Archive pour juin, 2011

Saint Peter and Saint Paul

Saint Peter and Saint Paul dans immagini sacre 1129
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Publié dans:immagini sacre |on 27 juin, 2011 |Pas de commentaires »

OMELIA DI PAOLO VI: SOLENNITÀ DEI SS. APOSTOLI PIETRO E PAOLO (1977)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/homilies/1977/documents/hf_p-vi_hom_19770629_it.html

SOLENNITÀ DEI SS. APOSTOLI PIETRO E PAOLO

OMELIA DI PAOLO VI

Mercoledì, 29 giugno 1977

Sospendiamo un momento il rito, com’è saggiamente prescritto, per meditarne, per penetrarne, con qualche pensiero, con una vigilante preghiera, il senso.
Il rito che cosa ci presenta? Ci presenta due personaggi, i due apostoli Pietro e Paolo, ai quali Roma fa risalire le proprie origini cristiane, la propria fede religiosa. Essi sono testimoni; possiamo ad entrambi riferire, sebbene a titolo personale differente, le parole del Signore al gruppo degli apostoli, prima della sua ascensione: «voi mi sarete testimoni …» (Act. 1, 8). A loro è conferita una missione specifica, quella di diffondere un messaggio, quello evangelico, una Parola; una dottrina, una Verità, che «lo Spirito di Verità» direttamente loro insegnerà (Io. 16, 13), con il potere simultaneo di promulgare certi riti, i sacramenti, comunicativi di effetti soprannaturali.
Noi, oggi, solennemente li ricordiamo; e tutto quanto qui è offerto alla nostra immediata sensibilità ci stimola a celebrarne con carattere festivo la memoria storica, veneranda, gloriosa; è la loro festa che noi vogliamo esaltare; e tutto ce ne offre motivo: il ritmo annuale del tempo, che ci ricorda essere questo giorno benedetto legato alla ricorrenza della memoria apostolica, e la nostra presenza nelle basiliche monumentali erette sulle tombe degli Apostoli stessi ravviva così il nostro pensiero sulle loro sante figure che ci è spontaneo ripensare quasi vive fra noi; e poi la storia plurisecolare che fa capo a questi due annunziatori del Vangelo nell’Urbe ci sembra assumere quasi una reale attualità davanti ai nostri occhi lieti e stupiti di contemplarne il panorama; e la pietà infine, donde scaturisce sulle labbra di tutti una qualche orazione per ottenere l’intercessione dei Santi Apostoli, accresce, fino a riempirne i nostri animi, la fiducia della nostra conversazione con loro, S. Pietro e S. Paolo.
Tutto questo è vero, e sta bene. È festa la nostra, e il gaudio festivo non solo ne caratterizza la liturgia, ma lo spirito di chi la vive e la esprime. Lasciamo perciò che questo nostro sforzo di attenzione si risolva innanzi tutto in un sentimento di interiore sicurezza. O, per meglio dire, di fede. Siamo circondati da segni, da stimoli, che valgono a svegliarla, a confortarla. La religione qui assume un accento di gioiosa certezza, che viene a noi propizia nella solitudine spirituale, propria del nostro secolo, nell’assuefazione alla mentalità vacillante e desolante del malinteso soggettivismo, pluralismo lo chiamano, in fatto di religione, il quale concede a ciascuno di pensare alla fede come meglio piace al proprio arbitrio critico, o meglio alla propria fantasia affrancata dall’inequivocabile precisione del dogma cattolico. Qui la fede, riportata alle sue sorgenti apostoliche e all’autorità magistrale che la professa, la difende e la insegna, riacquista la sua obiettiva consistenza, garantita dalla parola originaria di Cristo: «Chi ascolta voi, ascolta me» (Luc. 10, 16). La personalità del fedele, che accetta, che crede e che cerca di conformare la vita alla propria fede, attinta alla sorgente della Verità trascendente (Gal. 2, 16; 3, 11) si ricompone e diventa forte; forte per asserire, per diffondere questo stupendo complesso di verità, che appunto è la chiave d’interpretazione, di spiegazione superiore del mondo e del destino umano; è l’irradiazione missionaria della fede, è la ragione del programma apostolico della Chiesa. Noi conosciamo il carattere specialissimo dei poteri di evangelizzazione conferiti da Cristo ai suoi discepoli, tra i quali dodici, ch’Egli insignì del titolo di apostoli (Luc. 6, 13), con particolare riguardo a Pietro, pastore dei pastori (Io. 21, 17; Luc. 22, 32; Act. 1, 15; etc.), e con singolare autorità anche a Paolo, come egli scrive di sé: «positus sum ego praedicator et apostolus . . . doctor gentium in fide et veritate» (1 Tim. 2, 7; Rom. 15, 16; cfr. JOURNET, L’Eglise du Verbe Incarné, I, 180 ss.).
Noi conosciamo come non solo il nome, ma il ministero altresì dei due massimi Apostoli sia legato a Roma (confronta la lettera di S. Paolo ai Romani e la sua prigionia a Roma – Act. 28), e come la controversia circa la tomba di S. Pietro sia felicemente conclusa per rivendicarne la sede e la storia precisamente nelle fondamenta della basilica, che appunto ci accoglie dove il Principe degli Apostoli ebbe la sua sepoltura e il suo michelangiolesco mausoleo.
E certamente è a tutti noto come la storia della religione cattolica cioè della Chiesa abbia in questa Basilica il suo centro locale e spirituale. Noi possiamo qui ripetere con sempre commovente convinzione e quasi con sensibile conferma la parola di S. Ambrogio: «ubi Petrus, ibi Ecclesia». La ripeteremo questa riassuntiva parola per ritrovare nella memoria apostolica la virtù di cui oggi ha bisogno la Chiesa che vive e che soffre. La promessa che Gesù Cristo stesso ebbe per i suoi due Apostoli di predilezione: «Io ho pregato per Te», Pietro (Luc. 22, 32); e a riguardo di Paolo: «costui è per me uno strumento eletto per portare davanti ai popoli, ai re, e ai figli d’Israele il mio nome . . .» (Act. 9, 15), ancora fa garanzia anche per noi, bisognosi come siamo di fortezza, nella fede, nell’unità, nella carità. È promessa, è conforto per noi che dagli Apostoli deriviamo la natura e l’urgenza del nostro mandato apostolico; è invito, è messaggio che non dobbiamo portare al nostro tempo, ai nostri fratelli, predisposti forse dallo stesso spirito di vertigine che li travolge ad arrendersi alla nostra fortuna apostolica.

Così sia, così sia, con la nostra Benedizione!

Filippesi 2,17-30 (l’ho diviso in due parti, seguito sotto)

dal sito:  

http://www.parrocchiadibazzano.it/catechesi/scuolabiblica/filippesi2-4.pdf

Filippesi 2,17-30

17-18 « Anche se il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, gioisco e me ne rallegro con tutti voi. Allo stesso modo anche voi gioite e rallegratevi con me ».

« Anche se io ». Più che di una ipotesi si tratta di una luce profetica. E in tutti i casi coglie una verità sostanziale: l’apostolo è « versato/effuso/sparso », in un certo senso « perduto ». E’ il mistero della piccolezza, della croce, del seme caduto per terra: porta frutto soltanto se muore. Andando alla tipologia sacrificale dell’Antico Testamento, certamente è più importante l’offerta sacrificale (agnello/vita della comunità) che la libagione (olio/apostolo), ma l’offerta è « gradita a Dio » quando c’è la libagione, cioè quel piccolo dono che fa sì che l’offerta, la liturgia sia completa e perfetta. « Sacrificio della vostra fede ». Non significa che credere, aver fede (cioè la vita secondo il vangelo) è sacrificio, è cosa faticosa (anche questo), ma che la fede è un « sacrificio », è una « offerta ». In realtà, l’apostolo chiama questo atteggiamento: liturgia, « liturgia della vostra fede »! Nella lettera ai Romani specifica la sostanza del sacrificio proponendoci il « culto secondo lo Spirito »e dice: « Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto » (Rm 12,1ss). Si tratta, nella novità iniziata da Cristo stesso (Ebrei 10,5ss), di offrire [« mettere a disposizione » (parastese) di Dio] i nostri corpi (vita). Questo cosa significa in pratica? Significa non conformarsi alla mentalità di questo secolo, ma trasformarsi in un rinnovamento della mente per discernere la volontà di Dio. E la volontà di Dio mira a questo: fare ciò che è buono (tante cose o opere sono buone!), a lui gradito (è qualcosa di più!), perfetto (è la perfezione/completezza dell’amore: siate perfetti/misericordiosi come il Padre vostro celeste). La « sostanza » quindi del sacrificio è una vita secondo il vangelo. L’apostolo, coadiuvando con il dono della sua vita la pienezza del sacrificio/amore che la comunità è richiesta di vivere, si rallegra e chiede che la comunità si rallegri con lui. « Dio ama chi dona con gioia » (2 Cor 9,7). Tutto questo ha il suo inizio e il suo compimento nella Messa. Nell’offerta del corpo di Cristo, noi che siamo il suo corpo, siamo offerti con lui. E non possiamo non esserlo. Non si tratta infatti di un gesto di generosità o di scelta eroica, ma semplicemente di verità e di autenticità: con Cristo io sono quel corpo (già) offerto. La nostra stessa morte nel Signore (verrà come verrà) è già inclusa come »offerta » nel Battesimo e nella Eucaristia.

19-24 « Ho speranza nel Signore Gesù di potervi inviare presto Timoteo, per esser anch’io confortato nel ricevere vostre notizie. Infatti, non ho nessuno d’animo uguale al suo e che sappia occuparsi così di cuore delle cose vostre, perché tutti cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo. Ma voi conoscete la buona prova da lui data, poiché ha servito il vangelo con me, come un figlio serve il padre. Spero quindi di mandarvelo presto, non appena avrò visto chiaro nella mia situazione. Ma ho la convinzione nel Signore che presto verrò anch’io di persona » . Più volte Paolo sottolinea i legami tra lui e la comunità e il bisogno di sapere come vanno le cose nel Signore. Il conforto di Paolo è uno « star bene d’animo », un poter respirare (eupsicho). E’ tale il suo legame con la comunità che egli sta bene solo quando sa in quale modo la comunità cammina. Sembra quasi una simbiosi, un respirare assieme. « Ora viviamo, se rimanete saldi nel Signore » (1 Tes 3,8). Per questo manda Timoteo, perché questi condivide i sentimenti e gli atteggiamenti di Paolo, cioè prende sinceramente a cuore ciò che riguarda i Filippesi. Non tutti fanno così. Tutti cercano i propri interessi (le proprie cose) e non quelli di Cristo. Forse si riferisce al fatto che tutti cercano una propria salvezza, un « fare per sé » e costruiscono attorno a sé (e non a Cristo) una chiesa a loro immagine: costi quel che costi, anche la divisione nella comunità (vedi 2,3). Così facendo non dimostrano sollecitudine e amore per la comunità. E’ l’atteggiamento opposto a quello di Cristo, il quale si è abbassato…(2,5ss). Conoscete la prova da lui data. In che consiste? Ha servito il vangelo in una comunione profonda con me, da figlio a padre. Si è « approvati (si supera la prova) » solo se si vive nel servizio per il vangelo, in comunione filiale con la Chiesa, che l’apostolo rappresenta. Ma non sarà sufficiente mandare Timoteo, Paolo stesso andrà. Tutto però e nelle mani di Dio! (« ho fiducia nel Signore« ). 25-30 « Per il momento ho creduto necessario mandarvi Epafrodìto, questo nostro fratello che è anche mio compagno di lavoro e di lotta, vostro inviato per sovvenire alle mie necessità; lo mando perché aveva grande desiderio di rivedere voi tutti e si preoccupava perché eravate a conoscenza della sua malattia. È stato grave, infatti, e vicino alla morte. Ma Dio gli ha usato misericordia, e non a lui solo ma anche a me, perché non avessi dolore su dolore. L’ho mandato quindi con tanta premura perché vi rallegriate al vederlo di nuovo e io non sia più preoccupato. Accoglietelo dunque nel Signore con piena gioia e abbiate grande stima verso persone come lui; perché ha rasentato la morte per la causa di Cristo, rischiando la vita, per sostituirvi nel servizio presso di me » Epafrodito (4,18) mandato dalla comunità di Filippi ad Efeso per recare una aiuto concreto (colletta) a Paolo, ora viene rimandato a Filippi. E’ chiamato: fratello (a motivo della stessa fede); compagno di lavoro (per la stessa opera della predicazione del vangelo); compagno d’armi (a motivo del soffrire per Cristo); apostolo vostro (mandato dalla comunità: è bello notare che è la comunità che manda); soccorritore (liturgo) delle mie necessità. Spesso l’aiuto al prossimo, specie ai poveri, è chiamato « liturgia ». In 2 Corinzi 9, 12 si parla di « servizio della liturgia » e si intende l’aiuto al fratello povero (di Gerusalemme). E’ un modo di dire inconsueto (per noi) ma molto illuminante: a ricordarci che la liturgia (che significa forse opera di popolo) si esprime a livello di rendimento di grazie (eucaristia) e a livello del suo riflesso in una vita fraterna. Colui che è « liturgo di Cristo Gesù esercitando il servizio sacro del vangelo di Dio » (Rm 15,16) lo è anche dei poveri. Quanti gradi di partecipazione, di comunione al vangelo si aprono per i discepoli del Signore! (1,5). Aveva grande desiderio di voi tutti ed era triste/mesto perché eravate a conoscenza della sua malattia. E’ stato infatti malato, vicino alla morte. Gioia e tristezza si comunicano e stanno assieme, poiché siamo un solo corpo. Ma Dio gli ha usato misericordia, e non solo a lui ma anche a me perché non avessi tristezza su tristezza. La salute e la malattia, la vita e la morte sono dentro alla misericordia di Dio: « Chi ci separerà dall’amore di Cristo? » (Rm 8,35). Lo mando con tanta premura perché vi rallegriate al vederlo di nuovo e io non sia più triste. Leggiamo Giovanni 16,22s: « Voi ora siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia ». Il vederci di nuovo dà gioia. Ma cosa significa « di nuovo »? Che ci vediamo una « seconda volta’, oppure anche un vedere « in modo nuovo e vero »? Accoglietelo dunque nel Signore con ogni gioia e abbiate grande stima verso persone come lui: ha rasentato la morte per l’opera (per compiere l’opera) di Cristo, avendo rischiato la vita per sostituirvi nel servizio presso di me. Secondo una immagine sportiva del tempo, Epafrodito viene paragonato ad un « lottatore dei giochi », a uno cioè che sa di avere come esito anche la morte! E questo lo ha fatto come apostolo dei Filippesi nel servizio (liturgia) di Paolo. Si è fatto vero rappresentante, inviato, apostolo della comunità. Ha supplito ciò che mancava al « vostro servizio verso di me », ha portato cioè a compimento il « vostro sevizio ». A questa luce, è utile rileggere Ebrei 13,7: « Ricordatevi dei vostri capi (vostre guide), i quali vi hanno annunziato la parola di Dio; considerando attentamente l’esito del loro tenore di vita, imitatene la fede ». L’esito indica proprio un es-ito, una usc-ita. Il modo di vivere evangelico è un « es-ito », un qualcosa di diverso rispetto e che sfugge al modo di vivere terreno, un modo di viver che si attua nella conformità al vangelo, fino al vero es-ito che è il martirio o la morte per il Signore (vera novità). Di queste guide bisogna « ricordarsi », fare memoria. Come? Imitandone la fede.3,1-14

Per il resto, fratelli miei, state lieti nel Signore. A me non pesa e a voi è utile che vi scriva le stesse cose (1)

- Il « rallegratevi nel Signore » può sembrare un saluto, in realtà è un nuovo vigoroso avvio che avrà ancora un’altra ripresa verso la fine (4,4). La gioia « nel Signore » è la gioia che soltanto il Signore può dare e che si esperimenta nel « vedere » il Signore risorto (Gv 16,22s), nell’esperimentarlo comerisorto e vittorioso sulla potenza della morte. E’ quindi una gioia che nessuno ci potrà togliere, nemmeno la morte (elargitrice soltanto di amarezza!). Ma è anche la gioia che si esperimenta « nel Signore », vivendo cioè la vita nuova, semplicemente la vita cristiana. Si traduce nell’accoglierci come fratelli (2,29). ® La gioia! Il motivo della gioia sarà ulteriormente sviluppato al capitolo 4. – Scrivendo la lettera, Paolo, non fa esercizio letterario, ma fa opera di apostolo: annuncia il vangelo. Pertanto non gli è di peso « scrivere », perché scrivere è « predicare », cioè annunciare e custodire il vangelo. D’altra parte, per i Filippesi, accogliere la lettera (cioè la predicazione del vangelo) e sentire « queste cose » è utile, o meglio « dà certezza e sicurezza » (cfr. Lc 1,4). ® Quale rapporto c’è oggi tra la predicazione, la catechesi, la teologia ecc. e la Scrittura? « Queste cose ». Le ammonizioni precedenti? Certo, ma anche quanto Paolo sta per dire, e cioè: « Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno circoncidere! Siamo infatti noi i veri circoncisi, noi che rendiamo il culto mossi dallo Spirito di Dio e ci gloriamo in Cristo Gesù, senza avere fiducia nella carne, sebbene io possa vantarmi anche nella carne. Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge » (2-6)

- Tre volte viene ripetuto: guardatevi, state attenti! L’ammonimento risuona spesso nella predicazione di Gesù e degli apostoli (At 20,28ss). Guardarsi da chi? Dai cani, dai cattivi operai, dalla mutilazione. Non si vuole indicare tre generi di persone, ma sempre le stesse: sono quei giudei che ricercano la salvezza nella circoncisione (qui chiamata « mutilazione ») e non nella fede in Cristo. Polemicamente Paolo dice: quando la circoncisione pretende di dare la salvezza allora diviene « mutilazione » e « taglia » dalla salvezza in Cristo. [Paolo infatti non ha nulla da obiettare alla circoncisione in quanto tale: lui era circonciso; è lui che fece circoncidere Timoteo (At 16,3)]. Il problema vero è « da dove » viene la salvezza. La sintesi più chiara la dona Pietro stesso: « Noi crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo salvati [noi giudei circoncisi] e nello stesso modo anche loro [pagani credenti in Gesù] » (At 15,11). ® Quand’è che siamo cattivi operai? – Siamo noi la circoncisione. Chi sono i circoncisi, cioè quelli che appartengono al popolo che Dio ha chiamato e salvato? Sono coloro (sia giudei già circoncisi, sia pagani credenti) che « rendono il culto mossi dallo Spirito ». La vita intera infatti deve farsi culto e venerazione a Dio, ma questo è possibile soltanto « nello Spirito di Dio », cioè avendo creduto e pertanto ricevuto lo Spirito di Dio. Il culto procede dalla fede in Cristo: « Credi a me donna… i veri adoratori adorano Dio in spirito e verità » (Gv 4,21ss). Sono coloro che « si gloriano in Cristo Gesù e non nella carne ». L’accostamento tra Cristo e carne fa capire la abissale sproporzione tra le due vie. Si tratta di due sistemi. Il sistema di Cristo è la via dell’abbassamento, della piccolezza, della obbedienza al Padre fino alla morte di croce. A questo movimento corrisponde l’esaltazione da parte di Dio (2,5-11). Il sistema della carne è la via di una vita che pretende di autosalvarsi, cioè di piacere a Dio con le proprie forze (« carne » qui significa la propria forza): è la via dell’orgoglio umano (etico e religioso). Il cristiano trova il suo « vanto » e quindi la sua sicurezza in Cristo, e vivendo in Cristo compie quelle opere buone che « Dio ha

preparato perché noi le facciamo ». Anzi noi stessi « siamo sua opera » (Ef 2,10). Le opere buone sono risposta ad un dono: l’amore di Dio manifestato a noi nella croce di Cristo. E’ nello Spirito che noi possiamo e dobbiamo operare. – Paolo, « nella carne » (sue prestazioni etiche e religiose), ha di che vantarsi. Infatti, quanto a popolo è ebreo; quanto alla Legge è fariseo; quanto allo zelo è persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dalla osservanza della Legge è irreprensibile. Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. (7-11). – Il guadagno è un « prezzo aggiunto » all’opera compiuta. E Paolo poteva vantare un grandissimo guadagno « a motivo della carne ». – Ma ora, « attraverso (a motivo di) Cristo », quello stesso guadagno si fa « perdita »; anzi tutto viene considerato perdita « attraverso la sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore; attraverso lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura ». L’espressione « attraverso » vuole indicare non primariamente la scelta o la intenzione di Paolo, ma la scelta e la intenzione di Cristo. E’ come che dica: è lui che mi ha conosciuto ed è lui che mi ha acquistato, per questo ho considerato tutto come « perdita »…- Perché io guadagni Cristo. Non è in contrasto con quanto detto prima. Guadagnato da Cristo, io lo debbo guadagnare; trovato da Cristo, io lo debbo trovare. Dono e impegno, sempre!

- Per essere trovato in lui. Significa: essere e vivere in lui.

- Non con una mia giustizia, derivante dalla Legge. Quell’essere giusti secondo la Legge, dà diritto al guadagno. Infatti la giustizia è « mia » e quindi ho diritto al guadagno. [Quale guadagno? Si può guadagnare la salvezza con le opere della legge? Romani 3,20 dice di no!] – Ma con quella che viene dalla fede in Cristo. E’ Dio stesso che ci fa giusti. Ma in che modo? Mandando a noi suo Figlio, l’unico giusto. Dio mi fa giusto per la fede, l’affidamento a lui. – Per conoscere lui… Paolo spiega cosa significa « conoscenza del Signore ». Non è un fatto intellettuale, o devozionistico, o magico… – Ma è esperienza della « potenza della sua risurrezione ». La risurrezione di Gesù, col dono del suo Spirito, pone in noi la potenza della risurrezione, cioè della vita nuova di Cristo (Ef 1,19). – E’ l’esperienza, la comunione delle sue sofferenze che ci conformano alla sua morte… La fede dunque è quell’affidamento a Gesù, tale che la sua vita diviene la nostra vita, la sua giustizia diviene la nostra giustizia, la sua risurrezione diviene la nostra risurrezione ora, e quella dai morti nell’ultimo giorno. Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù (12-14). – Tutta questa novità di vita non si è ancora compiuta definitivamente e io non sono maturo, perfetto: non sono giunto alla maturità di Cristo, che è maturità personale ed ecclesiale (Ef 4,11-16). Mi sforzo per raggiungere tale mèta o tale maturità in Cristo, poiché io stesso sono stato raggiunto, preso da e sotto Cristo. Ritorna sempre questo processo: sono stato preso e allora mi sforzo di prendere, sono stato trovato e allora cerco. In questo modo ciò che prendo, ciò che trovo, ciò che divento è frutto della fede che mi fa essere « in Cristo » e ottenere la sua giustizia. – Non ritengo di averla raggiunta. Una cosa sola (faccio): dimentico le cose del passato, (cioè la mia giustizia) e sono proteso alle cose che mi stanno davanti, (cioè la giustizia che viene da Dio). Corro verso la mèta, al premio che è la chiamata di lassù, di Dio in Cristo Gesù. Per noi, il « premio » non è qualcosa di diverso dalla chiamata. La chiamata infatti svela e dona tutto l’amore di Dio per noi. Occorre però uno « spirito di sapienza e di rivelazione per conoscere qual’ è la speranza della sua chiamata » (Ef 1,18).

FIL 2,17-30 – SEGUITO DELLA PARTE PRECEDENTE

FIL 2,17-30 – SEGUITO DELLA PARTE PRECEDENTE

3,15-4,9
15-16 Quanti dunque siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti; se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà anche su questo. Intanto, dal punto a cui siamo arrivati continuiamo ad avanzare sulla stessa linea.
I “perfetti/maturi” sono semplicemente i cristiani, in quanto uniti al Signore: è una perfezione dono e non conquista. Perfetto è il Padre (Mt 5,48). “Ciò che è perfetto” è la sua volontà (Rm 12,2).“Uomo perfetto” è la Chiesa, in quanto unita al suo Signore, in quanto “suo corpo” con tutti i doni distribuiti dallo Spirito, salda nella fede. Perfetto è l’uomo che vive “secondo la verità nella carità” cercando di crescere verso il Cristo che è “il capo”, cioè il principio della “perfezione” (Ef 4,9-16). E’ l’uomo “spirituale” (animato dallo Spirito) in contrapposizione con l’uomo “psichico/naturale” (1 Cor 2.6.14ss). Si tratta prima di tutto di una perfezione intesa come legame che il Signore stabilisce con noi. La cui risposta (perfezione) è una fede e una carità indissolubilmente unite. Ma la perfezione è anche un cammino mai compiuto: “Sarete perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). Essa comporta un “sentire/pensare/agire” conforme a quello che l’apostolo ha detto sopra. Se il sentire fosse diverso Dio “svelerà”, attraverso l’apostolo stesso, che il modo è sbagliato. 17-19 Fatevi miei imitatori, fratelli, e guardate a quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi. Perché molti, ve l’ho già detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo: la perdizione però sarà la loro fine, perché essi, che hanno come dio il loro ventre, si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi, tutti intenti alle cose della terra.L’imitazione di cui parla Paolo è in ordine alla fede in Cristo che salva e agli atteggiamenti profondi che conseguono (1 Tes 1,6-7; 1 Cor 4,16). L’esempio che egli ha dato è l’aver giudicato tutto una perdita per “guadagnare” Cristo dal quale era stato guadagnato. All’incontrario, il suo dolore grande è che molti (sono alcuni suoi fratelli giudei) si comportano da nemici della croce di Cristo. Che significa? Significa che non affidano la loro salvezza alla croce (morte) di Cristo, ma alle loro opere: in particolare alla circoncisione. La loro fine è la perdizione (credono di salvarsi, ma per quella via non saranno salvati); il loro Dio è il ventre (le pratiche alimentari non possono prendere il posto di Dio); e la gloria o il vanto è nella loro “vergogna” (circoncisione). In una parola essi hanno un “sentire/pensare/agire” che li fa appartenere ancora alla terra, nonostante il loro volersi innalzare su di essa. 30-4,3 La nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù delpotere che ha di sottomettere a sé tutte le cose. Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete saldi nel Signore così come avete imparato, carissimi! Esorto Evòdia ed esorto anche Sìntiche ad andare d’accordo nel Signore. E prego te pure, mio fedele collaboratore, di aiutarle, poiché hanno combattuto per il vangelo insieme con me, con Clemente e con gli altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita. Cos’è la nostra patria? E’ la nostra cittadinanza: il nostro relazionarci secondo uno statuto costitutivo acquisito che ci fa essere e vivere bene. Questo nuova cittadinanza (che è il vivere secondo il vangelo, vedi 1,27) è “nei cieli”, cioè in Dio: da lui (e non da noi) aspettiamo la salvezza. E’ detto infatti: “da lui aspettiamo anche un salvatore che è il Signore Gesù Cristo”. La salvezza è già donata in Cristo, ma si completerà con la trasformazione del corpo della nostra piccolezza ad immagine del corpo della gloria di lui, secondo l’energia che ha di sottomettere tutte le cose. E questo avverrà nell’ultimo giorno. L’itinerario del cristiano è quello di Cristo stesso. In questa linea si provi a rileggere 2,5-11.
La conclusione dell’apostolo è questa: state saldi così nel Signore! L’esortazione è inclusa tra due termini che qualificano i Filippesi e il rapporto che essi hanno con Paolo: amati e desiderati (da Dio certamente e per questo anche da Paolo). Gioia e corona: che i Filippesi vivano secondo il vangelo è la gioia dell’apostolo, ma anche il titolo che egli potrà presentare a Dio per avere la “corona”, cioè il trionfo con Cristo al suo ritorno (2,16). Esorto Evodia (buon viaggio!) e Sintiche (fortunata!). L’esortazione di Paolo è una “paraclesi”, cioè un ammonimento che fonda la sua forza nello Spirito (paraclito) e nella misericordia di Dio (Rm 12,1). Quanto è stato detto in generale, egli lo applica ai casi concreti: la sua sollecitudine è per ogni persona (questa è la vera correzione!). Forse le due donne non andavano d’accordo (non sarebbe una sorpresa!), ma è meglio intendere che esse stavano “deviando” dalla retta fede: non avevano “lo stesso “sentire/pensare/agire” che era in Paolo e che egli ha raccomandato più sopra. Era quel “pensare uno” che faceva fondamento sulla croce di Cristo (e non nelle opere) e che si manifestava nella umiltà/piccolezza (e non nell’arroganza del comando). Sizigo (compagno di gioco o collega) è pregato di aiutarle, o meglio, di accoglierle (di nuovo?); infatti hanno combattuto per il vangelo. Il combattere per il vangelo o per la fede è l’unica lotta ammessa (1 Tm 6,12; 2 Tm 4,7). E questa “lotta” dà il titolo di “vincitore” (Ap 3,5) per avere il proprio nome nel “libro della vita”. Per l’amore preveniente del Signore tutti siamo già scritti nel “libro della vita”, ma al giudizio finale saranno aperti “i libri” nei quali sono scritte le nostre azioni (Ap 20,12ss). Chi ha lottato e perseverato (ho conservato la fede) starà nel “libro della vita”, e “non sarà cancellato” (Ap 3,5). 4-7 Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti; e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù. “Rallegratevi” è un saluto del mondo greco e prepara il congedo. Paolo invece, aggiungendo “nel Signore sempre”, vuol dire che per i cristiani il congedo non c’è: essi saranno uniti nel Signore sempre (vedi anche il saluto di Gesù in Gv 14,27: pace). D’altra parte, “rallegratevi” è anche un ammonimento che segna tutta la lettera. Qui si dà anche la motivazione: il Signore è vicino (ilSignore è con voi, il Signore c’è, il Signore agisce…e il Signore verrà!). Il riflesso concreto dell’esserci del Signore deve apparire a tutti (anche non credenti). E “si manifesta” in due direzioni: verso gli uomini con la affabilità, la bontà, la disposizione benevola, il perdono; e il non angustiarsi (meglio: smettere di angustiarsi, non angustiarsi più). Ma i problemi restano! E allora “si manifesta” anche verso Dio con la nostra preghiera. Come? “Con eucaristia!”. La domanda non è mai provocante e grintosa, ma condita dal “rendimento di grazie” per aver già tutto ricevuto in Cristo. L’effetto di tutto questo è la “pace che viene da Dio” e che sorpassa quello che la ragione può pensare (cioè non è la pace degli uomini). Sarà questa pace di Dio a custodire veramente, profondamente, infallibilmente i cristiani (cuore e pensieri in Cristo Gesù). 8-9 In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare. E il Dio della pace sarà con voi! “Questo pensate, questo attiri la vostra attenzione” (8) e “questo fate” (9). Qual è l’orizzonte del nostro “pensare”? E’ un orizzonte vasto, aperto, accogliente: è un vedere la Sapienza di Dio “riflessa” nella creazione e nella storia (Sap 7,22ss). Qual è l’orizzonte del nostro “fare”? E’ tutto quello che dice riferimento all’apostolo: “Quello che avete imparato, ricevuto, udito e visto in me”. Vale a dire il vangelo come l’apostolo l’ha trasmesso, ma anche come l’ha vissuto. E’ il concetto della “tradizione apostolica”: essa è normativa e ci chiede un “fare” conforme ad essa. E il Dio della pace sarà con voi. La pace è il bene sommo, o la somma di ogni bene che Dio ha promesso e realizzato. Chi permane nel vangelo permanendo nella tradizione apostolica esperimenterà il Dio che comunica la pace, cioè ogni bene, cioè Cristo stesso: egli che è la nostra pace (Ef 2,14).
10-13
Ho provato grande gioia nel Signore, perché finalmente avete fatto rifiorire i vostri sentimenti nei miei riguardi: in realtà li avevate anche prima, ma non ne avete avuta l’occasione. Non dico questo per bisogno, poiché ho imparato a bastare a me stesso in ogni occasione; ho imparato ad essere povero e ho imparato ad essere ricco; sono iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza. – Ho provato grande gioia.
La gioia è sempre “nel Signore”. Perché? a) il Signore risorto “è vicino” (4,5); b) “è con te” (Lc 1,28); c) è annunciato (1,18); d) è con noi nella nuova realtà della Chiesa, che è il suo corpo (Col 1,24). Sono la fede e la carità a generare e sostenere la gioia che non si consuma. In questo punto della lettera, il motivo concreto della gioia è il “vostro pensare per me”: un pensare che è “prendersi cura”, secondo i tempi e i momenti (15-16). – Non dico questo spinto dal bisogno. Paolo esperimenta una “mancanza-penuria” che lo mette in una situazione di “bisogno” oggettivo; ma questo non lo porta a giudicare i fratelli o la società, e nemmeno a pretendere aiuto da alcuno. Infatti, “ho imparato”! I veri e autentici atteggiamenti si “imparano” dalle molteplici situazioni della vita e così diventano un vero “sapere” (conoscere/esperimentare/divenire maturo). “Ho imparato” e quindi “so”. Che cosa? So essere “autarchico”, cioè non pretendo nulla dagli altri e mi accontento di quello che ho. C’è una autarchia orgogliosa e sprezzante che trae forza “da sé”; e c’è una autarchia evangelica che trae forza “da colui che dà forza”. – Accetto di (conosco, so ) essere ridotto alla piccolezza (in latino humiliari) e accetto di abbondare (avere più del necessario). Di fatto la vita ora ti toglie, ora ti dà. Sono allenato (iniziato) in ogni circostanza e in ogni modo: poter mangiare (è questa la “sazietà” di cui parla Paolo! Pensiamo che le folle furono “sazie” per aver mangiato… pane e pesce!) e stare senza, abbondare (avere il necessario) e mancare del necessario. Tutto posso in colui che mi dà forza. Paolo intende: a) rivendicare una grande “libertà” da condizionamenti, anzitutto nell’annuncio del vangelo; vuol dire che nessuna situazione lo ha trattenuto o lo tratterrà dall’annuncio. Chi dà forza infatti è il Signore e non gli uomini, o i beni, o le proprie capacità. b) dire inoltre che, non solo il ministero, ma la sua stessa vita (e la vita di ogni cristiano) riceve forza dal Signore. [Confrontare questo stile di vita con lo stoicismo e certe discipline attuali, specie orientali….]. 14-16 Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alla mia tribolazione. Ben sapete proprio voi, Filippesi, che all’inizio della predicazione del vangelo, quando partii dalla Macedonia, nessuna Chiesa aprì con me un conto di dare o di avere, se non voi soli; ed anche a Tessalonica mi avete inviato per due volte il necessario. Non è però il vostro dono che io ricerco, ma il frutto che ridonda a vostro vantaggio. – Avete fatto bene tuttavia… Il problema vero è quello di prendersi cura del fratello nel momento della sua tribolazione. Paolo non “pretende”, ma i Filippesi hanno fatto bene ad “avere comunione con la tribolazione” di Paolo. E’ una comunione “continuata”: tre volte (quando partì dalla Macedonia e due volte a Tessalonica). -Nessuna chiesa mi aprì un conto di dare e avere. Come a dire, non ho contratto alcun debito pretendendo qualche aiuto. Notiamo anche il termine “chiesa (persone chiamate da)” applicato a piccole realtà sparse nelle varie parti del mondo! Non è il vostro dono che ricerco, ma il frutto che arricchisce il vostro credito. Il linguaggio è quello della economia: ogni investimento ha un frutto. I Filippesi aiutando Paolo hanno investito e così hanno arricchito il loro credito (davanti a Dio!). 18-20
Adesso ho il necessario e anche il superfluo; sono ricolmo dei vostri doni ricevuti da Epafrodìto, che sono un profumo di soave odore, un sacrificio accetto e gradito a Dio. Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza in Cristo Gesù. Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen. – Ricevo tutto (ho tutto e… lascio ricevuta!) e abbondo. I doni ricevuti da Epafrodito sono un profumo piacevole (di soavità), un sacrificio gradito, che piace a Dio. Sono tre termini che hanno una valenza sacrificale e liturgica. L’espressione “sacrificio gradito a Dio” suppone che ci siano sacrifici che Dio non gradisce. Quando i sacrifici non sono espressione di un dono totale e sincero, ma nascondono la infedeltà, allora non sono graditi a Dio (Is 1,10ss; Am 5,21ss). Rm 12, 1 dice che i “nostri corpi” sono un sacrificio gradito. I Filippesi hanno offerto prima di tutto se stessi al Signore: i loro doni sono un segno della loro fede/amore. Leggere 2 Corinzi 8,1ss.
- Il mio Dio colmerà ogni vostra necessità.
Il dono che avete fatto a me, in definitiva è fatto a Dio (il “mio” Dio: il Dio che mi ha preso a servizio) ed egli verrà in soccorso a voi che avete bisogno, secondo la sua ricchezza con gloria in Cristo Gesù. La “risposta” di Dio è proporzionata a lui stesso, cioè è la gloria (pienezza di doni) che si ha in Cristo Gesù. C’è come uno scambio di “gloria” tra Dio e noi: Dio dà gloria (peso) a noi e noi gli diamo gloria (a tutto vantaggio nostro!). Questo avviene quando i cristiani “riempiono” l’apostolo, allora Dio “riempie” (glorifica) i cristiani. 21-23
Salutate ciascuno dei santi in Cristo Gesù. Vi salutano i fratelli che sono con me. Vi salutano tutti i santi, soprattutto quelli della casa di Cesare. La grazia del Signore Gesù Cristo sia con il vostro spirito. “Salutare” non è congedare, ma il modo col quale si continua a stare in comunione anche se distanti: è la manifestazione della unità e del rimanere insieme. E questa unità coglie quattro livelli. a) “Salutate ciascuno dei santi in Cristo”: è l’unità tra gli stessi membri della Chiesa di Filippi; b) “Vi salutano i fratelli che sono con me”: si tratta forse dei collaboratori, che all’inizio della lettera sono chiamati servi. E’ quindi l’unità con la Chiesa apostolica; c) “Vi salutano tutti i santi, soprattutto quelli della casa di Cesare”: è un’unità nuova, dilatata a chi è entrato nella Chiesa da situazioni diverse e un po’ singolari. Qui si tratta forse dei funzionari imperiali; d) c’è infine un ultimo livello: unità della Chiesa apostolica con noi che riceviamo, oggi, la lettera. Il “saluto” arriva … fino a noi! (Pensiamo anche al saluto che si fa nella Messa). Il saluto è per ciascuno: “il Signore è con te”. Per ciascuno che è “santo in Cristo Gesù”: la santità infatti è comunicata da Cristo Gesù e non è una acquisizione da parte nostra. Si è “santi” solo se si è “santi in Cristo”, cioè se egli ci sceglie e ci fa partecipi della sua santità (che è poi la sua natura divina). Ma qual’è il “contenuto” del saluto? E’ la grazia del Signore Gesù Cristo: il favore, la benevolenza, l’amore gratuito (charis) di Dio Padre manifestato nel Signore Gesù Cristo. Tale dono “è” (non “sia”) con il vostro spirito, cioè con voi nella profondità del vostro essere. La lettera termina come era iniziata (1,2).

Omelia per il giorno 27 giugno 2011 – prima lettura

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/10269.html

Omelia (22-07-2007) 

don Marco Pratesi

Non passare senza fermarti!

Il brano della Genesi ci racconta di un Dio che viene ad incontrarsi con l’uomo per portargli una buona notizia che trasfigura la sua vita, offrendoci una serie di spunti per riflettere sulle modalità dell’incontro tra Dio e l’uomo.
Prima di tutto, l’incontro è iniziativa di Dio. Abramo è semplicemente seduto all’ingresso della sua tenda, per di più nell’ora calda del giorno, quando le attività sono ridotte. Egli è seduto, e alzando gli occhi vede tre uomini in piedi davanti a lui: non ha potuto progettare niente, neanche accorgersi del loro arrivo, essi sono semplicemente lì.
A questo punto, però, è richiesta la sua risposta, che è fatta in primo luogo di sollecitudine. Il racconto, a partire dal fatto che non appena li vide corse loro incontro, presenta una serie di espressioni che sottolineano la prontezza e la premura di Abramo: quando Dio passa non si può rimandare, bisogna lasciar perdere il resto.
Inoltre Abramo prega, e con una preghiera molto bella, che ciascuno deve far propria: « Mio Signore, non passare oltre senza fermarti da me »! Egli invoca l’incontro, chiede un passaggio che non sia una semplice vicinanza esteriore, ma una profonda presa di contatto.
Abramo quindi si dà da fare per offrire ai tre una ricca ospitalità, mette a loro disposizione quanto ha; e una volta approntato il pasto, rimane in piedi in silenzio, in atteggiamento di servizio.
Finalmente Dio riprende l’iniziativa: annunzia la buona notizia della maternità di Sara alla quale, ardentemente desiderata, si era oramai rinunziato.
La nostra vita è luogo del passaggio di Dio. Un incontro che non possiamo costruirci, che non dobbiamo inventarci, al quale dobbiamo però disporci e che dobbiamo invocare con perseveranza.
Ogni visita di Dio ci apre il mistero della nostra esistenza, svelandoci ciò che è – oltre ogni ragionevole speranza – il nostro più intimo desiderio. Esso, che giace nascosto nel profondo del nostro essere, non riconosciuto e addirittura temuto, emerge adesso alla luce richiamato, come Lazzaro dal sepolcro, dalla promessa dei Tre. Al loro passaggio stilla l’abbondanza, la vita fiorisce, tutto canta e grida di gioia (cf. Sal 65,12-14). E come la gioia di Abramo e Sara non è per loro soli (moltitudini ne avranno benedizione), così la nostra realizzazione non è più in concorrenza ma in accordo con quella degli altri, non più antagonisti ma compagni.
Dobbiamo coltivare la consapevolezza della preziosità di questo dono: Dio non può manifestarsi laddove non c’è supremo interesse per lui, dove c’è distrazione e negligenza, dove non ci si affretta – come Zaccheo – ad accoglierlo (cf. Lc 19,6).
Dobbiamo mettere a disposizione di Dio quanto abbiamo, accoglierlo con un atteggiamento oblativo. Non perché egli abbia bisogno delle nostre cose: Dio non può visitarci laddove lo si cerca in modo egocentrico e strumentale, rimanendo centrati sul proprio io e chiusi al servizio. « Ci ha domandato di dare a lui, perché lui potesse dare a noi molto di più », dice Efrem il Siro.
Questa sia davvero la preghiera di ogni giorno, di ogni eucaristia: « Signore, non passare senza fermarti! ».

I commenti di don Marco sono pubblicati dal Centro Editoriale Dehoniano – EDB nel libro Stabile come il cielo. 

Omelia (27-06-2011) : Seguimi, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/22895.html

Omelia (27-06-2011) 

Movimento Apostolico – rito romano

Seguimi, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti

Uno può decidere se accogliere o non accogliere la vocazione che viene dal cuore di Dio, manifestata per mezzo del cuore di Cristo, suscitata per ispirazione dello Spirito Santo. Le modalità, le vie, le forme della sequela di Cristo Gesù mai potranno appartenere alla libera scelta del chiamato. È sempre Dio che le determina e le stabilisce. È sempre Cristo Gesù che deve rivelarle al cuore e alla mente.
Su questo argomento occorre che noi diciamo una parola forte, chiara, inequivocabile: abbiamo noi la volontà di dire sì o di rifiutarci, Possiamo accogliere l’invito o declinarlo. Questo è nelle nostre facoltà. La facoltà che non abbiamo, mai dovremo avere, mai pensare di avere è questa: scegliere noi le vie, le forme storiche per l’attuazione della nostra vocazione. Questa facoltà ci è stata tolta in eterno. Non ci appartiene.
Questo deve significare per tutti che dal momento in cui uno accoglie di seguire Cristo Gesù, sempre, perennemente, ogni giorno, deve mettersi umilmente in preghiera e chiedere a Gesù che sia Lui a manifestare, rivelare, ispirare vie e forme storiche per dare attualizzazione e vita alla nostra vocazione. Deve umilmente prostrarsi dinanzi allo Spirito Santo e chiedere che sia sempre Lui a suggerire ciò che oggi è via santa per vivere la missione di salvezza che è legata alla vocazione.
Certo, i tempi cambiano, gli uomini avanzano nella storia, progrediscono, camminano. Le forme storiche non possono rimanere invariate per i secoli dei secoli. Sarebbe questa una vera contraddizione. Dovremmo servire un essere storico con forme non più storiche, perché appartenenti ad un passato che ormai non esiste più.
Le forme devono cambiare, è giusto che cambino, è opportuno e salutare trovare quelle giuste, del tempo, della contemporaneità con gli uomini. Chi deve però suggerirle non dovrà mai essere il nostro cuore, la nostra volontà, i nostri desideri. Questa mansione, o ministero, o compito, appartiene solo a Cristo Gesù e allo Spirito Santo, i soli due Interpreti e Conoscitori della volontà del Padre e della sua eterna Sapienza. La comunione di preghiera con Cristo e con lo Spirito Santo è la via per giungere e possedere una scienza delle forme storiche della vocazione, attuali e vivibili per i nostri tempi, per ogni ora della nostra vita.
Oggi Gesù dona due forme che sono eterne, che mai potranno essere modificate, perché non sono modificabili: chi si offre a Gesù per la missione della salvezza si deve dimenticare anche del corpo e di ogni esigenza di esso. Al corpo pensa il Padre. È la sua Provvidenza che lo prende in custodia ed è sempre essa che lo cura, lo nutre, gli offre quanto è necessario perché possa sempre vivere la missione di salvezza. L’altra regola è questa: chi si offre al Signore non deve più appartenersi neanche quanto a sentimenti e desideri, anche giusti e santi. Sentimenti e desideri dovranno essere consegnati a Cristo Gesù. Sarà Lui a provvedere ad essi. Sarà Lui a realizzarli. Il come non ci è dato di conoscerlo. Noi realizziamo i suoi sentimenti e i suoi desideri di salvezza eterni e divini, Lui realizzerà i nostri sentimenti e desideri umani, in modo che niente di quanto avremmo potuto fare noi verso gli altri venga tralasciato.
Vergine Maria, Madre della Redenzione, Angeli e Santi, dateci questa verità santa. 

San Cirillo di Alessandria

San Cirillo di Alessandria dans ANNO PAOLINO san_ciirillo_alessandia

http://www.calendariobizantino.it/calendario-4.1307570400.0.html

Publié dans:ANNO PAOLINO |on 26 juin, 2011 |Pas de commentaires »
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