Archive pour juin, 2011

La lectio divina come scuola di preghiera nell’esperienza dei padri del deserto

dal sito:

http://users.skynet.be/bs775533/Armand/wri/lectio-ita.htm

La lectio divina come scuola di preghiera nell’esperienza dei padri del deserto

testo di una conferenza tenuta a S. Luigi dei Francesi a Roma nel novembre 1995

Scrittura scuola di vita

   Conosciamo bene la vocazione di Antonio, così come ci viene descritta nella Vita Antonii di Atanasio.  Un giorno il giovane Antonio, educato in una famiglia cristiana della Chiesa di Alessandria (o nella regione circonvicina) e che quindi conosceva le scritture dall’infanzia, entra in una chiesa ed è colpito dal testo scritturistico che ascolta leggere:  si tratta dell’episodio della vocazione del giovane ricco “ se vuoi essere perfetto, va, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e seguimi, troverai un tesoro nei cieli “ (Mt 19,21; Vit Ant 2).
Ovviamente Antonio aveva già ascoltato in precedenza il testo, ma è proprio quel giorno che il testo lo tocca come una chiamata personale.  Si comporta di conseguenza: venda la proprietà famigliare – assai cospicua – e distribuisce ai poveri del villaggio il ricavato, conserva una parte necessaria alla giovane sorella di cui aveva la responsabilità.
In un secondo momento, entrando di nuovo in una chiesa, ascolta un altro testo del vangelo che segue con lo slancio del primo:  “non preoccupatevi per il domani” (Mt 6,34; Vit Ant 3).  Questo testo è fulminante, come una chiamata personale.  Affida la sorella ad una comunità di vergini (tali comunità esistevano da tempo), si libera di tutto quello che gli resta e intraprende la vita ascetica vicino al villaggio, facendosi aiutare dagli asceti del luogo.
   Quanto detto sottolinea l’importanza e il senso assunto dalla Scrittura presso i Padri del deserto.  Un autentica scuola di vita e dal momento che è stata scuola di vita, ha avuto ugualmente la funzione di scuola di preghiera per gli uomini e le donne che aspiravano a rendere la loro vita una preghiera continua, così come domanda la Scrittura.
I Padri del deserto volevano vivere fedelmente tutte le indicazioni della Scrittura. Nella Scrittura l’unica indicazione concreta riguardava la necessità di pregare continuamente, non tanto precetti relativi alla frequenza o al bisogno di pregare ad un’ora piuttosto che ad  un’altra del giorno o della notte.
In relazione ad Antonio, Atanasio precisa: (Vit. Ant 3): “lavorava con le sue mani perché aveva inteso: Chi non lavora, neppure mangi (2 Tess. 3,10).  Con una parte del suo guadagno comprava il pane di cui aveva bisogno, il resto era per i poveri.  Pregava continuamente, aveva applicato a sé la necessità di pregare senza tregua.  Ascoltava con una tale attenzione che non gli sfuggiva nulla delle Scritture e i libri si erano trasfusi nella sua memoria“.  L’osservazione che emerge dal testo di Atanasio ci fa notare la contiguità della preghiera con altre attività, in particolare con il lavoro.   Non è possibile inoltre parlare della Scrittura come scuola di preghiera presso i Padri del deserto senza un riferimento alle due notevoli Conferenze che Cassiano consacra esplicitamente alla preghiera, tutte la due attribuite ad abba Isacco: la 9° e la 10°.
Il principio fondamentale è stabilito come pre-condizione all’inizio della Conferenza 9°: “Scopo del monaco e la perfezione del cuore consistono in una perseveranza ininterotta della preghiera.” Isacco spiega che il resto della vita monastica, l’ascesi e la pratica delle virtù ha senso e ragione solo se conduce a questo fine.

Cosa significa lectio divina?
   Prima di inoltrarmi nella riflessione, desidero puntualizzare che parlando di lectio divina presso i padri del deserto, nella mia conferenza, non mi riferisco all’espressione tecnica (e riduttiva) di lectio divina così come è riscontrabile nella letteratura spirituale e monastica degli ultimi decenni.
Il termine latino lectio nel suo primo significato si riferisce ad un insegnamento: una lezione.  In un secondo momento, con un senso derivato, lectio può anche designare un testo, o un insieme di testi, che trasmettono un determinato insegnamento.  Così si può parlare di sezioni (lectiones) della scrittura lette durante la liturgia.  Infine, in un senso ancora più derivato e tardivo, lectio può anche poter dire lettura.  Quest’ultimo senso è evidentemente quello nel quale si intende questa termine oggi.  In effetti ai nostri giorni si parla di lectio divina come di un’osservanza determinata: sia indicando una forma di lettura differente da tutte le altre, sia soprattutto sottolineando che l’autentica lectio divina non è da confondersi con altre forme di ‘lettura spirituale’. 
Questa visione è moderna e rappresenta una concezione estranea ai Padri del deserto e qui intendo soffermarmi.
Se si consulta l’insieme della letteratura latina (cristiana) antica (cosa che oggi è facilmente accessibile sia con delle buone concordanze sia con il CDROM di CETEDOC), si constata che ogni volta in cui si ritrova l’espressione lectio divina negli autori latini prima del medio evo, questa espressione designa la stessa Sacra Scrittura e non una attività umana sulla medesima.  Lectio divina è sinonimo di sacra pagina. Così si dice che la lectio divina ci insegna la tale o tal’altra cosa, che il divino Maestro ci richiama a questa o quella esigenza ecc.
es:

 Cipriano:  “Sit manibus divina lectio” (De zelo et livore, cap 16);
Ambrogio: “ut divinae lectionis exemplo utamur” (De bono mortis, cap 1, par.2)
Agostino: “aliter invenerit in lectione divina” (Enarr in psalmos, ps 36, serm. 3, par. 1).

Questo è l’unico senso che possiede l’espressione lectio divina all’epoca dei padri del deserto.  A partire da questo senso che si sviluppa questa conferenza, eccetto quando farò allusione all’approccio contemporaneo.  Non parlerò di un’osservanza particolare avente come oggetto la Scrittura, ma della stessa Scrittura come scuola di vita e scuola di preghiera dei primi monaci.

Lettura?
   Parlare di “lettura” della Scrittura nei Padri può quindi indurre confusione.  La lettura propriamente detta, così come la intendiamo oggi, doveva essere fatto assai raro.  I monaci pacomiani, per esempio, che venivano per lo più dal paganesimo, dovevano, dal momento del loro arrivo al monastero, apprendere a leggere se ancora non sapevano farlo, al fine di apprendere la Scrittura.  Un testo della regola dice che non ci dovrà essere nessuno nel monastero che non conosca a memoria almeno il Nuovo testamento e i Salmi.  Una volta memorizzati,  i testi diventano l’oggetto di una ‘meletè’, di una meditatio o ruminatio continua lungo tutto il giorno e gran parte della notte, in privato come nella sinassi.  Questa ruminatio delle Scritture non è conosciuta come una preghiera vocale, piuttosto come un contatto costante con Dio attraverso la Sua parola.  Un’attenzione costante che diventa una preghiera costante.
Un detto degli apoftegmi esprime bene questa importanza relativa della lettura in rapporto all’importanza assoluta del contenuto della scrittura: “In un momento di grande freddo, Serapione incontra ad Alessandria un povero completamente nudo.  Si dice: “E’ Cristo ed io sono un omicida se muore prima che abbia potuto aiutarlo’.  Serapione si toglie i suoi vestiti e li dona al povero e resta nudo, per la strada, con un solo oggetto conservato: un Vangelo sotto il braccio…Un passante che lo conosce gli domanda: ‘Abba Serapione chi ti ha tolto i tuoi vestiti?’  E Serapione, mostrando il suo Vangelo, risponde: ‘Ecco chi mi ha tolto i miei vestiti’.  Serapione di dirige da un’altra parte e vede un tale condotto in prigione, perché impossibilitato a saldare il suo debito.  Serapione, preso da pietà, gli dona il suo Vangelo perché lo possa vendere e rimborsare il suo debito.  Quando, infine, probabilmente rabbrividendo, Serapione rientra alla sua cella, il suo discepolo gli domanda dove è la tunica e Serapione risponde che la lasciata là dove era più necessaria che sul suo corpo. Alla seconda domanda del discepolo: “Dove è il tuo vangelo?” Serapione risponde: “ Ho venduto colui che mi dice continuamente: ‘Vendete i vostri beni e donateli ai poveri (Lc 12,33); l’ho donato ai poveri e così avere un fiducia più grande per il giorno del giudizio” (Pat Arm. 13,8 R:III, 189).
Come abbiamo detto all’inizio, Antonio, cristiano dalla nascita, fu convertito alla vita ascetica dalla lectio divina, o sacra pagina, proclamata dalla comunità ecclesiale locale nel corso della celebrazione liturgica.
Pacomio, appartenente ad una famiglia pagana dell’Alto Egitto, fu pure convertito dalla Scrittura, ma dalla Scrittura interpretata e incarnata nella vita concreta di una comunità cristiana, che viveva il vangelo, quella di Latopoli.  Conoscete la storia: Il giovane Pacomio è destinato all’armata romana e messo su una nave che lo conduce con gli altri coscritti verso Alessandria.  Una sera la nave si ferma a Latopoli e i coscritti sono messi in prigione; i cristiani intervengono portando loro viveri e bevande.  E’ il primo incontro di Pacomio con il cristianesimo.  Per Antonio, rappresentante per eccellenza dell’anacoretismo, come per Pacomio, rappresentante del cenobitismo, la Scrittura è prima di tutto la regola di vita.  Ella stessa la sola autentica regola del monaco.  Ne l’uno ne l’altro scriveranno regole nel senso inteso dalla tradizione monastica seguente, anche se un certo numero di prescrizione concrete di Pacomio e dei suoi successori siano stati riuniti sotto il nome di “Regola di Pacomio”.
(Scrittura come unica “Regola” del monaco; a un gruppo di fratelli che volevano una ‘parola’ di Antonio, rispose: “Avente ascoltato la scrittura? fa al caso vostro” (notare l’espressione: ‘ascoltare’ – èkousate) (Ant. 19).
Un altro domanda ad Antonio: “Che devo fare per piacere a Dio?”.  L’anziano risponde: “ Osserva ciò che ti suggerisco: dovunque tu vada, abbia sempre Dio davanti ai tuoi occhi; qualunque cosa tu faccia, falla secondo quanto trovi nella Scrittura” (Ant. 3).
Sottolineiamo subito tre cose in questo breve apoftegma.  Il monaco che interroga Antonio non ricerca un insegnamento teorico e astratto.  La sua domanda, come quella del giovane ricco del vangelo, è molto concreta: “Che devo fare?” – “Che devo fare per piacere a Dio?” (E’ per altro un’attitudine che si ritrova costantemente negli apoftegmi).  La risposta di Antonio è duplice: Si piace a Dio se si ha sempre Dio davanti agli occhi, in concreto se si vive costantemente in presenza di Dio – questa è la concezione che hanno i Padri del deserto a proposito della preghiera continua; e questo è possibile se i si lascia guidare dalle Scritture.  Antonio non si riferisce qui alla lettura e alla meditazione delle Scritture, ma svolgere ogni cosa secondo la testimonianza delle Scritture.  Un giorno Teodoro, discepolo preferito di Pacomio, gli domanda, con l’ardore tipico del neofita, quanti giorni debba restare senza mangiare durante la Pasqua, precisamente la Settimana Santa.  (La regola della Chiesa e l’uso comune prescriveva l’intero giorno del venerdì santo e del sabato santo;  per alcuni era possibile stare digiuni per tre o quattro giorni).  Pacomio gli raccomanda di attenersi alla regola della chiesa, che prescrive il digiuno totale per i soli due ultimi giorni, per avere così, dice, la forza di compiere senza difficoltà le cose che ci sono comandate dalle Scritture: la preghiera incessante, le veglie, le recita delle lodi di Dio e il lavoro manuale.
Ciò che importa prima di tutto per i Padri del deserto, non è leggere la Bibbia , ma viverla.  E’ ovvio che per viverla bisogna conoscerla.  Come tutti i cristiani, il monaco apprende la Scrittura innanzi tutto ascoltandola proclamare nell’assemblea liturgia.  Apprende quindi a memoria delle parti importanti della Scrittura alfine di poterla ruminare lungo tutta la giornata.  Da ultimo, alcuni avevano accesso a manoscritti della Scrittura e ne potevano fare una lettura privata.  Quest’ultima non era che una forma tra le altre, e non necessariamente la più importante, per lasciarsi costantemente interpellare dalla Parola di Dio.

L’ermeneutica del deserto.
   Gli episodi sopra menzionati ci lasciano intravedere le linee di forza di quella che è possibile definire l’ermeneutica dei padri del deserto  – una ermeneutica che, sicuramente mai formulata sotto forma di principi astratti, nondimeno esiste.  I grandi maestri dell’ermeneutica contemporanea, che considerano l’interpretazione come un dialogo tra il testo e il lettore o l’ascoltatore, e per i quali l’interpretazione deve normalmente condurre a una trasformazione o a una conversione, non hanno inventato nulla.  Formulano una realtà che i padri del deserto hanno vissuto, sicuramente senza formularla – in ogni modo senza preoccuparsi di formularla.
Nel deserto la Scrittura è costantemente interpretata.  Questa interpretazione non si esprime sotto forma di commentari e di omelie, ma di azioni e digesti, in una vita di santità trasformata dal dialogo costante del monaco con la Scrittura.  I testi rivelano sempre un ulteriore significato non solo per quelli che li leggono o li ascoltano, ma anche per quanti incontrano che hanno incarnato i testi nella loro vita.  L’uomo di Dio che ha assimilato la Parola di Dio è divenuto un nuovo ‘testo’ e un nuovo oggetto di interpretazione.  Ed è in questo contesto che occorre comprendere il fatto che, nel deserto, alla parola dell’Anziano viene attribuita la stessa forza della parola della Scrittura.
Ho menzionato più sopra l’apoftegma di Antonio che risponde ai fratelli: “Avete inteso la Scrittura? Fa al caso vostro”.  Di fatto i fratelli non furono soddisfatti di questa risposta e gli dissero: “Padre noi vogliamo anche una parola da te”.  Allora Antonio dice loro: “Il Vangelo dice. se qualcuno ti percuote su una guancia, tu offrigli anche l’altra”.  “Non ci riusciamo” rispondono.  L’Anziano ribatte: “Se non potete offrire l’altra, sopportate almeno che vi percuotano su una” – “Neppure” – “Se anche questo è impossibile, almeno non rendete il male ricevuto” “Neanche questo” – Allora l’Anziano dice al suo discepolo: “Prepara loro un pasticcio di farina perché sono malati.  Se non potete questo e non potete quello: che ci posso fare? Voi avete bisogno di preghiere”

Figli della Chiesa di Egitto e di Alessandria
   Questo modo di concepire la Scrittura come Regola di vita non era per altro propria dei monaci.  Non bisogna dimenticare che i Padri del deserto che conosciamo attraverso gli Apoftegmi, la letteratura pacomiana, Palladio e Cassiano ecc. sono prima di tutto monaci egiziani della fine del terzo e inizio del quarto secolo.  Questi monaci sono figli della Chiesa.  Appartengono ad una Chiesa concreta, quella dell’Egitto, formata dalla tradizione di Alessandria.  Il mito secondo cui la maggior parte dei primi monaci, a cominciare da Antonio, furono degli analfabeti e ignoranti, non regge alla critica.  Numerosi studi recenti, particolarmente quello di Samuel Robinson sulle lettere di Antonio, hanno dimostrato che Antonio e i primi monaci del deserto di Egitto avevano assimilato l’insegnamento spirituale della Chiesa di Alessandria, ancora profondamente segnato dall’insegnamento dei grandi maestri alessandrini e in particolare dall’afflato mistico impresso dal più illustre di loro: il grande Origene.
La Chiesa di Alessandria era nata dalla prima generazione cristiana, nell’ambito di una diaspora giudaica assai raffinata e, secondo Plinio, raggruppante circa un milione di membri;  si spiega come questa Chiesa di Egitto e di Alessandria abbia avuto dall’origine un netto orientamento giudeo-cristiano.  Questo inoltre spiega ugualmente la sua apertura alla tradizione scritturistica e mistica che aveva segnato la chiesa giudeo-cristiana delle prime generazioni.
La scuola del deserto è, sotto molti profili, la replica nella solitudine della scuola di Alessandria dove si sa che Origene ha vissuto con i suoi discepoli un’esistenza monastica incentrata sulla parola di Dio. Secondo una bella descrizione di Gerolamo, tra preghiera e lettura, lettura e preghiera, di notte come di giorno (Lettera a Marcella 43,1; PL 22:478: Hoc diebus egisse et noctibus, ut et lectio orationem exciperet, et oratio lectionem).  Tutto questo, però, non era proprio dell’Egitto.  Più o meno nello stesso periodo Cipriano di Cartagine formulava una regola che sarà citata in seguito più o meno da tutti i padri latini:  “Occorre pregare assiduamente, o leggere; in certi momenti parla Dio, in altri ascolta Dio che ti parla” (Lettera 1,15; PL. 4:221 B: Sit tibi vel oratio assidua vel lectio: nunc cum Deo loquere, nunc Deus tecum – che diverrà classica in questa formula: “quando preghi, sei tu che parli a Dio, quando leggi, Dio ti parla”).
Se non tutti i monaci d’Egitto furono come Evagrio, e se pochi erano in grado di leggere Origene, nondimeno furono formati alla spiritualità cristiana dall’insegnamento di pastori si dimostrarono fortemente influenzati dall’orientamento che Origene aveva dato alla Chiesa di Alessandria attraverso la scuola che aveva diretto per molti anni.
Questo spiega la solida spiritualità biblica del monachesimo primitivo.  Si potrà obiettare che le citazioni bibliche dirette sono poco numerose negli Apogtefmi, anche se più numerose nella letteratura pacomiana.  La riposta è che la Scrittura aveva talmente imbevuto il modo di vivere di quegli asceti, che era superfluo citare dei passaggi.  Il monaco pneumoforo era colui che, vivendo secondo le Scritture, era ricolmato dello stesso Spirito che aveva ispirato le Scritture.  (Siamo lontani dall’abitudine contemporanea che, per prendere in considerazione,  pretende che tutte le affermazioni, tutti gli insegnamenti abbiano una nota  in fondo pagina dove deve essere indicato chiunque abbia detto la stessa cosa in precedenza).
La tradizione con la quale oggi definiamo la lectio divina, cioè desiderio di lasciarci interpellare e trasformare dal fuoco della parola di Dio, non è comprensibile, senza un accordo, al di là del monachesimo primitivo, alla tradizione dell’ascesi cristiana dei primi tre secoli e al suo radicamento nella tradizione di Israele.
Dalla catechesi della sua Chiesa locale, il monaco ha appreso di essere stato creato a immagine di Dio, immagine deformata dal peccato e bisognosa di riforma.  Ne deriva la necessità di lasciarsi trasformare e riconfigurare ad immagine di Cristo.  Attraverso l’azione dello Spirito Santo e secondo il vangelo, la somiglianza con Dio è gradualmente restaurata e ed è possibile conoscerLo.
L’inizio della vita del monaco, così come si esprime Cassiano, è la preghiera continua, che descrive come una costante attenzione alla Presenza di Dio, che si realizza attraverso la purezza di cuore.  Non ci si arriva attraverso questa o quell’altra osservanza, neppure attraverso la lettura o la meditazione della Scrittura, ma lasciandosi trasformare dalla Scrittura.
Il contatto con la Parola di Dio –poco importa se questo contatto avviene attraverso la lettura liturgica della parola, l’insegnamento di un padre spirituale, la lettura privata del testo o la semplice ruminatio di un versetto o di qualche brano memorizzato – questo contatto è il punto di partenza di un dialogo con Dio.  Il dialogo si stabilisce e si prosegue nella misura in cui il monaco sia attento ad una certa purezza di cuore, una semplicità di cuore e di intenzione, e nella misura in cui mette in opera i mezzi per arrivare a questa purezza di cuore e li mantiene.  Questo dialogo nel corso del quale la parola spinge continuamente il monaco alla conversine mantiene l’attenzione continua a Dio, che i padri considerano come una preghiera continua e che è l’inizio della loro vita.  Per i monaci del deserto la lettura e la Parola di Dio non è semplicemente un esercizio religioso di lectio che prepara gradualmente lo Spirito e il cuore alla meditatio e poi all’orazio, con la speranza di poter arrivare alla contemplatio (…se possibile prima che la mezzora o ora di lectio sia conclusa).  Per i monaci del deserto il contatto con la parola è contatto con il fuoco che brucia, sbaraglia, chiama violentemente alla conversione.  Il contatto con la Scrittura non è per loro un metodo di preghiera; è un incontro mistico.  E questo incontro fa loro spesso paura, tanto sono coscienti delle sue esigenze.

Circolo ermeneutico
   La Scrittura comprende costantemente un senso nuovo, ogni volta che viene letta.  Qui di nuovo l’ermeneutica contemporanea si ricollega alle intuizioni dei Padri del deserto.  Si ritroveranno chiaramente nell’affermazione di Agostino:  “Ieri tu hai compreso un po’; oggi comprendi di più; domani maggiormente: la luce stessa di dio divine più forte in te” (In Ioh. tract 14,5 CCL 36, p144, linee 34-36).
Per i monaci del deserto le parole della Scrittura (come per altro quelle degli Anziani) trascendono le dimensioni limitate dell’ ”evento” in cui sono state inizialmente incontrate e in cui si percepisce il significato.  Queste ‘parole’ proiettano un ‘universo di senso’ in cui sono inviatati ad entrare.  La chiamata a vendere tutto, a donarlo ai poveri, a seguire il Vangelo (Mt 19,21), l’esortazione a non lasciare che il sole tramonti sulla collera (Ef 4,25), il comandamento di amare; tutti questi testi hanno formato la vita dei Padri del deserto in un modo particolare e hanno creato un ‘universo di senso’ in cui si sono sentiti spinti ad entrare, di cui si sono sforzati di impadronirsi.  La santità nel deserto consiste nel donare una forma concreta a questo universo di possibilità presenti nei testi sacri, interpretandole e appropriandosene nella vita concreta.
Abba Nestore (nella Conferenza 14° di Cassiano) ci dice “dobbiamo avere lo zelo di apprendere a memoria la suite delle scritture e di ripassarle senza tregua.  Questa meditazione continua – ci dice – ci procurerà un doppio frutto”.  Innanzitutto ci preserverà dai cattivi pensieri. Poi questa recita o meditazione continua ci condurrà ad una comprensione ogni volta rinnovata.  Nestore ha questa frase rilevante: “ A misura che, attraverso questo studio, il nostro spirito si rinnova, le Scritture cominciano a cambiare di aspetto (scripturarum facies incipiet innovari).  Ci è donata una comprensione più misteriosa, la bellezza si espande con i nostri progressi.”  (Ancora una volta troviamo un filo conduttore tra la messa in pratica delle Scritture e la capacità di comprenderle ad un livello sempre più profondo).
(Si potrà ancora una volta porre in relazione questa visione all’approccio moderno di Ricoeur, per esempio, che spiega come un testo, una volta uscito dalle mani dell’autore acquista una esistenza autonoma e assume un nuovo significato ogni volta che è letto – ogni lettura è una interpretazione, a sua volta rivelazione di una delle possibilità pressoché infinite contenute nel testo).
Secondo il metodo moderno della lectio divina, si deve leggere lentamente ci si deve fermare di fronte ad versetto lungamente per nutrire il cuore, o lo spirito, se non le emozioni, e non passare a quello seguente se non quando i sentimenti si sono raffreddati e l’attenzione dissipata.  I primi monaci, loro, restavano su un versetto molto a lungo fino a quando non l’avessero messo in pratica.
Un tale andò a trovare abba Pambo domandandogli di insegnargli un salmo.  Pambo si mise a insegnargli il salmo 38: ma appena pronunciato il primo versetto: “Ho detto: ‘Guarderò la mia strada, senza lasciare che la mia lingua sgarri’…” il fratello non volle ascoltare di più.  Disse a Pambo, questo versetto mi basta; implora Dio che abbia la forza di apprenderlo e metterlo in pratica.  Diciannove anni più tardi era sempre lì a sforzarsi…” (Arm 19,23 Aa: IV 163).
Allo stesso modo, ad abba Abramo, che era un eccellente scriba, oltre ad essere un uomo di preghiera, qualcuno domanda di copiare il salmo 33.  Si limita a copiare il versetto 15: “Distogli da te il male e fai il bene; cerca la pace e perseguila” dicendo al fratello: “Intanto pratica questo, poi scriverò ancora…” (Arm 10,67; III, 41).
   La Bibbia per i Padri non era qualcosa da conoscere con l’intelligenza, non solo con il cuore, come ci piace dire oggi, (confondendo per altro di frequente il concetto biblico di cuore con una nozione di ‘cuore’ più recente e anche un po’ sentimentale).  Per i padri si conosce la Bibbia assimilandola al punto di tradurla nella propria vita.  Ogni altra conoscenza che non conduce a questo punto è vana.

Comprensione della scrittura
   Tutto questo non vuole però significare che non dobbiamo avvicinare la scrittura con l’intelligenza.  I monaci sono desiderosi di conoscere il senso letterale della Scrittura prima di applicarla.  Nei monasteri pacomiani, per esempio, ogni settimana c’erano tre catechesi durante le quali sia il superiore del monastero, sia il superiore della casa interpretava la Scrittura durante la Sinassi, dopo che i fratelli avevano scambiato tra loro quanto avevano percepito, per assicurare che tutti avessero ben compreso.
L’interpretazione di un testo difficile richiede uno sforzo di intelligenza; ma questo sforzo sarà inutile senza la luce divina  che occorre domandare nella preghiera.  E in questo senso la preghiera deve precedere la lectio al punto che ne può essere il frutto.  A due fratelli che interrogavano Antonio sul senso di un testo difficile del libro del Levitico, Antonio domanda di attendere un po’ di tempo, durante il quale si mette in preghiera, domandando a Dio di inviargli Mosè per apprendere da lui il senso di queste parole (Arm 12, 1B; III, 148).  Prima di lui Origene faceva lo stesso, domandando ai suoi discepoli di pregare con lui per ottenere la comprensione di un testo sacro particolarmente difficile, alla fine, diceva di trovare ‘l‘edificazione spirituale’ ’(Origene, Omelia sulla Genesi, SC, Paris 1943, Hom 2,3, p. 96).
Sottolineiamo l’espressione ‘contenuta nel testo’.  Il senso spirituale non è qualcosa che venga posto lì artificialmente, ma qualcosa contento nel testo che occorre scoprire.
Allo stesso modo, un grande monaco, Isacco di Ninive, scriveva: “Non avviciniamo le parole colme di mistero della scrittura senza preghiera…di a Dio: “ Signore donami di capire la forza che vi si trova”  (cfr J. WENSINGK, Mystic Treatises by Isaac of Nineve, Amsterdam 1923, par. 329, ch. XLV, p. 220). 
Quello che si cerca in un testo, non è un significato astratto, atemporale, è una forza capace di trasformare il lettore.
Le teorie moderne sulla lectio divina insistono di solito sul fatto che la lectio è qualcosa del tutto diverso dallo studio.  I Padri non avrebbero compreso questa distinzione e questa divisione in comportamenti separati.  Il loro approccio alla Scrittura era unificante.  Ogni sforzo per apprendere la Scrittura, comprenderla, metterla in pratica è stato un unico sforzo per entrare in dialogo con Dio e lasciarsi trasformare da lui in un dialogo che diveniva una preghiera continua.  Né loro, né Origene –per eccellenza l’uomo della Scrittura- né soprattutto Girolamo, per il quale l’ignoranza della Scrittura era ignoranza di Cristo (In Isaiam, Prol. CCL 73,2, CCL 78,66), non avrebbero compreso uno studio della Scrittura che non fosse al contempo un incontro personale con Dio.
Per Girolamo, la preghiera prende avvio non tanto dal cuore, ma dall’intelligenza (da dove passa nel cuore).  Bisogna conoscere Dio per amarlo.  Chi conosce veramente, ama necessariamente.  Da qui l’importanza di studiare a fondo le Scritture con la propria intelligenza.
A proposito di Marcella, che più di tutti gli altri discepoli di Girolamo aveva studiato a fondo le Scritture e le eleggeva assiduamente, di lei diceva: “Aveva capito che la meditazione non consiste solo nel ripetere i testi della Scrittura…perché sapeva che avrebbe posseduto l’intelligenza delle scritture dopo aver tradotto nella vita i comandamenti.” (Ep. 127,4, CSEL 56,148).
Nella 14° Conferenza di Cassiano, il mediatore della spiritualità del deserto egiziano dove aveva vissuto nel corso di diversi anni, come Evagrio, distingue due forme di scienza, la pratctikè e la theoretikè, essendo quest’ultima la contemplazione delle cose divine e la conoscenza dei significati più sacri.  Questa theoretikè, o contemplazione delle cose divine, si chiama anche “vera scienza delle Scritture”, che è divisa in due parti, l’interpretazione storica e l’intelligenza spirituale.  L’una e l’altra appartengono alla contemplazione.  Cassiano aggiunge: “se volete giungere alla vera scienza delle scritture, date da fare per acquistare una autentica umiltà di cuore.  Essa vi condurrà non alla scienza che si sgonfia, ma a quella che illumina, attraverso la consumazione della carità.”  Pertanto ciò che fa sì che lo studio della Scrittura sia una attività contemplativa, oppure no, non è il metodo utilizzato per la lettura o l’interpretazione, ma l’attitudine del cuore.

Precomprensione
   L’ermeneutica di Ricouer ci insegna che quando leggiamo un autore antico non si entra completamente in relazione con il pensiero dell’autore che con la stessa realtà di cui parla l’autore.  Questo perché non è possibile una comprensione di un testo senza una pre-comprensione che consiste in una certa relazione già esistente tra il lettore e la realtà di cui parla il testo.  Ora, si trova già una medesima intuizione in Cassiano, alla fine della 10° Conferenza.  Isacco dopo aver spiegato i mezzi per arrivare alla preghiera pura aggiunge: “Vivificato da questo alimento (quello delle Scritture) di cui non smettiamo di nutrirci, si penetra a questo punto tutti i sentimenti espressi nei salmi, che recita disarmato, non solo come sono stati composti dal profeta, come fosse stato lui stesso l’autore, e come una preghiera personale…”  E aggiunge: “E’ allora che le Scritture divine ci appaiono con maggiore chiarezza e in un certo qual modo ci aprono il loro cuore e le lro viscere, quando la nostra esperienza personale non solo avverte, ma ne previene la conoscenza, e così finiremo per intuire non solo il senso delle parole con l’aiuto di qualche esposizione, ma come il frutto di un esercizio che noi stessi abbiamo fatto. » (Conf X, 11)… « Ammaestrati da tali sentimenti finiamo come di toccarli con mano, non come cose udite, quanto piuttosto come cose vedute personalmente; non come cose affidate alla memoria, quanto piuttosto come cose insinuate in noi dalla realtà della nostra natura, come generate dall’interno del nostro cuore, così che noi potremo penetrare il loro senso, non derivandolo dalla lettura del testo,  ma dalla nostra esperienza vissuta. » (ibid.)
Non esiste comprensione e interpretazione senza una pre-comprensione.  Sotto questo aspetto è chiaro che la vita che i monaci conducono nel deserto, fatta di silenzio, solitudine e ascesi, costituisca una precompresnione che condiziona largamente la loro comprensione della Scrittura.  Silenzio e purezza di cuore si pongono come delle percondizioni per intendere e interpretare la Scrittura nel suo senso più completo.
E’ ovvio che questo già è presente, almeno in una certa misura.  Ecco perché Girolamo indica un ordine nel quale apprendere la Scrittura: dapprima il salterio, poi i proverbi di Salomone e il Qohelet, poi il Nuovo Testamento.  E solo dopo che l’anima è lungamente preparata attraverso un’intensa amicizia amorosa con Dio che può avvicinare con frutto il cantico dei cantici.

Parole degli Anziani
Talvolta i Padri del deserto rispondevano alle questioni che erano loro poste con un espressione della Scrittura; ma rispondevano anche con altre parole, a cui attribuivano la medesima importanza.  Ci si convince che la grande forza di queste parole veniva dalla grande purezza di vita del santo anziano che le diceva, perché lui stesso era stato trasformato dalla Scrittura.

Il concetto moderno di lectio divina
   Vorrei ora fare qualche osservazione in relazione al concetto che abbiamo oggi di lectio divina alla luce dell’insegnamento dei Padri del deserto che si sta presentando.
Ciò che oggi si definisce lectio divina è presentato come un metodo di lettura della Scrittura e dei Padri del monachesimo.  Consiste in una lettura lenta e meditativa del testo, una lettura fatta più con il cuore che con l’intelligenza, non in un ambito pratico, ma semplicemente per lasciarsi impregnare dalla parola di Dio.  Questo metodo, in quanto metodo, prende le sue origini nel 12° secolo e non è senza relazione con ciò che è chiamato ‘teologia monastica’.  In questo periodo la pre-scolastica aveva sviluppato il proprio metodo che passava dalla lectio alla quaestio, poi alla disputatio.  La reazione dei monaci fu allora di sviluppare un loro proprio metodo: la lectio conduce alla meditatio poi all’oratio…e un po’ più tardi si aggiungerà la contemplatio che verrà distinta dall’oratio. Quindi l’approccio alle Scritture su descritto come proprio dei Padri del deserto in realtà era un approccio che avevano in comune con l’insieme del popolo di Dio, il nuovo approccio o nuovo ‘metodo’, perché sostenuto da un esercizio, un osservanza importante dell’esistenza monastica, si rifugiò nei monasteri.  Molto più tardi, all’epoca della devotio moderna verrà generalizzata la ‘lettura spirituale’ da distinguersi nettamente dalla lectio divina monastica.  Seguendo un indirizzo generale, la vita spirituale si specializza, o si divide in compartimenti stagni.  Non è tema della presente conferenza analizzare questa lunga evoluzione.  Nondimeno mi permetto alcune osservazioni. 
In primo luogo ci si può domandare come si sarebbe evoluta la teologia se i monaci non avessero respinto il metodo nascente.  In effetti, ciò che viene definito come teologia monastica non ebbe, fino al 12° secolo nulla di specificamente monastico.  Era il modo in cui si faceva la teologia nell’ambito del popolo di Dio anche, senz’altro, con un pluralismo assai marcato nei monasteri come fuori.  Questo modo sapienziale e contemplativo di fare teologia aveva assunto, fino a rendere proprio e trasformare (inculturare, si direbbe oggi), gli apporti dei diversi metodi e delle diverse correnti di pensiero.  E’ legittimo domandarsi come si sarebbe evoluta la teologia dei secoli seguenti se i monaci non avessero respinto il metodo nascente e avessero assimilato tutti quelli allora presenti.  In ogni modo, per il dritto o per il rovescio, un modo definito monastico di fare teologia si mantenne nei monasteri e la teologia scolastica si sviluppa nelle scuole al di fuori.  In Tommaso d’Aquino il nuovo metodo è ancora utilizzato in una prospettiva profondamente contemplativa, cosa che verrà completamente abbandonata dai commentatori e dai commentatori dei commentatori.
Lo stesso discorso può essere fatto per la Scrittura.  I monaci avevano giocato fino a quel momento un ruolo preponderante nell’interpretazione e nell’uso della Scrittura, anche se il loro approccio non era specificamente diverso da quello proprio dell’insieme del popolo di Dio.  A partire dal momento in cui subirono, pure senza rendersene conto, l’influenza della nuova teoria, elaborino un loro proprio metodo di lettura, parallelo a quello della scolastica, per cui vennero a trovarsi nella Chiesa due approcci nettamente distinti della Scrittura: una definibile come lettura del cuore (e che in certe epoche dimenticherà spesso di far seguire l’intelligenza) e una di orientamento scientifico che si inaridirà sempre più. 
D’altra parte si deve riconoscere che precisando il loro proprio metodo di lectio, i monaci erano di fatto dipendenti dalla nuova mentalità, pre-scolastica, che aveva creato un bisogno di metodo.  I primi monaci non avevano un metodo.  Avevano una attitudine di lettura.  Spesso, nel corso degli ultimi secoli, i monaci dimenticheranno il loro metodo proprio di leggere la Scrittura e i Padri e di fare la teologia. e adotteranno quello comune.  E’ stato dunque necessario per i monaci, alla nostra epoca, di ritornare a un modo di far teologia diverso da quello della teologia dei manuali scolastici, e di ritornare ad un modo di leggere la Scrittura e i Padri diverso da quello dell’ esegesi scolastica.  Si deve avere nei confronti di dom Jean Leclercq una grandissima riconoscenza per aver orientato il monachesimo contemporaneo in questa direzione.  Da allora, si può dire con un certo umorismo, che il concetto di teologia monastica e di lectio divina, così come si intendono queste due realtà oggi, sono le due più belle creazioni di dom Leclercq.
Ho già detto dell’importanza per il monachesimo riscoprire questo modo di leggere la Scrittura e questo modo di fare teologia.  Bisogna andare più lontano: bisogna riconoscere che questo modo di leggere la Scrittura e di fare teologia non è specificamente monastico.  E’ tutto il popolo di Dio che deve riscoprirlo perché questo era, una volta, il modo del popolo di Dio di leggere la Scrittura e fare teologia.
Tuttavia bisogna fare ancora un ulteriore passo.  Occorre oltrepassare la frammentazione della vita del monaco e di quella degli altri cristiani.  Bisogna scoprire la primitiva unità persa lungo la strada.
In effetti, mentre è doveroso rallegrarsi per il posto occupato dalla lectio divina nella vita dei monaci e anche nella vita di molti cristiani al di fuori dei monasteri da circa una quarantina d’anni, è altrettanto vero che l’attuale attitudine verso questa realtà non è privo di pericolo.
 Il pericolo è che, molto spesso, anche in maniera impercettibile, si tende a trasformare la lectio in un esercizio  – un esercizio tra gli altri, anche se lo si considera il più importante di tutti.
Il monaco fedele fa una mezz’ora o un’ora o anche più di lectio per giorno, e poi passa alla sua lettura spirituale, ai suoi studi e alle sue altre attività.  Adotta una attitudine gratuita di ascolto di Dio durante questa mezz’ora si rivolge spesso alle altre attività della giornata con la stessa frenesia, lo stesso spirito di competizione, la stessa distrazione come se non avesse scelto una vita di preghiera continua e di ricerca costante della presenza di Dio.
Non solo questo è del tutto estraneo allo spirito dei monaci del deserto, ma questa attitudine è in contraddizione con la stessa natura della lectio divina.  Il suo essenziale, così come descritto da molti teorici, è l’attitudine interiore.  Ora questa attitudine non è qualcosa di cui sia possibile rivestirsi in una mezz’ora o in una ora della giornata.  Impregna tutta la nostra giornata, oppure l’esercizio che definiamo ‘lectio’ non è che una parola vuota.
Lasciarsi interrogare da Dio, lasciarsi interpellare, formare, attraverso tutti gli elementi della giornata, attraverso il lavoro come gli incontri fraterni, attraverso la rude ascesi di un lavoro intellettuale serio, attraverso la celebrazione liturgica oppure alle normali tensioni di una vita comunitaria – tutto questo è terribilmente esigente.
Relegare questa attitudine di totale apertura in un esercizio privilegiato che è lui stesso immaginato per impregnare il resto della giornata è forse un modo troppo facile di risolvere questa esigenza.  Per i Padri del deserto, leggere, meditare, pregare, analizzare, interpretare, scrutare, tradurre la Scrittura  – tutto questo forma una unità indissolubile.  Sarebbe risultato impensabile ad es. per san Girolamo che la sua analisi potente del testo ebraico della Scrittura per penetrare tutti gli aspetti potesse essere una attività non degna del nome lectio divina.
E’ certamente ottima la riscoperta della lettura della parola di Dio con il proprio cuore per poter lasciarsi trasformare.  Ma credo sia un errore farne un esercizio piuttosto che impregnare di questa attitudine i molteplici aspetti della Scrittura.
Di più, credo che il testo della Scrittura mi può riagganciare nella mia vita profonda, interpellarmi e trasformarmi solo se mi situo davanti al testo completamente nudo, senza ricorrere a tutti gli strumenti che mi possono permettere di di riagganciare nel suo significato primitivo, rischio forte che conduce ad una attitudine fondamentalista -–per nulla rara ai nostri giorni – o ancora a un fausse mistica, anche questo assai frequente.
Poiché è generalmente ammesso ai nostri giorni che la lectio divina possa avere come oggetto non solamente la Scrittura ma anche i Padri della Chiesa e, per i monaci e le monache, particolarmente i padri del monachesimo, mi permetto una riflessione là-dessus ugualmente.
La tradizione monastica essendo una interpretazione vissuta della parola di Dio, ha una importanza assimilabile a quella, pur essendo in posizione secondaria.  (Abbiamo visto per altro come i Padri del deserto accordassero alla parola o all’esempio di un Anziano trasformato dallo Spirito quello proprio della Parola di Dio o di un esempio biblico.  Ma questa parola vissuta che è la tradizione monastica ha bisogno di essere interpretata e continuamente reinterpretata, anch’essa.
Ai nostri giorni nelle comunità monastiche si sono riscoperti i Padri.  E bisogna applaudire per questa riscoperta.  Ma il loro messaggio, ancor più di quello delle Scritture, è avvolto in un contesto culturale che non è, come sovente si crede, la cultura monastica – come se se ne fosse una – piuttosto il contesto culturale di tale o tal altra epoca particolare in cui i monaci antichi hanno vissuto la loro vocazione.  Il lettore moderno dovrebbe esporsi senza alcun spirito critico alla forza trasformante della grazia che hanno vissuto e veicolato; ma non può farlo che dopo aver scorticato con un senso critico, affinato l’involucro culturale sotto il quale si nasconde questo nutrimento prezioso.
Come non esiste una cultura cristiana, parallela a tutte le culture profane, piuttosto delle culture locali cristianizzate – per altro in gradi diversi; allo stesso modo non esiste una cultura monastica, piuttosto diverse culture trasformate dal carisma monastico.  L’utilizzazione dei padri come materia di lectio divina comporta un serio lavoro di esegesi e studio per riagganciare la realtà vissuta al di là dell’involucro culturale.  Altrimenti si legge se stessi nel testo che si ammira; e ne consegue che più ci si legge, più lo si ammira.
Il monaco sarà oggi interpellato, chiamato alla conversione, trasformato dalla lettura dei padri del monachesimo unicamente alla condizione che si lasci toccare da quelli in tutti gli aspetti della sua vita monastica.  E ciò non si produrrà che nella misura in cui li ricollegherà all’insieme della loro esperienza: ciò suppone una analisi approfondita della loro lingua, del loro linguaggio, del loro pensiero filosofico e teologico, del contesto culturale in cui sono vissuti.  Mi sembra artificiale e allo stesso tempo pericoloso distinguere questo studio dalla lectio propriamente detta…
Il monaco oggi appartiene necessariamente a una cultura determinata, e a una Chiesa locale legata ad una cultura cristiana determinata.  E’ questa cultura che in lui incontra la tradizione monastica e se ne deve lasciar interpellare e trasformare.  Temo che troppo spesso nei nostri approcci ai Padri noi spingiamo i giovani ad assumere come un vestito la cultura monastica di un epoca passata, con il rischio di trasformare i monasteri in campi di rifugio culturali.

Conclusione
I Padri del deserto ci raccomandano l’importanza primordiale della Scrittura nella nostra vita cristiana e la necessità di lasciarsi trasformare costantemente al suo contatto.
Pertanto uno studio rapido come quello fatto sul modo che avevano di accostare la Scrittura ci spinge a rivedere certi aspetti del concetto moderno di lectio divina, invitandoci ad oltrepassarli per poter raggiungere un più profondo senso di unità.  Il monaco, più degli altri, non può permettersi di essere diviso.  Il suo stesso nome, monachos, lo incita senza tregua all’unità di preoccupazione, aspirazione e attitudine propria di chi ha scelto di vivere un solo amore all’interno di un cuore indiviso.

Roma, 7 novembre 1995.

Armand VEILLEUX, o.c.s.o. 

Note: La gran parte delle citazioni dei testi monastici antichi sono ricavate da uno studio di Louis Leloir: « Lectio Divina and the Desert Fathers », Liturgy, Vol. 23, nº 2, 1989, pp. 3-38.
Una versione ridotta del medesimo studio è apparsa in francese in: « L’Écriture et les Pères », Revue d’Ascétique et de Mystique 47 (1971), pp. 183-199.

GEREMIA & DIETRICH BONHOEFFER GEMELLI IN CRISTO (la base paolina dello studio è notevole)

dal sito:

http://www.biblia.org/index.php/archivio/approfondimenti-culturali.html

APPROFONDIMENTI CULTURALI -XXXVII (ANNO XIX, N. 3)

GEREMIA & DIETRICH BONHOEFFER GEMELLI IN CRISTO

‘FRAMMENTI’ PER UNA RICERCA’

Riproduciamo il testo dell’intervento svolto da Marco Tommasino nel corso del seminario estivo dedicato a Geremia. Per ragioni di spazio abbiamo dovuto tagliare la suggestiva cornice narrativa del testo,salvandone però integralmente il messaggio. Ce ne scusiamo con l’autore e lo ringraziamo per le sue riflessioni. Tommasino si presenta come un fisico e un informatico e non come teologo e biblista: gli amanti della Bibbia auspicano il moltiplicarsi di questi fisici e informatici.

Ringraziamenti
Ho dedicato questa ricerca ad alcune persone che con la loro vicinanza e amicizia continuano ad aiutarmi a rinnovare l’uomo interiore di giorno in giorno, mentre quello esteriore si va disfacendo [cfr.2Cor 4,16]. Questa è donata ai nuovi amici di Biblia, alla mia maestra di Bibbia, Eugenia Verna che ha il dono di annunciare la Parola, alla comunità di Bose per la lunga amicizia, e a Paolo De Benedetti da parte di mia nipote Alice.

DB ha capito il libro di Geremia
Il libro di Geremia è croce e delizia di esegeti e semplici lettori per la sua ‘non linearità’. Ma ormai è canonico: e quindi deve avere un suo senso compiuto. Il testo di Geremia trova una definizione della sua unità in questo pensiero di Bonhoeffer. Nella lettera ad Eberhard Bethge del 23 febbraio 1944 scrive:

… la nostra esistenza spirituale resta incompiuta. Tutto dipende ormai dal fatto se sia possibile ancora scorgere, sulla base della frammentarietà della nostra vita, in che modo era progettato e pensato il tutto, e di quale materiale sia fatto. Ci sono poi frammenti che ormai fanno parte solo della spazzatura (per i quali sarebbe troppo anche un « inferno » decoroso) ed altri che restano significativi attraverso i secoli, perché il loro completamento può essere solo affare di Dio, cioè frammenti che devono essere frammenti -penso ad esempio all’Arte della fuga [di J.S. Bach]. Se la nostra vita rispecchia anche solo da lontano un frammento di questo tipo, nel quale i diversi temi che si aggiungono sempre più numerosi si armonizzano almeno per un breve istante, e nel quale il grande contrappunto viene mantenuto stabilmente dall’inizio alla fine, sicché poi, dopo l’interruzione, al massimo si può intonare ancora il corale « Così mi avanzo davanti al tuo trono » -allora non dobbiamo lamentarci neppure della nostra vita frammentaria, ma dovremo anzi esserne contenti. Non mi esce più dalla testa il capitolo 45 di Geremia. Forse ti ricordi ancora di quel sabato sera a Finkenwalde, quando l’ho commentato? Anche qui, un frammento di vita -necessariamente tale - »ma la tua anima te la darò come bottino ».

Geremia & DB gemelli
Con quali prove?
Due anni fa ho capito che Geremia aveva influenzato profondamente il pensiero di Bonhoeffer. Dal vicariato a Barcellona nel 1928 fino a Tegel, alle soglie della fine, egli riprende più e più volte il pensiero di Geremia con una passione fortissima. Allora ho pensato: forse si può dire che c’è tra i due un legame più forte di un semplice interesse? Si può arrivare a dire che Geremia ha gettato il suo mantello nella storia ed è finito addosso a Bonhoeffer? O che Geremia è risuscitato dai morti?

Santi e profeti
Geremia è santo canonizzato, e Bonhoeffer? Nel 1998 a seguito di un rifacimento del transetto
ovest dell’Abbazia di Westminster, sono state poste dieci statue di martiri cristiani di ogni confessione che, nel passato recente, hanno dato la loro vita per il Vangelo. Tra di loro ci sono Dietrich Bonhoeffer, Martin Luther King, Massimiliano Kolbe e Oscar Romero. Anche lui ora gode di un certo riconoscimento ufficiale. Geremia è profeta, riconosciuto da tutti, anche da chi lo aveva rifiutato. E Bonhoeffer? Ma chi è il profeta? Bonhoeffer, nel 1928, parla del profeta in una conferenza a Barcellona: profeta? Bonhoeffer, nel 1928, parla del profeta in una conferenza a Barcellona:
Un profeta è un uomo che si sa preso da Dio e chiamato in un momento determinato, sconvolgente della sua vita, ed ora non può più fare altro che andare in mezzo agli uomini e annunziare la volontà di Dio. La vocazione è diventata il punto di svolta della sua vita, e per lui c’è ancora soltanto una cosa, il seguire questa vocazione, ammesso pure che questa lo porti all’infelicità e alla morte. Così dice Amos (3,8): « Il Signore Iddio parla, chi può non profetare? ».

Profeti in un tempo di crisi
Qual è il tempo in cui hanno vissuto Geremia e DB? Un tempo di crisi. Un’epoca in cui Dio vaga
senza meta per il suo regno gridando: « Consolatemi, consolatemi, o mio popolo » perché il suo popolo va verso la Shoà. Egli è come Rachele, che « piange i suoi figli e rifiuta di essere consolata perché non sono più » (Ger 31,15). È un tempo in cui il Signore dice ai suoi profeti: « Ecco, vi metto le mie parole sulla bocca./Ecco, oggi vi costituisco/sopra i popoli e sopra i regni/per sradicare e demolire,/per distruggere e abbattere,/per edificare e piantare » (Ger 1,10). Geremia e DB vivono nello stesso tempo storico, un tempo di Shoà: la prima e l’ultima.

Frammenti di storia
Uno sguardo alle biografie fa intravedere rassomiglianze e parallelismi.
Prima di tutto l’amico/discepolo/segretario. Tutti i due hanno un compagno di vita e di lotta e che si occupa di trasmettere pensieri e racconti di vita: Baruch e Eberhard Bethge. A entrambi viene lasciato un viatico: a te darò la vita come bottino (Ger 45,4). Geremia deve rinunciare a esercitare il sacerdozio, come avrebbe richiesto il suo stato di famiglia. Bonhoeffer non sarà mai pastore in una parrocchia tedesca. I contrasti con le autorità civili e religiose sono continui, i due tendono a isolarsi. Non in una torre d’avorio, ma perché devono annunciare una parola che non ammette sconti, nemmeno per loro stessi. Geremia è insidiato dalla sua stessa famiglia: gli uomini di Anatòt attentano alla sua vita dicendo: « Non profetare nel nome del Signore, se no morirai per mano nostra » (Ger 11,21). Il sacerdote e sovrintendente-capo del tempio Pascùr lo fa fustigare e lo imprigiona, dopo l’episodio della brocca spezzata (Ger 20,2). I sacerdoti e i profeti chiedono per lui una sentenza di morte, perché aveva osato predicare nel
tempio, ricordando la fine del santuario di Silo (Ger 26,1-11). È accusato di disfattismo e tradimento: « Tu passi ai Caldei! » (Ger 37,13). È imprigionato più volte (Ger 20,2; 32,2;37). A Bonhoeffer nel 1936 viene ritirata l’autorizzazione all’insegnamento universitario. Nel settembre del 1940 gli viene vietato di parlare in pubblico ed è obbligato a segnalare i propri movimenti alla polizia « a motivo della sua azione disgregatrice in mezzo al popolo ». Nel marzo
del 1941 riceve il divieto di stampare e pubblicare. Il 5 aprile 1943 è arrestato.

La vocazione
Dice Geremia:
Mi fu rivolta la parola del Signore:
« Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo,/prima che tu uscissi alla luce,/ ti avevo consacrato;/ti ho stabilito profeta delle nazioni » (Ger 1,4-5). Bonhoeffer nutrì il desiderio di divenire pastore e teologo fin da bambino, e lo mantenne finché non l’ebbe realizzato. Ma quando capì che la sua vita al servizio diretto di Dio non sarebbe stata « un’esistenza silenziosa e quieta da pastore » come quella pensata da suo padre?
A 22 anni, mentre era vicario a Barcellona, così egli si dichiara:
Ogni parola deve esser detta dal presente per il presente, e se non sempre nella forma più esplicita, tuttavia in modo sufficientemente chiaro per l’osservatore dei nostri giorni. Siamo uomini del XX secolo e dobbiamo, ci piaccia o no, adattarci a questo fatto, o piuttosto dobbiamo avere tanto amore per questo nostro tempo, per questa nostra generazione, da esserle solidali nella miseria e nella speranza. È sufficiente questo per capire quale sarebbe stata la sua via. Ancora nella stessa conferenza dedica ampie parti al dramma di Geremia: Colui che era legato al suo popolo con amore bruciante, doveva sperimentare il carcere come un vigliacco o un disertore, poi la completa emarginazione con l’esser gettato in una profonda cisterna, finché accadde quello che egli aveva profetizzato: Gerusalemme cadde, in un attimo fu conquistata, il tempio distrutto, la famiglia del re giustiziata, e il popolo portato in prigionia, lontano dalla terra tanto celebrata, dal tempio, dalla patria che il Signore gli aveva dato. L’ultima parola che il vegliardo Geremia riceve da Dio, è sconsolata: « Ecco: ciò che ho costruito, Io lo demolisco, ciò che ho piantato, Io lo sbarbo… e tu pretendi grandi cose per te? » (Ger 45,4 s.). Dio stesso soffre: come può allora un uomo lamentarsi del dolore! … Si era alla fine, i profeti erano stati sconfitti, la tragedia della loro vita era compiuta, il sipario calava, il quinto atto era finito; eppure nella notte che aveva fatto irruzione, si annunciava già da lontano l’albeggiare di un giorno… Ancora torna la vita di Geremia nell’omelia Dolore della vocazione, a Londra nel ’34, in cui medita una confessione di Geremia (Ger 20,7: « Tu mi hai sedotto, o Signore, ed io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza, ed hai vinto »). E Geremia era fatto della nostra carne e sangue, era un uomo come noi. Soffre delle continue umiliazioni, dello scherno, della violenza, della brutalità degli altri, e così infatti, dopo una tortura straziante, durata tutta una notte, si sfoga in questa preghiera: « Tu mi hai sedotto, o Signore, ed io mi sono lasciato sedurre, mi hai fatto violenza, ed hai vinto ». Dio, tu hai voluto utilizzarmi per le tue azioni. Mi hai teso insidie, non mi hai più lasciato libero, all’improvviso, nei punti più impensabili, mi hai tagliato la strada, mi hai attirato e affascinato, ti sei reso docile e disponibile il mio cuore, mi hai parlato del tuo desiderio e del tuo amore eterno, della tua fedeltà e della tua forza; quando cercavo la forza, tu mi rafforzavi, quando cercavo un appiglio, tu mi sostenevi, quando cercavo il perdono, tu mi perdonavi la colpa. … Mi hai catturato come uno sprovveduto, ed ora non posso più liberarmi, ora mi trascini via, come tua preda, mi leghi insieme ad altri al tuo carro di trionfo e ci trascini al tuo seguito, perché partecipiamo al tuo trionfo, strapazzati e torturati. Potevamo saperlo che il tuo amore è così doloroso, la tua grazia così dura? … Migliaia di membri della chiesa e di pastori oggi nella chiesa del nostro paese corrono il pericolo della repressione e della persecuzione a causa della loro testimonianza per la verità. Non sono andati a cercarsi questa strada per ostinazione e arbitrio, ma vi sono stati portati, sono stati costretti a percorrerla. Spesso contro la loro volontà, contro la loro carne e sangue, perché Dio aveva loro fatto violenza, perché non riuscivano più a resistere a Dio, perché dietro di loro si era chiusa una porta, ed essi non potevano più tornare indietro rispetto alla parola di Dio, al suo appello, al suo comando. Frequentemente desideravano godere interiormente di pace, quiete e silenzio, di non esser più costretti ad ammonire, minacciare, protestare, o testimoniare la verità. Ma erano costretti: guai a noi se non predicassimo il Vangelo! « O Dio, perché ci sei così vicino? ». Il non potersi più liberare da Dio: ecco l’inquietudine angosciosa di ogni vita cristiana.

La grande rinuncia
Dio chiede ai suoi una rinuncia senza sconti.
Geremia Mi fu rivolta questa parola del Signore: Non prendere moglie, non aver figli né figlie in questo luogo … (Ger 16,1-2). A Geremia è richiesto il celibato. È la prima volta nell’AT. Ma non è una scelta semplice. Tre volte piange perché cesseranno nelle città di Giuda e nelle vie di Gerusalemme voci di giubilo e voci di gioia, la voce dello sposo e la voce della sposa (Ger 7,34; 16,9; 25,10). Sì, il profeta ha obbedito al comando del Signore, ma gli è rimasta una grande nostalgia. …/ Poiché il Signore crea una cosa nuova sulla terra: la donna cingerà l’uomo! …/A questo punto mi sono destato e ho guardato; il mio sonno mi parve soave (Ger 31,22.26). È forse uno dei semi del Cantico di Cantici? Ed ecco prorompere tra le profezie di salvezza il canto di gioia per quello che gli è negato. Dice il Signore: In questo luogo, di cui voi dite: Esso è desolato, senza uomini e senza bestiame; nelle città di Giuda e nelle strade di Gerusalemme, che sono desolate, senza uomini, senza abitanti e senza bestiame, si udranno ancora voci di giubilo e voci di gioia, la voce dello sposo e la voce della sposa … (Ger 33,10-11). La storia di DB è molto più triste. Nel 1941 scrive a Erwin Sutz un inno all’amore sponsale: Negli anni passati ho scritto parecchie lettere per le nozze di qualcuno dei fratelli … In tutti casi la caratteristica principale di questo avvenimento che era sempre dato dal fatto che uno si arrischi, in questi tempi ‘ultimi’ a fare un passo di questo genere, in cui si dice di sì alla terra e al suo futuro. In tutti questi casi mi era chiarissimo che si può fare questo passo da cristiani solo se realmente ci si fonda su una fede forte e sulla grazia. Poiché proprio in mezzo alla rovina si può costruire; proprio quando si vive ora per ora, giorno per giorno, si vuol costruire un futuro; proprio quando si è scacciati dalla terra, si vuol costruire uno spazio, che in mezzo alla generale miseria sia uno spazio di felicità. E ciò che è sbalorditivo è che Dio consente questa singolare aspirazione, che Dio consente al nostro volere, mentre dovrebbe essere piuttosto il contrario. Per cui il matrimonio diventa qualcosa di interamente nuovo, di forte, di splendido per noi che vogliamo essere cristiani in Germania. …
Ma soprattutto ha scoperto e vissuto l’amore per Maria, un amore forte, pieno di speranza. Non ben visto dalla famiglia di lei, riesce a superare anche questo ostacolo. Ecco quello che viene dal profondo del suo cuore, nell’agosto del ’43: Tu non puoi immaginare che cosa nella mia attuale situazione significhi l’avere te. Sono sicuro che qui c’è la guida speciale di Dio…Ogni giorno resto sorpreso per quanto immeritatamente io abbia ricevuto questa felicità, e ogni giorno sono profondamente commosso pensando a quale dura scuola Dio ti abbia condotto in questo ultimo anno. E ora il suo volere sembra sia che io debba arrecarti dolore e sofferenza… in modo tale che il nostro reciproco amore possa acquisire le giuste basi e la giusta capacità di resistenza (endurance). Quando dunque penso alla situazione del mondo, alla totale oscurità che circonda il nostro destino personale e alla mia attuale detenzione, allora credo che la nostra unione può essere solo un segno della grazia e della bontà di Dio, che ci chiama alla fede. Saremmo ciechi se non lo vedessimo. Nel momento del grande bisogno del suo popolo, Geremia dice: « In questo paese si debbono ancora comprare case e campi » (Ger 32,15), un segno della fiducia nel futuro. È qui che è in gioco la fede. Possa Dio donarcela ogni giorno … Ma, all’inizio di giugno, la verità si fa strada nella poesia Passato inviata a Maria, una delle sue confessioni: « Te ne sei andata, amata felicità e dolore duramente amato,/che nome ti darò?… ». Io credo che a questo punto Bonhoeffer abbia pensato anche lui: Mi hai ingannato, Signore, e io mi sono lasciato ingannare; mi hai fatto forza e hai prevalso (Ger 20,7). Però insiste e protesta: « Io voglio la mia vita, la mia vita esigo/di ritorno,/il mio passato,/te! ». La risposta che posso immaginare è dura: « Se, correndo con i pedoni, ti stanchi,/come potrai gareggiare con i cavalli?/Se non ti senti al sicuro in una regione pacifica,/che farai nella boscaglia del Giordano? (Ger 12,5) « Se tu ritornerai a me, io ti riprenderò/e starai alla mia presenza; …/io sarò con te/per salvarti e per liberarti./Oracolo del Signore. Ti libererò dalle mani dei malvagi/e ti riscatterò dalle mani dei violenti » (Ger 15,19-21).
Ma l’esito finale è purtroppo un altro.

Il ‘riv’
Geremia: una protesta contro la sofferenza si intitola un bel commento di Henry Mottu. Sì, Geremia discute continuamente con Dio e lo chiama a testimone del male che lo circonda e del
dolore che gli provoca l’essergli fedele. Tu sei troppo giusto, Signore, / perché io possa discutere con te; / ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia. / Perché le cose degli empi prosperano? (Ger 12,1) Forse, Signore, non ti ho servito del mio meglio? (Ger 15,11)
Non essere per me causa di spavento, / tu, mio solo rifugio nel giorno della sventura (Ger 17,17). Prestami ascolto, Signore, / e odi la voce dei miei avversari. / Si rende forse male per bene? / Poiché essi hanno scavato una fossa alla mia vita. / Ricordati quando mi presentavo a te, / per parlare in loro favore, / per stornare da loro la tua ira (Ger 18,19-20). Mi dicevo: « Non penserò più a lui, / non parlerò più in suo nome! ». / Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, / chiuso nelle mie ossa (Ger 20,9). In DB la protesta, mi sembra che abbia un altro taglio. È il carattere della persona che è diverso? O anche perché tra i due su cui il « verbum Domini factum est » (così più di 40 volte la Vulgata traduce ‘la parola del Signore fu rivolta a Geremia’) c’è stata, storicamente, la Parola di Dio fatta carne?

Ancora dalla poesia Passato:
…/È come se con tenaglie roventi mi si strappassero/ brani di carne,/ quando tu, mia vita passata, veloce ti allontani./ Dispetto ed ira mi assale, pongo domande furiose e vane./ Perché? perché? perché? ripeto./ Se i miei sensi non ti possono trattenere,/ vita che passi, che sei passata,/ io voglio pensare e ancora pensare,/ finché troverò ciò che ho perduto./ … Io voglio la mia vita, la mia vita esigo/ di ritorno,/il mio passato,/ te!/… Dalla poesia ‘Chi sono io? sempre del 8 luglio 1944: « Chi sono? Questo porre domande da soli è derisione./ Chiunque io sia, tu mi conosci, tuo sono io, o Dio! »

Per edificare e piantare
Ecco, oggi vi costituisco sopra i popoli e sopra i regni … per edificare e piantare (cfr. Ger 1,10). Geremia ha lasciato profonde parole di speranza al suo popolo: per un futuro storico abbastanza vicino. Voglio soffermarmi in particolare sulla cosiddetta lettera agli esiliati (Ger 29): Così dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele, a tutti gli esuli che ho fatto deportare da
Gerusalemme a Babilonia: Costruite case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti; prendete moglie e mettete al mondo figli e figlie, scegliete mogli per i figli e maritate le figlie; costoro abbiano figlie e figli. Moltiplicatevi lì e non diminuite. Cercate il benessere del paese in cui vi ho fatto deportare. Pregate il Signore per esso, perché dal suo benessere dipende il vostro benessere (Ger 29,4-7). Anche Bonhoeffer ha lasciato molte tracce per il cammino della chiesa e dei singoli credenti. Mi soffermo su una delle sue ultime riflessioni dal carcere. Il giorno seguente al fallito attentato a Hitler, il 21 luglio 1944, egli scrive ad Eberhard Bethge queste sconvolgenti righe:

Più tardi ho appreso, e continuo ad apprenderlo anche ora, che si impara a credere solo nel pieno essere-aldiquà [essere in questo mondo] della vita. Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa di noi stessi -un santo, un peccatore pentito o un uomo di chiesa (una cosiddetta figura sacerdotale), un giusto o un ingiusto, un malato o un sano -, e questo io chiamo essere-aldiquà [essere in questo mondo], cioè vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze, delle perplessità -allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsemani, e, io credo, questa è fede, questa è metànoia, e così si diventa uomini, si diventa cristiani (cfr. Geremia 45). Perché dovremmo diventare spavaldi per i successi, o perdere la testa per gli insuccessi, quando nell’aldiquà della vita [nella vita di questo mondo] partecipiamo alla sofferenza di Dio? Tu capisci che cosa intendo dire, anche se lo dico così in poche parole. Sono riconoscente di aver avuto la possibilità di capire questo, e so che l’ho potuto capire solo percorrendo la strada che a suo tempo ho imboccato. Per questo penso con riconoscenza e in pace alle cose passate e a quelle presenti.

Padre, è giunta l’ora
Resistenza e sottomissione.
Ecco il ‘sia fatta la tua volontà’ di Geremia. … Geremia rispose a tutti i capi e a tutto il popolo: « Il Signore mi ha mandato a profetizzare contro questo tempio e contro questa città le cose che avete ascoltate. Or dunque migliorate la vostra condotta e le vostre azioni e ascoltate la voce del Signore vostro Dio e il Signore ritratterà il male che ha annunziato contro di voi. Quanto a me, eccomi in mano vostra, fate di me come vi sembra bene e giusto … (Ger 26,12-14). Nella poesia La morte di Mosè del settembre 1944 DB aveva già ricapitolato tutta la sua vita. Tu che punisci i peccati e perdoni volentieri,/ Dio, questo popolo io l’ho amato./ Aver portato la sua vergogna e i suoi vizi/e aver scorto la sua salvezza: questo mi basta./ Reggimi, prendimi! Il mio bastone s’incurva,/ preparami la tomba, o fedele Iddio. Con la poesia Delle potenze benigne del 19 dicembre 1944, scritta alla fidanzata e ai famigliari, egli annuncia la sua sottomissione completa al Signore: …/oh, Signore, dona alle nostre anime impaurite/la salvezza per la quale ci hai creato./E tu ci porgi il pesante calice, amaro,/della sofferenza, ripieno fino all’orlo,/e così lo prendiamo grati, senza tremare/dalla tua buona e amata mano./E tuttavia ancora ci vuoi donare gioia,/per questo mondo e lo splendore del suo sole,/e allora vogliamo ricordare ciò che è passato/ e così appartiene a te la nostra intera vita./…
Ora DB aspetta solo di essere innalzato. La sua ultima parola è: « È la fine, per me l’inizio della vita ». Il richiamo immediato è a quello che Ignazio di Antiochia scrive ai Romani: « Io sono frumento di Dio e sono macinato dai denti delle fiere, per diventare pane puro di Cristo ».

La morte
La morte di Geremia e Bonhoeffer non è come quella di Mosè, che « morì sulla bocca del Signore » che poi lo seppellì nella valle, nel paese di Moab, di fronte a Bet-Peor (cfr. Dt 34,6). Ma di tutti e due è chiara la scelta:/Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato … (Es 32,32). Geremia
Leggiamo nella Bibbia:
Così egli [Geremia liberato dai babilonesi] rimase in mezzo al popolo (Ger 39,14b). Allora Geremia andò in Mizpà da Godolia figlio di Achikàm, e si stabilì con lui in mezzo al popolo che era rimasto nel paese. (Ger 40,6). Giovanni figlio di Kàreca e tutti i capi delle bande armate e tutto il popolo non obbedirono all’invito del Signore di rimanere nel paese di Giuda… e andarono nel paese d’Egitto, non avendo dato ascolto alla voce del Signore, e giunsero fino a Tafni [portando con sé a forza Geremia] (Ger 43,4.7).
Come muore Geremia? La Bibbia non lo dice.
L’apocrifo Vite dei profeti racconta: Geremia era di Anatot e morì a Dafne in Egitto, lapidato dai suoi concittadini.
Dove è sepolto? Ancora leggiamo nelle Vite dei profeti:
[Geremia] Riposa nel perimetro del palazzo di Faraone, poiché gli Egiziani lo onorarono per aver ricevuto del bene da lui.
Bonhoeffer è portato a Flossenbürg. Il 5 aprile del 1945 Hitler aveva definito la lista dei congiurati che dovevano assolutamente essere eliminati: tra di essi il suo nome. L’esecuzione ha luogo lunedì 9 aprile, dopo la domenica in Albis, e se ne hanno solo testimonianze indirette. I condannati vengono appesi, nudi, a un gancio e strangolati. Anche lui muore sospeso tra cielo e terra, come il suo Signore. dove sono? Forse Geremia è nelle sabbie del deserto. E Bonhoeffer, insieme a tanti in quell’ora, forse « passati per un camino, ora sono nel vento ». Solidali fino in fondo con il loro popolo tanto amato, anche nella polvere.

Tu, Geremia, il profeta più solo
Prima di lasciare la conclusione a Geremia, tento di riassumere questi miei « frammenti » con
queste variazioni su una poesia di David Maria Turoldo: Tu, Geremia, il profeta più solo,/ sei dell’autentica chiesa la voce;/ annuncio di Cristo come nessuno,/ di quanti oggi puoi esser figura?/Certo, del nostro fratello più vero/ Dietrich Bonhoeffer il pastore,/ solidale con il suo popolo e con la/ chiesa per cambiarne il cuore./Chiesa, voi chiese, popoli tutti/godete e tremate:/è stato Dio, è tutto da Dio! …/O vocazioni assolute e terribili,/questi destini assurdi e terribili!/Tu -voce antica -già scelto dall’utero/ sedotto da quando eri un fanciullo/ e lui a te gemello in Cristo:/ più che dall’uomo uccisi da Dio.

l’ultimo « riv »
Parole di Geremia al suo Signore:
Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa discutere con te;/ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla tua giustizia,/ vorrei fare un ultimo « riv »:/ci hai preso nelle tue mani,/ci hai plasmato nel ventre di nostra madre/ ci hai consacrato, benedetto,/ ci hai spezzato con prove
e dolori,/ ci hai dati agli uomini come profeti./Perché? perché? Lammah?/Dio, Dio nostro, perché ci hai abbandonati?/

Parole del Signore a Geremia e DB:
Mi chiedete questo proprio voi che/ invece di patire per le vostre sofferenze,/ avete preso parte alla mia sofferenza/nella vita del mondo?/A me che ho abbandonato la mia casa,/ho ripudiato la mia eredità;/ho consegnato ciò che ho di più caro/nelle mani dei suoi nemici?/A me, che ho consegnato il mio Figlio tanto amato,/ l’unigenito, che era tutta la mia gioia,/ nelle mani degli empi, voi domandate perché?/ Nel giorno dell’angoscia il Signore vi risponde,/ infatti così è stato detto:/ Mi invocherà e gli risponderò: con lui sono nell’angoscia./Mi sono caricato delle vostre sofferenze,/mi sono addossato i vostri dolori./Nella vostra angoscia sono anche io angosciato./Ma ora tutto il vostro passato io vi rendo/-oracolo del Signore -,/ bruciato nella fiamma del mio amore,/e vi farò dono della vita come bottino,/ la mia vita per i secoli dei secoli. Amen.

Marco Tommasino

Le nozze di Cana

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Le tematiche della sapienza umana e della Sapienza divina e della resurrezione dei morti nella Prima Lettera ai Corinti di Paolo di Tarso

dal sito:

http://www.artcurel.it/ARTCUREL/RUBRICHEAUTORI/FrancescoCuccaro/FCsapienzaumanadivina1letteraCorintiPaolo.htm

ARTCUREL: Arte, Cultura e Religione

TEOLOGIA BIBLICA DEL NUOVO TESTAMENTO

Le  tematiche della sapienza umana e della Sapienza divina e della resurrezione dei morti nella Prima Lettera ai Corinti di Paolo di Tarso

di Francesco Cuccaro
 
Premessa
 
Nel suo secondo viaggio missionario, Paolo si trova a diffondere il messaggio di Cristo in Grecia.  A Tessalonica converte numerose persone, servendosi del contributo di Sila e Timoteo.
A quanto si legge dagli Atti, non sembra che il suo brevissimo soggiorno ad Atene sia stato programmato, anche se la capitale dell’Attica diviene una tappa obbligata per svolgere altre peregrinazioni.
In questa città ( siamo più o meno intorno al 49 E.V. ), tuttavia, Paolo dà sfogo al suo dinamismo missionario, ma vi sperimenterà un colossale fallimento. Si trova direttamente di fronte ad interlocutori già professanti l’idolatrìa vera e propria. E neanche tanto facili da superare diffidenze addirittura nei confronti di uno straniero banditore di nuovi culti, di un predicatore barbaro.
Paolo ha il senso del limite e delle proporzioni ma, convinto della ‘potenza della Parola’ ( del ‘Dabàr’ ), della ‘Parola di Dio’, non si lascia scoraggiare. Anzi, entusiasticamente, si rivolge a quelli che possono apparirgli le energìe intellettuali più vivaci di tutta la cittadinanza ateniese.
Questo capitolo degli Atti degli Apostoli ( At. 17, 16-34 ) può essere visto come la documentazione di una sfida della Rivelazione biblica nei confronti dell’Ellenismo più puro, cioé diverso da quello già incontrato nei territori grecofoni del Medio Oriente. Anzi, appare un confronto critico non tanto verso le forze naturali dell’uomo che si esprimono nel genio poetico, letterario, filosofico, artistico-figurativo della civiltà ellenica, quanto nei confronti dell’orientamento razionalistico difeso e custodito dalle migliori menti dell’epoca. Ma un confronto critico non dà adito per forza ad una controversia o polemica. Paolo ricerca con questi intellettuali ateniesi un punto di equilibrio tra le loro posizioni e le esigenze della sua predicazione.
Quale può essere un fertile terreno d’incontro tra due visioni della vita e della religione così differenti tra loro ?  Per esempio : la critica all’antropomorfismo della religione e della mitologìa olimpiche. E’ innegabile lo sforzo positivo condotto da alcuni filosofi greci nel concepire Dio come primo principio cosmologico, secondo una tendenziale linea che va, grosso modo, da Senofane di Colofane  a Platone, da Aristotele a Plotino. Menzionando un verso poetico di Arato di Soli, ripreso e modificato dallo stoico Cleante di Asso ( At. 17, 28 ), Paolo riconosce questo sforzo, ma anche la sua insufficienza a debellare il politeismo con la conseguente idolatria. Come pure avverte -lui straniero- la difficile coesistenza tra la convinzione in un unico e superiore Dio, come sembra testimoniare la presenza di un’ara dedicata al Dio ignoto ( At. 17,23 ), e la credulità superstiziosa del popolino. Inoltre, deve anche  misurarsi con lo scetticismo che pervade il contesto culturale dei ceti medio-alti.
Immaginiamo una scommessa che Paolo fa a se stesso, con il proposito di vincerla, incentrata proprio su quell’altare con la dedica ad una divinità sconosciuta che sembra essere indeterminata, senza volto e senza forma. Luca riporta fedelmente il testo della predica tenuta all’Areòpago ( sede del tribunale, ma anche luogo di discussioni pubbliche ) :
 “Allora Paolo, alzatosi in mezzo all’Areòpago, disse ‘Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli déi. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione : Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che é signore del cielo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo, né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa” ( At. 17,22-25 ).
Fermiamoci un attimo. Il ragionamento che fa il Nostro é abbastanza pertinente per un evoluto spirito greco, fino ad essere ritenuto ovvio e di una sorprendente banalità. Nel senso che l’Apostolo non ha detto nulla di nuovo, considerando Dio come Colui che ha fatto il mondo e tutto ciò che esso contiene. Paolo ha evitato di presentare una dottrina della creazione dal nulla, forse per misura prudenziale. Un discorso come questo lo avrebbe portato lontano dai suoi obiettivi e forse urtato più di tanto la suscettibilità dei suoi ascoltatori che considerano la materia come eterna. Quindi, l’idea di un Dio che ha fatto il cielo e la terra non é estranea alla mentalità di chi sostiene la demiurgica ordinazione del mondo dal caos primigenio. Pertinente può apparire anche il discorso di una derivazione da una sola coppia originaria di tutto il genere umano :
“Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto : ‘Poiché di lui stirpe noi siamo’ ” ( At. 17,26-28 ).
Un discorso che avrebbe tuttavia urtato gli interessi di profittatori senza scrupoli e pronti a strumentalizzare l’ingenua credulità popolare, onde ottenere lauti guadagni, come sarebbe accaduto, di lì a qualche anno, ad Efeso con il celebre tumulto di Demetrio e degli argentieri ( At. 19, 21-41 ).
“Essendo noi stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana” ( At. 17,29-30 ).
C’é un fondo velato di ironia in questa esclamazione. I migliori cervelli arrivano a soprannaturalizzare il divino, ma la base popolare rimane ancora legata a credenze superficiali e ormai superate.
“Dopo esser passato sopra ai tempi dell’ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi, poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo…..” ( At.17, 30-31 ).
Neanche dopo l’incontro, sulla via di Damasco, con il Signore risorto, Paolo abbandona quello che si potrebbe dire lo zelo integralista del pio israelita riguardo alla giustizia di Jahveh, alla condanna del peccato e dell’idolatrìa, alla punizione universale di tutti gli uomini ( senza l’intervento provvidenziale di un uomo ).  
L’ Apostolo delle Genti non ha peli sulla lingua : questo zelo lo esibisce anche, e soprattutto, nei confronti degli idolatri. Onde la necessità di una ‘conversione’ o ‘ravvedimento’ di questi ultimi, cioé un ‘cambiamento di mentalità e di vita’.
Ecco la rivelazione sconcertante :
“…..giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti” ( At 17,31 ).
Ma Dio non sembra premiare subito questo zelo rigorista del suo inviato. Questa comunicazione così rapida e immediata non dà il risultato sperato. Il pubblico non solo non aderisce al messaggio di Paolo, ma lo rende oggetto di scherno e di irrisione.
Beninteso, questa fiducia dell’Apostolo nella ‘potenza della Parola’ non verrà mai meno, né durante né dopo l’apparente sconfitta subita all’Areòpago di Atene. Avvertirà la consapevolezza che essa debba andare adeguata alle aspettative, alle esigenze, agli schemi mentali, ai pregiudizi degli uomini, ai tempi opportuni, secondo una pedagogìa progressiva. Lo smacco di Atene, deplorevole in se stesso, ha avuto il merito di inculcare nel predicatore e in noi il rispetto della dignità e della libertà della persona umana che Dio non violenta. L’integralismo religioso va, pertanto, umiliato.
Non si formerà mai una vera e propria comunità cristiana ad Atene, almeno fino al IV secolo quando il Cristianesimo diverrà la religione ufficiale dell’Impero Romano. Fatta eccezione per un piccolo numero di convertiti, come Dionigi e Damaris durante il soggiorno paolino ( At. 17,34 ), la capitale dell’Attica rimarrà, per lungo tempo, la roccaforte inespugnabile della resistenza dell’Ellenismo pagano al Vangelo.
Questo ci sembra l’orizzonte di minima intelligibilità nel quale situare l’insuccesso del kerygma  apostolico ad Atene, sempre che Luca ci garantisca la fedeltà testuale di quello che Paolo ha detto e ha fatto, e che il suo racconto non sia piuttosto un riassunto.
L’immediatezza di una notizia relativa ad un evento storico, quale la resurrezione di un uomo dalla morte, e il vago accenno ad una credenza, diffusa nell’ambiente palestinese, concernente un ritorno dalla morte alla vita per tutti gli uomini in un giorno stabilito da Dio, scandalizzano il pubblico ateniese abituato, da secoli di educazione filosofica e retorica, ad una ricerca di prove ferreamente logiche e ad un consequenziale tessuto di dimostrazioni, per la gioia di Piergiorgio Odifreddi.
Il testo lucano della predica di Paolo offre -potremmo dire- dei chiaroscuri, nel senso che non vengono citati quegli argomenti di carattere biblico che legano la precedente affermazione dell’esistenza di un Dio superiore e nascosto al tema del giudizio universale e a questo insolito discorso sulla resurrezione dei morti.
Se ci mettessimo dalla parte degli interlocutori, pure noi potremmo meravigliarci non solo del senso oscuro delle parole di Paolo, ma soprattutto della mancanza di nesso logico nel passaggio da un tema all’altro.
Ma non che Paolo non sia consapevole di questa inevitabile difficoltà. Dopo lo smacco di Atene e durante la sua permanenza a Corinto, l’Apostolo sarà assillato da questo dilemma : come e a chi presentare il Cristo crocifisso e risorto ?
Questo celebre discorso all’Areopago nasce dall’improvvisazione e dall’entusiasmo, finanche eccessivo e forse anche ingenuo, nell’immediatezza riguardo i copiosi frutti in termini di miracoli, di conversioni, di trasformazioni interiori che una ‘rivelazione soprannaturale’ comporta, omettendo le stesse prove logiche e storiche sulle quali essa, pur tuttavia, si basa ?  Oppure il testo lucano sembra suggerire la presa di coscienza, da parte dell’Apostolo, della mancanza, per così dire, di tempi tecnici per preparare un discorso più articolato, stringente e consequenziale ?  Come pure Paolo ha tenuto conto della totale mancanza di conoscenza -da parte degli Ateniesi- delle Sacre Scritture ebraiche e degli schemi culturali del popolo eletto. Era opportuno, in quel momento, dire che : Dio ha creato dal nulla la prima coppia umana ?  Questa ha peccato contro Dio e ha fatto incorrere il genere umano nella sua “ira”?  Occorreva parlare della necessità della redenzione dal peccato e dalle sue conseguenze per opera dello stesso Dio che doveva assumere la natura umana, incarnandosi, diventare un israelita, per poi morire di una morte infamante e, successivamente, risorgere ?  Che il popolo ebraico é stato il primo depositario di questa rivelazione di salvezza attraverso i profeti ?
Anche una misura prudenziale può rendere comprensibili tutte queste omissioni, ma é stata assente quando si é parlato apertamente della resurrezione dei morti  ( figuriamoci, poi, se Paolo avesse insistito sul Cristo morto in croce ).
Il minimo che gli é capitato é stata la compassione. I suoi connazionali più fanatici gli avrebbero riservato, senza tanti complimenti, il peggio : la lapidazione!
Tutte e tre le ipotesi per cercare di gettare uno spiraglio di luce sul mistero di questo clamoroso fallimento del discorso paolino all’Areòpago sono egualmente valide. Rimane tuttavia una certezza : l’esternazione dell’Apostolo serba i caratteri dell’avventura, del rischio e dell’imprevedibilità che sfugge ad ogni calcolo premeditato.
Questo tema della ‘resurrezione dei morti’ é per giunta estraneo alla mentalità ellenica e non condiviso pienamente da tutta la nazione ebraica ( alcune correnti religiose, come quella dei Sadducei, la contestano addirittura ).
Presso i Greci -e finanche in alcune popolazioni mediorientali- sussiste una sorta di pessimismo circa la sopravvivenza ultraterrena. Si avverte in essi un atteggiamento fatalistico estremo dove domina sovrana l’inesorabile legge della necessità e del determinismo che non permette deroghe di alcun tipo, quale può essere ritenuto il miracolo*. Da secoli l’immaginario collettivo ha sempre insistito sul tema dell’immortalità estendendola agli déi ed agli eroi della mitologìa olimpica e delle religioni misteriche. Immortalità vissuta nel sogno e nel desiderio, difficilmente provata, dal punto di vista filosofico, per quanto concerne la sopravvivenza delle anime umane. E su questo punto le scuole di pensiero dell’epoca si contrappongono l’una all’altra : i Platonici la sostengono in modo deciso e, con gli Orfici, la collegano alla reincarnazione; mentre, al contrario, gli Stoici e gli Epicurei la contestano.
Per non parlare poi del disprezzo unanime verso il corpo e la materia intesi –ontologicamente- come irrilevanti, oltre ad essere corruttibili, anche se viene più che tollerata ed incoraggiata la ricerca dei piaceri della tavola e del sesso. Un tale disprezzo viene portato all’estremo, invece, dai sostenitori di correnti di pensiero dualistiche.
L’argomento della ‘resurrezione dei corpi’, accennato da Paolo nel suo discorso all’Areòpago, non solo appare una sorpresa, ma suscita la totale irrisione da parte degli astanti. Non sarà mai facilmente assimilato dalla coscienza greca, perfino da chi ha accettato il messaggio di salvezza di Cristo, come testimonieranno le stesse lettere paoline ( e, in modo specifico, la prima ai Corinti ).
Con la scomparsa degli Apostoli, la seconda generazione dei credenti vedrà fiorire posizioni –anche se minoritarie ma con un certo peso nel tessuto ecclesiale- che rigetteranno esplicitamente la resurrezione corporea di Gesù Cristo o la intenderanno in un senso morale o allegorico o spirituale, esasperando l’aspetto della partecipazione mistica da parte dei fedeli a questo presunto evento. Posizioni che saranno alla base del pensiero docetico e gnostico, oggetto della letteratura apologistica successiva a quella neotestamentaria.
 
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Paolo di Tarso giunge a Corinto e viene ospitato da un giudeo convertito al Cristianesimo, ma proveniente da Roma a seguito di un editto di espulsione emanato dall’imperatore Claudio ( siamo intorno al 50 ) : Aquila. Non solo i due connazionali sono accomunati dalla medesima fede, ma professano il mestiere di fabbricanti di tende ( At. 18, 1-3 ).
 
L’ Apostolo attende tempi migliori per riprendere l’attività missionaria, soprattutto dopo l’arrivo, nella capitale dell’Acaia, dei suoi discepoli Sila e Timoteo  ( At. 18,4 ).
Corinto é una città commerciale e marittima opulenta, situata sull’istmo omonimo che la fa, in un certo senso, da crocevia tra l’Oriente e Roma che, dal 146 prima E.V., la domina direttamente, insediandovi un proconsole di nomina senatoriale (all’epoca del soggiorno paolino é Gallione, probabile fratello del filosofo latino Seneca). La capitale dell’Acaia sembra possedere un volto più pragmatico che speculativo, a differenza di Atene, anche se non vi é assente una classe intellettuale che si diletta di filosofìa e di retorica.
Per il povero Paolo il quadro non si presenta però, di primo acchìto, lusinghiero. Incontra, per la prima volta, una cittadinanza profondamente idolatra e, per di più, dedita al culto di Afrodite, il cui tempio sull’Acrocorinto ospita più di mille prostitute sacre denominate ‘ierodule’, permettendo in tal modo il fiorente malcostume sessuale. “Vivere alla maniera dei Corinzi” significa adottare uno stile di vita disordinato.
A Corinto c’é una cospicua colonia giudaica. Questo dato facilita la predicazione dell’Apostolo che si impegna nella spiegazione delle Sacre Scritture, in giorno di sabato, nelle sinagoghe, cercando di dimostrare che Gesù é il Messìa annunciato dai Profeti e risorto ( At. 18, 5-8 ).
Paolo subisce dai suoi connazionali incomprensioni ed opposizioni anche irriducibili, fino all’ostracismo e alla minaccia alla propria incolumità personale :
“Ma poiché essi gli si opponevano e bestemmiavano, scuotendosi le vesti, disse: ‘Il vostro sangue ricada sul vostro capo: io sono innocente; da ora in poi io andrò dai pagani” ( At. 18,6  )
Non tutti i Giudei, però, si oppongono al messaggio di Cristo. L’arcisinagogo Crispo si converte alla Buona Novella ( At. 18, 8 ).
Fortuna vuole che la religione ebraica abbia fatto, da tempo, sia proseliti che timorati di Dio ( come Tizio Giusto, At. 18,7 ) anche in questa città. E costoro saranno, per Paolo, il trampolino di lancio per l’attività di conversione dei pagani propriamente detti.
N.B. Il nome di Tizio Giusto é latino. I Corinzi del I secolo non sono tutti greci puri da un punto di vista razziale.
All’indomani dell’occupazione romana nel II secolo prima E.V., molti veterani andarono a colonizzare i territori di questo centro marittimo e commerciale, fondendosi con la popolazione locale, “grecizzandosi”. Questo dato ci dice perché molti abitanti della Grecia e dell’Asia Minore portarono nomi latini.
Il successo dell’attività missionaria a Corinto non si spiegherebbe senza il concorso di miracoli, di carismi eccezionali e di mozioni interiori, ma questo discorso esula dalla ricerca storico-critica :
“E una notte in visione il Signore disse a Paolo : ‘Non aver paura, ma continua a parlare e non tacere, perché io sono con te, e nessuno cercherà di farti del male, perché io ho un popolo numeroso in questa città’ ”  ( At. 18,9 )
La difesa del Signore nei confronti del suo inviato non manca in una grave circostanza. A causa di una sollevazione giudaica contro l’Apostolo di Tarso, aizzata da un capo della sinagoga di nome Sòstene, il proconsole Gallione fa cessare questa gazzarra, tutelando Paolo e gli altri fedeli ( At. 18,12–17 ).
Paolo rimane a Corinto un anno e mezzo ( At. 18,11 ), coadiuvato da Sila e Timoteo, ma anche da altri predicatori. Dopo di che si imbarca, con Aquila e Priscilla, per Efeso, la città ionica per eccellenza, dove soggiornerà nel terzo viaggio missionario ( più o meno dal 54 al 57 E.V. ).
La comunità cristiana di Corinto cresce numericamente. Un amico di Aquila di nome Apollo, un giudeo di Alessandria, anche lui convertito al Vangelo, versato nelle Sacre Scritture, si impegna con altri predicatori nell’attività catechetica ( At. 18, 24 – 28 ).
Ma, dopo tre anni -e il nostro Paolo si trova ad Efeso- la Chiesa di Corinto comincia a manifestare tensioni e problematiche al suo interno………
Che cos’é dunque successo ?
Diversi predicatori –che si alternano l’uno all’altro- confermano nella fede i neoconvertiti, lavorando su un campo già arato dall’Apostolo delle Genti. Ovviamente, chi ammette il soprannaturalismo sa o almeno ha l’intuizione che in questa comunità agisce lo Spirito Santo con i suoi specifici doni o ‘carismi’, tra i quali il ‘discernimento degli spiriti’, la profezìa’, l’esorcismo e, perfino, alcuni doni preternaturali come la ‘glossolalìa’ ( la disposizione a parlare lingue diverse e a farsi intendere in quelle stesse lingue ).
La consapevolezza della straordinarietà di tali esperienze, da parte dei neofiti, induce molti di essi a sostenere di far parte già del mondo escatologico e delle realtà ultime, svalutando quello che é un loro diretto impegno nella storia, l’esercizio della carità e delle altre virtù, l’osservanza delle principali norme etiche, l’aiuto fraterno verso i sofferenti e i più svantaggiati che, invece, vengono spinti all’emarginazione.
Paolo capisce la drammaticità del momento che si prospetta male in questa chiesa.
Questo ‘enthousiasmos’ non va per niente bene. C’é il rischio di confondere il culto cristiano con i tanti culti misterici disseminati in Grecia e nell’Oriente ellenistico, alimentando lo spirito settario e un più marcato e deciso individualismo nei rapporti tra gruppo e gruppo, tra fratello e fratello. Rafforza queste preoccupazioni dell’Apostolo di Tarso la presenza di alcune correnti che mirano a compromettere l’unità del tessuto ecclesiale. Partiti che si richiamano all’autorità di questo o di quell’apostolo, di questo o di quest’altro predicatore o, addirittura, alla stessa persona di Cristo, o alla vanagloria religiosa o intellettuale ostentata da qualcuno dei missionari.
I ‘carismi’ sono qualità e disposizioni funzionali ad edificare una comunità e non vanno privilegiati come forze superiori di cui si debba disporre per esercitare una egemonia o condizionare l’immaginazione e la debole mente degli altri. Tanto meno vanno intesi come “esplosioni di esaltazione comuni ai misteri di Dioniso” (1). Paolo affronta questo problema nel capitolo 14 della sua Prima Lettera ai Corinzi.
Il fatto stesso di sentirsi dei ‘predestinati’, in forza di questi doni, invece di alimentare la ‘carità’ e la ‘umiltà’, corrobora in alcuni credenti l’orgoglio di esseri superiori, dimenticando la lotta da intraprendere contro il male che si annida nel cuore di ciascuno e che corrode il tessuto della vita civile.
Considerandosi partecipi di un contesto santo e glorioso, essi ritengono ormai superflue e superate le disposizioni etiche, valide solo per i più deboli e gli imperfetti. Si fa avanti, pericolosamente, quella tendenza che, nei secoli futuri, darà luogo al quietismo con la sua dottrina eterodossa dell’impeccabilità delle anime mistiche.
Per cui se possiedo questi carismi e sono soggetto ad estasi incontrollate, é segno che sono benvoluto da Dio che “agisce” in me. Inutile, quindi, che io padroneggi le passioni.
Con la conseguenza della licenziosità sessuale che tanto preoccupa Paolo, soprattutto in una città come Corinto dove il vizio diviene non solo un principio regolativo del proprio agire, ma una vera e propria “struttura” sociale.
E’ illuminante il capitolo 10 sempre della Prima Lettera ai Corinti  al  riguardo.
Per Paolo il ‘peccato’ é ‘andare contro la propria coscienza’, ‘andare contro le proprie convinzioni’. Non ha importanza se si tratta di una coscienza retta o erronea.
Può peccare quel mio fratello debole che ritiene una grave colpa morale cibarsi delle carni offerte agli idoli dietro il mio esempio.
Io, invece, che so che gli déi non esistono, ho il giusto convincimento che adeguarsi a quel tipo di alimento non costituisce nessuna contaminazione. Ma se, per colpa mia ( e in questo commetto uno scandalo ), induco un fratello debole ad andare contro il suo errato convincimento, anch’io commetto un peccato grave contro la carità. Ne segue la logica conclusione che non mangerò carne in eterno, in pubblico, se con quest’atto rovinerò la salute spirituale di un’anima per la quale Cristo é morto ( 1 Cor. 8, 1-13 ).
Come si può dedurre dalla lettura del capitolo sulle carni immolate agli idoli, la disposizione a peccare appartiene sia ai ‘deboli’ che ai ‘perfetti’.
Le divisioni tra fedeli e tra partiti ( anche nelle assemblee liturgiche ), la mancanza di correzione fraterna, l’indulgenza verso il malcostume sessuale ( si cfr., per esempio, la tolleranza verso l’incestuoso citata in 1 Cor. 5, 1-13 ), la vanagloria o il compiacimento della propria santità, sono indici di egoismo. Non solo pregiudicano finora il lavoro svolto dall’Apostolo, ma corroborano una falsa percezione della salvezza cristiana.
Le realtà escatologiche sono ancora da venire e occorre impegnarsi sulla via del bene perché queste si possano attualizzare.
 
 
 
Le tematiche della sapienza umana e della Sapienza divina ( 1Cor. 1,18 – 3, 1-4 )
 
La ‘fede’ é indispensabile all’attuazione del processo salvifico. Tutti sono chiamati alla fede, senza distinzione di razza, di ceto e di sesso. La ‘fede’  ( in greco ‘pistis’ ) é un principio attivo di trasformazione del credente ed é alternativa alla ‘conoscenza razionale’, in greco ‘gnosis’, nell’attingimento della verità suprema e della giustificazione. La prima é superiore alla seconda per il suo carattere di ‘dono divino’ e per la concessione di detto dono a tutti gli uomini di buona volontà.
Beninteso, non si afferma ancora lo ‘gnosticismo’ come movimento eterodosso di opinione in seno alla Chiesa primitiva, nelle sue plurime espressioni. Come fenomeno tale movimento appare già nel II secolo. Tuttavìa, i suoi presupposti già si avvertono nel modo come alcuni credenti recepiscono il rapporto tra fede e conoscenza e nella propensione ad attribuire alla resurrezione di Cristo solo un significato morale e allegorico :
 “Se Cristo non é risorto, é vana la vostra fede, siete ancora nei vostri peccati; perciò anche quelli che si sono addormentati in Cristo sono perduti. Se durante questa vita solamente abbiamo sperato in Cristo, noi siamo i più infelici di tutti gli uomini” ( 1Cor. 15, 17-19 ).
Paolo fa appello ai miracoli che hanno accompagnato la sua missione e alla testimonianza oggettiva, oltre che degli Undici ( cioé senza Giuda Iscariota ), di numerosi discepoli ( “più di cinquecento fratelli” ) in Palestina e ancora viventi (1Cor. 15, 2-7), che hanno visto e ascoltato il Signore risorto.
Questa ‘fede’ predispone il credente ad una ‘sapienza’ che é stata nascosta in Dio e avvolta nel ‘mistero’ ( 1 Cor. 2,7 ). Il termine greco che l’Apostolo delle Genti utilizza é ‘sophìa’, corrispettivo del latino ‘sapientia’. Con questa parola Paolo non designa una scienza di tipo intellettuale oggetto di predilezione dei Greci, ma una conoscenza profonda e “gustosa” ( “sapere” e “sapore” sono convertibili ) dei misteri di Dio che coinvolge l’essere umano anche nei suoi aspetti emozionali e pragmatici. E’ evidente che Paolo richiama la letteratura sapienziale dell’A.T. ( i Salmi in primo luogo ). Attraverso la ‘fede’ viene comunicata da Dio la ‘sapienza’ con una pedagogìa progressiva. Il cristiano é un pò come un infante che deve crescere e maturare. Il suo é un cammino che tende alla perfezione.
Pertanto, il messaggio evangelico non può mai essere ridotto alla stregua di una dottrina esoterica valida solo per gli iniziati. In Paolo é presente, tuttavia, lo schema del rapporto di implicazione dialettica ‘psichici-spirituali’ ( che può anche diventare opposizione ) che sarà perno delle correnti dualistiche successive. Questo schema, tra l’altro, non é ignorato dalla letteratura religiosa giudaica del suo tempo e viene applicato dall’Apostolo non solo per opporre il ‘Vangelo’ al ‘secolo’ ( o ‘mondo’, categoria tipicamente giovannea ), ma anche per designare i credenti stessi in relazione alla pienezza o meno della fede ricevuta :
“Tra i ‘perfetti’ annunciamo ( anche ) una sapienza : ma non la sapienza di questo mondo, né dei principi di questo mondo che vengono distrutti, bensì annunciamo la sapienza di Dio avvolta nel ‘mistero’, che é stata nascosta, che Iddio predestinò prima dei secoli per la nostra gloria e che nessuno dei principi di questo mondo ha conosciuto : se infatti l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Ma come é stato scritto : ‘quelle cose che occhio non vide e orecchio non udì e in cuore non salirono giammai, queste ha preparato Iddio per quelli che l’amano’” ( 1Cor. 2,6-9 ).
Depositari di questa sapienza non sono coloro che si sono distinti nel linguaggio ornato o nelle massime elucubrazioni del raziocinio umano e, tanto meno, i detentori di un potere politico o culturale o socioeconomico, essendo realtà effimere e transitorie.
“Dove mai il sapiente ?  Dove il dotto ?  Dove il dialettico di questo secolo ?  Non ha forse Iddio reso stolta la sapienza del mondo ?” ( 1 Cor. 1, 20 ).  Sono tante le scuole filosofiche che non riescono a rispondere in modo incontrovertibile e definitivo alle domande angoscianti dell’uomo, in primo luogo quelle concernenti le realtà della sofferenza e della morte. Dov’é l’investigatore di questo secolo ?  Coloro che hanno inteso scoprire i fondamenti del kosmos si sono contraddetti l’un l’altro.
Ma Dio presenta un’altra ‘sapienza’ alternativa a chi vuole dire l’ultima parola su tutto il creato.
Paolo associa all’espressione ‘Sapienza divina’ il termine ‘mysterion’ che, in greco, designa una ‘realtà nascosta’ in Dio e che corrisponde al ‘mistero di Cristo’, al ‘mistero di Cristo crocifisso’.
La ‘logica della Croce’ é, dunque, la ‘logica del paradosso’, tanto di una perfetta coesistenza di contrari, quanto del rovesciamento di una cosa nel suo opposto. La Divina Maestà viene esaltata, nel Logos incarnato, proprio attraverso l’umiliazione della Vittima offerta, e questo contrasto non può essere facilmente assimilato dalle sole facoltà naturali seppur disciplinate. Solo i ‘perfetti’ nella fede possono “gustare” le infinite ricchezze racchiuse nel ‘mysterium crucis’.
Del resto, Paolo é convinto dell’inadeguatezza dei discorsi umani e delle categorie concettuali ad intendere quelle che sono le verità di fede. Quindi, la ‘scienza teologica’ non va confusa con la ‘sapienza divina’, pur avendo la sua legittimità teorica, in quanto é pur sempre un sapere razionale umano, parziale e limitato, pur essendo illuminato dalla fede.
Lo Spirito Santo aiuta ad aprire non soltanto la mente del fedele, ma  anche il ‘cuore’ a quanto Cristo gli ha rivelato, onde permettere una penetrazione interiore del dato evangelico che lo renda forza operante. Ma lo Spirito Santo si serve dell’Apostolo come di colui che si lascia ammaestrare e, con l’illuminazione, riesce a trovare le parole giuste per presentare agli ‘spirituali’ (non agli psichici) il suo messaggio di salvezza, “agli spirituali adattando cose spirituali” ( 1 Cor. 2,13 ). All’uomo psichico -che ritiene la ragione il metro di tutte le cose- si distingue, fino ad opporsi, ‘l’uomo spirituale’, colui che si dispone a pensare e ad agire sotto la mozione dello Spirito Santo.
Se sussiste opposizione tra due categorie di uomini (e, perché no, anche tra due categorie di credenti), ciò non vuol dire, per forza, che debba esserci un’opposizione di principio tra la ‘psiché’ e il ‘pneuma’. Non é che nella mente del ‘perfetto’ venga eliminato, o quanto meno sostituito, l’aspetto psichico dell’uomo : anzi esso viene informato e potenziato dallo Spirito Santo. I grandi studiosi della mistica cristiana hanno insegnato le vie della purificazione dei sensi e dell’intelletto, e su come le facoltà e le potenze mentali devono essere padroneggiate lungo la strada della perfezione cristiana.
E’ pur vero che tra l’uomo psichico e quello spirituale non può darsi proporzione recettiva, in quanto l’inferiore non può scrutare le cose che appartengono ad un ordine superiore e, pertanto, non può comprenderle. Lo spirituale può discernere le cose che gli appartengono e può giudicare l’inferiore (1). Ma può conoscere, solo per ‘rivelazione’, il ‘disegno di salvezza’, finendo per conformarsi al Figlio di Dio. Chi crede con pienezza, ha la possibilità di concepire e di giudicare tutto con la ‘mente di Cristo’ ( il noùs ). “Per conto nostro, noi abbiamo la ‘mente di Cristo’ ” ( 1 Cor. 2,16 )
Ma finché ci si rimane ancora contrassegnati dall’egoismo e dalla volontà di appropriazione, ci si lascia condizionare da una logica carnale dura ad essere superata. Quindi, comunicare a degli immaturi una sapienza elevata é come offrire un cibo solido a dei lattanti ( 1 Cor. 3,1–4 ).
 
Il tema della ‘resurrezione dei morti’  ( 1 Cor. 15, 1- 58 )
Paolo scrive ai cristiani di Tessalonica ( siamo più o meno intorno al 51 E.V. ), esponendo una escatologia imperniata sul ritorno del Signore Gesù, ma che non va avvertito come imminente, pur raccomandando nei neofiti la perseveranza nella fede e nell’operosità.  Questa chiesa non presenta alcuna difficoltà ad assimilare il duplice dato rivelato della Resurrezione corporea di Cristo e di tutti gli uomini nel momento finale della loro storia.
Invece, la comunità di Corinto, proprio su questo articolo di fede, manifesta le sue perplessità.
Paolo deve intervenire per ribadire la storicità e le modalità dell’evento della Resurrezione.
E’ probabile che alcuni neoconvertiti siano indotti ad interpretare questa credenza biblica solo in un senso mistico e figurativo. Non si riesce ad accettare, fino in fondo, una ‘resurrezione dei morti’ nell’ultimo giorno stabilito da Dio :
“Ora, se di Cristo si predica che é risorto dai morti, come mai alcuni fra voi dicono che non c’é la resurrezione dei morti ?  Che se la resurrezione dei morti non c’é, neppure Cristo é risorto. Se poi Cristo non é risorto, é dunque vana la nostra predicazione ed é vana anche la vostra fede. Anzi siamo trovati perfino falsi testimoni di Dio, poiché per Iddio testimoniammo che risuscitò Cristo, che egli invece non risuscitò, se davvero i morti non risorgono” ( 1Cor. 15, 12-15 ).
Indubbiamente, in queste persone é forte il pessimismo circa la materia e radicata la convinzione che il corpo sia la prigione dell’anima. Pur ammettendo l’immortalità di quest’ultima come gli Orfici, i Pitagorici e i Platonici, che senso avrebbe tornare di nuovo a vivere con il proprio corpo ?  Del resto, é così diffuso nella mentalità ellenica il preconcetto secondo il quale meglio sarebbe non essere mai nati e cercare di morire al più presto, soprattutto quando si é giovani.
L’Apostolo di Tarso si impegna per sostenere, al riguardo, un inedito principio teologico. Se Cristo non é risorto, vana é la nostra predicazione e vana la vostra fede !  ( 1 Cor. 15,14 ). Che senso ha parlare della resurrezione dell’uomo Gesù e negare, nel contempo stesso, quella futura di tutti gli altri uomini ?  Il Nostro svolge il proprio ragionamento in due direzioni : a ) ribadire la certezza e la veridicità della resurrezione corporea di Gesù, per poi sottolineare questa come il fondamento teologico e storico di quella futura di tutti gli uomini; b) esporre l’argomento della “reductio ad absurdum”.
Da un lato egli fa appello non solo alla testimonianza personale di un incontro diretto ed immediato con il Risorto sulla via di Damasco :
“….ultimo tra tutti apparve anche a me, come a un abortivo” ( 1Cor. 15, 8 ).
Che é poi una cristofanìa posteriore rispetto alle apparizioni di cui hanno beneficiato gli Undici, compreso Cefa ( 1Cor. 15,5 ). Addirittura il Risorto è apparso “in una volta sola, a più di cinquecento fratelli” ( 1 Cor. 15,6 ), molti dei quali vivono ancora in Palestina all’epoca della stesura delle due Lettere ai Corinzi, potendo essere interrogati circa questo evento della Resurrezione. Tutti soggetti che –a differenza di Paolo- hanno conosciuto e frequentato Gesù durante la sua vita terrena.
A ben leggere la Prima Lettera ai Corinti e riflettere proprio su questa tematica, il Nostro non tanto si sofferma sulla Resurrezione di Cristo, considerandola come premessa storica di quella futura di tutti gli uomini nell’ultimo giorno. L’Apostolo non sembra argomentare dal fatto storico obiettivo, ma intende partire dall’ipotesi della non-resurrezione dei corpi, per dichiarare assurda la posizione di chi ritiene che Cristo sia risorto dai morti. Ipotesi che si scontrerà, però, con un dato storicamente accertato.
Paolo crede, tuttavia, nella forza logica stringente di un ragionamento indimostrato ( come quello formulato in 1 Cor. 15, 13-15 ) e la oppone ai negatori dei suoi articoli di fede. Ed é tanto convinto della validità di questa argomentazione da non sottovalutare il potenziale tragico e distruttivo delle sue conseguenze sul piano morale ed esistenziale :
Se non si dà la resurrezione dei morti, allora Cristo non é risorto. E se non é risorto, allora vane sono la nostra predicazione e la vostra fede. Voi rimanete nei vostri peccati. E i vostri cari estinti che sono morti nel nome di Cristo sono perduti.
Questo ragionamento indimostrato di Paolo, la “reductio ad absurdum”, parte da un’ipotesi di fondo che non é una certezza di tipo matematico. Il rapporto che sussiste tra il conseguente e l’antecedente non solo é di connessione, ma risulta valido e corretto.
Se non si dà la resurrezione dei corpi, neppure Cristo é risorto ( se “non p”, dunque “non q” ). E se Cristo non é risorto da morte, sono vane la nostra predicazione e la vostra fede ( ma “non q”, dunque “non r” ).
Si tratta di un’argomentazione condotta in via ipotetica ( “se….ma….dunque” ) e per giunta attraverso la negazione.
Ma sappiamo che Cristo é risorto. Il contrario del conseguente conclude il contrario dell’antecedente : Cristo é risorto, dunque tutti gli uomini risorgeranno  ( se “p”, dunque “q” ).
Questa ri-conversione del ragionamento si regge sulla fede nella “buona novella” della resurrezione corporea di Cristo, attestata dagli Apostoli e da numerosi testimoni oculari.
Se non ci fosse il dato della Resurrezione, il Cristianesimo crollerebbe totalmente. Non varrebbe a salvarlo neanche la riflessione sull’ipotesi dell’immortalità dell’anima, portata avanti da S. Giovanni Crisostomo (3) nel suo commento alla Prima Lettera ai Corinzi :
“Ma che dici, Paolo ?    Come speriamo solo in questa vita se i corpi non risorgono, quando resta l’anima immortale ?”.
Ma l’autorevole Padre della Chiesa ignora la constatazione secondo la quale, all’epoca dell’Apostolo dei Gentili, non tutti i Greci ripongono fede in questa credenza (  come, per l’appunto, i filosofi materialisti ), per cui quella nell’immortalità dell’anima rimane una fredda ipotesi che non riesce  ad alimentare una speranza in una felice vita ultraterrena. Ha ragione Mons. Cipriani quando sostiene che non si può, al di fuori del Cristo, fondare la speranza sull’esercizio di una qualche virtù o su una presunta “tranquillità della propria coscienza” (4). Gli Stoici, inoltre, considerano la virtù come il bene supremo da ricercare in questa vita terrena, ma non tale da garantire una felicità oltremondana. Senza la Resurrezione di Gesù non c’é né redenzione né riscatto.
Cristo é risorto dalla morte, dunque tutti beneficeranno della Resurrezione, in forza della legge della nostra assimilazione e solidarietà con il Figlio di Dio. Come Adamo ha accomunato tutti i suoi discendenti in un destino di disobbedienza e di morte, così Cristo assimilerà, nel suo trionfo immortale, tutti coloro che sono uniti a lui nell’amore.
Una prima aporia esegetica la si riscontra nell’uso che fa Paolo del termine greco “tò télos”, cioè la ‘fine’.
Occorre capire se l’Apostolo intende la resurrezione corporea in senso universale o solo per alcuni :
“Come infatti in Adamo tutti muoiono, così anche in Cristo tutti saranno vivificati. Ciascuno però nel suo ordine : primizia Cristo; poi coloro che sono di Cristo, al momento della sua Parusìa; quindi la fine, allorquando egli consegnerà il regno al Dio e Padre,…” ( 1 Cor. 15, 22-24 ).
Qualche interprete antico e moderno ( come Teodoreto di Ciro oppure Lietzmann, Loisy e Schweitzer ) ha pensato che, con “fine”, Paolo abbia inteso il “resto dell’umanità”, alludendo ad una terza classe di risorti, cioé gli empi oppure i giusti che hanno ignorato il Vangelo. Come osserva lo stesso Mons. Cipriani, una tale interpretazione si regge su una giustificazione filologica assai debole, dal momento che il termine “télos” ricorre nel discorso escatologico di Gesù riportato dai Sinottici ( Mt. 24,6.13-14; Mt. 28,30; Lc. 21,9; ecc. ) con il significato di cessazione del secolo presente (5).
Non sembrano esserci dubbi sul carattere universale della resurrezione dei morti, dal momento che l’Apostolo stabilisce un’analogìa tra Cristo e Adamo pur con i loro diversi destini. Tutti muoiono in Adamo e tutti saranno vivificati in Cristo, anche se il punto di vista di Paolo sembra rispecchiare solo la condizione dei salvati.
Inoltre, se non si può fondare al di fuori di Cristo alcuna speranza di sopravvivenza ultraterrena, allora appare “ragionevole” la preoccupazione di darsi ai piaceri della carne, e l’Apostolo riporta una citazione di Is. 22,41 :
“Se i morti non risorgono, ‘mangiamo e beviamo : domani infatti moriremo’” ( 1 Cor. 15, 32 ).
Quella che fa il non-redento é un’affermazione grossolana, ma abbastanza plausibile. E addirittura vincente. E Paolo non si contrappone ad essa con l’argomentazione del filosofo che sostiene l’immortalità dell’anima. Per il pio israelita l’individuo umano é un tutt’uno, é un’unità psicofisica che vive o che muore. Che senso ha, per lui, un girovagare dell’anima indipendentemente dal corpo ?   Pur nell’ipotesi che sopravvivesse, la sua condizione sarebbe talmente infelice tanto nello Sheol biblico, quanto nei Campi Elisi o nella valle tartarea della religione ellenica, da non essere auspicata proprio per niente. Allora apparirebbe più desiderabile, per quanto ripugnante, una vita superficiale, inoperosa e licenziosa.
Come pure :  che senso potrebbe avere la ricerca della virtù per se stessa, come vorrebbero gli Stoici ?  Indipendentemente dalla nostra salvezza e dall’amore per Dio ?
Contro coloro che negano la resurrezione dei morti, Paolo offre ai credenti un ammonimento per metterli in guardia contro un contesto che sembra avvelenare, con i suoi preconcetti filosofici oppure con un marcato senso edonistico della vita dei più, la purezza della loro fede assimilata dall’Apostolo. E lo fa menzionando un detto che il drammaturgo Menandro ( 342 – 291 prima dell’E.V. ) riporta nella sua commedia ‘Taide’ :
“Le conversazioni cattive corrompono i buoni costumi” ( 1 Cor. 15, 33 ).
Altre due citazioni desunte dalla cultura greca ( come At. 17,28 che si riferisce ad un detto del poeta Arato di Soli, e Tito 1, 10-11 che registra un verso del filosofo Enesidemo di Cnosso  ) non devono, però, indurci a pensare ad una probabile educazione classica dell’Apostolo delle Genti. Piuttosto, vanno intese come “modi di dire” a guisa di proverbio ricorrenti sulla bocca di tutti. Paolo si trova, infatti, a vivere in un mondo ellenistico originariamente non suo e, certamente, recepisce schemi mentali, concetti, luoghi comuni propri di questo ambiente.
L’ammonimento si conclude con queste parole :
“Risvegliatevi dalla crapula come conviene e non vogliate peccare. Taluni, infatti, hanno ignoranza di Dio; ve lo dico per vostra confusione” ( 1 Cor. 15, 34 )
Scrivendo da Efeso, la patria di Eraclito, é probabile che Paolo abbia conosciuto anche il suo pensiero, oltre la sua vita. E il termine “risvegliatevi” -che egli usa per correggere i cristiani di Corinto- così familiare all’Oscuro che criticava costumi e consuetudini dei suoi concittadini, squalificati come “dormienti” in quanto “schiavi dell’opinione dei più”. Il termine ‘crapula’ é metaforico, per cui con esso l’Apostolo non intende tanto i piaceri della tavola, quanto piuttosto l’ottenebramento della mente nell’errore e, conseguentemente, nel peccato.
Tuttavia, tra i neoconvertiti corinzi, non ci sono solo coloro che negano la resurrezione dei morti, ma anche altri che l’accettano, interpretandola però in modo difforme dalla tradizione apostolica. Questo loro insegnamento offre lo spunto a Paolo per un intervento rettificatore. La Resurrezione di Cristo e di tutti gli uomini potrebbe essere intesa anche in un senso figurato o allegorico, o semplicemente morale. E pensare che mancano ancora quarant’anni circa alla comparsa di quella che sarà la dottrina docetica che tanto avrà successo nell’ambito della Chiesa primitiva, contro la quale saranno impegnate, vittoriosamente, le migliori energie dei Padri Apologisti per confutarla e vincerla.
E se gli Apostoli, invece di una visione obiettiva del loro Maestro risorto, avessero avuto una consapevolezza superiore della loro partecipazione al mistero della morte di Cristo e da questa si fossero illusi su un ritorno alla vita di Gesù ?   Del resto, la tomba vuota rimane pur sempre un mistero.
Risulta chiaro che a Paolo non basta confutare una tale opinione protognostica con il richiamo all’obiettività e veracità delle cristofanìe “post-resurrectionem”, ma cerca anche di illustrare le modalità di un evento così miracoloso ed eccezionale.
Come avviene la resurrezione corporea ?
E’ pacifico che non risorge il corpo di prima destinato alla corruzione. Non si ha una ricostituzione di organi, di ossa, di giunture, di arti, ecc…..Pur tuttavia l’identità personale rimane la stessa nel corpo mortale e in quello risorto. Per rendere ragionevole un mistero tanto solenne quanto profondo, Paolo si serve di analogìe in relazione all’esperienza quotidiana. Alcune sono attinte dal mondo vegetale.
E’ chiaro che il seme deve morire per produrre o il frumento o il frutto o l’albero. Vale a dire : deve subire delle trasformazioni. Il frumento o l’albero, però, non sono estranei rispetto al seme, dal quale sono derivati.
Altre analogìe sono desunte dalla costituzione fisiologica dei corpi animali. “Non ogni carne é la stessa carne” ( 1Cor. 15, 39 ), in proporzione, qualità e quantità.
Ora, se la Sapienza divina é talmente onnipotente da suscitare una variabilità di forme così insolite e diverse, tanto più sarà in grado di operare una trasformazione da un corpo destinato alla morte ad uno incorruttibile e vivificato, senza che questo passaggio possa compromettere la stessa individualità, soggetto dell’uno e dell’altro corpo.
Che senso avrebbe tornare ad assumere lo stesso corpo animale di prima, cretaceo come lo chiama l’Apostolo ?  Tra l’altro perituro e destinato alla sofferenza, alla fatica, alla vecchiaia e alla morte ?  La resurrezione dei morti non é e non sarà una semplice rianimazione. Che Gesù, nel suo ministero pubblico, e alcuni Profeti come Elìa ed Eliseo, nella storia millenaria di Israele, abbiano operato casi di rianimazione ( e, quindi, di ritorno alla vita peritura ) -anche a distanza di giorni- é risaputo.
Ma la Resurrezione di Cristo e di tutti gli uomini nell’ultimo giorno é ben altra cosa !
Teniamo conto anche dell’antropologìa biblica di cui Paolo é debitore. L’uomo può essere considerato secondo tre accezioni in relazione alla sua corporeità : anima vivente ( nefésh ), spirito incarnato (ruàh), carne decaduta e finita (basàr).
“Si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale. Se c’é un corpo animale, c’é anche ( un corpo ) spirituale. Così anche é scritto : ‘Il primo uomo, Adamo, diventò anima vivente’ ( Gn. 2,7 ), l’ultimo Adamo ( diventò ) Spirito vivificante. Però il primo non é lo spirituale, ma ciò che é animale; dopo ( viene ) lo spirituale. Il primo uomo é dalla terra, fatto di creta; il secondo uomo é dal cielo. Quale il cretaceo, tali anche i cretacei; e quale il celeste, tali anche i celesti. E come portammo l’immagine del cretaceo, porteremo pure l’immagine del celeste”. ( 1Cor. 15, 44 – 49 ).
Questa trasformazione –che si accompagnerà alla Resurrezione- provvederà ad arricchire il nuovo corpo vivificato di qualità e di doti che lo renderanno diverso rispetto al corpo animale o psichico, pur appartenuto al medesimo soggetto. Si muore nella debolezza, ma si risorge nella forza ( giovanile, possiamo aggiungere noi ). Poi – vale per i redenti- si semina nell’ignominia ma si risorge nella gloria.
Questa riflessione motiva il comandamento di fuggire la fornicazione. Il nostro corpo vivificato assumerà lo splendore di Dio, perché sarà animato dallo Spirito Santo che perfezionerà anche le doti dello psichico e asseconderà tutte le aspirazioni definitive dell’uomo caduco.
Fuggire la fornicazione e l’egoismo significa tracciare anche una linea di condotta per il credente, “presentandogli un ideale di perfettibilità indefinita” (6)
“Stolto che sei !”   ( 1 Cor. 15,36 ) : dice Paolo riferendosi a chi ironizza su “un’apparente grossolanità” della predicazione apostolica sul dato della resurrezione dei morti. Quindi, nessuna ricostituzione organica e fisiologica del corpo perituro. Con qual corpo i defunti ritorneranno apparirebbe una questione oziosa, non degna di uno spirito avveduto.
Eppure, a ben riflettere, anche i Greci  ( come, al contrario, i popoli semitici, gli Egiziani con il loro mito di Osiride, i Persiani con gli insegnamenti di Zoroastro, ecc. ) potevano giungere ad una minima percezione di questo mistero, proprio ragionando su queste analogìe prese in prestito dalla natura. Con grande meraviglia di Paolo, alcune correnti hanno postulato l’immortalità dell’anima, altre l’hanno decisamente negata, ma nessuna ha espresso dubbi su una vittoria definitiva della morte.
“Se c’é un corpo animale, c’é anche ( un corpo ) spirituale. Così anche é scritto : ‘Il primo uomo, Adamo, diventò anima vivente’ ( Gn. 2,7 ), l’ultimo Adamo (diventò) Spirito vivificante. Però il primo non é lo spirituale, ma ciò che é animale; dopo ( viene ) lo spirituale”  ( 1Cor. 15, 44-46 ).
Paolo asserisce l’incontrovertibilità del passaggio da un corpo animale ad un corpo spirituale ( “però il primo non é lo spirituale, ma ciò che é animale; dopo viene lo spirituale ), da un corpo animato dalla ‘psiché zosan’ ad un corpo penetrato dallo ‘Spirito di Dio’, denominato ‘pnéuma’, che in esso agisce mediante il ‘noùs’ ( la mente ), soprannaturalmente elevato e potenziato (7).
La 1 Cor.15, 44-46 può facilmente sconfessare la successiva dottrina docetica, secondo la quale Cristo avrebbe assunto un corpo apparente e in realtà non sarebbe morto sulla croce. Non regge neppure l’esegesi di Joachim Jeremias, al riguardo, che finisce per ravvisare in Cristo un eone celeste o una specie di uomo primordiale che sta all’inizio e preesiste all’uomo terrestre. Paolo ha parlato chiaro : il primo Adamo diventò anima vivente, l’ultimo Adamo diventò Spirito vivificante. E quel ‘diventare’ dice tutto. La glorificazione é un processo ontologico che viene dopo e all’ultimo stadio della storia umana. Ciò non toglie che tale processo si realizza in un senso morale e religioso già in questa vita, mediante la ‘grazia’.
“Ecco che io vi annunzio un mistero : tutti, certo, non ci addormenteremo, ma tutti saremo trasformati in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba : suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati” ( 1 Cor. 15, 51-52 ).
Paolo ci induce a pensare che il mistero secondo il quale non tutti moriremo l’abbia ricevuto in forza di una rivelazione che non é contenuta nella tradizione apostolica, denominata ‘paradosis’.
Eppure il Nostro é convinto di quanto asserisce, non nascondendo un vivo desiderio di voler essere in carne ed ossa presente a questa seconda venuta di Cristo
Del resto, anche il Credo Niceno-Costantinopolitano –che recitiamo durante la Messa e le solennità liturgiche- riporta questa citazione : “siede alla destra del Padre e di nuovo verrà a giudicare i vivi e i morti”. Quasi a riferire che la Parusìa avverrà quando sarà vivente l’ultima generazione umana.
Non si può nascondere un senso di disagio di fronte a questa rivelazione, poiché  tutti hanno peccato, tutti discendono da Adamo, anche Cristo è morto, tutti devono morire senza alcuna eccezione.
Mons. Cipriani parla di “quattro lezioni differenti” del versetto 51 (8). La prima é quella già menzionata, rappresentata da antichissimi codici e versioni come la siriana, la copto-saidica, la gotica ed accettata da moltissimi Padri della Chiesa, nonché da Tertulliano e da S. Girolamo. C’é la seconda che riporta il versetto in questo modo : “tutti ci addormenteremo, ma non tutti saremo trasformati” ( lezione dei codici SCFG, 17, della versione armena, di alcuni codici della Vetus latina secondo la testimonianza di S. Girolamo ). La terza cita il versetto : “tutti non ci addormenteremo, ma non tutti saremo trasformati (il solo codice A). Poi c’é la quarta : “tutti risorgeremo, ma non tutti saremo trasformati” ( codice D, moltissimi Padri latini e la Vulgata ).
Le ultime tre lezioni non sono più antiche della prima, risultano essere criticamente insostenibili, pur cercando di correggere la prima. Come la seconda che vuole ammettere la morte di tutti gli uomini precedente la resurrezione universale. La seconda, la terza e la quarta mirano ad escludere gli empi dal processo miracoloso di trasformazione in corpi incorrotti.
Paolo non ritiene imminente la seconda venuta di Cristo. Non possiede la certezza né di essere vivo né di essere morto all’indomani del Grande Evento. Insomma, tutti noi -vivi o morti- saremo trasformati o trasfigurati in corpi spirituali. In lui non assume neanche grande importanza se sussisterà una generazione ancora vivente o meno al momento della Parusìa.
Va subito al nocciolo della questione : tutti saremo trasformati in forza di un atto divino, repentino ed immediato. Questa portentoso miracolo sarà accompagnato da una solenne e spettacolare manifestazione di Dio, dove la “tromba” assume la qualità di un elemento descrittivo dal sapore apocalittico già nell’A.T. per narrare le epifanie di Jahveh.
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NOTE :
*Fino ad essere considerata dai Greci una divinità femminile con il nome di ‘Ananke’ alla quale niente sfugge.
(1)  Giuseppe Barbaglio, “Lettere di Paolo ai Cristiani di Corinto” in “Corso Biblico Superiore : ‘La via della salvezza’. Guida alla lettura della Bibbia”, ISSR. “Ut Unum Sint”, p. 95.
(2)   Settimio Cipriani, “Le Lettere di S. Paolo”, Cittadella Editrice, pp. 130 – 132;    
(3)   op. cit., p.  222;
(4)   op. cit., p.  222;
(5)   op. cit., p.  223;
(6)   op. cit., p.  230;
(7)   op. cit., p.  229;
(8)   op. cit., p.  232. 

Publié dans:Lettera ai Corinti - prima |on 16 juin, 2011 |Pas de commentaires »

IL CARISMA DEL CARMELO

è poco, naturalmente, anche io lo voglio rivedere e studiare meglio, ma mi piace, un carisme che parte dall’Antico Testamento, bello:

http://centrostudiedithstein.myblog.it/elia-profeta/

IL CARISMA DEL CARMELO

Si appartiene a Cristo, per questo si appartiene alla Chiesa; ma si appartiene alla Chiesa con una identità specifica appartenendo ad una espressione particolare della Chiesa, ad una comunità che incarna una vocazione alta, comune a tutti, qual è quella della comunione con Dio, dell’unione intima con il Signore, ma vissuta con una modalità unica, originale, frutto di una risposta d’amore a Dio da parte di creature che mettono in gioco tutta la ricchezza della propria libertà comunicativa.
Si appartiene ad un’unica Chiesa, ma attraverso l’appartenenza ad un gruppo, ad una comunità, ad un movimento, ad un Ordine, sempre al servizio di una “storia più grande”, ma ribadendo con forza che il servizio è reso attraverso l’identificazione con un carisma particolare.
Non si vuole parlare di appartenenza giuridica, formale, ma di una unione tra persone che si riconoscono accomunate da una stessa modalità di cammino, di vita verso Cristo.
Ogni essere umano ha insito nel proprio cuore l’aspirazione a realizzare massimamente l’unione con Cristo, a raggiungere, cioè, quel matrimonio spirituale dentro le circostanze della propria vita, nei posti di lavoro e dentro le proprie case, nei legami familiari e in tutti i rapporti interpersonali che gli capitano. In questo il Carmelo è guida nel trasformare in contemplazione i gesti d’azione quotidiana; attraverso i riferimenti alla Regola di S. Alberto, agli insegnamenti della Santa Madre Teresa d’Avila e del nostro Santo Padre Giovanni della Croce, l’Ordine Carmelitano è depositario di un patrimonio spirituale che esprime la vocazione specifica di chi l’abbraccia ed è luogo da cui partire per irraggiare nel mondo l’amore verso Cristo.
“E’ vero che vive il Signore davanti al quale io sto”(1 Re 17,1): è carmelitano colui/colei che ardentemente desidera e concretamente vive con spirito di adorazione contemplativa di Gesù, trasformando tutta la vita in preghiera incessante, in dialogo intimo con il Signore, ricercato quotidianamente in momenti particolari di incontro silenzioso, di contemplazione personale nell’intimo del proprio cuore. L’orazione, l’incontro con il Signore, con il quale si intesse una relazione di profonda amicizia, rappresenta per il carmelitano il punto centrale della sua vocazione, l’indispensabile appiglio che lo sostiene, il tempo pieno della fede, il momento culminante della propria giornata, in cui si “sta” con Dio in un dialogo amoroso, dispensatore di speranza, di fortezza, di fiducia, di pienezza che riveste di un senso nuovo gli accadimenti della vita: “la realtà si farà trasparente e si potrà scoprire Dio in tutto”(Costituzioni OCDS).
L’unione intima con il Signore, il matrimonio spirituale, il segreto rapporto tra l’anima e il suo Sposo, è ciò a cui tende un/una carmelitano/a: sia nell’intimità della sua “cella” durante il tempo dell’orazione sia, con spirito contemplativo, nelle sue scelte, nei suoi limiti, nelle sue attività di servizio e nelle difficoltà del portarle a termine, nel momento dell’esultanza e nello scoraggiamento della fatica, nel tempo della grazia e nel buio della croce, sempre vivendo “in ossequio di Gesù…meditando giorno e notte la legge del Signore e vegliando in preghiera”(Regola 2 e 10).
L’orazione per un carmelitano diviene, dunque, un atteggiamento di vita, un ricercare il volto di Dio dentro ogni avvenimento: lo sguardo del Risorto dentro la positività del mondo che suscita un’esaltante lode di ringraziamento e di gratitudine, e lo sguardo del Cristo sofferente in tutte quelle situazioni di marginalità, di abbandono, di povertà, di solitudine, di ingiustizia, di violenza, di egoismo che interpellano per un intervento deciso ed efficace.
Lo spirito di contemplazione del Carmelo non è confondibile con certi atteggiamenti di ricerca affannosa di emozioni e sentimentalismi spirituali, con gesti di autoesaltazione, non è identificabile con quel bisogno, oggi tanto diffuso, di apparizioni e visioni. Il mondo nella sua quotidianità mostra con potenza il volto di Cristo Gesù: contemplarlo è il desiderio del cuore di ogni uomo; far scaturire da ciò una “mistica della solidarietà”, un’azione decisiva, ricolma di frutti della carità, è l’impegno personale che si assume colui/colei al/alla quale la forza della preghiera ha donato l’ardore dell’apostolato.

“Zele zelatus sum pro Domino Deo exercituum”(1 Re 19,10).

M. Concetta Bomba ocds
(Il Castello dell’anima, 15.07.04)

Publié dans:VITA RELIGIOSA |on 16 juin, 2011 |Pas de commentaires »

Omelia su 2Cor 11, 1ss

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/4456.html

Omelia (16-06-2005)

Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno
 

Se uno viene e vi predica un altro Gesù, diverso da quello che vi abbiamo predicato, o se ricevete un altro spirito, che non avete ricevuto (da noi), o un altro vangelo, che non avete accolto (da noi), voi lo sopportate benissimo!

Come vivere questa Parola?
Può suonare strana e fuori tempo questa affermazione di Paolo, mentre risulta quanto mai attuale. In un’epoca di pluralismo religioso e di globalizzazione del pensiero, si assiste – oggi più che mai – a un fenomeno di facili « con-versioni » a culti orientaleggianti e a sincretismi religiosi di dubbia lega. Non si tratta di demonizzare le altre reli-gioni, che meritano tutto il nostro rispetto e con le quali siamo chiamati a collaborare per un mondo più giusto e più umano, ma di verificare la fondatezza delle nostre convinzioni religiose e la radice vera di certe decisioni. Se si gratta un po’, forse si scopre un disagio, uno scontento diffuso, un’inquietudine che dice bisogno di autenticità. Non è vagando da un « maestro » all’altro, non è seguendo la « moda » del momento che si tacita il grido del nostro « sé » che reclama se stesso, che vuole svincolarsi da quanto lo appesantisce e lo asfissia. Cristo non è nelle incrosta-zioni che lungo i secoli si sono depositate sul suo volto. Riprendiamo in mano il vangelo nella sua purezza ed es-senzialità. Lasciamo che ci interpelli con le sue esigenze di radicalità, di verità dell’essere, di amore genuino. Non mettiamo su difese, magari trasferendo agli altri quello che leggiamo. Troviamo il coraggio di fissare il nostro sguardo in quello di Cristo che, oggi, ora sta cercando di incrociare il mio, il tuo. Forse siamo inchiodati alla gabel-la di Matteo, sotto la pressione di una società che fa del denaro un idolo esigente. Ma Lui è lì, in piedi, che attende. Se solo per un istante avessimo il coraggio di alzare lo sguardo, scopriremmo il senso della nostra sete e la Sorgen-te, l’Unica Sorgente che può appagarla.
Oggi, nella mia pausa contemplativa, prenderò in mano il vangelo, ne leggerò una pagina (potrebbe essere quella della liturgia odierna) e ascolterò quello che dice al mio cuore. Prenderò poi la ferma risoluzione di leggerne ogni giorno una breve pericope, ma con attenzione e lasciandomene interpellare.

Svelami, Signore, il tuo volto. Che io conosca te, mio Dio e Salvatore, e conosca me stesso quale tua immagine che il peccato talvolta offusca, senza tuttavia riuscire a cancellare.

La voce di un giovane partecipante a una GMG
Ho incontrato Cristo nei volti di tanti giovani di tutto il mondo. I loro sorrisi, la loro gioia e la carità che circolava fra di noi era davvero un’ »iniezione ricostituente di Spirito Santo ». Vedendo questi amici di tutte le nazioni che anche senza conoscermi mi volevano bene, mi ha dato tanta speranza nel futuro e tanta riconoscenza al Signore che mi ha dato la gioia di far parte della Chiesa Cattolica, in cui le diverse culture di tanti paesi, armonizzate dalla fede, non sono un ostacolo al dialogo, ma anzi una ricchezza immensa.
(Anonimo)

Omelia (16-06-2011): Pregando, non sprecate parole come i pagani

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/22774.html

Omelia (16-06-2011)

Movimento Apostolico – rito romano

Pregando, non sprecate parole come i pagani

La preghiera deve essere in tutto simile all’azione che anticamente facevano le donne quando ancora l’acqua corrente non era nelle case. Si prendeva un’anfora o altro recipiente vuoto, ci si recava alla sorgente o al pozzo, si attingeva l’acqua e con il recipiente pieno si ritornava a casa, portando con sé la fonte stessa della vita.
L’umanità è un recipiente sempre vuoto. Dobbiamo ricolmarlo di ogni bene divino e umano, celeste e della terra, per il corpo, lo spirito e l’anima. Una volta che ci siamo ricolmati della verità, grazia, provvidenza, perdono, santità, misericordia, aiuto, pace del nostro Dio, con questi beni celesti dobbiamo presentarci ai nostri fratelli, mostrando loro la nostra umanità piena del Signore Dio nostro, umanità che è piena di fede, carità, speranza, grazia, verità, compassione, ogni altro dono celeste.
Gesù nella preghiera del « Padre nostro » ci rivela qual è il nostro vuoto. Siamo vuoti di santità. Dio è la fonte, la sorgente di ogni santità. A Lui dobbiamo ricorrere perché infonda in noi il suo Spirito di santità che ci trasformi e ci conformi, ci crei e ci rinnovi costantemente ad immagine della sua divina ed eterna santità. Senza quest’opera diuturna dello Spirito Santo, la nostra umanità sarà perennemente vuota di santità e il peccato ci sommergerà sempre. Solo la santità di Dio è forza potentissima che allontana da noi ogni trasgressione e violazione dei Comandamenti. Solo essa è energia fortissima che ci fa compiere solo e sempre tutta la volontà di Dio.
Noi siamo fuori del regno di Dio. Il peccato ci fa appartenere al regno del principe di questo mondo. Solo Dio può venire, strapparci dalle meni di Satana e trasferirci nel suo regno di luce e di pace. Solo Lui può conservarci nel recinto del suo regno, impedendo che Satana venga e ci riprenda di nuovo, secondo l’insegnamento di Gesù Signore: « Quando lo spirito impuro esce dall’uomo, si aggira per luoghi deserti cercando sollievo, ma non ne trova. Allora dice: « Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito ». E, venuto, la trova vuota, spazzata e adorna. Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora; e l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima » (Mt 12,43-45). Siamo fuori del regno perché non facciamo la divina volontà. Anche questa grazia dobbiamo chiedere al Signore: che ci faccia fedeli osservanti di ogni sua Parola, oggi e sempre, per tutti i nostri giorni.
Tante sono le cose di cui siamo privi: il nutrimento quotidiano, l’incapacità di saper perdonare, la forza per vincere le tentazioni, il potere di stare lontani dal male. Queste cose non sono nelle nostra umanità. Sono fuori di noi. Dobbiamo attingerle perennemente in Dio, nell’unica sorgente di vita. Umilmente noi gliele chiediamo e il Signore., vedendo la nostra buona volontà, ricolmerà la nostra brocca vuota con ogni dono di grazia e verità, di saggezza e santità, di misericordia e bontà. Trasformerà la nostra vita e con essa trasformata andremo a dissetare il mondo intero.
Vergine Maria, Madre della Redenzione, Angeli e Santi, ricolmateci di Dio.

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