col 4,15), o a Colossi, dove il raduno avveniva nella casa di un certo Archippo (cfr Fm 2).
Tornati successivamente a Roma, Aquila e Priscilla continuarono a svolgere questa preziosissima funzione anche nella capitale dell’Impero. Infatti Paolo, scrivendo ai Romani, manda questo preciso saluto: «Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù; per salvarmi la vita essi hanno rischiato la loro testa, e ad essi non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese dei Gentili; salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa» (Rm 16,3-5). Quale straordinario elogio dei due coniugi in queste parole! E a tesserlo è nientemeno che l’apostolo Paolo. Egli riconosce esplicitamente in loro due veri e importanti collaboratori del suo apostolato. Il riferimento al fatto di avere rischiato la vita per lui va collegato probabilmente ad interventi in suo favore durante qualche sua prigionia, forse nella stessa Efeso (cfr At 19,23; 1 Cor 15,32; 2 Cor 1,8-9). E che alla propria gratitudine Paolo associ addirittura quella di tutte le Chiese delle Genti, pur considerando l’espressione forse alquanto iperbolica, lascia intuire quanto vasto sia stato il loro raggio d’azione e, comunque, il loro influsso a vantaggio del Vangelo.
La tradizione agiografica posteriore ha conferito un rilievo tutto particolare a Priscilla, anche se resta il problema di una sua identificazione con un’altra Priscilla martire. In ogni caso, qui a Roma abbiamo sia una chiesa dedicata a Santa Prisca sull’Aventino sia le Catacombe di Priscilla sulla Via Salaria. In questo modo si perpetua la memoria di una donna, che è stata sicuramente una persona attiva e di molto valore nella storia del cristianesimo romano. Una cosa è certa: insieme alla gratitudine di quelle prime Chiese, di cui parla san Paolo, ci deve essere anche la nostra, poiché grazie alla fede e all’impegno apostolico di fedeli laici, di famiglie, di sposi come Priscilla e Aquila il cristianesimo è giunto alla nostra generazione. Poteva crescere non solo grazie agli Apostoli che lo annunciavano. Per radicarsi nella terra del popolo, per svilupparsi vivamente, era necessario l’impegno di queste famiglie, di questi sposi, di queste comunità cristiane, di fedeli laici che hanno offerto l’“humus” alla crescita della fede. E sempre, solo così cresce la Chiesa. In particolare, questa coppia dimostra quanto sia importante l’azione degli sposi cristiani. Quando essi sono sorretti dalla fede e da una forte spiritualità, diventa naturale un loro impegno coraggioso per la Chiesa e nella Chiesa. La quotidiana comunanza della loro vita si prolunga e in qualche modo si sublima nell’assunzione di una comune responsabilità a favore del Corpo mistico di Cristo, foss’anche di una piccola parte di esso. Così era nella prima generazione e così sarà spesso.
Un’ulteriore lezione non trascurabile possiamo trarre dal loro esempio: ogni casa può trasformarsi in una piccola chiesa. Non soltanto nel senso che in essa deve regnare il tipico amore cristiano fatto di altruismo e di reciproca cura, ma ancor più nel senso che tutta la vita familiare, in base alla fede, è chiamata a ruotare intorno all’unica signoria di Gesù Cristo. Non a caso nella Lettera agli Efesini Paolo paragona il rapporto matrimoniale alla comunione sponsale che intercorre tra Cristo e la Chiesa (cfr Ef 5,25-33). Anzi, potremmo ritenere che l’Apostolo indirettamente moduli la vita della Chiesa intera su quella della famiglia. E la Chiesa, in realtà, è la famiglia di Dio. Onoriamo perciò Aquila e Priscilla come modelli di una vita coniugale responsabilmente impegnata a servizio di tutta la comunità cristiana. E troviamo in loro il modello della Chiesa, famiglia di Dio per tutti i tempi.

The Mandylion: Face Not Painted by Human Hands

The Mandylion: Face Not Painted by Human Hands dans immagini sacre mandylion1
http://www.marsel.no/ikonere.html

Publié dans:immagini sacre |on 7 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

L’immagine di Cristo non opera di mano d’uomo

L’immagine di Cristo non opera di mano d’uomo  dans CHIESA ORTODOSSA Cristo_Mandylion

http://tradizione.oodegr.com/tradizione_index/arte/immagouspensky.htm

Léonide Ouspensky

L’immagine di Cristo non opera di mano d’uomo

Nella controversia con gli iconoclasti, l’immagine di Cristo non fatta da mano d’uomo era uno degli argomenti principali degli ortodossi, quelli di Oriente e quelli di Occidente. Le raffigurazioni del Signore storicamente note, opere dei suoi veneratori che gli erano più o meno contemporanei[1], erano lungi dall’avere, per gli ortodossi, lo stesso significato che aveva l’immagine non fatta da mano d’uomo alla quale la Chiesa doveva dedicare una festa (il 16 agosto). “Questa immagine, precisamente, esprime per eccellenza il fondamento dogmatico dell’iconografia”[2] ed è il punto di avvio di tutta l’iconografia cristiana.
La leggenda dell’immagine non fatta da mano d’uomo è legata al dogma della Tradizione apostolica: “Ciò che abbiamo sentito, ciò che abbiamo visto coi nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato (…) e noi abbiamo visto e testimoniamo, e vi annunciamo la vita eterna che era presso il Padre e che ci è stata manifestata – ciò che abbiamo visto e sentito, ve lo annunciamo…. (1 Gv 1, 3)”, insiste nel ripetere l’Apostolo.
La Chiesa conserva le tradizioni che, per il loro contenuto, anche se espresso in forma leggendaria, servono a manifestare ed affermare le verità dogmatiche dell’economia divina. Così la venerazione della Madre di Dio e quasi tutte le feste che le corrispondono sono fondate su tradizioni. In altre parole, la Chiesa conserva le tradizioni che contribuiscono ad assimilare i fondamenti dogmatici della fede, che aiutano lo spirito umano a percepirle. Per questo motivo quelle tradizioni, così come quella dell’immagine non fatta da mano d’uomo e del re Abgar sono fissate negli Atti dei Concili e negli scritti patristici, ed entrano perciò nella vita liturgica ortodossa.
La dottrina della Chiesa ortodossa sull’immagine non è stata elaborata dai padri del periodo iconoclastico soltanto, “l’insegnamento relativo all’immagine è sintetizzato nel primo capitolo dell’epistola ai Colossesi, ed è caratteristico che questo insegnamento sia espresso non come pensiero personale di Paolo, ma come inno liturgico della prima comunità cristiana: «immagine di Dio invisibile, primogenito di tutto il creato» (Col 1, 15-18)[3]. Seguendo il contesto, per il contenuto, questo passo dell’apostolo Paolo è analogo alla preghiera eucaristica[4].
E se qui l’Apostolo non indica il legame diretto tra il Figlio in quanto Immagine del Padre e la sua rappresentazione, questo legame è reso manifesto dalla Chiesa: è questo il brano dell’Epistola di san Paolo di cui la Chiesa prescrive la lettura durante la liturgia della festa consacrata all’immagine non fatta da mano d’uomo. Questa liturgia unisce la leggenda del re Abgar “alla traslazione dell’immagine di nostro Signore Gesù Cristo non fatta da mano d’uomo alla città imperiale”, che è il fondamento storico della festa. Le due commemorazioni sono collocate insieme nella liturgia di quel giorno per via del significato che quella immagine ha per la Chiesa.
 Nella leggenda dell’immagine inviata al re Abgar, ciò che colpisce innanzi tutto è la sproporzione tra l’episodio in sé e l’importanza che gli attribuisce la Chiesa. Gli Evangeli neppure lo menzionano[5]. D’altronde il fatto che Cristo abbia poggiato un telo sul suo volto imprimendovi i suoi lineamenti non è per nulla paragonabile agli altri suoi miracoli, guarigioni e risurrezioni. I miracoli, inoltre, non sono prova della Divinità di Cristo poiché anche uomini, i profeti, gli apostoli…, compiono miracoli. In qualunque ambito della Chiesa, generalmente, essi non vengono assunti a criteri. Qui, però, non si tratta semplicemente del fatto che il volto di Cristo si sia impresso su un telo, ma di qualcosa di essenziale; quel volto è la manifestazione del miracolo fondamentale dell’economia divina nel suo insieme: la venuta del Creatore nella sua creazione. È l’immagine, fissata sulla materia, di una Persona divina visibile e tangibile, la testimonianza dell’incarnazione di Dio e della deificazione dell’uomo. È l’immagine attraverso cui si può rivolgere la propria preghiera al suo prototipo divino. Non è solo questione della venerazione della forma umana del Verbo divino, ma di vedere faccia a faccia: “immagine terribile glorifichiamo, resi capaci di vederlo faccia a faccia” (Stico dei Vespri).
Solo questo già rende impossibile qualsivoglia confusione tra questa immagine e il sudario di Torino, confusione che riscontriamo talvolta anche negli ambienti ortodossi. Tale identificazione si verifica soltanto quando non si conosce o non si comprende la liturgia della festa[6]. Qui, la questione dell’autenticità del sudario di Torino in quanto reliquia non ci riguarda. Non insistiamo neppure sull’assurdità, sul semplice piano del senso comune, della confusione tra un volto vivo, che con i suoi grandi occhi aperti guarda l’osservatore, e quello di un cadavere: confusione tra un sudario immenso (di m. 4,36 x 1,10 ) con un piccolo telo usato per asciugarsi quando ci si lava. Tuttavia non si può tacere il fatto che tale confusione contraddice la liturgia e quindi il significato stesso dell’immagine. Ebbene questa liturgia si limita a far risalire l’immagine alla storia del re Abgar, che esprime il suo significato per la preghiera e la teologia e sottolinea spesso e insistentemente il legame tra questa immagine e la Trasfigurazione. “Ieri, sul monte Tabor la luce della Divinità inondò i primi tra gli apostoli per confermare la loro fede (…). Oggi, (…) l’immagine luminosa risplende e conferma la fede di tutti noi: là Dio si è fatto uomo…” (Stico tono 4). Ma ciò che qui viene particolarmente sottolineato, è la portata immediata, diretta, per noi fedeli, di quella luce divina apparsa in Cristo: «festeggiamo, come il salmista, rallegrandoci spiritualmente e proclamando con Davide: siamo segnati dalla luce del tuo volto, Signore!» (Stico dei vespri mattutini). Ed ancora: «Per la nostra santificazione ci hai lasciato la raffigurazione del tuo purissimo volto quando già volontariamente ti preparavi alle sofferenze» (Stico alla litania).
 L’immagine del Padre non fatta da mano d’uomo che è Cristo stesso, immagine manifestata nel Corpo del Signore e conseguentemente divenuta visibile, è un fatto dogmatico. Per questo motivo, in qualunque modo intendiamo l’espressione “immagine non fatta da mano d’uomo”, che sia l’apparizione di Cristo nel mondo immagine del Padre, che sia immagine miracolosamente impressa da Lui stesso su un telo, che sia immagine fissata nella materia da mani umane – anche se la differenza è immensa –, essenzialmente non cambia nulla. Questo la Chiesa esprime nel megalinario del giorno del Santo Volto: «Te, Cristo, Datore di vita, magnifichiamo e la gloriosissima immagine del tuo volto purissimo veneriamo». Questa glorificazione in nessun caso può riferirsi all’impronta di un corpo morto, ma si riferisce ad ogni immagine ortodossa di Cristo.
Ogni immagine di Cristo contiene e mostra quanto viene veramente espresso dal dogma di Calcedonia: è l’immagine della seconda Persona della Santa Trinità che unisce in sé senza separazione e senza confusione le due nature, divina ed umana. Questo viene testimoniato nell’icona con l’iscrizione dei due nomi, quello del Dio della rivelazione veterotestamentaria: O ?N (Colui che è); e quello dell’Uomo: Gesù (Salvatore) Cristo (Unto). «Nell’immagine di Gesù Cristo incarnato abbiamo qualche briciola della rivelazione, non un suo particolare aspetto tra gli altri, ma tutta la rivelazione intera nel suo insieme. Giustamente in questa immagine ci è consentito di vedere insieme la manifestazione assoluta della Divinità e la manifestazione assoluta del mondo divenuto uno con la Divinità. Per questo l’apostolo ci prescrive di provare tutto il resto con questa immagine di Cristo incarnato»[7].
«Dirigi i nostri passi alla luce del tuo volto affinché, camminando nei tuoi comandamenti, siamo giudicati degni di vedere te, Luce inaccessibile». (Stico mattutino)

Da: Il Messaggero ortodosso, n° 112, 1989
numero speciale “Teologia dell’icona”

Traduzione dal Francese del prof. G. M.

Palermo, agosto 2006.
————————————–

[1] Cfr. Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica 7,18.
[2] Cfr. Vladimir Lossky, «Le Sauveur acheiropoïète» in Le Sens des icônes, Cerf, 2003.
[3] P. Nellas, «Théologie de l’image», Contacts n° 84, 1978, p. 255.
[4] Paragoniamo i due testi:
«Rendete grazie a Dio che vi ha chiamati all’eredità dei santi nella luce, che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha condotti nel regno del Figlio del suo amore nel quale abbiamo la redenzione per mezzo del suo sangue, la remissione dei peccati. Egli è l’immagine di Dio invisibile, il primogenito del creato. In Lui sono state create tutte le cose che sono in cielo e sulla terra…» (Col. 1, 12-16).
«È giusto e degno cantare lode a te, benedirti (…) Te ed il Figlio tuo unico ed il Santissimo tuo Spirito; dal nulla ci hai portati alla vita, noi che eravamo caduti, tu ci hai risollevati, e mai hai cessato di operare fino a portarci al cielo e a donarci il tuo regno futuro. Di questo ti rendiamo grazie…» (Canone eucaristico della Liturgia di san Giovanni Crisostomo).
[5] Il re Abgar è venerato nella Chiesa armena. Questa Chiesa non possiede un atto ufficiale di canonizzazione, ma la venerazione di Abgar è stata inserita nel nuovo calendario composto nel concilio che ha deciso di non accettare quello di Calcedonia.
[6] Questa confusione risale probabilmente all’opera di J. Wilson, Le Suaire de Turin, linceul du Christ? (Paris, 1978), dove l’«identità» dell’immagine non fatta da mano d’uomo (il Santo Volto) con l’impronta del corpo morto sul sudario è dimostrata con l’aiuto di ogni sorta di figure geometriche tracciate sul volto di Cristo, o ancora con dettagli come il colore del fondo delle icone (di solito avorio o giallo chiaro) che corrisponde al colore del tessuto. Non è possibile, né utile notare tutti gli errori di quest’opera: sono troppo numerosi.
[7] E. Troubetskoï, Il senso della vita, Berlin, 1922, p. 228 (in russo). Virgolettato dall’autore.

Publié dans:CHIESA ORTODOSSA, immagini e testi, |on 7 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

Gesù come ponte tra cielo e terra (OR 2008)

dal sito:

http://www.zammerumaskil.com/catechesi/evangelizzazione/gesu-come-ponte-tra-cielo-e-terra.html

Gesù come ponte tra cielo e terra

Domenica 04 Maggio 2008 

Per una religiosità olimpica, cioè nelle tradizioni omeriche ed esiodee dell’antica Grecia, c’è assoluta contrapposizione di natura e destini tra dèi e uomini. Gli dèi sono in alto e felici, gli uomini sono in basso e sofferenti. Gli uni sono immortali, gli altri sono destinati prima a morire, poi a una vaga sopravvivenza nell’Ade. Il Canto del destino di Iperione, di Friedrich Hölderlin, può servire come saggio esemplare di questo tipo di sensibilità religiosa. Il poeta esprime l’aspirazione dell’uomo a una vita beata e pacificata, dove gli dèi però restano lontani dal destino angoscioso delle creature mortali:  loro in alto, noi in basso. Il cristianesimo celebra un orizzonte completamente diverso:  Gesù è il Dio incarnato, Dio che si fa uomo, cioè scende dall’alto verso il basso, per consentire all’uomo l’ascesa. Colui che preesiste in eterno come Dio si abbassa fino a morire in croce, per poi venire ancora elevato alla dignità divina, sollevando con sé l’umanità caduta. Nell’arte cristiana è possibile esplorare questo doppio movimento di discesa e ascesa, in cui Gesù, il Figlio di Dio, è il protagonista. San Paolo ci suggerisce il percorso. Nella lettera ai Filippesi, l’apostolo delle genti celebra la discesa e l’ascesa di Gesù, il suo abbassamento e la sua esaltazione nella croce. Cristo – dice san Paolo – pur possedendo la natura divina, annientò sé stesso, diventando simile agli uomini, e si umiliò fino alla morte in croce. Ed è per questo che Dio lo ha esaltato al di sopra di qualsiasi cosa, in cielo, in terra e negli inferi. La morte in croce è il punto centrale di questo movimento di Gesù, che va dalla sua divinità verso l’uomo, ed è anche il culmine che lo esalta come Dio e gli consente di divinizzare l’umanità.
Anche se i Vangeli non offrono dettagli sui modi in cui Gesù fu inchiodato al patibolo, gli artisti hanno spesso rappresentato l’innalzamento della croce. La possibilità che Cristo sia stato sollevato mentre la croce era già stata innalzata, per esempio con una scala, per esservi inchiodato, fu generalmente esclusa, seguendo in questo l’indirizzo della pittura bizantina. Nel primo Rinascimento italiano si trova qualche raro esempio dove si vede il Salvatore salire su di una scala, oppure gli aguzzini inchiodarlo ai bracci della croce, già alta sul terreno. Altrimenti si è supposto che Gesù sia stato prima inchiodato sulla croce e poi, con essa, innalzato. L’elevazione della croce con il corpo di Cristo inchiodato è stata raffigurata soprattutto nella pittura nordeuropea tra Cinquecento e Settecento. In mezzo a una folla di spettatori, si vedono uomini robusti e muscolosi spingere in alto un’estremità della croce, mentre altri la sollevano per mezzo di corde. Si realizza così l’evento previsto dallo stesso Gesù, che un giorno, parlando con Nicodemo, aveva detto che il Figlio dell’Uomo doveva essere innalzato per poter donare agli uomini la vita eterna. Cristo sembra quasi parlare a Hölderlin, e a chiunque soffra la separazione tra umano e divino:  « Nessuno è mai salito al cielo » – dice Gesù a Nicodemo – « fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo ».
Altre opere d’arte descrivono la deposizione del corpo morto di Gesù dalla croce. L’episodio segue immediatamente la crocifissione. Giuseppe di Arimatea, ricco e rispettato membro del Sinedrio, e segretamente un discepolo di Gesù, ottenne da Pilato il permesso di prendere il corpo di Cristo dalla croce. Giuseppe, che aveva portato con sé un lenzuolo di lino, e Nicodemo, che aveva con sé mirra e aloe per conservare il corpo, deposero la salma di Gesù e la avvolsero nel sudario. I quadri mostrano i due mentre tolgono i chiodi dal corpo di Cristo o il momento in cui lo mettono giù dalla croce. I primi esempi nell’arte occidentale si ispiravano a composizioni bizantine tra X e XI secolo, e mostrano quattro figure principali:  Nicodemo che estrae con delle pinze il chiodo dalla mano sinistra, Giuseppe che afferra il corpo e ne sostiene il peso, la Vergine che tiene la mano destra già libera, e l’apostolo Giovanni che appare in piedi e sofferente a qualche distanza. Intorno al Tre-Quattrocento, si vedono di solito due scale, che poggiano sulle due estremità del lato trasversale della croce, e su di esse Giuseppe e Nicodemo. Sotto, ai piedi della croce, ci sono la Vergine con altre donne e san Giovanni. Nell’arte rinascimentale e barocca la composizione divenne più complessa e affollata di figure. Pensiamo alla grande fortuna di questo tema in manieristi come il Pontormo o Rosso Fiorentino. La croce può essere vista obliquamente, come per esempio nella versione di Rubens nella cattedrale di Anversa; ci sono spesso quattro scale, con due uomini che si appoggiano sul lato trasversale della croce per aiutare a deporre il corpo, passandolo a Giuseppe e Nicodemo.
Gesù, Dio fatto uomo, è sceso dall’alto verso il basso. Lui che è re, si è umiliato come un servo, lui che è il giudice si è fatto processare. Per questo è degno di essere innalzato sopra i cieli. Lui, che è il creatore della vita, ha accettato la morte in croce, ed è sceso nel buio del sepolcro, per essere inghiottito dalla morte. Nella Cappella degli Scrovegni di Padova Giotto ha dipinto il lutto degli angeli, mentre il Figlio di Dio viene deposto nella terra. Ma c’è nell’arte medievale un soggetto – che formava una delle scene nel ciclo della passione di Cristo – a indicare una discesa ulteriore:  quella di Cristo al Limbo, un tema che continuò a essere rappresentato per tutto il Rinascimento. Già nel II secolo vari scritti descrivevano la discesa di Cristo agli inferi, come cioè il Figlio di Dio sconfisse Satana, liberando le anime dei santi del Vecchio Testamento. La storia è narrata nel dettaglio in un vangelo apocrifo, probabilmente del V secolo:  i cancelli dell’inferno andarono in frantumi, i morti furono liberati dalle loro catene. I primi Padri conclusero che la zona dove si trovavano patriarchi, profeti e martiri pre-cristiani non era l’inferno, ma una regione ai suoi bordi, il Limbo, dal latino limbus, che vuol dire « bordo, margine ». Nei quadri vediamo Cristo che, tenendo lo stendardo della Resurrezione, croce rossa su campo bianco (o viceversa), attraversa una soglia. Le porte risultano scardinate e crollate a terra, schiacciando Satana sotto il loro peso. Mentre i demoni fuggono nell’oscurità, una folla di persone giunge da una caverna, per afferrare la mano di Cristo. Il primo è Adamo, vecchio e con la barba grigia. Dietro di lui viene Eva, poi Abele, con il bastone da pastore, a volte vestito di pelle d’animale. Seguono Mosè, il re Davide, il buon ladrone, cui Cristo promise il cielo, poi Giovanni Battista, l’ultimo dei profeti. Più piccoli, seguono altri re e santi. Nel dipinto di Domenico Beccafumi conservato nella Pinacoteca Nazionale di Siena, la schiera di morti liberati sale dal fondo verso il Salvatore in primo piano. La discesa è completa, la missione è compiuta.
L’Ascensione del Signore, invece, rappresenta il movimento verso l’alto. Cristo ascende, nell’arte, spesso sul soffitto della cupola centrale delle chiese. La versione completa della Ascensione è divisa in due parti, superiore e inferiore, cielo e terra. In cielo la figura di Cristo è al centro, con il piede su una nuvola e circondato da cherubini disposti a forma di mandorla. A volte tiene lo stendardo della Resurrezione, e benedice con la mano destra. Ai due lati, per equilibrare la composizione, ci possono essere altri angeli, a suonare strumenti musicali. Sulla terra gli apostoli guardano con meraviglia e timore alla figura che sta allontanandosi, o sono inginocchiati a pregare. La Vergine è generalmente con loro, simbolo della Madre Chiesa che Cristo lascia sulla terra. Sui suoi due lati si possono vedere san Pietro, che tiene le chiavi, e san Paolo con la spada, simboli rispettivamente degli ebrei e dei Gentili a cui venne portato il messaggio cristiano.
Grazie a questo movimento di discesa e di ascesa, Gesù è divenuto la nostra via verso i cieli. Se Lui ascende, la Gerusalemme celeste discende sulla terra. Gesù che è disceso è lo stesso che è salito sopra tutti i cieli, per riempire di sé l’universo. Gesù, Dio e uomo, cade e si rialza, si umilia e si riveste di maestà, sprofonda negli abissi e si slancia nelle altezze. Ed è lo stesso Dio che fa rialzare chi è caduto, indebolisce i forti e riveste i deboli di forza, affama i sazi e sfama gli affamati, fa generare la sterile e rende sterile la feconda, rende i ricchi poveri e i poveri ricchi, pone in alto chi è in basso e in basso chi è in alto. Cristo innalzato sulla croce è l’asse che riunisce ciò che è in alto con ciò che è in basso, attraverso cui circola la vita nell’universo. Dio è disceso, l’uomo è asceso, in una provvidenziale coincidenza degli opposti.

Alessandro Scafi

(L’Osservatore Romano – 4 maggio 2008)

Cantico dei Cantici

Cantico dei Cantici dans immagini sacre Cantico_BE

http://www.moscati.it/Ital5/GM_MGDiPalermo3.html

Publié dans:immagini sacre |on 6 juillet, 2011 |Pas de commentaires »
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