Archive pour juin, 2011

Il Monte Athos, Il Tibet della cristianità

le immagini, nelle parentesi quadre, sul sito:

http://www.stpauls.it/jesus06/0408je/0408je52.htm

(IL MONTE ATHOS)

Servizio speciale: Quel che resta di Bisanzio

Il Tibet della Cristianità

di Piero Pisarra 

«Ci sono luoghi al mondo in cui la natura sembra offrirsi un santuario, con tutta la ricchezza del simbolismo primordiale: centro, asse, bellezza paradisiaca delle acque. E l’Athos è uno di questi», ha scritto il teologo Olivier Clément.
Monte Athos, Aghion Oros, Santa Montagna. Da più di un millennio il promontorio orientale della penisola Calcidica – secondo la mitologia, fu scagliato in mare dal gigante Athos in collera con Poseidone – richiama monaci e viandanti dell’assoluto. Dell’Athos parlano, nelle veglie attorno al fuoco del grande inverno siberiano, i personaggi di Leskov. All’Athos sogna di andare il Pellegrino russo, autore dei celebri Racconti. E all’Athos quando le convulsioni della storia si fanno insopportabili, quando le guerre e l’odio lacerano l’umanità si rivolgono le speranze del mondo ortodosso. Perché l’Aghion Oros non è soltanto un luogo di aspra bellezza, rifugio ideale di asceti in fuga dalle lusinghe del secolo: è anche, come vuole la leggenda, il « giardino della Vergine », precluso a ogni altro volto di donna. Un luogo di battaglie spirituali e di pace, di hesychia, la pace interiore che nasce dalla ripetizione incessante della « preghiera di Gesù » («Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me»), secondo il ritmo della respirazione.
Alla frontiera del mondo greco e del mondo slavo, unito dal Mediterraneo ai patriarcati orientali e alla cattolicità latina, l’Athos – aggiunge Clément – sembrava predestinato «a diventare il cuore di una Chiesa che si definisce soprattutto come un mistero di deificazione». Ed è così che è stato visto da intere generazioni di credenti.

[L’imponente monastero russo di Aghiou Panteleimonos,
situato sul versante occidentale della penisola vicino al mare.]

Cuore dell’ortodossia Tibet della cristianità: queste definizioni possono farci sorridere, ma esse hanno affascinato i viaggiatori dei secoli scorsi, gli antenati di Bruce Chatwin e di William Darlymple, che a dorso d’asino – coi loro pesanti bagagli – venivano qui a respirare una dose di esotismo, senza le fatiche di un viaggio nella lontana India. Nel 1834, sir Robert Curzon concluse il suo viaggio tra i monasteri d’Oriente alla ricerca di antichi manoscritti, qui all’Athos (si veda il suo pittoresco resoconto: Visits to Monasteries in the Levant, Century, Londra, 1983). E quasi un secolo dopo, nel 1926, il giovane Robert Byron, omonimo del celebre lord, vi fece due lunghi soggiorni. Curzon comprò per poche sterline, ingannando i monaci, manoscritti antichissimi. Byron, più disinteressato o squattrinato, si accontentò di raccontare il paesaggio umano e spirituale dell’Athos in un libro che avrebbe influenzato in maniera durevole i travel writer delle generazioni successive (The Station, tradotto sciattamente da Bompiani nel 1952, col titolo Monte Athos). Ma la descrizione più accurata della vita sulla Santa Montagna, prima che i germi della modernità – come lamenta l’autore – introducessero anche qui «gli agi e le usanze mondane», si deve alla penna e al pennello di Fortunato Perilla.
Sfoglio con emozione il Monte Athos del pittore italiano (Parigi e Salonicco, 1926), ricco di xilografie, corredato di acquerelli: monaci dalla lunga barba, con il tradizionale copricapo (lo skufos) oppure con l’abito angelico, il megaloskima dei monaci professi; volti levigati dagli anni, ma da cui emana una luce interiore come nei santi delle icone; novizi coi capelli raccolti a crocchia, secondo l’uso orientale. Perilla non trascura alcun dettaglio: gli affreschi antichi, le reliquie, i sigilli, le simandre, cioè le tavole di legno sulle quali ancora oggi i monaci battono ritmicamente per invitare alla preghiera o al riposo, le fiali, cioè i chioschi con al centro una fontana in cui è così gradevole prendere il fresco nelle sere d’estate.

[Con la campana i monaci vengono chiamati ai Vespri nel cellion
del monastero dell?Annunciazione nei pressi di Karyes.]

Sono passati circa ottant’anni eppure quel libro sembra parlare di oggi. Perché se anche qui trillano i cellulari, se le jeep e le Range Rover hanno sostituito gli asini e i muli, se i monaci non disdegnano Internet e le autostrade telematiche, l’Athos è pur sempre un angolo di Bisanzio sopravvissuto per miracolo agli assalti della modernità. Nulla sembra distinguerlo dall’ambiente circostante, dal resto della penisola Calcidica: qui ritrovi la stessa vegetazione, querce, castagni, cipressi, eucalipti, ulivi, aranci, gli stessi odori di origano e di basilico, la luminosità accecante, i riflessi dorati sull’azzurro dell’Egeo. Ma non appena si arriva nel porticciolo di Dafní sembra di essere in un altro mondo, in un’altra dimensione. E non solo perché si torna indietro di tredici giorni, calendario giuliano oblige. «Qui il tempo sembra essere fatto di una sostanza differente. E il mondo dei vivi riproduce con tanta precisione quello dei morti e degli antenati che i monaci danno talvolta l’impressione di essere icone animate, ombre di ieri smarritesi nel nostro presente», ha scritto Jacques Lacarrière che all’Athos ha dedicato uno dei suoi libri più belli (L’été grec, 1975).

[Classico paesaggio a macchia mediterranea dietro la cappella
dell’arsenale di Zografou, vicino alle coste del mare Egeo.]

Le icone animate, i primi anacoreti, scelsero questi luoghi, le grotte a strapiombo sul mare, già nel VII e nellVII secolo, quando l’impero bizantino era lacerato dalla controversia iconoclasta. Ma il primo eremita venerato dai monaci della Santa Montagna è Pietro, un ex soldato che nelle caverne dell’Athos trascorse cinquantatré anni in solitudine, nel IX secolo. A Pietro l’Atonita apparve in sogno – così racconta la Vita scritta dal monaco Nicola nel X secolo – la Theotokos, la Madre di Dio. «La tua dimora sarà sul Monte Athos che su mia richiesta ho ricevuto in eredità da mio figlio», gli disse la Vergine. «Là quelli che abbandoneranno i turbamenti mondani e abbracceranno le cose spirituali, secondo le loro forze, e invocheranno il mio nome in verità, fede e disposizione d’animo trascorreranno la vita presente e guadagneranno la vita futura per mezzo di opere gradite a Dio». Secondo la profezia, il Monte Athos si sarebbe riempito di monaci da un capo all’altro. E così avvenne. Non lontano dalle caverne degli eremiti, sorse il primo monastero, fondato da Atanasio, un greco di Trebisonda, amico del futuro imperatore Niceforo Foca.

[Il katholikon di Dochiariou, monastero della costa meridionale.]

La prima pietra della Grande Lavra fu posta nel 963. In pochi decenni, sulle tracce di Atanasio l’Atonita, arrivarono, da ogni regione dell’Oriente cristiano e poi anche dall’Occidente centinaia di uomini: greci, georgiani, slavi del Sud, italiani. Lungo la costa, sorsero i monasteri di Vatopediou, Zografou, Filotheou, Dochiariou, Xenophontos e Iviron. Serbi e russi arrivarono più tardi, tra l’XI e il XII secolo. Con la benedizione di patriarchi e imperatori, era nata una curiosa Repubblica monastica, uno Stato federale, senza esercito, ma sotto la protezione della Vergine. Accanto ai venti monasteri maggiori o lavre, furono fondate numerose dipendenze, che ospitavano comunità più piccole. Tutte le forme di vita monastica trovarono rifugio nel giardino dell’Athos da quella eremitica a quella cenobitica e alla idiorritmica, secondo la quale ogni monaco organizza in maniera indipendente la propria vita, con pochi obblighi comunitari. Senza dimenticare i « folli in Cristo » della tradizione russa, dal comportamento che alle cosiddette persone normali può sembrare stravagante, ma che è il segno di una saggezza più alta (quella delle beatitudini). E i sarabaiti, i monaci girovaghi, a volte indicati a cattivo esempio, nella letteratura spirituale, per la loro irrequietezza.

[Chiesetta presso il villaggio di Karyes.]

Arrivarono anche i maestri dell’arte bizantina: nel XIV secolo, Manuele Pansélinos e i suoi discepoli affrescarono le chiese di Vatopediou, Chilandari e Karyes, nello stile della cosiddetta « scuola macedone », conciliando ieraticità e umanità nella raffigurazione dei personaggi e degli episodi del Vangelo. Poi, tra il XV e il XVI secolo, si impose lo stile cretese, più austero e di una religiosità tutta interiore. Ai grandi cicli della « scuola macedone », gli artisti di questa nuova corrente – il cui iniziatore fu il grande Teofane di Creta – preferivano composizioni più vicine, nella tecnica e nello spirito, alle icone o alle miniature destinate a favorire la contemplazione e la preghiera. Sull’Athos sorsero vari atelier, laboratori iconografici che nulla avevano da invidiare alle botteghe dei maestri italiani. E anche per la vita spirituale cominciò una fase nuova.
Gli uomini che avevano scelto il nascondimento, che in alcuni casi avevano abbandonato il potere o rinunciato al mestiere delle armi, che avevano lasciato affetti e amicizie, cantavano nel giardino della Vergine, in liturgie interminabili e affascinanti, le lodi al Signore del cosmo e della storia, il Pantocrator di cui vedevano, alla luce tremula delle candele, la figura maestosa negli affreschi o nei mosaici delle loro chiese. Vita angelica: così la tradizione definisce il monachesimo. Ma quella dell’Athos era una vita dura, povera, essenziale, nel rispetto della sobrietà e della vigilanza, la nepsi, che i Padri consideravano come valore fondamentale, per non lasciarsi sorprendere dal nemico in agguato e non essere vinti dalle passioni.
Vita di lotta spirituale e di penitenza, perché – come scrisse Gregorio Palamas in un encomio di san Pietro l’Atonita – «quando la mente si leva al di sopra di tutte le cose sensibili ed emerge dal diluvio turbinoso che le circonda e osserva l’uomo interiore, e vede la ributtante maschera derivata dalla caduta, cerca di lavarla con l’afflizione». Testimoni dell’unità e dell’universalità dell’Ortodossia i monaci atoniti hanno salvato in almeno due occasioni, secondo Olivier Clment, la Chiesa ortodossa: nel XIV e nel XVIII secolo, al momento della polemica sull’esicasmo che scosse l’Oriente cristiano e all’epoca dell’Illuminismo quando la fede sembrava minacciata dalla dea Ragione.

[Nelle cappelle del monte Athos è bandito l’uso della luce elettrica,
perciò i riti sono celebrati rigorosamente a lume di candela.]

Nato in ambiente monastico, l’esicasmo (da hesychia) trovò sull’Athos il terreno più fertile. Non era soltanto una corrente teologica o un movimento che metteva l’accento sulle « energie divine » all’opera nel mondo e che trasfigurano il creato, bensì una via alla contemplazione. Un « metodo » basato sul respiro e caratterizzato da una particolare postura del corpo, la testa raggomitolata tra le gambe. E che anche per questo si attirò il sarcasmo di un teologo come il monaco calabrese Varlaam di Seminara. «Omfalolatri, adoratori dell’ombelico», fu il giudizio sprezzante e superficiale. Gregorio Palamas (1296-1357), che era stato monaco dell’Athos prima di essere eletto arcivescovo di Tessalonica, definiva la vera hesychia come «il ritorno e la conversione della mente a sé», cammino di unità e di pacificazione interiore, illuminato dalla grazia. Il contrario, insomma, del ripiegamento narcisistico su sé stessi o sul proprio ombelico.

[Un Cristo (Colui che domina ogni cosa) in stile vagamente occidentale,
dipinto nel XVIII secolo sulla cupola della cappella del monastero
di Filotheou. Sull’aureola del Figlio di Dio in gloria, circondato
dagli angeli, è scritto "Ho ôn", vale a dire "Colui che è":
sintesi del messaggio biblico e della filosofia greca.]

L’esicasmo segnò in profondità la vita del monachesimo atonita. E i suoi frutti, dopo periodi di crisi o di stagnazione, si manifestarono nel XVIII secolo, in tutto l’Oriente cristiano, in quella che fu chiamata l’epoca del « rinnovamento filocalico ».
Sull’Athos Macario di Corinto e Nicodemo l’Agiorita compilarono l’antologia che avrebbe rivelato all’Europa nel clima dell’Illuminismo la ricchezza della tradizione ascetica e mistica dell’Oriente cristiano, dai Padri del deserto ai grandi « teorici » dell’esicasmo Gregorio il Sinaita e Gregorio Palamas.
Stampata a Venezia nel 1782, la Filocalia ebbe un impatto fortissimo nel mondo slavo, grazie alla traduzione di un grande maestro spirituale, lo starec Paisij Veli kovskij. La « vita angelica » era, dunque, nient’altro che filocalia, amore della bellezza. Al di là del colore, delle lunghe liturgie e dei riti che tanto colpivano i viaggiatori occidentali, l’Athos aveva conservato per secoli, non come un tesoro inaccessibile ma come pratica di vita ascetica, la tradizione dei santi padri, l’insegnamento di Evagrio, di Massimo il Confessore, di Simeone il Nuovo Teologo. Così come aveva custodito gelosamente la tradizione dell’arte bizantina e ne aveva tramandato i canoni in un manuale preziosissimo per gli iconografi e gli studiosi di iconografia: l’Ermeneutica della pittura di Dionisio da Furnà (XVIII secolo).
Ma forse a queste due epoche, all’esicasmo e al rinnovamento filocalico, bisogna aggiungere il periodo della grande glaciazione comunista, quando anche sull’Aghion Oros si preparava la rinascita dell’Oriente cristiano, con i santi anonimi che qui custodivano i tesori spirituali della Santa Russia. O l’epoca immediatamente precedente la rivoluzione sovietica, quando al monastero di San Panteleimonos viveva, facendo il mugnaio, un uomo semplice, senza grande cultura, ma che fu uno dei grandi mistici del XX secolo: Silvano dell’Athos. Un uomo che bruciava di compassione per i suoi simili e per tutte le creature. E che anche nel buio della tentazione o della prova diceva: «Fratello mio, chiunque tu sia, per quanto grande sia il tuo peccato, per quanto oscura sia la tua tenebra, tieni il tuo spirito agli inferi, e non disperare!».

[Due monaci visitano il laboratorio di un pittore nella scete (struttura
separata ma dipendente da un monastero ufficiale) di Aghia Anna.]

Nato in uno sperduto villaggio della provincia di Tambov, in Russia, nel 1866, Silvano visse per quarantasei anni sul Monte Athos, fino alla morte nel 1938. «Fin dalla mia infanzia amavo il mondo e le sue bellezze», scrisse nei suoi quaderni spirituali. «Amavo i boschi, i verdi giardini e i campi, amavo guardare le nuvole splendenti e vederle correre nell’azzurro cielo, e tutto il mondo di Dio creato in modo così meraviglioso. Ma da quando ho conosciuto il mio Signore, è cambiata ogni cosa dentro di me, non desidero più contemplare questo mondo, ma l’anima mia è attratta incessantemente verso quel mondo dove si trova il Signore». Per tutta la sua vita, l’ex contadino russo, divenuto uno starec amato e ascoltato, volle essere testimone dello Spirito, «perché lo Spirito Santo è la vita eterna».
Quanti monaci come Silvano, quante altre icone viventi hanno percorso i sentieri dell’Athos? Quante altre storie di santità celano le grotte e i monasteri dell’Aghion Oros? Quanti altri uomini spirituali, veri pneumatikoi, praticano la preghiera di Gesù, alla ricerca dell’hesychia il silenzio del cuore e dei pensieri, la serenità piena che nasce dalla lotta contro le passioni e che non è indifferenza al mondo, ma una forma più alta di compassione?

[Affresco del monastero di Filotheou raffigurante un episodio dell’Apocalisse:
il Verbo di Dio su un cavallo bianco guida il suo esercito e uccide,
con la spada che gli esce dalla bocca, i seguaci della Bestia
e del falso profeta (Ap 19,11-21). Tutte le mura dell’atrio
sono rivestite di scene tratte dall’ultimo libro del Nuovo Testamento.]

Ora, dopo il crollo dell’impero sovietico, l’Athos conosce un fase di rinnovamento. Progressivamente, i monasteri hanno abbandonato il sistema idiorritmico, all’origine di molte contraddizioni e di abusi, per la vita cenobitica. Sotto l’impulso dei monaci di Stavronikita, Iviron, Simonos Petra, hanno riscoperto le radici autentiche della vita monastica, lo studio dei Padri, il valore della nepsi e dell’hesychia. Mai interrotti, i legami con i Paesi di quello che fu il blocco comunista sono ora più frequenti. E anche dai luoghi più lontani della diaspora ortodossa America, Australia arrivano nuovi candidati alla vita monastica, nuovi postulanti. L’Athos vive una nuova primavera. Eppure, di tanto in tanto riaffiora la tentazione della chiusura, dell’integralismo della conservazione gelosa dell’identità ortodossa. Come nel 2003, quando alcuni monaci di Esfigmenou, ribellandosi al Patriarca di Costantinopoli, giudicato troppo aperto, troppo debole verso l’Occidente, issarono la lugubre bandiera: «Ortodossia o morte!».
Battaglie di retroguardia? Scaramucce di una piccola minoranza? Manifestazioni di « zeloti », nemici del dialogo ecumenico, difensori di un ritualismo senz’anima? Certamente. Nella stragrande maggioranza, i monaci disapprovano questo fanatismo, anche se la diffidenza per l’altro in particolare per i latini (fratelli sì, ma eretici ) è ancora forte. Ma è inutile applicare, a una realtà così complessa, troppo riduttive categorie di giudizio, schemi politico-teologici che non reggono alla prova dei fatti.
«L’Athos sconcerta gli occidentali», scrive Olivier Clément nei Dialoghi con Atenagora. «E talvolta di esso si nota soltanto l’aspetto pittoresco o le ombre: la sporcizia, le celebrazioni dall’orario indefinito, la tentazione dell’omosessualità. Ma questo operaio che lavora al mulino è forse uno starec Silvano. La santità non si vede. Tuttavia essa riempie certi luoghi, e l’anima attenta scopre subito che il silenzio dell’Athos è saturo di santità». Saturo di santità e di bellezza.

Piero Pisarra 

Publié dans:LUOGHI DEL SACRO |on 14 juin, 2011 |Pas de commentaires »

Sant’Eliseo profeta

Sant'Eliseo profeta dans immagini sacre elia3242

http://s339338563.online.de/monarchia.htm

Publié dans:immagini sacre |on 13 juin, 2011 |Pas de commentaires »

14 giugno – Sant’ Eliseo Profeta

dal sito:

http://www.santiebeati.it/dettaglio/57250

Sant’ Eliseo Profeta

14 giugno

m. 790 a.C.

Ricco possidente, originario di Abelmeula, il suo nome che significa «Dio salva» risponde bene alla missione svolta tra il popolo di Israele, sotto il regno di Ioram (853-842 a.c.), Iehu (842-815 a.c.), Ioacaz (814-798 a.c.) e Ioash (798-783). Eliseo era un uomo deciso e lo dimostra la prontezza con cui rispose al gesto simbolico di Elia che, per ordine di Jahvé, lo consacrava profeta e suo successore. Eliseo prese parte attiva alle vicende politiche del suo popolo attraverso il carisma della sua profezia e può essere considerato il più taumaturgico dei profeti dell’Antico Testamento. La Scrittura ricorda infatti una lunga serie di prodigi da lui operati: stendendo il mantello di Elia divise le acque del Giordano; rese potabile l’acqua di Gerico; riportò in vita il figlio della sunamita che lo ospitava; moltiplicò i pani sfamando un centinaio di persone. Profeta non scrittore, come il suo maestro Elia si preoccupò del suo paese in tempi difficili durante la guerra contro i Moabiti e durante quelle contro gli Aramei. Morì verso il 790 a.C. e venne sepolto nei pressi di Samaria, dove ai tempi di San Girolamo esisteva ancora il suo sepolcro. (Avvenire)
Etimologia: Eliseo = Dio è la mia salvezza (o salute), dall’ebraico
Martirologio Romano: A Samaria o Sebaste in Palestina, commemorazione di sant’Eliseo, che, discepolo di Elia, fu profeta in Israele dal tempo del re Ioram fino ai giorni di Ioas; anche se non lasciò oracoli scritti, tuttavia, operando prodigi a vantaggio degli stranieri, preannunciò la futura salvezza per tutti gli uomini.
Il continuatore dell’opera di Elia era un ricco possidente, originario di Abelmeula. Il suo nome, Eliseo (« Dio salva »), risponde bene alla natura della missione svolta tra il popolo di Israele, sotto il regno di Ioram (853 a.C.-842), Iehu (842-815), Ioacaz (814-798) e Ioash (798-783). Eliseo era un uomo deciso e lo dimostra la prontezza con cui rispose al gesto simbolico di Elia che, per ordine di Jahvè, lo consacrava profeta e suo successore.
« Elia andò in cerca di Eliseo – si legge al cap. 19 del I libro dei Re – e lo trovò che stava arando: aveva davanti a sè dodici paia di buoi; egli arava col dodicesimo paio. Giunto a lui, Elia gli gettò addosso il proprio mantello. Allora Eliseo, abbandonati i buoi, corse dietro a Elia e gli disse: Permettimi di passare a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò. Elia gli disse: Va’ e torna presto, poiché tu sai ciò che ti ho comunicato. Eliseo, allontanatosi, prese un paio di buoi e li immolò, quindi col legno dell’aratro e degli strumenti da tiro dei buoi ne fece cuocere le carni e le dette a man lare ai suoi compagni di lavoro. Poi partì e seguì Elia, mettendosi al suo servizio ».
Il ricco agricoltore, con quel gesto significativo, voleva dire al suo maestro che ormai era disposto a rinunciare a tutto per rispondere in pieno alla vocazione profetica. E con altrettanta prontezza eseguì gli ordini del maestro fino al momento del misterioso commiato, oltre il Giordano, quando Elia scomparve dentro un turbine di fuoco. Elia gli aveva chiesto: « Che cosa vuoi, prima che io parta dalla terra? ». La richiesta di Eliseo non fu di poco conto: « io chiedo che abiti in me uno spirito doppio del tuo ». Gli era stato fedele discepolo per sei anni, ora gli avanzava la sua richiesta di eredità, non in beni materiali, ma in virtù carismatica. La domanda di Eliseo venne esaudita.
Egli è, infatti, il più taumaturgico dei profeti. La Bibbia ricorda una lunga serie di prodigi da lui operati: stendendo il mantello di Elia divise le acque del Giordano; con una manciata di sale rese potabile l’acqua di Gerico; rese inesauribile l’olio d’oliva di una vedova; risuscitò il figlio della sunamita che lo ospitava; moltiplicò i pani sfamando un centinaio di persone; guarì dalla lebbra Naaman, generale del re di Damasco. Operò miracoli anche dopo la morte: un morto, gettato frettolosamente sulla tomba del profeta da un becchino impaurito dall’arrivo di alcuni predoni « risuscitò, si alzò in piedi e se ne andò ». Il profeta Eliseo morì verso il 790 a.C., e venne sepolto nei pressi di Samaria, dove ai tempi di S. Girolamo esisteva ancora il suo sepolcro.

Autore: Piero Bargellini

TURCHIA: DOPO PADOVESE, SEDE ANCORA VACANTE

dal sito:

http://www.zenit.org/article-27037?l=italian

TURCHIA: DOPO PADOVESE, SEDE ANCORA VACANTE

Mons. Franceschini: “Nessuno ci ha ancora spiegato il perché”

di Mariaelena Finessi

ROMA, venerdì, 10 giugno 2011 (ZENIT.org).- Ad un anno dalla tragica morte di monsignor Luigi Padovese, l’arcivescovo di Smirne monsignor Ruggero Franceschini richiama l’attenzione sul vuoto che l’ex vicario apostolico dell’Anatolia ha lasciato nei cuori, e non solo, di quanti lo hanno conosciuto.
Iskenderun, infatti, non ha più avuto il suo vescovo da quando il 3 giugno 2010 l’allora 26enne Murat Altun ha ferito a morte il cappuccino italiano. Pochi giorni dopo, il 12 giugno, Papa Benedetto XVI aveva nominato Franceschini Amministratore apostolico della sede vacante del Vicariato apostolico dell’Anatolia. Un ruolo temporaneo che in realtà si protrae ormai da un anno.
La comunità cattolica, animata comunque dalla speranza di avere nuovamente una guida la cui presenza sia costante sul territorio, si è ritrovata domenica scorsa, 5 giugno, a Iskenderun per ricordare il triste anniversario, in un luogo  «denso di ricordi ancora dolorosi – ha detto Franceschini alla celebrazione a cui ha partecipato anche il nunzio, monsignor Antonio Lucibello – con ferite ancora aperte». Una cattedrale che è «ancora senza Pastore» e «senza nessuno che ci abbia spiegato il perché» tanto che non rimane «neanche più la forza di chiedere “fino a quando?”».
Intanto a una manciata di giorni dalle elezioni politiche che determineranno il futuro della Turchia e del Primo ministro Erdogan, la Direzione sanitaria di Istanbul ha dichiarato sano di mente Altun. Il referto consente di aprire il processo contro il giovane assassino e annulla le precedenti analisi che in un primo tempo lo avevano definito incapace di intendere e volere.
Una novità se si considera che gli omicidi di esponenti delle minoranze religiose sono stati  addebitati fino ad oggi a psicopatici islamici. Fra questi, i casi di don Andrea Santoro, ucciso nel 2006 a Trabzon; dei tre cristiani protestanti sgozzati a Malatya nel 2007 e del giornalista armeno Hrant Dink, ucciso nel 2007 a Istanbul. L’ultimo tentativo di ferire a morte, fortunatamente non riuscito, è avvenuto a Adana (Anatolia) lo scorso Giovedì Santo, quando dopo le celebrazioni, un gruppo di giovani è entrato in chiesa e ha cercato di uccidere il sacerdote, un cappuccino indiano, padre Francis.
Fra i cattolici non si nasconde il timore di un nazionalismo religioso rinfocolato dall’appuntamento elettorale. Un vescovo potrebbe portare più fiducia nel cuore di questa piccola comunità che conta – stando alle ultime statistiche – poco più di 5 mila battezzati.
Ecco perché l’addio di Padovese si fa sentire ancora più forte: «L’assenza di qualcuno che ne prenda il posto accanto a noi – ha concluso l’arcivescovo Franceschini  – è motivo di sconcerto e sconforto da un anno a questa parte». Resta la fiducia per una soluzione che in quell’angolo di mondo può restituire serenità.

BENEDETTO XVI: LA PENTECOSTE È IL « BATTESIMO » DELLA CHIESA

dal sito:

http://www.zenit.org/article-27050?l=italian

BENEDETTO XVI: LA PENTECOSTE È IL « BATTESIMO » DELLA CHIESA

In occasione del Regina Cæli in piazza San Pietro

ROMA, domenica, 12 giugno 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole pronunciate questa domenica da Benedetto XVI in occasione della preghiera mariana del Regina Coeli recitata insieme ai fedeli e ai pellegrini giunti in piazza San Pietro.

* * *
Cari fratelli e sorelle!
La solennità della Pentecoste, che oggi celebriamo, conclude il tempo liturgico di Pasqua. In effetti, il Mistero pasquale – la passione, morte e risurrezione di Cristo e la sua ascensione al Cielo – trova il suo compimento nella potente effusione dello Spirito Santo sugli Apostoli riuniti insieme con Maria, la Madre del Signore, e gli altri discepoli. Fu il « battesimo » della Chiesa, battesimo nello Spirito Santo (cfr At 1,5). Come narrano gli Atti degli Apostoli, al mattino della festa di Pentecoste, un fragore come di vento investì il Cenacolo e su ciascuno dei discepoli scesero lingue come di fuoco (cfr At 2,2-3). San Gregorio Magno commenta: «Oggi lo Spirito Santo è sceso con suono improvviso sui discepoli e ha mutato le menti di esseri carnali all’interno del suo amore, e mentre apparvero all’esterno lingue di fuoco, all’interno i cuori divennero fiammeggianti, poiché, accogliendo Dio nella visione del fuoco, soavemente arsero per amore» (Hom. in Evang. XXX, 1: CCL 141, 256). La voce di Dio divinizza il linguaggio umano degli Apostoli, i quali diventano capaci di proclamare in modo « polifonico » l’unico Verbo divino. Il soffio dello Spirito Santo riempie l’universo, genera la fede, trascina alla verità, predispone l’unità tra i popoli. «A quel rumore la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua» delle «grandi opere di Dio» (At 2,6.11).
Il beato Antonio Rosmini spiega che «nel dì della Pentecoste dei cristiani Iddio promulgò … la sua legge di carità, scrivendola per mezzo dello Spirito Santo non sulle tavole di pietra, ma nel cuore degli Apostoli, e per mezzo degli Apostoli comunicandola poi a tutta la Chiesa» (Catechismo disposto secondo l’ordine delle idee… n. 737, Torino 1863). Lo Spirito Santo, « che è Signore e dà la vita » – come recitiamo nel Credo –, è congiunto al Padre per mezzo del Figlio e completa la rivelazione della Santissima Trinità. Proviene da Dio come soffio della sua bocca e ha il potere di santificare, abolire le divisioni, dissolvere la confusione dovuta al peccato. Egli, incorporeo e immateriale, elargisce i beni divini, sostiene gli esseri viventi, perché agiscano in conformità al bene. Come Luce intelligibile dà significato alla preghiera, dà vigore alla missione evangelizzatrice, fa ardere i cuori di chi ascolta il lieto messaggio, ispira l’arte cristiana e la melodia liturgica.
Cari amici, lo Spirito Santo, che crea in noi la fede nel momento del nostro Battesimo, ci permette di vivere quali figli di Dio, coscienti e consenzienti, secondo l’immagine del Figlio Unigenito. Anche il potere di rimettere i peccati è dono dello Spirito Santo; infatti, apparendo agli Apostoli la sera di Pasqua, Gesù alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati» (Gv 20,23). Alla Vergine Maria, tempio dello Spirito Santo, affidiamo la Chiesa, perché viva sempre di Gesù Cristo, della sua Parola, dei suoi comandamenti, e sotto l’azione perenne dello Spirito Paraclito annunci a tutti che «Gesù è Signore!» (1 Cor 12,3).

Sant’Antonio da Padova

Sant'Antonio da Padova dans immagini sacre Visione_di_Sant%27Antonio_da_Padova

http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/d/d0/Visione_di_Sant%27Antonio_da_Padova.jpg

Publié dans:immagini sacre, SANTI |on 12 juin, 2011 |Pas de commentaires »

S.Antonio da Padova scrittore e dottore: 13 Giugno : Sant’Antonio è anche uno scrittore.

dal sito:

http://www.friulicrea.it/itfriuli/story$data=friuli&num=122&sec=6

13  Giugno : S.Antonio da Padova scrittore e dottore

Sant’Antonio è anche uno scrittore.

È sì il santo dei miracoli », il popolare santo che fa ritrovare le cose perdute, ma è soprattutto il grande maestro spirituale, così come indica il titolo di « dottore evangelico » attribuitogli dalla Chiesa.
La sua identità spirituale e intellettuale nei secoli passati è rimasta nascosta dalla sua prepotente personalità carismatica, che sta alla radice di quell’impressionante fenomeno di devozione popolare a livello planetario, denominato « fenomeno antoniano. Il suo insegnamento resta valido ed efficace anche per il nostro tempo.
Che cosa sono i Sermones?
Si tratta di 53 sermoni dominicales, scritti a Padova, nel corso del triennio del suo servizio come ministro provinciale del Nord Italia (1227-1230). A questi si devono aggiungere altri 4 per le feste mariane, inseriti dopo il sermone per la XII domenica dopo Pentecoste. Ai Sermones festivi, invece, pose mano verso la fine della vita (fine 1230 e gennaio del 1231), per ordine del cardinale di Ostia Rainaldo di Jenne (poi papa Alessandro IV), giungendo però soltanto alla festa di san Paolo (allora il 30 giugno), per un totale di 20 sermoni.
Contrariamente a ciò che il titolo potrebbe lasciar credere, l’insegnamento di Antonio non ha niente in comune con il genere dei sermoni predicati al popolo, secondo uno stile vivo e pastorale che viene spontaneo immaginare alle origini del francescanesimo. Il ciclo dei Sermones prolunga i corsi che il santo tenne ai frati minori, giovani e meno giovani, per formarli a un modo di predicazione sostanzioso.
Il sermone di sant’Antonio è un sermone dotto, scritto in latino medievale, ripieno di grande erudizione. Appare chiaramente dall’ampia esposizione della sacra Scrittura, dall’incredibile abbondanza delle citazioni scritturali dirette (sono oltre 6.200!), dal frequente ricorso alla dottrina dei Padri e dei teologi, dei filosofi e dei poeti pagani; dalla copiosa citazione di esperti in scienze naturali, in modo particolare di Aristotele e di Solino.
Accostandosi agli scritti del Santo, si devono tener presenti alcuni dati. Antonio ha svolto la sua attività apostolica nel terzo decennio del secolo XIII.
È un figlio del suo tempo, sia per la formazione religiosa che culturale. Egli è legato alla corrente patristica, innovata dai luminari del suo tempo.
Nel medioevo la predicazione si fondava quasi unicamente sulla sacra Scrittura. La predicazione prendeva le mosse da una citazione biblica, perché la sacra Scrittura era ritenuta la fonte propria di ogni dottrina sacra o teologica.
La citazione era detta « autorità », perché aveva in se stessa, come parola di Dio, la virtù di provare l’insegnamento che veniva impartito.
Anche sant’Antonio ha seguito questo metodo. La sua opera, i Sermones, tratta della sacra Scrittura. Anzi, il Santo intende con i suoi Sermones, esporre tutta la Scrittura per ricavare da essa ogni sacro insegnamento.
Da rilevare inoltre l’eccellente articolazione del sermone, composto di un prologo che introduce in modo solenne il sermone, della molteplice divisione del tema nei suoi vari aspetti, e dello svolgimento degli stessi secondo i diversi modi di interpretare le citazioni della sacra Scrittura.
E’ ancora un sermone scolastico: è indirizzato, infatti, all’utilità sia degli insegnanti che degli uditori. Il prologo dei Sermones non tende a captare la benevolenza degli uditori, ma ha lo scopo di insegnare il metodo della predicazione. Le argomentazioni nell’esposizione del tema non sono fatte per sillogismi, ma con citazioni prese da molte fonti: la Scrittura, i Padri, le scienze naturali. La varietà dei temi e le concordanze che li collegano tra loro danno al sermone grande ampiezza e varietà, sì da farlo sembrare un commentario.
Si tratta infine di sermone scritto, non semplicemente parlato. Dà l’impressione di essere una nuova stesura di quanto detto dal Santo sia nella predicazione che nella scuola, e sempre per l’utilità tanto pubblica che privata. Quindi non una semplice predica, ma un trattato di materie sacre, esposte in forma omiletica.
Il sermone, considerato sotto questo aspetto, è un « genere letterario », in uso al tempo del Santo.
Si colloca in tale genere letterario ad esempio la castigatio clericorum, cioè i severi rimproveri rivolti al clero, frequentissimi nei Sermones del Santo.
Nel sermone scritto questa castigatio non era in contrasto con l’indulgenza e con la carità; anch’essa era finalizzata pastoralmente sia alla formazione del clero, perché rifuggisse dai vizi, sia alla riprensione dei chierici in età matura, perché i Sermones, in quanto materia di studio, potevano andar in mano a ogni categoria di chierici, a quelli con umili incombenze, come a quelli di vasta responsabilità, ossia ai prelati.
Sant’Antonio stesso mostra di conoscere molto bene l’aspetto letterario del sermone, quando biasima il comportamento degli schizzinosi i quali, pur leggendo molto, non arrivano mai alla vera scienza. Dice il Santo: « O curioso, che ti affanni e che allarghi la tua attività in tante direzioni, va’, non dico dalla formica, ma dall’ape e apprendine la saggezza. L’ape non si posa su tante specie di fiori, ecc. Dal suo esempio impara a non dare ascolto ai vari fiori di parole, ai vari libercoli; e non lasciare un fiore per passare a un altro come fanno gli schizzinosi che sempre sfogliano libri, criticano le prediche, soppesano le parole, ma non arrivano mai alla vera scienza; tu invece raccogli da un libro ciò che ti serve e collocalo nell’alveare della tua memoria » (Sermone della domenica XI dopo Pentecoste, n. 13).
Sotto l’aspetto letterario, è doveroso segnalare anche altre caratteristiche dei Sermones, come le esposizioni dottrinali, il modo di esprimersi del Santo, i commenti scritturali, gli aneddoti, le preghiere conclusive, il discorso diretto col lettore, le formule introduttorie, la lingua latina.
Nelle esposizioni dottrinali il Santo non è sempre sistematico, ma coglie le varie occasioni che il tema gli suggerisce. Basti l’esempio della domenica di Settuagesima. Il tema è l’opera della creazione di sei giorni, al quali viene aggiunto il settimo giorno, quello del riposo. Il Santo espone dapprima gli articoli della fede, quindi le virtù dell’anima, e in terzo luogo le ricompense della patria celeste.
Il « sermone » di Antonio è ancora assai lontano dallo stile scolastico della quaestio, già in voga allora all’università di Parigi.
Lo stile, il modo di esprimersi di Antonio è pratico, non speculativo. Si compone di immagini, di figure, come sono proposte dalla sacra Scrittura e dall’esperienza.
I commenti scritturali: come abbiamo visto, la struttura del sermone consiste in un tema desunto dalla sacra Scrittura e nella sua esposizione, nella definizione dell’eventuale nome che s’incontra nella citazione, nella distinzione dei vari argomenti, nell’enucleazione del senso spirituale, nella citazione di vari passi scritturali che concordano con il principale. In tutto ciò viene svolto il commento della stessa sacra Scrittura.
I Sermones sono ravvivati da frequenti esempi, aneddoti e racconti di vario genere. Servono per ricordare i vari usi e costumi, o riportare fatti accaduti in antico.
Le preghiere si trovano principalmente alla fine dei Sermones, o delle varie parti in cui essi sono divisi. Esprimono richieste al Signore, oppure sono delle dossologie, cioè preghiere conclusive di lode a Dio, a Cristo o alla Santissima Trinità.
Abbastanza spesso il Santo si rivolge direttamente ai lettori, o meglio agli ascoltatori, trattandosi di testi offerti ai predicatori. Un esempio molto significativo lo troviamo nel primo sermone della seconda domenica di Quaresima, nella seconda parte del n. 5: « Ecco, la scala è drizzata. Perché dunque non salite? Perché continuate », ecc.
I Sermones ebbero una fortuna molto scarsa. E ciò non dovuto alla forma e ai contenuti dei Sermones, bensì al cambiamento di cultura.
Poco dopo il trapasso del Santo infatti in Europa s’instaura la così detta « Scolastica », che costituisce un mutamento-evoluzione radicale del pensiero filosofico-teologico cristiano in Europa.
A ridosso dello sviluppo dottrinale, patrocinato da una coorte di geni (Alberto Magno, Tomaso d’Aquino, Bonaventura, Giovanni Duns Scoto, per citarne alcuni), si ha una rielaborazione altrettanto profonda a livello pastorale-liturgico.
Si comincia a far teologia in modi completamente diversi da quelli adottati da Antonio e dal suo mondo culturale. In tale clima, i Sermones vanno considerati come un cespo di rose d’autunno: bellissime e fragranti, ma sbocciate al limitare dell’inverno. Rose in stato terminale, si direbbe. Antonio è figlio del secolo XII, un prescolastico, legato ancora saldamente alla corrente patristica. L’opera di lui fu sentita presto come superata. Non si leggeva più la Bibbia così, non si predicava più così. I sacerdoti avevano a disposizione prontuari predicabili più maneggevoli e pratici, dove si trovava bell’e pronto il sermone, bastava dargli una scorsa. Antonio risultava troppo impegnativo, il suo linguaggio, la sua impostazione mentale, domandavano una diversa collaborazione, un differente orizzonte culturale.
Sant’Antonio è stato il primo docente autorizzato e il primo grande scrittore dell’Ordine francescano. I suoi scritti redatti sotto forma di sermoni – i Sermones dominicales con un’appendice di Sermones mariani e di Sermones de sanctis (questi ultimi incompiuti) – riflettono lo stadio dottrinale di quella che fu la prima manifestazione della teologia francescana, elaborata quand’era ancora vivo san Francesco, non senza una preoccupazione da parte sua perché lo studio così favorito non spegnesse lo spirito della santa orazione.
L’insegnamento teologico di Antonio è un insegnamento essenzialmente biblico. Studiare teologia significa per lui, come si esprimevano allora tutti i teologi, studiare la Sacra Scrittura. Egli si adopera di stabilire il senso letterale e il senso spirituale (allegorico, morale, anagogico) della parola di Dio rivelata, cercando di esaurire, come vero figlio di sant’Agostino, la pienezza della parola di Dio.
In effetti Antonio considera il senso allegorico, morale, anagogico, come qualcosa di presente già in quello letterale della Sacra Scrittura. Egli considera il triplice senso spirituale come un processo di crescita.
Dal senso letterale nasce l’allegorico, dall’allegorico il morale, dal morale l’anagogico.
*L’allegorico « edifica la fede »,
*il morale « insegna a vivere onestamente e con la sua dolcezza trafigge l’animo e tocca soavemente la mente degli uditori »,
*l’anagogico « tratta della pienezza del gaudio e della beatitudine celeste ».
Per la libertà audace con cui Antonio tratta la Sacra Scrittura, gli si può applicare quanto un autore scrive di san Bernardo: « Non spiega la Scrittura, ma l’applica; non la illumina, ma illumina tutto con essa; e prima di tutto il cuore umano » (H. DE LUBAC).
Per il santo tutta la Sacra Scrittura è essenzialmente storia della salvezza. Secondo il senso letterale essa narra quelle realtà che hanno salvato l’umanità. Nell’allegorico le realtà storiche non vengono escluse, ma comprese nel loro senso pieno; esso dà la piena verità e realtà della storia, che ha il suo centro in Cristo. Come l’allegorico si fonda sul letterale, così il morale sull’allegorico.
Poiché la morale è la fede vissuta o l’incarnazione della fede nella vita cristiana, il cristiano non può limitarsi a credere una verità senza esprimerle nella sua vita. Il senso morale poi tende all’anagogico, il cui oggetto è il compimento escatologico della storia della salvezza. L’anagogia è così l’ultimo coronamento, la vera chiave per comprendere l’intera storia salvifica.
Mentre Giovanni Cassiano nella comprensione spirituale della Scrittura pone il senso morale prima dell’allegorico e dell’anagogico, e alla rivelazione fa precedere la morale naturale, Antonio invece fa dipendere il senso morale dall’allegorico.
La legge morale regola lo sviluppo della vita cristiana. Essa è tesa tra un essere e un divenire, tra una realtà e una speranza, tra un « già » e un « non ancora ». Con il battesimo l’essere naturale dell’uomo si è « rivestito di Cristo » (cf. Gal 3,27). L’uomo è « già » in Cristo, ma non è ancora Cristo. Egli deve trasformarsi in Gesù, deve diventare Gesù Cristo.
Questa è la speranza, il « non ancora » della vita cristiana, in continua tensione verso la vita futura. Sotto questo aspetto si può comprendere l’importanza che il santo dà nella sua predicazione al senso morale, poiché questo mira al progresso della vita spirituale. Infatti nei Sermones egli prende in considerazione non l’eresia ma il grande decadimento morale come il vero male del suo tempo. Tutti i deviamenti nel campo della fede vengono da lui visti come conseguenza dei deviamenti morali. « Quanto più la predica morale piace, tanto più afferra lo spirito dell’ascoltatore, poiché i costumi sono corrotti. Perciò si deve curare più la predica morale, che porta a predicare le virtù morali, che la predica allegorica che fornisce cognizione sulla fede. Per grazia di Dio la fede è già sparsa in tutta la terra ».
Nell’opera antoniana la Sacra Scrittura occupa un posto fondamentale, anche perché la consuetudine del tempo faceva della Scrittura la fonte principale e quasi esclusiva dell’insegnamento teologico. La Sacra Scrittura era per i maestri di Parigi la principale materia della lectio, l’oggetto supremo di tutta l’ermeneutica teologica e la condensazione della vera scienza.
E così era per Antonio che nelle aule di S. Croce di Coimbra aveva appreso ad amare e gustare la Scrittura. Di qui l’alto concetto che il santo ha della parola di Dio, fino a scrivere che « nell’Antico e nel Nuovo Testamento c’è la pienezza di tutta quella scienza, la sola che si deve sapere, la sola che fa sapienti »; « dal testo delle pagine sacre emana l’intelligenza della Scrittura; come l’oro è più prezioso di tutti gli altri metalli, così l’intelligenza della Scrittura supera tutte le altre scienze. Chi non conosce la Scrittura, non sa assolutamente nulla ».
La conoscenza che aveva della medesima era talmente vasta e profonda che, al dire delle antiche leggende, se fossero stati distrutti tutti i libri sacri sarebbe bastata la memoria del santo per riscriverli.
Sant’Antonio è anche un mistico. Non è solo il santo più amato, il grande predicatore, lo scrittore dei Sermones, il monaco francescano. Nei suoi scritti e soprattutto nella sua vita egli ha lasciato traccia del suo profondissimo rapporto con Dio e di una originale dottrina mistica che vuole aiutare ad incontrare Dio a partire dal cuore, con la preghiera e con l’amore, nel silenzio e nella solitudine, coinvolgendo anche l’azione.
Quali sono i tratti salienti della sua dottrina mistica? Quali influssi di autori mistici si riscontrano nel suo pensiero? Cosa insegna circa la contemplazione, l’amore, la fede, la preghiera, il silenzio e la solitudine, il rapporto tra vita attiva e contemplativa?
Sant’Antonio è stato il primo docente autorizzato da san Francesco e il primo grande scrittore dell’Ordine francescano.
I suoi scritti redatti sotto forma di sermoni – i Sermones dominicales con un’appendice di Sermones mariani e di Sermones de sanctis (questi ultimi incompiuti) – riflettono lo stadio dottrinale di quella che fu la prima manifestazione della teologia francescana, elaborata quand’era ancora vivo san Francesco, non senza una preoccupazione da parte sua perché lo studio così favorito non spegnesse lo spirito della santa orazione.
Sant’Antonio definisce la filosofia o sapienza del mondo « insignificante e insulsa ». Non perché la consideri inutile in se stessa, ma perché la sapienza del mondo si limita a soddisfare le aspirazioni umane, le bramosie di lucro e di vanagloria
Il primato spetta alla teologia, fondata nella Sacra Scrittura. La sapienza filosofica è l’ancella della teologia. Il santo denunzia la preferenza scandalosa che alcuni davano alla filosofia e agli studi giuridici a scapito della teologia che si propone la salvezza delle anime. Egli sostiene, sull’esempio di san Pier Damiani, che preferire la filosofia alla teologia sarebbe stato come scegliere tra Dio e il diavolo.
La cultura del santo è prevalentemente d’indole sacra. I primi storici primitivi attestano la sua grande sapienza teologica, dovuta alla costante e diligente applicazione allo studio della Sacra Scrittura. Secondo Antonio l’intelligenza della Scrittura (sacer intellectus) è superiore a ogni altra scienza; è l’unica che rende l’uomo veramente sapiente. Questo atteggiamento del santo nei confronti della filosofia non vuol dire ch’egli abbia rifiutato i principi scientifici dei processi razionali o della tecnica mentale. Nei suoi scritti, però, si preoccupa di subordinare la filosofia alla teologia.
Ma Antonio, filosofo, è animato da un’altra ambizione più nobile, quella del teologo che si trasforma in contemplativo. Egli scrive che la contemplazione è più preziosa di tutte le opere, e tutte le cose che si possono desiderare non sono paragonabili a essa.
Le sue parole quasi ci sorprendono, se pensiamo che a scriverle fu un uomo di intensissima attività pastorale. Lì per lì non riusciamo a spiegare come abbia potuto dedicarsi alla contemplazione lui che nel suo pur breve periodo di apostolato non avrebbe avuto nemmeno il tempo di respirare.
La vita di Antonio è piena sia di predicazioni, sia di estasi, sia di colloqui con Dio, sia di appuntamenti con il popolo. Il santo delle moltitudini è, in pari tempo, il santo del silenzio e della solitudine contemplativa.
Gli esami scientifici eseguiti sulle ossa di sant’Antonio, in occasione della ricognizione dei suoi resti mortali avvenuta il 6 gennaio 1981, confermano, da certi segni delle tibie e dei ginocchi, che egli passava molte ore in ginocchio, dedito alla preghiera e alla contemplazione.
La vita interiore di sant’Antonio è in funzione del suo apostolato instancabile. Le soste contemplative erano in vista del cammino. In pratica, è a servizio degli altri. Lui mette a disposizione del prossimo anche e soprattutto le « ginocchia ».
Dio non manifesta la sua vita, nel modo più intenso, nelle sue opere esteriori (per esempio, nella creazione), ma in quelle che la teologia definisce « operazioni immanenti », cioè nell’ineffabile attività che riguarda la generazione eterna del Figlio e l’incessante processione dello Spirito Santo.

Anche Antonio di Padova manifesta la grandezza e la ricchezza della sua anima non tanto nella sua suggestiva, franca ed energica predicazione, né nella sua fama di taumaturgo, quanto nella sua continua intima unione con Dio.

Testo di Antonio Giuseppe Nocilli, adattato da p. Paolo Floretta

Publié dans:SANTI |on 12 juin, 2011 |Pas de commentaires »
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