La preghiera nelle mani (Gianfranco Ravasi)

dal sito:

http://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/Stampa200806/080609ravasi.pdf

La preghiera nelle mani

di Gianfranco Ravasi

in “Il Sole-24 ore” dell’8 giugno 2008

È entrato nella storia del cinema per la sua scena finale, al lorché i solda ti dell a Legione Straniera , assediati in un fortino, appoggiano alle feritoie i cadaveri delle vittime per ingannare sulla loro consistenza numerica i beduini assedianti. Ebbene, uno dei protagonisti recava un soprannome curioso che ha dato il titolo al film, Beau Geste (l’opera, diretta dall’americano William A. Wellman, era del 1939). Ecco, il «bel gesto» può diventare un emblema, così come ogni altro atto espressivo del corpo umano, a partire dal volto il quale è tutt’altro che un insieme di piani, di curve e di forma: è, in realtà, un codice comunicativo, «la più interessante superficie del mondo», come la definiva Lichtenberg, tant’è vero che il silenzioso guardarsi negli occhi di due innamorati è più eloquente di molte parole. E che dire, poi, della mano che Kant nella sua Antropologia pragmatica (1798) considerava «il cervello esterno dell’uomo»? Liberata dalla mera funzione di appoggio statico, a cui è costretto l’animale, essa è diventata nell’uomo un fondamentale strumento di « manipolazione » pratica e simbolica. Per usare, quindi, il titolo di quel film noi siamo un bel e più spesso un brutto gesto rivolto agli altri e al mondo. C’è, allora, non solo una fisiologia dell’atteggiamento somatico, ma anche una sua vera e propria neuropsicologia e, alla fine, una « cinesica », disciplina settoriale della semiotica, destinata a leggere la gestualità come linguaggio parallelo a quello verbale, ove appunto s’intrecciano espressione personale e comunicazione ad extra. E per questo che, nella moderna psicologia, si è configurato un ambito di analisi pomposamente classificato come «aprattognosia», che ha lo scopo di isolare e curare i disturbi dell’azione umana, a partire dal deficit delle capacità gestuali (la cosiddetta «aprassia»). Si pensi quanto sia capitale nel teatro o nell’opera lirica la gestualità, tant’è vero che Artaud è giunto al punto di capovolgere l’asserto comune dichiarando nel suo saggio, Il teatro e il suo doppio (1938), che «le parole sono gesti, nient’altro che gesti». Ebbene, qualcosa del genere è da ripetere qualora si voglia esaminare la comunicazione profetica, cominciando da Achia di Silo che, squarciando a pezzi il suo manto, segnala la tragica lacerazione di Israele in due regni (si legga 1Re 11, 29-39). E da allora, ecco Osea con la storia del suo infelice matrimonio, e poi Isaia con la sua famiglia, e Geremia che intraprende l’uso dell’azione simbolica per visualizzare il suo messaggio fino a quel maestro della comunicazione « cinesica » che è stato Ezechiele, il più « sacramentale » dei profeti, laddove con questo aggettivo si vuole rimandare all’efficacia dei segni propri del sacramento cristiano (parola, pane e vino, ad esempio, diventano corpo e sangue di Cristo, secondo una grammatica che non è solo teologica, ma anche antropologica). Si giunge, così, ai Vangeli alla cui radice è installata una rigorosa teologia del corpo, con buona pace di ogni tentazione gnostica e di ogni deriva spiritualistica. È proprio l’«Incarnazione» che conduce ai miracoli somatici di Cristo, ai suoi atti simbolici come l’espulsione dei mercanti dal tempio o la lavanda dei piedi agli apostoli, fino al ricorso alla convivialità come « sacramento » di comunione nell’ultima cena eucaristica. È da questa radice che profluiscono i due grandi percorsi dell’esperienza gestuale cristiana. Da un lato, la liturgia che ripropone il comportamento profetico con la stessa pregnanza ed efficacia, e qui si apre il complesso capitolo sulla divaricazione tra la concezione cattolica del rito e quella, più reticente ed esitante, della Riforma protestante. D’altro lato, si snoda l’itinerario storico-esistenziale, se è vero che la stessa liturgia ha una sua fenomenologia e una sua sociologia. Emblematico è l’appello assiomatico paolino: «Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale (loghikè latréia)» (Romani 12,1). Una gestualità che si esprime nella stessa postura orante, ma che si amplia poi nella solidarietà fraterna, nella tradizione folclorica e così via. Ebbene, questi e altri temi che fanno parte di una vera e propria « sistematica » della comunicazione cristiana nella sua pienezza (non ridotta, quindi, alla mera « oralità ») possono essere ritrovati in un vasto e suggestivo trattato del teologo ginevrino Henry Mottu, 69 anni, uno dei più qualificati esegeti di Dietrich Bonhoeffer e attento studioso di filosofia delle religioni. La conoscenza dei meccanismi insiti al «linguaggio silenzioso», come definiva la gestualità comportamentale e comunicativa Edward J. Hall (Garzanti 1972), deve diventare un costante impegno sociale e insieme pastorale. Lo è soprattutto oggi in un tempo di interculturalità ove i codici non solo linguistici ma anche gestuali s’incrociano. Curioso è il duplice esempio che Mottu evoca, quando cita il caso dell’affermazione (nè) e della negazione (ochì) e del relativo atteggiamento mimico-facciale nel greco moderno (del tutto antitetico a quello comune in Occidente), e l’atto del bambino maghrebino che, dopo aver dato la mano all’europeo, se la sfrega sul petto. Ricordatelo: non lo fa per pulirla, ma è per portarla al cuore in segno di rispetto e simpatia!

Henry Mottu, Il gesto e la parola, Qiqaion, Comunità di Bose, Magnano.

Publié dans : c.CARDINALI, Card. Gianfranco Ravasi |le 19 juillet, 2011 |Pas de Commentaires »

Vous pouvez laisser une réponse.

Laisser un commentaire

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01