La lectio divina come scuola di preghiera nell’esperienza dei padri del deserto
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http://users.skynet.be/bs775533/Armand/wri/lectio-ita.htm
La lectio divina come scuola di preghiera nell’esperienza dei padri del deserto
testo di una conferenza tenuta a S. Luigi dei Francesi a Roma nel novembre 1995
Scrittura scuola di vita
Conosciamo bene la vocazione di Antonio, così come ci viene descritta nella Vita Antonii di Atanasio. Un giorno il giovane Antonio, educato in una famiglia cristiana della Chiesa di Alessandria (o nella regione circonvicina) e che quindi conosceva le scritture dall’infanzia, entra in una chiesa ed è colpito dal testo scritturistico che ascolta leggere: si tratta dell’episodio della vocazione del giovane ricco “ se vuoi essere perfetto, va, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e seguimi, troverai un tesoro nei cieli “ (Mt 19,21; Vit Ant 2).
Ovviamente Antonio aveva già ascoltato in precedenza il testo, ma è proprio quel giorno che il testo lo tocca come una chiamata personale. Si comporta di conseguenza: venda la proprietà famigliare – assai cospicua – e distribuisce ai poveri del villaggio il ricavato, conserva una parte necessaria alla giovane sorella di cui aveva la responsabilità.
In un secondo momento, entrando di nuovo in una chiesa, ascolta un altro testo del vangelo che segue con lo slancio del primo: “non preoccupatevi per il domani” (Mt 6,34; Vit Ant 3). Questo testo è fulminante, come una chiamata personale. Affida la sorella ad una comunità di vergini (tali comunità esistevano da tempo), si libera di tutto quello che gli resta e intraprende la vita ascetica vicino al villaggio, facendosi aiutare dagli asceti del luogo.
Quanto detto sottolinea l’importanza e il senso assunto dalla Scrittura presso i Padri del deserto. Un autentica scuola di vita e dal momento che è stata scuola di vita, ha avuto ugualmente la funzione di scuola di preghiera per gli uomini e le donne che aspiravano a rendere la loro vita una preghiera continua, così come domanda la Scrittura.
I Padri del deserto volevano vivere fedelmente tutte le indicazioni della Scrittura. Nella Scrittura l’unica indicazione concreta riguardava la necessità di pregare continuamente, non tanto precetti relativi alla frequenza o al bisogno di pregare ad un’ora piuttosto che ad un’altra del giorno o della notte.
In relazione ad Antonio, Atanasio precisa: (Vit. Ant 3): “lavorava con le sue mani perché aveva inteso: Chi non lavora, neppure mangi (2 Tess. 3,10). Con una parte del suo guadagno comprava il pane di cui aveva bisogno, il resto era per i poveri. Pregava continuamente, aveva applicato a sé la necessità di pregare senza tregua. Ascoltava con una tale attenzione che non gli sfuggiva nulla delle Scritture e i libri si erano trasfusi nella sua memoria“. L’osservazione che emerge dal testo di Atanasio ci fa notare la contiguità della preghiera con altre attività, in particolare con il lavoro. Non è possibile inoltre parlare della Scrittura come scuola di preghiera presso i Padri del deserto senza un riferimento alle due notevoli Conferenze che Cassiano consacra esplicitamente alla preghiera, tutte la due attribuite ad abba Isacco: la 9° e la 10°.
Il principio fondamentale è stabilito come pre-condizione all’inizio della Conferenza 9°: “Scopo del monaco e la perfezione del cuore consistono in una perseveranza ininterotta della preghiera.” Isacco spiega che il resto della vita monastica, l’ascesi e la pratica delle virtù ha senso e ragione solo se conduce a questo fine.
Cosa significa lectio divina?
Prima di inoltrarmi nella riflessione, desidero puntualizzare che parlando di lectio divina presso i padri del deserto, nella mia conferenza, non mi riferisco all’espressione tecnica (e riduttiva) di lectio divina così come è riscontrabile nella letteratura spirituale e monastica degli ultimi decenni.
Il termine latino lectio nel suo primo significato si riferisce ad un insegnamento: una lezione. In un secondo momento, con un senso derivato, lectio può anche designare un testo, o un insieme di testi, che trasmettono un determinato insegnamento. Così si può parlare di sezioni (lectiones) della scrittura lette durante la liturgia. Infine, in un senso ancora più derivato e tardivo, lectio può anche poter dire lettura. Quest’ultimo senso è evidentemente quello nel quale si intende questa termine oggi. In effetti ai nostri giorni si parla di lectio divina come di un’osservanza determinata: sia indicando una forma di lettura differente da tutte le altre, sia soprattutto sottolineando che l’autentica lectio divina non è da confondersi con altre forme di ‘lettura spirituale’.
Questa visione è moderna e rappresenta una concezione estranea ai Padri del deserto e qui intendo soffermarmi.
Se si consulta l’insieme della letteratura latina (cristiana) antica (cosa che oggi è facilmente accessibile sia con delle buone concordanze sia con il CDROM di CETEDOC), si constata che ogni volta in cui si ritrova l’espressione lectio divina negli autori latini prima del medio evo, questa espressione designa la stessa Sacra Scrittura e non una attività umana sulla medesima. Lectio divina è sinonimo di sacra pagina. Così si dice che la lectio divina ci insegna la tale o tal’altra cosa, che il divino Maestro ci richiama a questa o quella esigenza ecc.
es:
Cipriano: “Sit manibus divina lectio” (De zelo et livore, cap 16);
Ambrogio: “ut divinae lectionis exemplo utamur” (De bono mortis, cap 1, par.2)
Agostino: “aliter invenerit in lectione divina” (Enarr in psalmos, ps 36, serm. 3, par. 1).
Questo è l’unico senso che possiede l’espressione lectio divina all’epoca dei padri del deserto. A partire da questo senso che si sviluppa questa conferenza, eccetto quando farò allusione all’approccio contemporaneo. Non parlerò di un’osservanza particolare avente come oggetto la Scrittura, ma della stessa Scrittura come scuola di vita e scuola di preghiera dei primi monaci.
Lettura?
Parlare di “lettura” della Scrittura nei Padri può quindi indurre confusione. La lettura propriamente detta, così come la intendiamo oggi, doveva essere fatto assai raro. I monaci pacomiani, per esempio, che venivano per lo più dal paganesimo, dovevano, dal momento del loro arrivo al monastero, apprendere a leggere se ancora non sapevano farlo, al fine di apprendere la Scrittura. Un testo della regola dice che non ci dovrà essere nessuno nel monastero che non conosca a memoria almeno il Nuovo testamento e i Salmi. Una volta memorizzati, i testi diventano l’oggetto di una ‘meletè’, di una meditatio o ruminatio continua lungo tutto il giorno e gran parte della notte, in privato come nella sinassi. Questa ruminatio delle Scritture non è conosciuta come una preghiera vocale, piuttosto come un contatto costante con Dio attraverso la Sua parola. Un’attenzione costante che diventa una preghiera costante.
Un detto degli apoftegmi esprime bene questa importanza relativa della lettura in rapporto all’importanza assoluta del contenuto della scrittura: “In un momento di grande freddo, Serapione incontra ad Alessandria un povero completamente nudo. Si dice: “E’ Cristo ed io sono un omicida se muore prima che abbia potuto aiutarlo’. Serapione si toglie i suoi vestiti e li dona al povero e resta nudo, per la strada, con un solo oggetto conservato: un Vangelo sotto il braccio…Un passante che lo conosce gli domanda: ‘Abba Serapione chi ti ha tolto i tuoi vestiti?’ E Serapione, mostrando il suo Vangelo, risponde: ‘Ecco chi mi ha tolto i miei vestiti’. Serapione di dirige da un’altra parte e vede un tale condotto in prigione, perché impossibilitato a saldare il suo debito. Serapione, preso da pietà, gli dona il suo Vangelo perché lo possa vendere e rimborsare il suo debito. Quando, infine, probabilmente rabbrividendo, Serapione rientra alla sua cella, il suo discepolo gli domanda dove è la tunica e Serapione risponde che la lasciata là dove era più necessaria che sul suo corpo. Alla seconda domanda del discepolo: “Dove è il tuo vangelo?” Serapione risponde: “ Ho venduto colui che mi dice continuamente: ‘Vendete i vostri beni e donateli ai poveri (Lc 12,33); l’ho donato ai poveri e così avere un fiducia più grande per il giorno del giudizio” (Pat Arm. 13,8 R:III, 189).
Come abbiamo detto all’inizio, Antonio, cristiano dalla nascita, fu convertito alla vita ascetica dalla lectio divina, o sacra pagina, proclamata dalla comunità ecclesiale locale nel corso della celebrazione liturgica.
Pacomio, appartenente ad una famiglia pagana dell’Alto Egitto, fu pure convertito dalla Scrittura, ma dalla Scrittura interpretata e incarnata nella vita concreta di una comunità cristiana, che viveva il vangelo, quella di Latopoli. Conoscete la storia: Il giovane Pacomio è destinato all’armata romana e messo su una nave che lo conduce con gli altri coscritti verso Alessandria. Una sera la nave si ferma a Latopoli e i coscritti sono messi in prigione; i cristiani intervengono portando loro viveri e bevande. E’ il primo incontro di Pacomio con il cristianesimo. Per Antonio, rappresentante per eccellenza dell’anacoretismo, come per Pacomio, rappresentante del cenobitismo, la Scrittura è prima di tutto la regola di vita. Ella stessa la sola autentica regola del monaco. Ne l’uno ne l’altro scriveranno regole nel senso inteso dalla tradizione monastica seguente, anche se un certo numero di prescrizione concrete di Pacomio e dei suoi successori siano stati riuniti sotto il nome di “Regola di Pacomio”.
(Scrittura come unica “Regola” del monaco; a un gruppo di fratelli che volevano una ‘parola’ di Antonio, rispose: “Avente ascoltato la scrittura? fa al caso vostro” (notare l’espressione: ‘ascoltare’ – èkousate) (Ant. 19).
Un altro domanda ad Antonio: “Che devo fare per piacere a Dio?”. L’anziano risponde: “ Osserva ciò che ti suggerisco: dovunque tu vada, abbia sempre Dio davanti ai tuoi occhi; qualunque cosa tu faccia, falla secondo quanto trovi nella Scrittura” (Ant. 3).
Sottolineiamo subito tre cose in questo breve apoftegma. Il monaco che interroga Antonio non ricerca un insegnamento teorico e astratto. La sua domanda, come quella del giovane ricco del vangelo, è molto concreta: “Che devo fare?” – “Che devo fare per piacere a Dio?” (E’ per altro un’attitudine che si ritrova costantemente negli apoftegmi). La risposta di Antonio è duplice: Si piace a Dio se si ha sempre Dio davanti agli occhi, in concreto se si vive costantemente in presenza di Dio – questa è la concezione che hanno i Padri del deserto a proposito della preghiera continua; e questo è possibile se i si lascia guidare dalle Scritture. Antonio non si riferisce qui alla lettura e alla meditazione delle Scritture, ma svolgere ogni cosa secondo la testimonianza delle Scritture. Un giorno Teodoro, discepolo preferito di Pacomio, gli domanda, con l’ardore tipico del neofita, quanti giorni debba restare senza mangiare durante la Pasqua, precisamente la Settimana Santa. (La regola della Chiesa e l’uso comune prescriveva l’intero giorno del venerdì santo e del sabato santo; per alcuni era possibile stare digiuni per tre o quattro giorni). Pacomio gli raccomanda di attenersi alla regola della chiesa, che prescrive il digiuno totale per i soli due ultimi giorni, per avere così, dice, la forza di compiere senza difficoltà le cose che ci sono comandate dalle Scritture: la preghiera incessante, le veglie, le recita delle lodi di Dio e il lavoro manuale.
Ciò che importa prima di tutto per i Padri del deserto, non è leggere la Bibbia , ma viverla. E’ ovvio che per viverla bisogna conoscerla. Come tutti i cristiani, il monaco apprende la Scrittura innanzi tutto ascoltandola proclamare nell’assemblea liturgia. Apprende quindi a memoria delle parti importanti della Scrittura alfine di poterla ruminare lungo tutta la giornata. Da ultimo, alcuni avevano accesso a manoscritti della Scrittura e ne potevano fare una lettura privata. Quest’ultima non era che una forma tra le altre, e non necessariamente la più importante, per lasciarsi costantemente interpellare dalla Parola di Dio.
L’ermeneutica del deserto.
Gli episodi sopra menzionati ci lasciano intravedere le linee di forza di quella che è possibile definire l’ermeneutica dei padri del deserto – una ermeneutica che, sicuramente mai formulata sotto forma di principi astratti, nondimeno esiste. I grandi maestri dell’ermeneutica contemporanea, che considerano l’interpretazione come un dialogo tra il testo e il lettore o l’ascoltatore, e per i quali l’interpretazione deve normalmente condurre a una trasformazione o a una conversione, non hanno inventato nulla. Formulano una realtà che i padri del deserto hanno vissuto, sicuramente senza formularla – in ogni modo senza preoccuparsi di formularla.
Nel deserto la Scrittura è costantemente interpretata. Questa interpretazione non si esprime sotto forma di commentari e di omelie, ma di azioni e digesti, in una vita di santità trasformata dal dialogo costante del monaco con la Scrittura. I testi rivelano sempre un ulteriore significato non solo per quelli che li leggono o li ascoltano, ma anche per quanti incontrano che hanno incarnato i testi nella loro vita. L’uomo di Dio che ha assimilato la Parola di Dio è divenuto un nuovo ‘testo’ e un nuovo oggetto di interpretazione. Ed è in questo contesto che occorre comprendere il fatto che, nel deserto, alla parola dell’Anziano viene attribuita la stessa forza della parola della Scrittura.
Ho menzionato più sopra l’apoftegma di Antonio che risponde ai fratelli: “Avete inteso la Scrittura? Fa al caso vostro”. Di fatto i fratelli non furono soddisfatti di questa risposta e gli dissero: “Padre noi vogliamo anche una parola da te”. Allora Antonio dice loro: “Il Vangelo dice. se qualcuno ti percuote su una guancia, tu offrigli anche l’altra”. “Non ci riusciamo” rispondono. L’Anziano ribatte: “Se non potete offrire l’altra, sopportate almeno che vi percuotano su una” – “Neppure” – “Se anche questo è impossibile, almeno non rendete il male ricevuto” “Neanche questo” – Allora l’Anziano dice al suo discepolo: “Prepara loro un pasticcio di farina perché sono malati. Se non potete questo e non potete quello: che ci posso fare? Voi avete bisogno di preghiere”
Figli della Chiesa di Egitto e di Alessandria
Questo modo di concepire la Scrittura come Regola di vita non era per altro propria dei monaci. Non bisogna dimenticare che i Padri del deserto che conosciamo attraverso gli Apoftegmi, la letteratura pacomiana, Palladio e Cassiano ecc. sono prima di tutto monaci egiziani della fine del terzo e inizio del quarto secolo. Questi monaci sono figli della Chiesa. Appartengono ad una Chiesa concreta, quella dell’Egitto, formata dalla tradizione di Alessandria. Il mito secondo cui la maggior parte dei primi monaci, a cominciare da Antonio, furono degli analfabeti e ignoranti, non regge alla critica. Numerosi studi recenti, particolarmente quello di Samuel Robinson sulle lettere di Antonio, hanno dimostrato che Antonio e i primi monaci del deserto di Egitto avevano assimilato l’insegnamento spirituale della Chiesa di Alessandria, ancora profondamente segnato dall’insegnamento dei grandi maestri alessandrini e in particolare dall’afflato mistico impresso dal più illustre di loro: il grande Origene.
La Chiesa di Alessandria era nata dalla prima generazione cristiana, nell’ambito di una diaspora giudaica assai raffinata e, secondo Plinio, raggruppante circa un milione di membri; si spiega come questa Chiesa di Egitto e di Alessandria abbia avuto dall’origine un netto orientamento giudeo-cristiano. Questo inoltre spiega ugualmente la sua apertura alla tradizione scritturistica e mistica che aveva segnato la chiesa giudeo-cristiana delle prime generazioni.
La scuola del deserto è, sotto molti profili, la replica nella solitudine della scuola di Alessandria dove si sa che Origene ha vissuto con i suoi discepoli un’esistenza monastica incentrata sulla parola di Dio. Secondo una bella descrizione di Gerolamo, tra preghiera e lettura, lettura e preghiera, di notte come di giorno (Lettera a Marcella 43,1; PL 22:478: Hoc diebus egisse et noctibus, ut et lectio orationem exciperet, et oratio lectionem). Tutto questo, però, non era proprio dell’Egitto. Più o meno nello stesso periodo Cipriano di Cartagine formulava una regola che sarà citata in seguito più o meno da tutti i padri latini: “Occorre pregare assiduamente, o leggere; in certi momenti parla Dio, in altri ascolta Dio che ti parla” (Lettera 1,15; PL. 4:221 B: Sit tibi vel oratio assidua vel lectio: nunc cum Deo loquere, nunc Deus tecum – che diverrà classica in questa formula: “quando preghi, sei tu che parli a Dio, quando leggi, Dio ti parla”).
Se non tutti i monaci d’Egitto furono come Evagrio, e se pochi erano in grado di leggere Origene, nondimeno furono formati alla spiritualità cristiana dall’insegnamento di pastori si dimostrarono fortemente influenzati dall’orientamento che Origene aveva dato alla Chiesa di Alessandria attraverso la scuola che aveva diretto per molti anni.
Questo spiega la solida spiritualità biblica del monachesimo primitivo. Si potrà obiettare che le citazioni bibliche dirette sono poco numerose negli Apogtefmi, anche se più numerose nella letteratura pacomiana. La riposta è che la Scrittura aveva talmente imbevuto il modo di vivere di quegli asceti, che era superfluo citare dei passaggi. Il monaco pneumoforo era colui che, vivendo secondo le Scritture, era ricolmato dello stesso Spirito che aveva ispirato le Scritture. (Siamo lontani dall’abitudine contemporanea che, per prendere in considerazione, pretende che tutte le affermazioni, tutti gli insegnamenti abbiano una nota in fondo pagina dove deve essere indicato chiunque abbia detto la stessa cosa in precedenza).
La tradizione con la quale oggi definiamo la lectio divina, cioè desiderio di lasciarci interpellare e trasformare dal fuoco della parola di Dio, non è comprensibile, senza un accordo, al di là del monachesimo primitivo, alla tradizione dell’ascesi cristiana dei primi tre secoli e al suo radicamento nella tradizione di Israele.
Dalla catechesi della sua Chiesa locale, il monaco ha appreso di essere stato creato a immagine di Dio, immagine deformata dal peccato e bisognosa di riforma. Ne deriva la necessità di lasciarsi trasformare e riconfigurare ad immagine di Cristo. Attraverso l’azione dello Spirito Santo e secondo il vangelo, la somiglianza con Dio è gradualmente restaurata e ed è possibile conoscerLo.
L’inizio della vita del monaco, così come si esprime Cassiano, è la preghiera continua, che descrive come una costante attenzione alla Presenza di Dio, che si realizza attraverso la purezza di cuore. Non ci si arriva attraverso questa o quell’altra osservanza, neppure attraverso la lettura o la meditazione della Scrittura, ma lasciandosi trasformare dalla Scrittura.
Il contatto con la Parola di Dio –poco importa se questo contatto avviene attraverso la lettura liturgica della parola, l’insegnamento di un padre spirituale, la lettura privata del testo o la semplice ruminatio di un versetto o di qualche brano memorizzato – questo contatto è il punto di partenza di un dialogo con Dio. Il dialogo si stabilisce e si prosegue nella misura in cui il monaco sia attento ad una certa purezza di cuore, una semplicità di cuore e di intenzione, e nella misura in cui mette in opera i mezzi per arrivare a questa purezza di cuore e li mantiene. Questo dialogo nel corso del quale la parola spinge continuamente il monaco alla conversine mantiene l’attenzione continua a Dio, che i padri considerano come una preghiera continua e che è l’inizio della loro vita. Per i monaci del deserto la lettura e la Parola di Dio non è semplicemente un esercizio religioso di lectio che prepara gradualmente lo Spirito e il cuore alla meditatio e poi all’orazio, con la speranza di poter arrivare alla contemplatio (…se possibile prima che la mezzora o ora di lectio sia conclusa). Per i monaci del deserto il contatto con la parola è contatto con il fuoco che brucia, sbaraglia, chiama violentemente alla conversione. Il contatto con la Scrittura non è per loro un metodo di preghiera; è un incontro mistico. E questo incontro fa loro spesso paura, tanto sono coscienti delle sue esigenze.
Circolo ermeneutico
La Scrittura comprende costantemente un senso nuovo, ogni volta che viene letta. Qui di nuovo l’ermeneutica contemporanea si ricollega alle intuizioni dei Padri del deserto. Si ritroveranno chiaramente nell’affermazione di Agostino: “Ieri tu hai compreso un po’; oggi comprendi di più; domani maggiormente: la luce stessa di dio divine più forte in te” (In Ioh. tract 14,5 CCL 36, p144, linee 34-36).
Per i monaci del deserto le parole della Scrittura (come per altro quelle degli Anziani) trascendono le dimensioni limitate dell’ ”evento” in cui sono state inizialmente incontrate e in cui si percepisce il significato. Queste ‘parole’ proiettano un ‘universo di senso’ in cui sono inviatati ad entrare. La chiamata a vendere tutto, a donarlo ai poveri, a seguire il Vangelo (Mt 19,21), l’esortazione a non lasciare che il sole tramonti sulla collera (Ef 4,25), il comandamento di amare; tutti questi testi hanno formato la vita dei Padri del deserto in un modo particolare e hanno creato un ‘universo di senso’ in cui si sono sentiti spinti ad entrare, di cui si sono sforzati di impadronirsi. La santità nel deserto consiste nel donare una forma concreta a questo universo di possibilità presenti nei testi sacri, interpretandole e appropriandosene nella vita concreta.
Abba Nestore (nella Conferenza 14° di Cassiano) ci dice “dobbiamo avere lo zelo di apprendere a memoria la suite delle scritture e di ripassarle senza tregua. Questa meditazione continua – ci dice – ci procurerà un doppio frutto”. Innanzitutto ci preserverà dai cattivi pensieri. Poi questa recita o meditazione continua ci condurrà ad una comprensione ogni volta rinnovata. Nestore ha questa frase rilevante: “ A misura che, attraverso questo studio, il nostro spirito si rinnova, le Scritture cominciano a cambiare di aspetto (scripturarum facies incipiet innovari). Ci è donata una comprensione più misteriosa, la bellezza si espande con i nostri progressi.” (Ancora una volta troviamo un filo conduttore tra la messa in pratica delle Scritture e la capacità di comprenderle ad un livello sempre più profondo).
(Si potrà ancora una volta porre in relazione questa visione all’approccio moderno di Ricoeur, per esempio, che spiega come un testo, una volta uscito dalle mani dell’autore acquista una esistenza autonoma e assume un nuovo significato ogni volta che è letto – ogni lettura è una interpretazione, a sua volta rivelazione di una delle possibilità pressoché infinite contenute nel testo).
Secondo il metodo moderno della lectio divina, si deve leggere lentamente ci si deve fermare di fronte ad versetto lungamente per nutrire il cuore, o lo spirito, se non le emozioni, e non passare a quello seguente se non quando i sentimenti si sono raffreddati e l’attenzione dissipata. I primi monaci, loro, restavano su un versetto molto a lungo fino a quando non l’avessero messo in pratica.
Un tale andò a trovare abba Pambo domandandogli di insegnargli un salmo. Pambo si mise a insegnargli il salmo 38: ma appena pronunciato il primo versetto: “Ho detto: ‘Guarderò la mia strada, senza lasciare che la mia lingua sgarri’…” il fratello non volle ascoltare di più. Disse a Pambo, questo versetto mi basta; implora Dio che abbia la forza di apprenderlo e metterlo in pratica. Diciannove anni più tardi era sempre lì a sforzarsi…” (Arm 19,23 Aa: IV 163).
Allo stesso modo, ad abba Abramo, che era un eccellente scriba, oltre ad essere un uomo di preghiera, qualcuno domanda di copiare il salmo 33. Si limita a copiare il versetto 15: “Distogli da te il male e fai il bene; cerca la pace e perseguila” dicendo al fratello: “Intanto pratica questo, poi scriverò ancora…” (Arm 10,67; III, 41).
La Bibbia per i Padri non era qualcosa da conoscere con l’intelligenza, non solo con il cuore, come ci piace dire oggi, (confondendo per altro di frequente il concetto biblico di cuore con una nozione di ‘cuore’ più recente e anche un po’ sentimentale). Per i padri si conosce la Bibbia assimilandola al punto di tradurla nella propria vita. Ogni altra conoscenza che non conduce a questo punto è vana.
Comprensione della scrittura
Tutto questo non vuole però significare che non dobbiamo avvicinare la scrittura con l’intelligenza. I monaci sono desiderosi di conoscere il senso letterale della Scrittura prima di applicarla. Nei monasteri pacomiani, per esempio, ogni settimana c’erano tre catechesi durante le quali sia il superiore del monastero, sia il superiore della casa interpretava la Scrittura durante la Sinassi, dopo che i fratelli avevano scambiato tra loro quanto avevano percepito, per assicurare che tutti avessero ben compreso.
L’interpretazione di un testo difficile richiede uno sforzo di intelligenza; ma questo sforzo sarà inutile senza la luce divina che occorre domandare nella preghiera. E in questo senso la preghiera deve precedere la lectio al punto che ne può essere il frutto. A due fratelli che interrogavano Antonio sul senso di un testo difficile del libro del Levitico, Antonio domanda di attendere un po’ di tempo, durante il quale si mette in preghiera, domandando a Dio di inviargli Mosè per apprendere da lui il senso di queste parole (Arm 12, 1B; III, 148). Prima di lui Origene faceva lo stesso, domandando ai suoi discepoli di pregare con lui per ottenere la comprensione di un testo sacro particolarmente difficile, alla fine, diceva di trovare ‘l‘edificazione spirituale’ ’(Origene, Omelia sulla Genesi, SC, Paris 1943, Hom 2,3, p. 96).
Sottolineiamo l’espressione ‘contenuta nel testo’. Il senso spirituale non è qualcosa che venga posto lì artificialmente, ma qualcosa contento nel testo che occorre scoprire.
Allo stesso modo, un grande monaco, Isacco di Ninive, scriveva: “Non avviciniamo le parole colme di mistero della scrittura senza preghiera…di a Dio: “ Signore donami di capire la forza che vi si trova” (cfr J. WENSINGK, Mystic Treatises by Isaac of Nineve, Amsterdam 1923, par. 329, ch. XLV, p. 220).
Quello che si cerca in un testo, non è un significato astratto, atemporale, è una forza capace di trasformare il lettore.
Le teorie moderne sulla lectio divina insistono di solito sul fatto che la lectio è qualcosa del tutto diverso dallo studio. I Padri non avrebbero compreso questa distinzione e questa divisione in comportamenti separati. Il loro approccio alla Scrittura era unificante. Ogni sforzo per apprendere la Scrittura, comprenderla, metterla in pratica è stato un unico sforzo per entrare in dialogo con Dio e lasciarsi trasformare da lui in un dialogo che diveniva una preghiera continua. Né loro, né Origene –per eccellenza l’uomo della Scrittura- né soprattutto Girolamo, per il quale l’ignoranza della Scrittura era ignoranza di Cristo (In Isaiam, Prol. CCL 73,2, CCL 78,66), non avrebbero compreso uno studio della Scrittura che non fosse al contempo un incontro personale con Dio.
Per Girolamo, la preghiera prende avvio non tanto dal cuore, ma dall’intelligenza (da dove passa nel cuore). Bisogna conoscere Dio per amarlo. Chi conosce veramente, ama necessariamente. Da qui l’importanza di studiare a fondo le Scritture con la propria intelligenza.
A proposito di Marcella, che più di tutti gli altri discepoli di Girolamo aveva studiato a fondo le Scritture e le eleggeva assiduamente, di lei diceva: “Aveva capito che la meditazione non consiste solo nel ripetere i testi della Scrittura…perché sapeva che avrebbe posseduto l’intelligenza delle scritture dopo aver tradotto nella vita i comandamenti.” (Ep. 127,4, CSEL 56,148).
Nella 14° Conferenza di Cassiano, il mediatore della spiritualità del deserto egiziano dove aveva vissuto nel corso di diversi anni, come Evagrio, distingue due forme di scienza, la pratctikè e la theoretikè, essendo quest’ultima la contemplazione delle cose divine e la conoscenza dei significati più sacri. Questa theoretikè, o contemplazione delle cose divine, si chiama anche “vera scienza delle Scritture”, che è divisa in due parti, l’interpretazione storica e l’intelligenza spirituale. L’una e l’altra appartengono alla contemplazione. Cassiano aggiunge: “se volete giungere alla vera scienza delle scritture, date da fare per acquistare una autentica umiltà di cuore. Essa vi condurrà non alla scienza che si sgonfia, ma a quella che illumina, attraverso la consumazione della carità.” Pertanto ciò che fa sì che lo studio della Scrittura sia una attività contemplativa, oppure no, non è il metodo utilizzato per la lettura o l’interpretazione, ma l’attitudine del cuore.
Precomprensione
L’ermeneutica di Ricouer ci insegna che quando leggiamo un autore antico non si entra completamente in relazione con il pensiero dell’autore che con la stessa realtà di cui parla l’autore. Questo perché non è possibile una comprensione di un testo senza una pre-comprensione che consiste in una certa relazione già esistente tra il lettore e la realtà di cui parla il testo. Ora, si trova già una medesima intuizione in Cassiano, alla fine della 10° Conferenza. Isacco dopo aver spiegato i mezzi per arrivare alla preghiera pura aggiunge: “Vivificato da questo alimento (quello delle Scritture) di cui non smettiamo di nutrirci, si penetra a questo punto tutti i sentimenti espressi nei salmi, che recita disarmato, non solo come sono stati composti dal profeta, come fosse stato lui stesso l’autore, e come una preghiera personale…” E aggiunge: “E’ allora che le Scritture divine ci appaiono con maggiore chiarezza e in un certo qual modo ci aprono il loro cuore e le lro viscere, quando la nostra esperienza personale non solo avverte, ma ne previene la conoscenza, e così finiremo per intuire non solo il senso delle parole con l’aiuto di qualche esposizione, ma come il frutto di un esercizio che noi stessi abbiamo fatto. » (Conf X, 11)… « Ammaestrati da tali sentimenti finiamo come di toccarli con mano, non come cose udite, quanto piuttosto come cose vedute personalmente; non come cose affidate alla memoria, quanto piuttosto come cose insinuate in noi dalla realtà della nostra natura, come generate dall’interno del nostro cuore, così che noi potremo penetrare il loro senso, non derivandolo dalla lettura del testo, ma dalla nostra esperienza vissuta. » (ibid.)
Non esiste comprensione e interpretazione senza una pre-comprensione. Sotto questo aspetto è chiaro che la vita che i monaci conducono nel deserto, fatta di silenzio, solitudine e ascesi, costituisca una precompresnione che condiziona largamente la loro comprensione della Scrittura. Silenzio e purezza di cuore si pongono come delle percondizioni per intendere e interpretare la Scrittura nel suo senso più completo.
E’ ovvio che questo già è presente, almeno in una certa misura. Ecco perché Girolamo indica un ordine nel quale apprendere la Scrittura: dapprima il salterio, poi i proverbi di Salomone e il Qohelet, poi il Nuovo Testamento. E solo dopo che l’anima è lungamente preparata attraverso un’intensa amicizia amorosa con Dio che può avvicinare con frutto il cantico dei cantici.
Parole degli Anziani
Talvolta i Padri del deserto rispondevano alle questioni che erano loro poste con un espressione della Scrittura; ma rispondevano anche con altre parole, a cui attribuivano la medesima importanza. Ci si convince che la grande forza di queste parole veniva dalla grande purezza di vita del santo anziano che le diceva, perché lui stesso era stato trasformato dalla Scrittura.
Il concetto moderno di lectio divina
Vorrei ora fare qualche osservazione in relazione al concetto che abbiamo oggi di lectio divina alla luce dell’insegnamento dei Padri del deserto che si sta presentando.
Ciò che oggi si definisce lectio divina è presentato come un metodo di lettura della Scrittura e dei Padri del monachesimo. Consiste in una lettura lenta e meditativa del testo, una lettura fatta più con il cuore che con l’intelligenza, non in un ambito pratico, ma semplicemente per lasciarsi impregnare dalla parola di Dio. Questo metodo, in quanto metodo, prende le sue origini nel 12° secolo e non è senza relazione con ciò che è chiamato ‘teologia monastica’. In questo periodo la pre-scolastica aveva sviluppato il proprio metodo che passava dalla lectio alla quaestio, poi alla disputatio. La reazione dei monaci fu allora di sviluppare un loro proprio metodo: la lectio conduce alla meditatio poi all’oratio…e un po’ più tardi si aggiungerà la contemplatio che verrà distinta dall’oratio. Quindi l’approccio alle Scritture su descritto come proprio dei Padri del deserto in realtà era un approccio che avevano in comune con l’insieme del popolo di Dio, il nuovo approccio o nuovo ‘metodo’, perché sostenuto da un esercizio, un osservanza importante dell’esistenza monastica, si rifugiò nei monasteri. Molto più tardi, all’epoca della devotio moderna verrà generalizzata la ‘lettura spirituale’ da distinguersi nettamente dalla lectio divina monastica. Seguendo un indirizzo generale, la vita spirituale si specializza, o si divide in compartimenti stagni. Non è tema della presente conferenza analizzare questa lunga evoluzione. Nondimeno mi permetto alcune osservazioni.
In primo luogo ci si può domandare come si sarebbe evoluta la teologia se i monaci non avessero respinto il metodo nascente. In effetti, ciò che viene definito come teologia monastica non ebbe, fino al 12° secolo nulla di specificamente monastico. Era il modo in cui si faceva la teologia nell’ambito del popolo di Dio anche, senz’altro, con un pluralismo assai marcato nei monasteri come fuori. Questo modo sapienziale e contemplativo di fare teologia aveva assunto, fino a rendere proprio e trasformare (inculturare, si direbbe oggi), gli apporti dei diversi metodi e delle diverse correnti di pensiero. E’ legittimo domandarsi come si sarebbe evoluta la teologia dei secoli seguenti se i monaci non avessero respinto il metodo nascente e avessero assimilato tutti quelli allora presenti. In ogni modo, per il dritto o per il rovescio, un modo definito monastico di fare teologia si mantenne nei monasteri e la teologia scolastica si sviluppa nelle scuole al di fuori. In Tommaso d’Aquino il nuovo metodo è ancora utilizzato in una prospettiva profondamente contemplativa, cosa che verrà completamente abbandonata dai commentatori e dai commentatori dei commentatori.
Lo stesso discorso può essere fatto per la Scrittura. I monaci avevano giocato fino a quel momento un ruolo preponderante nell’interpretazione e nell’uso della Scrittura, anche se il loro approccio non era specificamente diverso da quello proprio dell’insieme del popolo di Dio. A partire dal momento in cui subirono, pure senza rendersene conto, l’influenza della nuova teoria, elaborino un loro proprio metodo di lettura, parallelo a quello della scolastica, per cui vennero a trovarsi nella Chiesa due approcci nettamente distinti della Scrittura: una definibile come lettura del cuore (e che in certe epoche dimenticherà spesso di far seguire l’intelligenza) e una di orientamento scientifico che si inaridirà sempre più.
D’altra parte si deve riconoscere che precisando il loro proprio metodo di lectio, i monaci erano di fatto dipendenti dalla nuova mentalità, pre-scolastica, che aveva creato un bisogno di metodo. I primi monaci non avevano un metodo. Avevano una attitudine di lettura. Spesso, nel corso degli ultimi secoli, i monaci dimenticheranno il loro metodo proprio di leggere la Scrittura e i Padri e di fare la teologia. e adotteranno quello comune. E’ stato dunque necessario per i monaci, alla nostra epoca, di ritornare a un modo di far teologia diverso da quello della teologia dei manuali scolastici, e di ritornare ad un modo di leggere la Scrittura e i Padri diverso da quello dell’ esegesi scolastica. Si deve avere nei confronti di dom Jean Leclercq una grandissima riconoscenza per aver orientato il monachesimo contemporaneo in questa direzione. Da allora, si può dire con un certo umorismo, che il concetto di teologia monastica e di lectio divina, così come si intendono queste due realtà oggi, sono le due più belle creazioni di dom Leclercq.
Ho già detto dell’importanza per il monachesimo riscoprire questo modo di leggere la Scrittura e questo modo di fare teologia. Bisogna andare più lontano: bisogna riconoscere che questo modo di leggere la Scrittura e di fare teologia non è specificamente monastico. E’ tutto il popolo di Dio che deve riscoprirlo perché questo era, una volta, il modo del popolo di Dio di leggere la Scrittura e fare teologia.
Tuttavia bisogna fare ancora un ulteriore passo. Occorre oltrepassare la frammentazione della vita del monaco e di quella degli altri cristiani. Bisogna scoprire la primitiva unità persa lungo la strada.
In effetti, mentre è doveroso rallegrarsi per il posto occupato dalla lectio divina nella vita dei monaci e anche nella vita di molti cristiani al di fuori dei monasteri da circa una quarantina d’anni, è altrettanto vero che l’attuale attitudine verso questa realtà non è privo di pericolo.
Il pericolo è che, molto spesso, anche in maniera impercettibile, si tende a trasformare la lectio in un esercizio – un esercizio tra gli altri, anche se lo si considera il più importante di tutti.
Il monaco fedele fa una mezz’ora o un’ora o anche più di lectio per giorno, e poi passa alla sua lettura spirituale, ai suoi studi e alle sue altre attività. Adotta una attitudine gratuita di ascolto di Dio durante questa mezz’ora si rivolge spesso alle altre attività della giornata con la stessa frenesia, lo stesso spirito di competizione, la stessa distrazione come se non avesse scelto una vita di preghiera continua e di ricerca costante della presenza di Dio.
Non solo questo è del tutto estraneo allo spirito dei monaci del deserto, ma questa attitudine è in contraddizione con la stessa natura della lectio divina. Il suo essenziale, così come descritto da molti teorici, è l’attitudine interiore. Ora questa attitudine non è qualcosa di cui sia possibile rivestirsi in una mezz’ora o in una ora della giornata. Impregna tutta la nostra giornata, oppure l’esercizio che definiamo ‘lectio’ non è che una parola vuota.
Lasciarsi interrogare da Dio, lasciarsi interpellare, formare, attraverso tutti gli elementi della giornata, attraverso il lavoro come gli incontri fraterni, attraverso la rude ascesi di un lavoro intellettuale serio, attraverso la celebrazione liturgica oppure alle normali tensioni di una vita comunitaria – tutto questo è terribilmente esigente.
Relegare questa attitudine di totale apertura in un esercizio privilegiato che è lui stesso immaginato per impregnare il resto della giornata è forse un modo troppo facile di risolvere questa esigenza. Per i Padri del deserto, leggere, meditare, pregare, analizzare, interpretare, scrutare, tradurre la Scrittura – tutto questo forma una unità indissolubile. Sarebbe risultato impensabile ad es. per san Girolamo che la sua analisi potente del testo ebraico della Scrittura per penetrare tutti gli aspetti potesse essere una attività non degna del nome lectio divina.
E’ certamente ottima la riscoperta della lettura della parola di Dio con il proprio cuore per poter lasciarsi trasformare. Ma credo sia un errore farne un esercizio piuttosto che impregnare di questa attitudine i molteplici aspetti della Scrittura.
Di più, credo che il testo della Scrittura mi può riagganciare nella mia vita profonda, interpellarmi e trasformarmi solo se mi situo davanti al testo completamente nudo, senza ricorrere a tutti gli strumenti che mi possono permettere di di riagganciare nel suo significato primitivo, rischio forte che conduce ad una attitudine fondamentalista -–per nulla rara ai nostri giorni – o ancora a un fausse mistica, anche questo assai frequente.
Poiché è generalmente ammesso ai nostri giorni che la lectio divina possa avere come oggetto non solamente la Scrittura ma anche i Padri della Chiesa e, per i monaci e le monache, particolarmente i padri del monachesimo, mi permetto una riflessione là-dessus ugualmente.
La tradizione monastica essendo una interpretazione vissuta della parola di Dio, ha una importanza assimilabile a quella, pur essendo in posizione secondaria. (Abbiamo visto per altro come i Padri del deserto accordassero alla parola o all’esempio di un Anziano trasformato dallo Spirito quello proprio della Parola di Dio o di un esempio biblico. Ma questa parola vissuta che è la tradizione monastica ha bisogno di essere interpretata e continuamente reinterpretata, anch’essa.
Ai nostri giorni nelle comunità monastiche si sono riscoperti i Padri. E bisogna applaudire per questa riscoperta. Ma il loro messaggio, ancor più di quello delle Scritture, è avvolto in un contesto culturale che non è, come sovente si crede, la cultura monastica – come se se ne fosse una – piuttosto il contesto culturale di tale o tal altra epoca particolare in cui i monaci antichi hanno vissuto la loro vocazione. Il lettore moderno dovrebbe esporsi senza alcun spirito critico alla forza trasformante della grazia che hanno vissuto e veicolato; ma non può farlo che dopo aver scorticato con un senso critico, affinato l’involucro culturale sotto il quale si nasconde questo nutrimento prezioso.
Come non esiste una cultura cristiana, parallela a tutte le culture profane, piuttosto delle culture locali cristianizzate – per altro in gradi diversi; allo stesso modo non esiste una cultura monastica, piuttosto diverse culture trasformate dal carisma monastico. L’utilizzazione dei padri come materia di lectio divina comporta un serio lavoro di esegesi e studio per riagganciare la realtà vissuta al di là dell’involucro culturale. Altrimenti si legge se stessi nel testo che si ammira; e ne consegue che più ci si legge, più lo si ammira.
Il monaco sarà oggi interpellato, chiamato alla conversione, trasformato dalla lettura dei padri del monachesimo unicamente alla condizione che si lasci toccare da quelli in tutti gli aspetti della sua vita monastica. E ciò non si produrrà che nella misura in cui li ricollegherà all’insieme della loro esperienza: ciò suppone una analisi approfondita della loro lingua, del loro linguaggio, del loro pensiero filosofico e teologico, del contesto culturale in cui sono vissuti. Mi sembra artificiale e allo stesso tempo pericoloso distinguere questo studio dalla lectio propriamente detta…
Il monaco oggi appartiene necessariamente a una cultura determinata, e a una Chiesa locale legata ad una cultura cristiana determinata. E’ questa cultura che in lui incontra la tradizione monastica e se ne deve lasciar interpellare e trasformare. Temo che troppo spesso nei nostri approcci ai Padri noi spingiamo i giovani ad assumere come un vestito la cultura monastica di un epoca passata, con il rischio di trasformare i monasteri in campi di rifugio culturali.
Conclusione
I Padri del deserto ci raccomandano l’importanza primordiale della Scrittura nella nostra vita cristiana e la necessità di lasciarsi trasformare costantemente al suo contatto.
Pertanto uno studio rapido come quello fatto sul modo che avevano di accostare la Scrittura ci spinge a rivedere certi aspetti del concetto moderno di lectio divina, invitandoci ad oltrepassarli per poter raggiungere un più profondo senso di unità. Il monaco, più degli altri, non può permettersi di essere diviso. Il suo stesso nome, monachos, lo incita senza tregua all’unità di preoccupazione, aspirazione e attitudine propria di chi ha scelto di vivere un solo amore all’interno di un cuore indiviso.
Roma, 7 novembre 1995.
Armand VEILLEUX, o.c.s.o.
Note: La gran parte delle citazioni dei testi monastici antichi sono ricavate da uno studio di Louis Leloir: « Lectio Divina and the Desert Fathers », Liturgy, Vol. 23, nº 2, 1989, pp. 3-38.
Una versione ridotta del medesimo studio è apparsa in francese in: « L’Écriture et les Pères », Revue d’Ascétique et de Mystique 47 (1971), pp. 183-199.
