La lettura della Bibbia nella tradizione ebraica: il midrash (di Amos Luzzatto)
dal sito:
http://www.bicudi.net/materiali/midrash.htm
La lettura della Bibbia nella tradizione ebraica: il midrash
di Amos Luzzatto
conversazione tenuta presso la Fondazione Serughetti-La Porta – novembre 1998
1. Parto proponendo subito due midrashim, riservando a dopo il commento. Il primo è questo.
«Per ventisei generazioni la alef [prima lettera dell’alfabeto ebraico, n.d.r.] protestò al cospetto del trono divino e disse alla presenza di Dio: « Signore del mondo, io sono la prima delle lettere, eppure tu non hai creato il tuo mondo cominciando da me » [infatti, il primo verso della Genesi comincia con la lettera beth, che è la seconda dall’alfabeto, n.d.r.]. Rispose Dio: « Il mondo intero e tutto ciò che esso contiene è stato creato solo per merito della Torah, come è scritto [Proverbi 3,19: “Con la sapienza il Signore ha fondato la terra”], ma verrà il giorno in cui io verrò sul monte Sinai a elargire la Torah e allora la farò cominciare con te. Perché è scritto: Io [In ebraico “io” si dice 'anoki, che inizia appunto con la lettera alef, n.d.r.] sono il Signore Dio tuo! »».
Cerchiamo ora di capire cos’è essenziale in questo midrash.
Anzitutto, si presuppone un testo biblico scritto: se non ci fosse un testo biblico da commentare o cercare di comprendere, non ci sarebbe midrash. Ciò che non ha a che fare con il testo biblico scritto può benissimo essere leggenda, parabola o altro, ma non certo midrash.
In secondo luogo, per capire cosa significa entrare nel significato del midrash, vorrei che provassimo ad immedesimarci nella alef del nostro testo. Se fossimo stati nei panni della alef, noi ci saremmo accontentati della spiegazione ottenuta? Io sicuramente no, anzi avrei chiesto: Ma allora perché la Bibbia non inizia addirittura dai dieci comandamenti, come una casa inizia dalle fondamenta? Tenendo presente che il midrash impone una logica basata su domande e controdomande, possiamo domandarci tre cose: perché l’alef non ha fatto questa obiezione? E, se l’avesse fatta, quale risposta avrebbe ottenuto? E, infine, che senso ha, in una logica moderna, una simile disputa sull’ordine delle lettere, visto che l’ordine delle lettere si basa su di una convenzione umana tranquillamente sovvertibile (come comincia con la beth potrebbe benissimo cominciare con la alef)? O non è forse possibile che chi usava questo midrash considerasse l’ordine dell’alfabeto come una legge intoccabile della natura? Già questo vanifica una delle nostre domande. La terremo in serbo per dopo (non che io voglia sottrarmi: non mi sottrarrò, ma non vi dirò certo che la mia è l’unica risposta, bensì che a questa risposta arrivo io seguendo il ragionamento del midrash; se qualcuno arriva ad un’altra risposta, va benissimo).
2. Vediamo ora il secondo midrash, nel quale si commenta la storia del ritrovamento di Mosè infante, come narrata in Esodo 2,5-10. Il testo biblico dice: “E inviò la sua ancella che la prese”.
Già qui sorge un primo ostacolo, dovuto al fatto che l’ebraico si scrive con le sole consonanti, mentre le vocali vanno ricostruite sulla base del contesto. Ora, siccome, il termine “ancella” si scrive con le stesse lettere con cui si scrive “il suo avambraccio”, si potrebbe interpretare il testo sia con: “l’ancella della principessa prese il cesto di vimini” in cui è deposto Mosè, sia con: “la principessa protese il suo avambraccio” allo stesso scopo. Ci potremmo chiedere: è proprio così importante? Certo che è importante, perché un bambino che sarebbe diventato un personaggio così rilevante come Mosè, del quale la Bibbia dice che si presentava a Dio faccia a faccia, deve essere estratto dalle acque da una banalissima ancella oppure dalla principessa in persona? Che non sia affare di poco conto lo dimostra il fatto che questo dibattito è molto acceso nelle pagine del Talmud, dove addirittura si formano due scuole di pensiero, quella dell’avambraccio e quella dell’ancella. Faccio notare che questo dibattito si svolge attorno al IV secolo. Ora, il caso vuole che a questo secolo appartenga una famosa sinagoga sull’Eufrate, quella di Dura Europos, la quale ha scandalizzato tutti perché, contrariamente alla proibizione biblica, è ricchissima di affreschi con immagini bibliche, tanto che qualcuno ha pensato di giustificare questa anomalia sostenendo un intento didattico. Questa potrebbe essere una spiegazione, se non fosse che, quando si arriva all’illustrazione di questo episodio, l’immagine che si vede è quella della principessa in acqua, nuda, la quale allunga il braccio e prende il cesto di vimini. Ciò significa che le immagini della sinagoga di Dura Europos non sono didattiche, bensì esegetiche, nel senso che prendono chiaramente posizione per la scuola « ancillare » rispetto di quella « avambracciale ».
Proseguiamo ora con il testo per vedere se si può capire qualcosa di più. “E l’aprì e lo vide il bambino”. Di fronte all’evidente imprecisione grammaticale del testo i commentatori del midrash fanno notare che la principessa aveva visto la presenza divina vicino al bambino. Come si spiega questa interpretazione? La parola ebraica qui tradotta con “lo” (‘et) può introdurre sia l’accusativo (“vide il bambino”) sia un complemento di compagnia (“lo vide con il bambino”). Dunque la principessa vide la presenza divina con il bambino. Ecco allora che, alla luce di questa difficoltà grammaticale, possiamo capire, con un procedimento a ritroso, anche il brano precedente: la principessa non mandò una semplice ancella, ma andò di persona presso colui che recava con sé la presenza divina.
3. Da questi due esempi si capisce come il testo biblico sia fondamentale. Sennonché, come si è visto, il testo biblico (in ebraico: miqrà, che significa anche “lettura”) presenta parecchie difficoltà, le quali possono, in parte, essere risolte con la lettura a voce alta praticata dagli antichi. Se infatti, di fronte a parole che, scritte, possono indicare cose diverse (per esempio, il gruppo s-f-r può significare sia “libro” sia “barbiere”), il testo viene letto a voce alta, quindi completandolo con vocali, è possibile interpretarlo e consegnarlo a chi ascolta. La lettura ad alta voce è quindi già un’interpretazione.
Un esempio celeberrimo è il passo di Isaia 40,3 (“voce che chiama nel deserto”) che ha generato differenze interpretative fra ebrei e cristiani, differenze dovute, stavolta, a una diversa punteggiatura. Come si deve leggere questo passo? Una possibilità potrebbe essere: “Una voce chiama: nel deserto preparate la via del Signore”; un’altra possibilità: “Una voce chiama nel deserto: preparate la via del Signore”. E’ ovvio che mettere dei segni di interpunzione in un luogo o in un altro è già un’interpretazione. Credo che una delle tecniche per una lettura il più possibile precisa sia costituita dai cosiddetti parallelismi della poesia biblica, che permettono di capire come dividere il verso.
Ma ci sono altre tecniche interpretative. Una è la traduzione. Si tratta di una pratica difficilissima perché l’ebraico biblico contiene omonimie e polisemie diverse da quelle delle lingue occidentali; di conseguenza, il traduttore deve fare una scelta che, per forza di cose, già interpreta il testo: è inevitabile. Moltissime sono le traduzioni della Bibbia: quella dei Settanta, quella siriaca e quelle aramaiche; nella tradizione ebraica si fa più spesso riferimento a quelle aramaiche, alcune delle quali (per esempio quella di Onkelos) sono molto corrette, mentre altre rielaborano il testo con arricchimenti.
A questo punto ci dobbiamo chiedere: a cosa serve interpretare ed elaborare il testo? Nella tradizione ebraica due sono le operazioni legate alla lettura. La prima è capire un messaggio dal quale trarre affermazioni di principio oppure norme di comportamento.
Un esempio ci viene dal Talmud e riguarda le norme sabbatiche. Il Talmud dice che le norme sabbatiche sembrano una montagna appesa a un capello, laddove la montagna è l’insieme delle norme, mentre il capello è l’insieme della Torah. L’affermazione significa che c’è pochissima miqrà, cioè pochissima lettura, e moltissime norme: quelli che hanno emesso queste norme ritengono di aver trovato delle precise allusioni nel testo biblico. Questo è uno degli scopi di questa elaborazione.
Ma la questione è più complicata, perché a volte il problema è quello di trovare nel testo biblico una conferma a certe opinioni o posizioni formate a priori e indipendentemente dal testo stesso.
Un esempio ci è fornito dal lungo dibattito intercorso tra la scuola di Hillel e quella di Shammai (siamo nel periodo a cavallo tra il I sec. a.e.v. e il I sec. e.v.), più aperta e riformatrice la prima, decisamente rigorista la seconda. Le due scuole discussero per due anni su un argomento fondamentale: meritava l’uomo di essere creato? Abbastanza prevedibilmente, la risposta della scuola di Hillel era affermativa, mentre era negativa quella di Shammai. Il compromesso a cui giunsero, sulla base naturalmente dell’esame delle scritture, fu che, effettivamente, forse l’umanità non meritava di essere creata, ma ormai, visto che la creazione era avvenuta, almeno ci si facesse un esame di coscienza. Le due posizioni chiaramente non sono tratte dal testo biblico, sono tesi filosofiche formulate a priori, ma dal testo biblico cercano conferma.
A questo punto però è inevitabile porsi una domanda: se il midrash contribuisce in questo modo ad una o più visioni del mondo, queste esistono davvero oppure sono solo frammenti di visioni che noi cerchiamo, un po’ artificiosamente, di cucire insieme? Se infatti si trattasse di testi occidentali, noi troveremmo delle monografie, dei trattati, un dialogo platonico, un trattato aristotelico. Nei testi biblici invece esistono solo allusioni e spunti dai quali bisogna trarre qualche cosa. E qui torniamo al nostro primo midrash.
La Bibbia comincia con la parola bereshit (lettera beth), che si traduce “nel principio”. La traduzione è sicuramente corretta, se non fosse che la lettera beth in ebraico non esprime soltanto un’indicazione di luogo (“nel principio”), ma anche un significato strumentale (per esempio: “io scrivo con [be-] la penna”. E allora mi viene il dubbio che reshit, oltre che “principio”, voglia dire qualche altra cosa e che il primo versetto della Bibbia possa essere letto così: “con l’ausilio del reshit Dio creò il cielo e la terra”. Come possiamo capirlo?
Qui ci viene in soccorso la tecnica tipica del midrash: per capire in che modo intendere ciò che può avere più significati (per esempio il nostro reshit), bisogna andare in cerca, nel testo biblico, di altre circostanze in cui compaia la medesima espressione con allusione a qualcos’altro. E state sicuri che si trova. C’è infatti un passo in cui si dice, con riferimento alla sapienza: “Il Signore mi ha acquisito come reshit”. Da qui si sviluppa un ulteriore midrash, che dice: “La Torah, che è la sapienza, e che è chiamata reshit (« primizia »), preesisteva al mondo”. Ne consegue allora che quel primo verso andrebbe letto: “Per mezzo della Torah (reshit) Dio creò il mondo”. E guarda caso c’è un midrash che dice: “Dio, come un famoso architetto, guardava la Torah e creava il mondo”. Si tratta insomma di un progetto che preesiste al mondo. Ciò è confermato dal fatto che il verbo ‘amar (“Dio disse”) può significare anche “progettare”. L’esempio lo troviamo nella Bibbia stessa: quando infatti nella cosiddetta Cantica del mare (Esodo 15) si parla del nemico egiziano che voleva inseguire gli ebrei, in genere si traduce: “Il nemico ha detto: Inseguirò, raggiungerò, dividerò il bottino” (Esodo 15,9). Ma che significa: Il nemico ha detto? A chi l’ha detto? A se stesso? Sarebbe meglio tradurre: “Il nemico ha progettato…”.
Cosa ne possiamo concludere? Che se sposiamo una tesi esposta con metodologia midrashica, dovremo poi svilupparla coerentemente, mentre se ne sposiamo un’altra, allora la svilupperemo in altro modo. Non si può sposare una tesi e poi svilupparla seguendo un’altra metodologia. Non esiste la verità, esiste la mia interpretazione e le vostre. Io sceglierò quella che mi permetterà un’unica lettura per la maggior parte dei versi e non quella che richieda interpretazioni diverse, perché ciò potrebbe significare che la mia comprensione non è corretta.
Tuttavia, nel momento in cui si stabilisce che possono esistere delle tesi e dei punti di vista generali che cercano una loro conferma nel testo biblico, si corre il rischio di entrare in un pericoloso circolo vizioso. Farò un esempio: la canonizzazione della Bibbia è stata compiuta dai maestri sulla base di determinati criteri a priori, tra i quali quelli che prevedevano la canonizzazione del Cantico dei Cantici; sennonché, dopo la canonizzazione del testo, il Cantico dei Cantici viene usato per trarre conclusioni che sono implicite nei criteri che sono serviti per canonizzarlo. Evidentemente, se è stato canonizzato, è proprio perché a priori esisteva un punto di vista generale nel quale questa operazione rientrava perfettamente. Quindi non si può poi percorrere a ritroso la strada e dal Cantico dei Cantici trarre delle conseguenze su una visione del mondo, dato che questa era già definita, anzi, proprio grazie a questa si è scelto di canonizzarlo. Come si vede, questo circolo vizioso è spesso inevitabile. Il problema indubbiamente esiste. L’unica risposta che possiamo dare è che la lettura e l’interpretazione abbiano una robusta coerenza, dopodiché, entro questa coerenza, sta a noi sposare l’una o l’altra interpretazione, accettare o rifiutare l’interpretazione dei maestri talmudici e proporne altre.
4. Soffermiamoci ora brevemente sulla tecnica del mashal, termine che potremmo rendere con “metafora”, “parabola”, “allegoria”. Il mashal è una delle forme più importanti del midrash per la lettura del testo biblico. Si tratta di un’esposizione nella quale vengono presentati situazioni e protagonisti di immediata comprensione per il lettore. Un ottimo esempio è rappresentato dal pastore e dalla pastorella del Cantico dei Cantici, intesi come allegoria del rapporto tra Dio e il credente. I rapporti fra di loro devono però essere analoghi a quelli a cui si vuole alludere, secondo una logica, per così dire, di allegorizzante (il mashal) e allegorizzato (nimshal: si tratta della forma passiva del mashal).
5. Un’ultima considerazione. A partire da un certo periodo nella storia della letteratura post-biblica ebraica compaiono delle coppie in discussione fra loro (si è già menzionata la coppia Hillel e Shammai, ma ce ne sono almeno altre cinque o sei) su posizioni polarizzate agli antipodi. Si tratta di un caso o di un espediente letterario per aiutarci a capire le posizione contrapposte? Personalmente ritengo che la verità stia nel mezzo, cioè che si utilizzi una base storica, con personaggi realmente esistiti, per riferire però le loro posizioni portate all’esasperazione. Ciò perché il dibattito fra maestri è ritenuto indispensabile per la comprensione del testo ed è ciò che dà origine alla dottrina orale (la cosiddetta Torah she be ‘al peh). Ma perché la dottrina orale (midrah, Mishna) è oggi reperibile soltanto per iscritto, addirittura in edizioni critiche? Per il fatto che la distinzione tra oralità e scrittura non dipende tanto dal supporto fisico della seconda rispetto alla prima, al punto che posso definire dottrina orale, ad esempio, lo stesso Talmud. La vera distinzione è che l’oralità serve per capire la scritturalità e non viceversa; l’oralità è un dibattito, la scritturalità non lo è. Abbiamo, da una parte, ciò che è in divenire, dall’altra ciò che è valido, stabile, definito, e, quando tutto ciò viene messo in discussione, si fa oralità. La scrittura, proprio per il suo carattere di immutabilità e stabilità, se presa da sola potrebbe essere idolatrata. La storia ebraica è ricca di esempi in materia. Ne cito tre particolarmente emblematici. Il primo è lo scontro tra sacerdoti e profeti a proposito del vero culto da presentare a Dio. Il secondo, più tardi, è lo scontro tra Sadducei e Farisei circa l’interpretazione e l’applicazione della cosiddetta “legge del taglione”: gli uni la ritenevano applicabile alla lettera in termini di ritorsione, gli altri la leggevano in termini di risarcimento. La stessa diatriba tra lettura letterale e lettura interpretata si svilupperà verso il 700 dell’era volgare tra i Karaiti e i Rabbaniti. Da una parte una lettura letterale, dall’altra una lettura interpretata; insomma una lettura rigida, che non lascia spazio alla necessità umana, di fronte ad una lettura che invece salvaguarda il principio e lo lascia sviluppare. Solo in questo secondo caso la lettura può acquistare un significato più puntuale e diventare parte della vita spirituale e intellettuale di ognuno.
Credo, insomma, che la sola lettura portata a dogma assoluto apra le porte al fondamentalismo e che l’oralità, invece, con la sua partecipazione attiva, ne sia l’antidoto più efficace. La lettura del midrash, quindi, non è semplicemente leggere un testo, non è impararlo a memoria, ma è un invito a procedere con uno scopo e con una metodologia ben precisi nella lettura dei testi: questa è la sintesi, difficilissima, ma affascinante.
Lo illustra molto bene una tipica discussione talmudica. Due persone stanno camminando nel deserto, ma hanno acqua solo per uno. Cosa devono fare? Risponde un maestro: “bevano entrambi e nessuno veda la morte del fratello”. Risponde un altro: “beva uno e si risparmi almeno una vita, perché, se bevono entrambi, perdiamo due vite”. Come si vede, entrambe le posizioni hanno una loro legittimità. Come si risolve il problema? Io ribalterei la domanda: tu come risolveresti il problema? Con questo voglio dire che il Talmud non dà risposte, non è una guida turistica, ma pone problemi con cui misurarsi responsabilmente. La letteratura midrashica, quindi, ci chiama al compito di scegliere, anche nell’interpretazione, tra più possibilità.
Un compito faticoso, certo ma anche molto affascinante.
Luciano Zappella
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