FIL 2,17-30 – SEGUITO DELLA PARTE PRECEDENTE

FIL 2,17-30 – SEGUITO DELLA PARTE PRECEDENTE

3,15-4,9
15-16 Quanti dunque siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti; se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà anche su questo. Intanto, dal punto a cui siamo arrivati continuiamo ad avanzare sulla stessa linea.
I “perfetti/maturi” sono semplicemente i cristiani, in quanto uniti al Signore: è una perfezione dono e non conquista. Perfetto è il Padre (Mt 5,48). “Ciò che è perfetto” è la sua volontà (Rm 12,2).“Uomo perfetto” è la Chiesa, in quanto unita al suo Signore, in quanto “suo corpo” con tutti i doni distribuiti dallo Spirito, salda nella fede. Perfetto è l’uomo che vive “secondo la verità nella carità” cercando di crescere verso il Cristo che è “il capo”, cioè il principio della “perfezione” (Ef 4,9-16). E’ l’uomo “spirituale” (animato dallo Spirito) in contrapposizione con l’uomo “psichico/naturale” (1 Cor 2.6.14ss). Si tratta prima di tutto di una perfezione intesa come legame che il Signore stabilisce con noi. La cui risposta (perfezione) è una fede e una carità indissolubilmente unite. Ma la perfezione è anche un cammino mai compiuto: “Sarete perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). Essa comporta un “sentire/pensare/agire” conforme a quello che l’apostolo ha detto sopra. Se il sentire fosse diverso Dio “svelerà”, attraverso l’apostolo stesso, che il modo è sbagliato. 17-19 Fatevi miei imitatori, fratelli, e guardate a quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi. Perché molti, ve l’ho già detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo: la perdizione però sarà la loro fine, perché essi, che hanno come dio il loro ventre, si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi, tutti intenti alle cose della terra.L’imitazione di cui parla Paolo è in ordine alla fede in Cristo che salva e agli atteggiamenti profondi che conseguono (1 Tes 1,6-7; 1 Cor 4,16). L’esempio che egli ha dato è l’aver giudicato tutto una perdita per “guadagnare” Cristo dal quale era stato guadagnato. All’incontrario, il suo dolore grande è che molti (sono alcuni suoi fratelli giudei) si comportano da nemici della croce di Cristo. Che significa? Significa che non affidano la loro salvezza alla croce (morte) di Cristo, ma alle loro opere: in particolare alla circoncisione. La loro fine è la perdizione (credono di salvarsi, ma per quella via non saranno salvati); il loro Dio è il ventre (le pratiche alimentari non possono prendere il posto di Dio); e la gloria o il vanto è nella loro “vergogna” (circoncisione). In una parola essi hanno un “sentire/pensare/agire” che li fa appartenere ancora alla terra, nonostante il loro volersi innalzare su di essa. 30-4,3 La nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù delpotere che ha di sottomettere a sé tutte le cose. Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete saldi nel Signore così come avete imparato, carissimi! Esorto Evòdia ed esorto anche Sìntiche ad andare d’accordo nel Signore. E prego te pure, mio fedele collaboratore, di aiutarle, poiché hanno combattuto per il vangelo insieme con me, con Clemente e con gli altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita. Cos’è la nostra patria? E’ la nostra cittadinanza: il nostro relazionarci secondo uno statuto costitutivo acquisito che ci fa essere e vivere bene. Questo nuova cittadinanza (che è il vivere secondo il vangelo, vedi 1,27) è “nei cieli”, cioè in Dio: da lui (e non da noi) aspettiamo la salvezza. E’ detto infatti: “da lui aspettiamo anche un salvatore che è il Signore Gesù Cristo”. La salvezza è già donata in Cristo, ma si completerà con la trasformazione del corpo della nostra piccolezza ad immagine del corpo della gloria di lui, secondo l’energia che ha di sottomettere tutte le cose. E questo avverrà nell’ultimo giorno. L’itinerario del cristiano è quello di Cristo stesso. In questa linea si provi a rileggere 2,5-11.
La conclusione dell’apostolo è questa: state saldi così nel Signore! L’esortazione è inclusa tra due termini che qualificano i Filippesi e il rapporto che essi hanno con Paolo: amati e desiderati (da Dio certamente e per questo anche da Paolo). Gioia e corona: che i Filippesi vivano secondo il vangelo è la gioia dell’apostolo, ma anche il titolo che egli potrà presentare a Dio per avere la “corona”, cioè il trionfo con Cristo al suo ritorno (2,16). Esorto Evodia (buon viaggio!) e Sintiche (fortunata!). L’esortazione di Paolo è una “paraclesi”, cioè un ammonimento che fonda la sua forza nello Spirito (paraclito) e nella misericordia di Dio (Rm 12,1). Quanto è stato detto in generale, egli lo applica ai casi concreti: la sua sollecitudine è per ogni persona (questa è la vera correzione!). Forse le due donne non andavano d’accordo (non sarebbe una sorpresa!), ma è meglio intendere che esse stavano “deviando” dalla retta fede: non avevano “lo stesso “sentire/pensare/agire” che era in Paolo e che egli ha raccomandato più sopra. Era quel “pensare uno” che faceva fondamento sulla croce di Cristo (e non nelle opere) e che si manifestava nella umiltà/piccolezza (e non nell’arroganza del comando). Sizigo (compagno di gioco o collega) è pregato di aiutarle, o meglio, di accoglierle (di nuovo?); infatti hanno combattuto per il vangelo. Il combattere per il vangelo o per la fede è l’unica lotta ammessa (1 Tm 6,12; 2 Tm 4,7). E questa “lotta” dà il titolo di “vincitore” (Ap 3,5) per avere il proprio nome nel “libro della vita”. Per l’amore preveniente del Signore tutti siamo già scritti nel “libro della vita”, ma al giudizio finale saranno aperti “i libri” nei quali sono scritte le nostre azioni (Ap 20,12ss). Chi ha lottato e perseverato (ho conservato la fede) starà nel “libro della vita”, e “non sarà cancellato” (Ap 3,5). 4-7 Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti; e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù. “Rallegratevi” è un saluto del mondo greco e prepara il congedo. Paolo invece, aggiungendo “nel Signore sempre”, vuol dire che per i cristiani il congedo non c’è: essi saranno uniti nel Signore sempre (vedi anche il saluto di Gesù in Gv 14,27: pace). D’altra parte, “rallegratevi” è anche un ammonimento che segna tutta la lettera. Qui si dà anche la motivazione: il Signore è vicino (ilSignore è con voi, il Signore c’è, il Signore agisce…e il Signore verrà!). Il riflesso concreto dell’esserci del Signore deve apparire a tutti (anche non credenti). E “si manifesta” in due direzioni: verso gli uomini con la affabilità, la bontà, la disposizione benevola, il perdono; e il non angustiarsi (meglio: smettere di angustiarsi, non angustiarsi più). Ma i problemi restano! E allora “si manifesta” anche verso Dio con la nostra preghiera. Come? “Con eucaristia!”. La domanda non è mai provocante e grintosa, ma condita dal “rendimento di grazie” per aver già tutto ricevuto in Cristo. L’effetto di tutto questo è la “pace che viene da Dio” e che sorpassa quello che la ragione può pensare (cioè non è la pace degli uomini). Sarà questa pace di Dio a custodire veramente, profondamente, infallibilmente i cristiani (cuore e pensieri in Cristo Gesù). 8-9 In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare. E il Dio della pace sarà con voi! “Questo pensate, questo attiri la vostra attenzione” (8) e “questo fate” (9). Qual è l’orizzonte del nostro “pensare”? E’ un orizzonte vasto, aperto, accogliente: è un vedere la Sapienza di Dio “riflessa” nella creazione e nella storia (Sap 7,22ss). Qual è l’orizzonte del nostro “fare”? E’ tutto quello che dice riferimento all’apostolo: “Quello che avete imparato, ricevuto, udito e visto in me”. Vale a dire il vangelo come l’apostolo l’ha trasmesso, ma anche come l’ha vissuto. E’ il concetto della “tradizione apostolica”: essa è normativa e ci chiede un “fare” conforme ad essa. E il Dio della pace sarà con voi. La pace è il bene sommo, o la somma di ogni bene che Dio ha promesso e realizzato. Chi permane nel vangelo permanendo nella tradizione apostolica esperimenterà il Dio che comunica la pace, cioè ogni bene, cioè Cristo stesso: egli che è la nostra pace (Ef 2,14).
10-13
Ho provato grande gioia nel Signore, perché finalmente avete fatto rifiorire i vostri sentimenti nei miei riguardi: in realtà li avevate anche prima, ma non ne avete avuta l’occasione. Non dico questo per bisogno, poiché ho imparato a bastare a me stesso in ogni occasione; ho imparato ad essere povero e ho imparato ad essere ricco; sono iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza. – Ho provato grande gioia.
La gioia è sempre “nel Signore”. Perché? a) il Signore risorto “è vicino” (4,5); b) “è con te” (Lc 1,28); c) è annunciato (1,18); d) è con noi nella nuova realtà della Chiesa, che è il suo corpo (Col 1,24). Sono la fede e la carità a generare e sostenere la gioia che non si consuma. In questo punto della lettera, il motivo concreto della gioia è il “vostro pensare per me”: un pensare che è “prendersi cura”, secondo i tempi e i momenti (15-16). – Non dico questo spinto dal bisogno. Paolo esperimenta una “mancanza-penuria” che lo mette in una situazione di “bisogno” oggettivo; ma questo non lo porta a giudicare i fratelli o la società, e nemmeno a pretendere aiuto da alcuno. Infatti, “ho imparato”! I veri e autentici atteggiamenti si “imparano” dalle molteplici situazioni della vita e così diventano un vero “sapere” (conoscere/esperimentare/divenire maturo). “Ho imparato” e quindi “so”. Che cosa? So essere “autarchico”, cioè non pretendo nulla dagli altri e mi accontento di quello che ho. C’è una autarchia orgogliosa e sprezzante che trae forza “da sé”; e c’è una autarchia evangelica che trae forza “da colui che dà forza”. – Accetto di (conosco, so ) essere ridotto alla piccolezza (in latino humiliari) e accetto di abbondare (avere più del necessario). Di fatto la vita ora ti toglie, ora ti dà. Sono allenato (iniziato) in ogni circostanza e in ogni modo: poter mangiare (è questa la “sazietà” di cui parla Paolo! Pensiamo che le folle furono “sazie” per aver mangiato… pane e pesce!) e stare senza, abbondare (avere il necessario) e mancare del necessario. Tutto posso in colui che mi dà forza. Paolo intende: a) rivendicare una grande “libertà” da condizionamenti, anzitutto nell’annuncio del vangelo; vuol dire che nessuna situazione lo ha trattenuto o lo tratterrà dall’annuncio. Chi dà forza infatti è il Signore e non gli uomini, o i beni, o le proprie capacità. b) dire inoltre che, non solo il ministero, ma la sua stessa vita (e la vita di ogni cristiano) riceve forza dal Signore. [Confrontare questo stile di vita con lo stoicismo e certe discipline attuali, specie orientali….]. 14-16 Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alla mia tribolazione. Ben sapete proprio voi, Filippesi, che all’inizio della predicazione del vangelo, quando partii dalla Macedonia, nessuna Chiesa aprì con me un conto di dare o di avere, se non voi soli; ed anche a Tessalonica mi avete inviato per due volte il necessario. Non è però il vostro dono che io ricerco, ma il frutto che ridonda a vostro vantaggio. – Avete fatto bene tuttavia… Il problema vero è quello di prendersi cura del fratello nel momento della sua tribolazione. Paolo non “pretende”, ma i Filippesi hanno fatto bene ad “avere comunione con la tribolazione” di Paolo. E’ una comunione “continuata”: tre volte (quando partì dalla Macedonia e due volte a Tessalonica). -Nessuna chiesa mi aprì un conto di dare e avere. Come a dire, non ho contratto alcun debito pretendendo qualche aiuto. Notiamo anche il termine “chiesa (persone chiamate da)” applicato a piccole realtà sparse nelle varie parti del mondo! Non è il vostro dono che ricerco, ma il frutto che arricchisce il vostro credito. Il linguaggio è quello della economia: ogni investimento ha un frutto. I Filippesi aiutando Paolo hanno investito e così hanno arricchito il loro credito (davanti a Dio!). 18-20
Adesso ho il necessario e anche il superfluo; sono ricolmo dei vostri doni ricevuti da Epafrodìto, che sono un profumo di soave odore, un sacrificio accetto e gradito a Dio. Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza in Cristo Gesù. Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen. – Ricevo tutto (ho tutto e… lascio ricevuta!) e abbondo. I doni ricevuti da Epafrodito sono un profumo piacevole (di soavità), un sacrificio gradito, che piace a Dio. Sono tre termini che hanno una valenza sacrificale e liturgica. L’espressione “sacrificio gradito a Dio” suppone che ci siano sacrifici che Dio non gradisce. Quando i sacrifici non sono espressione di un dono totale e sincero, ma nascondono la infedeltà, allora non sono graditi a Dio (Is 1,10ss; Am 5,21ss). Rm 12, 1 dice che i “nostri corpi” sono un sacrificio gradito. I Filippesi hanno offerto prima di tutto se stessi al Signore: i loro doni sono un segno della loro fede/amore. Leggere 2 Corinzi 8,1ss.
- Il mio Dio colmerà ogni vostra necessità.
Il dono che avete fatto a me, in definitiva è fatto a Dio (il “mio” Dio: il Dio che mi ha preso a servizio) ed egli verrà in soccorso a voi che avete bisogno, secondo la sua ricchezza con gloria in Cristo Gesù. La “risposta” di Dio è proporzionata a lui stesso, cioè è la gloria (pienezza di doni) che si ha in Cristo Gesù. C’è come uno scambio di “gloria” tra Dio e noi: Dio dà gloria (peso) a noi e noi gli diamo gloria (a tutto vantaggio nostro!). Questo avviene quando i cristiani “riempiono” l’apostolo, allora Dio “riempie” (glorifica) i cristiani. 21-23
Salutate ciascuno dei santi in Cristo Gesù. Vi salutano i fratelli che sono con me. Vi salutano tutti i santi, soprattutto quelli della casa di Cesare. La grazia del Signore Gesù Cristo sia con il vostro spirito. “Salutare” non è congedare, ma il modo col quale si continua a stare in comunione anche se distanti: è la manifestazione della unità e del rimanere insieme. E questa unità coglie quattro livelli. a) “Salutate ciascuno dei santi in Cristo”: è l’unità tra gli stessi membri della Chiesa di Filippi; b) “Vi salutano i fratelli che sono con me”: si tratta forse dei collaboratori, che all’inizio della lettera sono chiamati servi. E’ quindi l’unità con la Chiesa apostolica; c) “Vi salutano tutti i santi, soprattutto quelli della casa di Cesare”: è un’unità nuova, dilatata a chi è entrato nella Chiesa da situazioni diverse e un po’ singolari. Qui si tratta forse dei funzionari imperiali; d) c’è infine un ultimo livello: unità della Chiesa apostolica con noi che riceviamo, oggi, la lettera. Il “saluto” arriva … fino a noi! (Pensiamo anche al saluto che si fa nella Messa). Il saluto è per ciascuno: “il Signore è con te”. Per ciascuno che è “santo in Cristo Gesù”: la santità infatti è comunicata da Cristo Gesù e non è una acquisizione da parte nostra. Si è “santi” solo se si è “santi in Cristo”, cioè se egli ci sceglie e ci fa partecipi della sua santità (che è poi la sua natura divina). Ma qual’è il “contenuto” del saluto? E’ la grazia del Signore Gesù Cristo: il favore, la benevolenza, l’amore gratuito (charis) di Dio Padre manifestato nel Signore Gesù Cristo. Tale dono “è” (non “sia”) con il vostro spirito, cioè con voi nella profondità del vostro essere. La lettera termina come era iniziata (1,2).

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