Archive pour mai, 2011

Solo dall’ospitalità nasce nuova vita (D.Tettamanzi)

dal sito:

http://bibbiaeteologia.myblog.it/archive/2010/05/28/solo-dall-ospitalita-nasce-nuova-vita-d-tettamanzi.html

28/05/2010

Solo dall’ospitalità nasce nuova vita (D.Tettamanzi)

di Dionigi Tettamanzi, Avvenire 28.5.10

Abramo accoglie tre stranieri e ottiene un figlio, Paolo a Malta vince i pregiudizi…

Vi è un’icona singolarmente evocativa che illustra bene anche l’etimologia del nostro vocabolo «ospite», che deriva da due radici delle lingue indoeuropee: la radice hos/host ovvero «pellegrino, forestiero» e la radice pa/pati cioè «sostenere, proteggere ». L’ospite sarebbe dunque «colui che sostiene o dà da mangiare ai pellegrini, ai forestieri». L’icona biblica che ci svela il senso profondo e insieme originale e affascinante dell’ospitalità (secondo il disegno di Dio e quindi secondo la natura e il dinamismo stessi dell’uomo) si trova nel capitolo 18 di Genesi, dove Abramo viene presentato nella sua generosità di ospite.
Nell’ora più calda del giorno Abramo vede passare tre personaggi sconosciuti, che il narratore ci fa intuire essere un «signore» e due accompagnatori. Corre loro incontro, si prostra e li accoglie con tutte le premure nella sua tenda. Dal momento che i tre acconsentono di fermarsi da lui, Abramo organizza – da efficiente capofamiglia – l’ospitalità. Alla moglie Sara dà ordini di cuocere il pane, all’armento corre egli stesso e prepara un vitello prelibato che offre agli ospiti con panna e latte fresco. Dopo aver mangiato, il personaggio – che rimane senza nome –, quasi come ricompensa dell’ospitalità ricevuta, fa questa promessa ad Abramo: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio». Quel figlio dovrà essere chiamato Isacco. Per questo il narratore annota che Sara, stando a origliare all’ingresso della tenda, essendo ormai oltre l’età di partorire, sorride («isaccheggia» dovremmo dire in italiano, coniando un neologismo per richiamare in questo sorriso il nome stesso di Isacco). A questo punto il narratore lascia cadere ogni indugio e dà il nome a quel signore con i suoi due accompagnatori: è il Signore stesso, Adonài, che conferma ad Abramo: «Perché Sara ha riso (‘isaccheggiato’) dicendo: ‘Potrò davvero partorire, mentre sono vecchia’? C’è qualche cosa d’impossibile per il Signore (Adonài)? ». Con questo stupendo quadro narrativo, l’autore del libro di Genesi porta a perfezione il tema della promessa del figlio e introduce, in antitesi, l’esito catastrofico della città inospitale di Sòdoma, ove due degli ospiti di Abramo scendono, dopo essersi fermati da lui. Dice il midrash: uno per distruggere Sòdoma, l’altro per proteggere Lot. Vorrei rilevare come la singolarità e la bellezza della pagina di Genesi stanno proprio nell’incontro, nella fusione di questi due motivi: l’ospitalità e la promessa di un figlio, l’accoglienza dell’altro e il dono che si riceve, come a dire che la «fecondità» (che possiamo intendere nel suo senso più vasto di vita e di pienezza di vita) è il frutto dell’ospitalità. I due motivi e il loro intrecciarsi – che peraltro sono presenti anche in non poche tradizioni extrabibliche – avranno una singolare eco nel seguito della rivelazione biblica, giungendo sino alla loro straordinaria interpretazione cristologica: con l’ospitalità il discepolo – e in un certo senso ogni uomo – accoglie Cristo stesso. (…) Per rimanere ancora nell’ambito delle Scritture vorrei qui ricordare, tra gli altri, il tragico naufragio dell’apostolo Paolo e dei suoi compagni di viaggio, che si concluse con un gesto di grande ospitalità da parte della gente di Malta. Così leggiamo negli Atti degli Apostoli : «Gli abitanti ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti attorno a un fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia e faceva freddo». Ma ecco un pericolo imprevisto e una reazione inaspettata: «Mentre Paolo raccoglieva un fascio di rami secchi e lo gettava sul fuoco, una vipera saltò fuori a causa del calore e lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli abitanti dicevano fra loro: ‘Certamente costui è un assassino perché, sebbene scampato dal mare, la dea della giustizia non lo ha lasciato vivere’. Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non patì alcun male. Quelli si aspettavano di vederlo gonfiare o cadere morto sul colpo ma, dopo avere molto atteso e vedendo che non gli succedeva nulla di straordinario, cambiarono parere e dicevano che egli era un dio». Il seguito del racconto ci parla ancora di un’ospitalità che viene ricambiata con l’inaspettato dono di un ‘miracolo’, la guarigione di persone malate. Il racconto si conclude con un rinnovato accenno all’ospitalità: «Ci colmarono di molti onori e, al momento della partenza, ci rifornirono del necessario». Nella cultura antica, il forestiero e l’ospite diventavano subito un prossimo che ha bisogni concreti: dargli una mano voleva dire muovere subito le mani in suo aiuto. Il viaggiatore giungeva sì da lontano, ma si trasformava subito in vicino: oggi questo ‘prodigio’ non avviene più. Nell’antichità l’ospite non solo era accolto, ma addirittura diveniva qualcosa di superiore al cittadino normale. In una società quasi priva di mezzi di comunicazione, egli era anche un messaggero di un altro mondo e aveva sempre qualcosa da insegnare. Certo vi erano, anche nell’antichità, dei casi in cui lo spostamento di gente numerosa poteva dar luogo a difficoltà e conflitti: pensiamo anche solo al racconto biblico dell’insediamento di coloro che sarebbero diventati i padri d’Israele nel territorio occupato dai Cananei. Ma, nel complesso, una certa quantità di nomadi era considerata normale in tutte le terre. Anche l’Italia, guardando alla storia degli ultimi anni, fino a poco tempo fa accoglieva gli stranieri più da visitatori che da immigranti. La diversità destava stupore e permetteva di imparare qualcosa di nuovo. Incontrare un cinese o un indiano risvegliava curiosità più che diffidenza. Era un atteggiamento comune tra la nostra gente, parte della nostra cultura, che non fu quasi per niente intaccato dal breve periodo di colonialismo italiano («Italiani, brava gente!») e da quello ancor più breve e meno condiviso del razzismo fascista. (…) È davvero strano che il nostro tempo tecnologico, tempo di viaggi interplanetari e di possibilità di comunicazione in un certo senso infinita, segni il primato delle spese legate all’immigrazione per una realtà inventata ancor prima della scrittura: il muro. Sì, il muro! Il muro, che nell’antichità era costruito per difesa, oggi è costruito per circoscrivere e impedire l’accesso di coloro che abitano vicino. Così negli Stati Uniti, alla fine delle guerre contro le tribù autoctone, si costruirono riserve per rinchiudervi gli indiani. Così, ancora, il nazismo cominciò la sua Endlösung, «soluzione finale» contro gli ebrei, richiudendoli tutti nei ghetti. E lo stalinista Ulbricht cancellò il mondo capitalista dietro al muro di Berlino. E il Sudafrica sigillò i confini dell’apartheid con una barriera elettrificata ad alta tensione. È interessante che, mentre nel mondo di internet, nei social network non esistono barriere che impediscono l’incontro e la relazione virtuale tra persone di etnie e culture differenti, nel mondo reale si costruiscono dei muri per impedire ai vicini di incontrarsi. Se con un clic un giovane italiano può stringere amicizia su Facebook con un coetaneo africano, dall’altra parte si impedisce a chi vuole guadagnarsi onestamente da vivere di potersi applicare al lavoro che sta oltre il confine, in quei Paesi dove a tante occupazioni quasi nessuno vuole applicarsi. Il vallo di Adriano e la Grande Muraglia cinese avevano il compito di difendere l’Impero Romano e il Celeste Impero da invasioni militari. Molti muri che sono stati costruiti di recente proteggono invece dalle povertà altrui: cercano di trasformare in fortezze quelle che sono state chiamate le «frontiere più disuguali del mondo ». Se per un breve periodo sembrano riuscire a tener lontano qualche immigrante illegale, col tempo irrigidiscono proprio quella disuguaglianza economica che è causa dell’immigrazione e presto porteranno la sproporzione al collasso. I muri creano separazioni non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Non solo nella geografia, ma anche nella storia. Ma soprattutto il muro non solo «chiude fuori» il forestiero e il meno fortunato, il muro «chiude dentro» il privilegiato e lo condanna all’asfissia. Proprio come l’avaro, che muore d’inedia per non consumare a vantaggio di tutti e anche a vantaggio proprio quei beni che possiede. Quanto è vero ciò che diceva Hans Magnus Enzensberger: «Quanto più un Paese costruisce barriere per ‘difendere i propri valori’, tanto meno valori avrà da difendere».

NON SCHIAVI MA FIGLI ED EREDI : Rm 8,14-17 (Lectio)

dal sito:

http://www.sanbiagio.org/lectio/romani7.pdf

Lectio di Sr Maria Pia Giudici 

Casa di Preghiera ‘San Biagio’ – aprile 2009

NON SCHIAVI MA FIGLI ED EREDI

Rm 8,14-17 
 
CONTESTO
Il nostro testo è talmente consolante che andrebbe scritto – ha detto un grande – a lettere d’oro!
S.Paolo focalizza qui in modo ottimale il tema della vera libertà di spirito che è poi la vera libertà del cristiano. Lo fa però dopo averci condotti per mano fino a persuaderci di una realtà esistenziale di fondo: vivere secondo la carne (sarx – le forze che ci trascinano al male) conduce alla morte, mentre seguire ciò che è spirituale conduce alla vita e alla pace (Rm 8,6).

APPROFONDIMENTO DEL TESTO
v. 14  Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio  Chi è questo Spirito? Precisiamolo bene con le stesse parole di S.Paolo: È “Colui che ridestò Gesù dai morti (8,11). È dunque Spirito di vita e di resurrezione. È Colui che ci conduce dentro un  itinerario che non una volta ma in continuazione ci conduce da morte a vita. Ed è a causa del nostro lasciarci guidare dallo Spirito che la nostra adozione a figli di Dio si fa evento concreto, evento trasfigurante le nostre giornate. Non sono solo la “creatura” e Lui il “Creatore”. Io sono “figlio” e Lui mi è “Padre”. C’è un salto di qualità enorme! v. 15a E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura  Come S.Paolo dirà poi: “Lo Spirito è testimone al nostro spirito che siamo figli adottivi”. Questa testimonianza abolisce ogni dubbio: io sono veramente riscattato da quel rapporto errato tra me e Dio che è tipico di uno schiavo ed è all’insegna della paura. No, Dio non è un padrone-giustiziere. Dio mi guarda in Cristo Gesù (di cui lo Spirito è l’Amore di Lui per il Padre e del Padre per Lui e per noi); mi guarda con tenerissimo, infinito amore. È il rapporto sbagliato che mi fa vivere da schiavo; al contrario, il rapporto instaurato in noi dallo Spirito per il Battesimo e per la Cresima è un rapporto da figli verso il padre: un rapporto estremamente libero e liberante, perché dettato dall’Amore. v. 15b Ma avete ricevuto uno Spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!».  Giustamente è stato scritto: “Questa affermazione non si può dire con indifferenza! O è l’inno di lode dell’uomo redento o è un sacrilegio blasfemo”. Certo il contenuto profondo di ciò che significa essere figli di Dio non potremo, qui e ora, conoscerlo pienamente. Ma quel poter gridare: Abbà, Padre (Papi!) ci dà di poter passare il ponte sull’abissale diversità del vecchio mondo al nuovo. Se credi, ti si svela la tua identità profonda, il tuo nobilissimo sé, la tua vocazione in Cristo a essere figlio di un Padre che è Dio. v. 16  Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio.  È la stessa persona dello Spirito Santo che in seno alla Trinità Santissima è l’amore sostanziale, è Lui: una cosa sola con Gesù che prende l’iniziativa di “attestare” e dunque persuaderci della verità del fatto: il nostro essere figli di Dio. “È una testimonianza – dice Barth – che ci trae da morte a vita, che abbraccia cielo e terra, la testimonianza in favore di Dio presso di noi e in favore nostro presso Dio”. Parla lo Spirito: la massima autorevolezza! E quel che insieme a Lui (in Lui) lo stesso nostro spirito dice, non è che risposta: la persuasione cioè del nostro cuore credente che, “nella nostra bassezza” l’Altezza ci ha incontrati, nel peccato ci ha liberati la Giustizia (=santità di Dio), nella morte ci ha raggiunti la vita, in noi stessi Gesù Cristo”. Ed è questo che già qui e ora Dio ha preparato per coloro che rispondono con amore al suo amarci per primo. v. 17a E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo.  Che cosa significa essere eredi?. Significa che Dio, proprio come Padre, ha reso attuale possibile la promessa fatta ad Abramo: Benedirò in te tutte le genti, tu stesso sarai una benedizione. Sì, siamo eredi, in Cristo Gesù e in forza del suo mistero salvifico, del mondo che è stato creato buono e anche della vita eterna. Dice bene Barth: “Se siamo con Cristo figli di Dio, siamo anche eredi con Lui, eredi di Dio”. Vivere la consapevolezza del nostro essere non solo “figli” ma anche “eredi” è quello che dà spessore alla nostra consolazione di uomini amati, generati da Dio come figli, e in Cristo Gesù redenti dal peccato.
v. 17b Com’è certo che soffriamo con Lui per essere anche glorificati con Lui. Questa nostra vita nel tempo e nello spazio porta in sé il seme dell’eternità in speranza; però qui è problematica, e non riesce a eludere il dolore. Oltre alle varie sofferenze personali, quel che va guardato in faccia è l’incompiutezza, il limite.. L’essenziale finitezza, in fondo, è il nome della nostra esistenza qui e ora. Anche le gioie (tutt’altro che da sottovalutare!) devono sottostare a questo “finire”. Ma il senso emerge qui: il credente non è mai solo nel dolore: soffre con Gesù. E il suo dolore sopportato consapevolmente nello Spirito può diventare quel salto di qualità che ti rende erede, partecipe, già qui in speranza, della gloria di Dio in cui saremo immersi nel dopo eterno. Questa rivelazio0ne di Dio nel dolore (lontana le mille miglia dal masochismo!) è grazia: opera di Dio in noi.

MEDITIAMO ATTUALIZZANDO
Ciò che nella nostra epoca colpisce è l’affievolimento della speranza. L’uomo di oggi ha tutto, almeno nel nostro Occidente opulento. Ha fin troppo in quanto a benessere materiale! Quel che però manca è la consapevolezza della dignità umana e quell’orizzonte sereno che si prospetta a quanti fraternizzano nel far emergere e rispettare questa dignità. La Parola sacra che Paolo ci ha oggi consegnato focalizza proprio la nostra dignità di donne e uomini; è una dignità di enorme valore proprio se ci riconosciamo figli di Dio nel Figlio Gesù. E quell’umor nero, quel senso di disperazione o di vuoto che si respira in tante aree della cultura contemporanea non è frutto del disattendere la nostra identità di “eredi” con Cristo e per Cristo di quello che la speranza teologale ci offre? E tale speranza è il superamento di ogni finitezza e dolore e problematicità nel consegnarci al Padre, attendendo la vita che non muore più. Non è senza significato che lo scrittore
ateo Cesare Paese, a pochi giorni dal suicidio, lascia cadere nel suo diario un grido: O Tu, abbi pietà!
 
LA PAROLA MI INTERPELLA
• Ho consapevolezza della mia identità di persona umana che, in Gesù, Dio ha elevato alla dignità di “figlio adottivo”? • Resta per me una bella asserzione (magari retorica) o m’insegna a crederla e a viverla?
• Fuori da grettezze e calcoli ma nel sereno realismo della mia fede cristiana penso a quello che vuol dire
essere di fatto “erede” con Cristo?
• Quello che io vivo (gioia ma spesso anche fatica e dolore) lo vivo da solo, arrancando triste nello sforzo di una vita corretta onesta, oppure lo vivo insieme a Gesù?
• Come coltivo speranza fiducia e serenità nel mio quotidiano?
• Ho familiarità con la preghiera del cuore?

PER LA PREGHIERA
Con umile amore chiedo al Padre e a Gesù il dono dello Spirito Santo. Prego perché la ma vita sia guidata da Lui: una vita da figlio di Dio non schiavizzata dall’attaccamento a persone e cose; una vita di libertà vera.

Our Father in heaven..

Our Father in heaven.. dans immagini sacre FriendsHeaven

http://churchstuff-moreorless.blogspot.com/2010/10/three-for-price-of-one-eucharistic.html

Publié dans:immagini sacre |on 4 mai, 2011 |Pas de commentaires »

I DIECI COMANDAMENTI

dal sito:

http://proposta.dehoniani.it/txt/vivere.html

I DIECI COMANDAMENTI

Vivere nella libertà di Dio
(Pedron Lino)

INTRODUZIONE

Finalmente un numero sempre maggiore di uomini sta prendendo coscienza che il dominio scientifico e tecnico del mondo non basta da solo a garantire un futuro umanamente degno e migliore.
Se gli uomini di domani non saranno ispirati da una concezione di vita ricca di valori individuali, comunitari e sociali, ciò che li attende è il caos.
I cristiani, insieme con gli altri e più degli altri, sono chiamati a dare il loro contributo alla preparazione dei tempi nuovi e alla risoluzione dei nuovi problemi. La comprensione giusta, calibrata e attualizzata dei dieci comandamenti darà certamente basi sicure e nuovo slancio alla costruzione di un futuro degno dell’uomo.
Il decalogo (che significa le dieci parole) non è l’unico testo per fondare tutto il sistema della morale cristiana. Esiste il grande comandamento dell’amore, esiste la cosiddetta regola d’oro che tutti conosciamo in edizione negativa (non fare agli altri quello che non vorresti che gli altri facciano a te) e che il vangelo riporta in forma positiva (« tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la legge e i profeti » Mt 7,12).
Per un costume di vita cristiano il discorso della montagna (Mt 5-7) è tanto importante quanto i dieci comandamenti. Così pure il discorso di Gesù sul giudizio universale, in cui egli si identifica con i poveri e indica nell’amore per essi il criterio di giudizio, rientra in questo contesto (Mt 25,31-46).
I dieci comandamenti costituiscono un testo importantissimo per tutta l’umanità. Nella Bibbia il testo ci viene presentato due volte – e con notevoli differenze – in Es 20,1-17 e Dt 5,1-22. È una specie di programma per aiutare il popolo di Dio a non perdere nuovamente la libertà dopo la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto e a non ricadere in nuove forme di asservimento. Il Dio liberatore chiama i liberati a collaborare alla salvaguardia della loro libertà: non basta accogliere la libertà come un dono; bisogna custodirla con vigilanza e costanza. Il decalogo è espressione della sollecitudine amorosa di Dio, il quale vuole che Israele non perda la libertà donatagli.
I dieci comandamenti costituiscono la parte fondamentale di tutta la legge: sono la base della vita degli uomini tra di loro e della vita del singolo e della comunità davanti a Dio.
Per comprendere i comandamenti nel modo giusto è necessario considerarli nel contesto di ciò che la Bibbia ci dice circa il rapporto di Dio con gli uomini e nella luce dei suoi progetti nei loro confronti. Solo dopo risulterà chiaro il contenuto dei singoli comandamenti. Vi anticipo la conclusione.
Essi hanno unicamente questo scopo: espandere, dilatare oltre ogni confine la libertà donata da Dio al singolo e alla comunità.
Dio è libero e vuole che l’uomo, fatto a sua immagine, partecipi a questa libertà: in questo l’uomo trova il proprio sviluppo e la pienezza di vita per sé e per gli altri. Quindi facciamo giustizia nei confronti di Dio: Egli non guarda con diffidenza alla libertà dell’uomo e non si preoccupa di imporre nuove catene con una fitta rete di leggi. Se così fosse, Dio non avrebbe creato l’uomo libero o lo avrebbe privato della libertà dopo i primi abusi e inconvenienti. No! Dio non guarda con sospetto la libertà dell’uomo, non teme la concorrenza dell’uomo: al contrario, come ogni padre, desidera che il figlio cresca nella libertà responsabile.
In questa prima parte consideriamo i dieci comandamenti come un complesso unitario. Nella seconda passeremo in rassegna i singoli comandamenti.
Il decalogo comincia con una frase d’importanza decisiva per la comprensione di tutto il testo: Io sono il Signore tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù (Es 20,1; Dt 5,6). Le singole direttive che seguono sono una conseguenza dell’azione liberatrice di Dio.In altre parole, Dio dice al suo popolo: Io ti ho liberato dalla schiavitù; ora ti do dieci regole per restare libero e non ricadere in schiavitù: ti do i Dieci Comandamenti, ti do le dieci leggi della libertà.
Dopo che Dio ha liberato il suo popolo, questo deve comportarsi in maniera rispondente all’azione divina e non perdere o rovinare di nuovo con la propria incoerenza la libertà donatagli da Dio.
L’uomo non è schiavo di Dio e quindi tanto meno può essere schiavo di un altro uomo o delle cose o delle leggi. Nel nostro caso diciamo subito: Dio non vuole l’uomo schiavo dei comandamenti, ma libero, innamorato e riconoscente per il dono dei comandamenti. Di fronte a queste leggi l’uomo credente deve percepire in maniera molto intensa e con profonda gratitudine la gratuità dell’azione divina e sentirsi spinto ad agire in maniera simile a Dio, a comportarsi come si comporta Dio. L’osservanza gioiosa dei dieci comandamenti non nasce da fredde riflessioni razionali, ma da impulsi molto più profondi: scaturisce dall’esperienza dell’amore di Dio per l’uomo, dal sentirsi amati infinitamente da Lui. L’osservanza diventa così frutto ed espressione di gratitudine. L’agire dell’uomo così ispirato si trova liberato dall’angoscia del dovere e dall’aridità e dalla noia di un adempimento puramente esteriore di doveri, e assume un tono di festosità e di gioia. L’uomo non si comporta più da schiavo ma da figlio perché ha compreso che l’adesione a Dio è la sorgente straripante di ogni gioia piena e duratura, che servire a Dio è regnare.
Non vogliamo che queste parole appaiano entusiasmi puerili di chi ancora non conosce la vita e le inclinazioni dell’uomo al male. L’osservanza dei comandamenti non scaturisce immediatamente. Dapprima i comandamenti non vengono accolti con entusiasmo spontaneo come se ci venisse fatto un dono che ci procura una grande gioia, soprattutto se quanto ci richiedono i comandamenti non coincide con le nostre inclinazioni e i nostri interessi immediati. L’uomo, in forza delle sue disposizioni naturali tende a contraddire le norme che gli vengono imposte e a resistere. Solo se l’uomo percepisce che i comandamenti sono un dono prezioso di Dio e ne sperimenta i risultati entusiasmanti che derivano dalla loro osservanza, esprimerà la propria gratitudine a Dio con un comportamento corrispondente, convinto e gioioso.
L’osservanza dei comandamenti è un atto di amore a Dio che ci ama. Tutto quello che non è fatto per amore non è osservanza vera, è non osservanza, è peccato. L’osservanza dei comandamenti è la nostra collaborazione con l’azione liberante di Dio: diamo una mano a Dio che ci libera, gli permettiamo, con i fatti, di liberarci dal male. Il comportamento richiestoci da Dio attraverso i comandamenti è quello della fede (in questo caso: credere che i comandamenti sono per il nostro vero bene), della relazione entusiasta, amorosa e vivace con Lui. Si tratta di cooperare consapevolmente con l’azione di Dio. I comandamenti mirano a far sì che l’uomo credente impari a camminare con Dio (Mi 6,8), a percorrere con Lui una via comune. Per questo il decalogo viene definito nel Sal 25 come la via di Dio.
Le singole prescrizioni del decalogo sono semplicemente una concretizzazione del primo comandamento. Senza la fede in Dio, senza la base della relazione viva, adorante e grata con il Dio liberatore tutti gli altri comandamenti rimangono sospesi per aria. In altre parole Dio dice: Se hai realmente capito che cosa ho fatto per te guidandoti alla libertà, non andrai più dietro ad altri dèi, né calpesterai i diritti del tuo prossimo. Il decalogo, quindi, non è una legge concepita in termini giuridici, ma una direttiva per la vita, una parola che ispira e orienta, che aiuta a risolvere i problemi dell’esistenza.
L’Antico Testamento è pervaso di tanta gioia per i comandamenti di Dio. Nel Sal 19 la legge viene cantata così: La legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima. La testimonianza del Signore è verace, rende saggio il semplice. Gli ordini del Signore sono giusti, fanno gioire il cuore; i comandi del Signore sono limpidi, danno luce agli occhi… I giudizi del Signore sono più preziosi dell’oro, di molto oro fino, più dolci del miele (Sal 19,8-11).
Il Sal 119, che è il salmo più lungo, è tutto un elogio della legge divina. Quanta differenza tra il Sal 112 che recita: Beato l’uomo che teme il Signore e trova grande gioia nei suoi comandamenti, e la reazione negativa, annoiata o stizzosa degli uomini di fronte alla legge di Dio. Forse, andando al catechismo da piccoli o a dottrina da grandi, avevamo capito tutto il contrario.
Leggere la Bibbia, conoscere l’Antico Testamento è una condizione indispensabile per la piena comprensione dei comandamenti. I cinque libri attribuiti a Mosè, il Pentateuco, non si occupano delle azioni eroiche degli antenati, ma ci mettono sotto gli occhi l’apprendimento spesso faticoso del modo di comportarsi con Dio, illustrato con l’aiuto dei singoli personaggi. Da essi è stato possibile imparare che cosa sia la fede, quella concreta, quella vissuta nella vita.
C’è una bella differenza tra una presentazione intellettualistica dei comandamenti e un influsso che prende e mette in moto le forze spirituali più profonde dell’uomo. Quello che interessa e soddisfa sommamente l’intelletto può spesso addirittura paralizzare e uccidere le energie spirituali che dovrebbero mettere in moto la volontà. L’uomo, data la sua naturale pigrizia e pusillanimità, ha bisogno di forti motivazioni per attuare effettivamente quello che riconosce come bene. La pedagogia morale deve ricorrere in larga misura a elementi narrativi e anche estetici per esaltare la bellezza del bene con racconti illuminanti e pieni di fascino: gli esempi trascinano.
Il fine del decalogo, lo scopo che Dio si propone dando i dieci comandamenti agli uomini è uno solo: la libertà; vuole che gli uomini siano liberi.
Dice il Concilio Vaticano II: Mai come oggi gli uomini hanno avuto un senso così acuto della libertà e intanto sorgono nuove forme di schiavitù sociale e psichica (GS 4).
Che cos’è la libertà? Ce lo chiediamo perché esiste una concezione deleteria della libertà, che in ultima analisi produce l’opposto di quello che persegue e propaganda. E nel mondo d’oggi va diffondendosi una libertà distruttiva e irresponsabile, capace di scuotere le fondamenta della società umana.
Dio è libero e vuole che l’uomo, sua immagine, partecipi alla sua libertà. L’uomo, immagine di Dio, deve poter vivere nella libertà di Dio. Il Dio della Bibbia non vuole che la libertà sia coartata da altri uomini o dalle forze del male e del peccato: l’uomo per essere uomo deve essere libero. Il decalogo si riferisce a quelle forme sbagliate di comportamento che mettono a repentaglio la libertà dell’uomo: le smaschera e le combatte.
Molti continuano a pensare, sbagliando, che la libertà dell’uno ostacoli e impedisca la libertà dell’altro. Invece bisogna affermare con forza che la libertà intesa nel senso della Bibbia, si realizza solo nella comunicazione: nella comunicazione dell’uomo con Dio e nella comunicazione degli uomini tra di loro.
La libertà di Dio non è libertà di scelta tra il bene e il male (Dio non è tentato dal male) bensì libertà in ordine a un amore infinito. Dio è colui che è libero nel suo amore e ama nella sua libertà. Gli uomini devono partecipare a questa libertà divina che non è arbitrio: la libertà donata loro da Dio è la libertà di amare, la libertà di cooperare a ciò che Dio ha cominciato e sta portando a termine con la sua azione liberatrice. La libertà divina e quella umana non sono rivali tra loro: al contrario la libertà di Dio è condizione fondamentale della libertà dell’uomo che si sperimenta come libertà donata e dovuta ad altri. Scegliere la libertà come fondamento supremo della realtà significa credere in Dio. Il vero credente è rispettosissimo della libertà altrui e gelosissimo della sua. Nelle società atee la libertà degli uomini viene sempre gravemente lesa, nonostante tutte le assicurazioni in contrario.
Caratteristica della sovranità di Dio è che essa non opprime gli uomini, ma li rende liberi. Coloro che accolgono il regno di Dio cominciano a vivere in maniera nuova, cioè senza angoscia, pieni di fiducia e di consolazione, sani e salvi: in una parola, liberi.
La libertà così intesa non si attua solo nella comunicazione con Dio, ma anche nella comunicazione degli uomini tra loro. Libertà significa sovranità di fronte a tutte le ossessioni che incatenano la volontà, di fronte all’ossessione dell’attività, della mancanza di riguardo, dell’incapsulamento nel proprio io. L’uomo può fare l’esperienza beatificante di una simile libertà solo nella comunione, nella unione con Dio e con gli altri, e quando ha fatto questa esperienza si sente spinto a comunicarla agli altri con convinzione e con insistenza; e l’altro, gli altri, non sono un limite, come l’individualismo occidentale ha sempre pensato, ma la condizione della mia libertà. Dobbiamo combattere una concezione sbagliata, secondo la quale la libertà e l’autonomia sarebbero inconciliabili con l’amore del prossimo o addirittura con l’obbedienza. Bisogna anzi affermare il contrario: noi amiamo tanto quanto siamo liberi; noi obbediamo (nel senso vero del termine) tanto quanto siamo liberi. L’altruista è l’uomo libero da tutti i condizionamenti e per questo può amare con tutto se stesso. L’egoista, al contrario, è schiavo di sé e imprigionato dalle sue cose, e di conseguenza incapace di amare.
Voi capite allora che la trasgressione dei comandamenti è peccato perché il peccato è allontanamento dallo spirito liberatore di Dio e quindi una caduta nella mancanza di libertà. Secondo l’insegnamento della Bibbia il regno del peccato è un regno di crescente mancanza di libertà. L’abuso di libertà non rende più liberi, ma lede la libertà e l’uomo che ne abusa.
Quindi una libertà mal intesa esalta l’egoismo e il libertinaggio, non rende liberi ma aumenta piuttosto la solitudine e la mancanza di relazioni degli uomini tra loro e con Dio. Se i cristiani parlano di colpa e di peccato non lo fanno per limitare o impedire la libertà propria e altrui, ma per aiutare a scoprirla e a salvaguardarla. La libertà donata e resa possibile da Dio è sempre in pericolo; il Dio della Bibbia si rivela come un Dio costantemente intento a restaurare e ad ampliare tale libertà.
L’uomo si condanna da solo alla perdizione quando rifiuta Dio. Non è propriamente Dio a punire, ma è l’uomo a punire se stesso quando volta le spalle a Dio.
La conversione, il girarsi nuovamente verso Dio, è un atto che ci riporta alla libertà.
Il testo del decalogo comincia sempre con il ricordo dell’azione liberante e redentrice compiuta da Dio in occasione dell’uscita dall’Egitto: Io sono il Signore, Dio tuo, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù (Es 20,2; Dt 5,6). Solo unitamente alla liberazione dell’Esodo il decalogo acquista il suo vero senso e solo in questo contesto si capisce che i comandamenti non sono propriamente delle leggi o dei comandi di un Dio autoritario e tirannico, bensì istruzioni di vita. Se si lascia da parte il preambolo, si priva letteralmente il decalogo del suo significato più alto e del suo fondamento. Purtroppo, questo preambolo, così decisivo per la comprensione di tutto il decalogo venne trascurato per secoli, cosa che diede origine a una morale legalistica, che sottolineava esclusivamente le esigenze imposte da Dio agli uomini. Era quindi inevitabile che uomini sempre più numerosi prendessero sempre più le distanze da una simile morale legalistica. Occorre dunque restituire al decalogo il peso e il senso che gli attribuisce la parola di Dio: è una legge d’amore, è una legge di liberazione e di libertà.
Il decalogo è un invito a rendere operante la libertà donata da Dio. Egli ha sollevato Israele dal fango; ora i liberati devono impegnarsi a cooperare con Dio e a trarre, in suo onore, anche altri fuori da questa condizione.
Il tema principale di tutti e dieci i comandamenti può essere definito così: essi invitano i credenti a cooperare con l’azione liberatrice che Dio ha cominciato, affinché tutti gli uomini, immagine di Dio, vedano riconosciuti i loro diritti e possano vivere liberi. I dieci comandamenti indicano i punti più importanti, in cui la libertà donata da Dio risulta particolarmente vulnerabile. I credenti, dunque, non devono solo rispettare il diritto, la libertà e lo sviluppo degli altri, ma ricercarli attivamente. Il Decalogo, quale documento della libertà donata e resa possibile da Dio, invita a cooperare con la storia della liberazione che Dio ha messo in moto in questo nostro mondo con l’esodo d’Israele dall’Egitto e con l’esodo di Gesù dalla potenza della morte e del peccato attraverso la sua morte e la sua risurrezione.
I dieci comandamenti sono altrettante direttive preziose e liberanti. Sono istruzioni per un giusto comportamento con il mondo, con se stessi, con il prossimo e con Dio.
Il decalogo è il libretto di istruzione per l’uso relativo al comportamento in questo mondo. Bisogna leggerlo e attenersi a quanto dice se non vogliamo rovinare o distruggere noi stessi, gli altri e l’ambiente in cui viviamo.
Prima di prendere in considerazione i singoli comandamenti, facciamo (per la terza volta!) una forte sottolineatura al preambolo dei comandamenti. Ambedue le redazioni bibliche del decalogo cominciano ricordando che il Signore è il Dio salvatore del suo popolo: Io sono il Signore tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù (Es 20,2; Dt 5,6). Solo nel contesto del ricordo della salvezza, della liberazione dall’Egitto, i singoli comandamenti acquistano il loro vero senso di direttive per la vita. Essi servono a illustrare in maniera esemplare una precisa verità: gli uomini che si sono lasciati salvare dal Signore, sono chiamati a non perdere di nuovo il dono della libertà, ma a incrementarlo per diventare sempre più liberi come il loro Dio.
Nella misura in cui gli uomini osservano i comandamenti di Dio essi diventano immagine di Dio.  

Tertulliano: « Sia santificato il tuo nome »

dal sito:

http://proposta.dehoniani.it/txt/ilpadren.html#

SIA SANTIFICATO IL TUO NOME

PADRE NOSTRO CHE SEI NEI CIELI

Tertulliano, uno dei primi padri della chiesa, ha scritto: « La preghiera insegnataci dal Signore, il ‘Padre nostro’, è la sintesi di tutto il vangelo ». Questa preghiera ci mette nel cuore e sulle labbra gli interessi di Dio e le suppliche dell’uomo peccatore. Essa può essere recitata a una condizione: che colui che la recita osi parlare a Dio come un figlio parla al suo papà. La prima libertà di un figlio di Dio è quella di poter chiamare Dio, Padre.
Molti arrivano a credere che c’è qualcuno sopra di noi. A costoro e a tutti noi annunciamo la verità che spiega l’esistenza dell’universo e dell’uomo: Dio è nostro padre, padre di tutti e noi tutti siamo fratelli.
Questa verità apre orizzonti nuovi e prospettive infinite al singolo e alla grande famiglia umana.
Ma qual è la natura di tale paternità divina?
È proprio il caso di chiedercelo perché anche nella maggioranza delle religioni pagane gli dèi erano designati col nome di padri: ricordiamo soprattutto Zeus « padre degli dèi e degli uomini ».
Anche nell’AT Iahvè è innanzitutto il padre del popolo d’Israele (Es 4,22), che di conseguenza è detto figlio di Dio. L’idea che Dio è anche il padre del singolo israelita si trova già nel libro del Siracide (23,1.4; 51,10). Nel libro della Sapienza solo il giusto ha Dio come padre e perciò è chiamato figlio di Dio (Sap 2,13.18) e dà a Dio il titolo di « Padre » (Sap 14,3).
Dal primo secolo dopo Cristo la designazione di Dio come « Padre del cielo » diventa usuale anche tra i rabbini: con tale espressione non pretendevano spiegare la trascendenza di Dio, ma solo evitare ogni confusione con un padre terreno, umano.
Chiediamoci: è in questo senso che Gesù ci ha comandato di chiamare Dio come Padre nostro? O ci ha insegnato e dato qualcosa di nuovo e di unico rispetto agli dèi dell’Iliade di Omero o rispetto alla paternità riconosciuta a Iahvè nell’AT? Gesù presentandoci Dio come Padre suo e Padre nostro ci rivela una realtà infinitamente superiore a quanto si poteva supporre o conoscere fino ad allora.
Per comprendere meglio leggiamo il vangelo secondo Giovanni: « Il Verbo (il Figlio di Dio) venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto. A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali… da Dio sono stati generati » (Gv 1,11-13). Diventare figli di Dio… Ma non lo eravamo già anche prima? Certamente Dio è padre di tutti perché è il creatore, il principio della vita di tutti. Leggiamo nella prima Lettera ai Corinti: « C’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui » (1Cor 8,6). E nella Lettera agli Efesini sta scritto: « Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti » (Ef 4,6).
Che cosa significa dunque: « A quanti l’hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali… da Dio sono stati generati »?
Certamente qui il vangelo vuole esprimere una realtà nuova rispetto alla paternità universale di Dio in quanto creatore. Qui non si parla di una paternità antecedente ad ogni nostra scelta, come il fatto di essere creati da Dio e generati dal padre e dalla madre: una paternità che non possiamo né accettare né rifiutare perché decidono gli altri per noi. Qui si dice che Dio ha dato all’uomo un potere paradossale: quello di accettare o di rifiutare di essere generato di nuovo da acqua e da Spirito (Gv 3,5) per entrare nel regno di Dio, per vivere la vita nuova, la vita di Dio. Il vangelo secondo Giovanni ci ha insegnato che diventano figli di Dio quelli che accolgono Cristo, credono in lui e rinascono per mezzo del battesimo. San Paolo ci insegna la stessa cosa nella Lettera ai Galati: « Tutti voi siete figli di Dio per la fede in Gesù Cristo, perché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo » (Gal 3,26-27). E nella stessa Lettera scrive: « Dio mandò il suo Figlio… perché ricevessimo l’adozione a figli » (Gal 4,5). Siamo conseguenti: prima che Dio mandasse suo Figlio non c’era la possibilità di essere figli di Dio nel senso pieno di cui si parla qui.
Quindi questa nuova nascita avviene per volere di Dio e per libera accettazione da parte nostra. Questa nostra libera adesione si attua attraverso la fede, che è l’accoglienza del Figlio di Dio, e il battesimo.
Quindi l’ingresso, come veri figli, nella famiglia di Dio dipende da questa adesione che si attua per mezzo della fede e del battesimo di acqua per coloro che conoscono Gesù; e per gli altri dalla risposta della loro coscienza illuminata dalla grazia dello Spirito: dal battesimo di desiderio. San Giovanni esclama: « Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! » (1Gv 3,1).
A rigor di termini, solo i battezzati possono rivolgersi a Dio chiamandolo Padre nel senso pieno del termine, solo coloro che attraverso la nuova nascita dallo Spirito, da semplici figli dell’uomo sono diventati figli di Dio. San Gregorio Nisseno del IV secolo scriveva: « Se tu ti attacchi al denaro, se ti lasci sedurre dal fascino del mondo, se vai dietro ai desideri della carne… immagino che Dio ti risponda in questi termini: ‘La tua vita è sudicia e tu chiami Padre colui che è il Padre incorruttibile e santo?… Io non vedo in te l’immagine della mia natura: tu sei agli antipodi; quale unione può esistere tra la luce e le tenebre, quale parentela tra la vita e la morte?… È pericoloso, prima di aver emendato la propria vita, chiamare Dio: Padre’ ».
Dicendo questo non intendiamo impedire a nessuno di chiamare Dio « Padre » nell’ora della sofferenza, del rimorso o della speranza. È proprio e solo del Padre onnipotente amarci teneramente tutti, qualunque sia l’abisso in cui siamo caduti. È scritto infatti: « Dio nostro Padre ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza » (2Ts 2,16). Ma non dimentichiamo che Cristo ha insegnato il « Padre nostro » a dei discepoli che volevano entrare sinceramente in comunione con il Dio vivente e ai quali aveva proposto di essere perfetti come il Padre che è nei cieli. Abbiamo detto, poco fa, che dipende anche da noi diventare figli di Dio. Ora aggiungiamo che, dopo esserlo diventati, tocca ancora a noi rimanere figli veri e coerenti.
Come? Imitando il Padre con la vita. Nel vangelo Gesù invita a perdonare come perdona il Padre, ad aver misericordia e ad amare i nemici come fa il Padre. Ma per arrivare a questi comportamenti pratici bisogna che viviamo da figli convinti, obbedienti e rispettosi: dobbiamo diventare come bambini, dobbiamo diventare piccoli. Nel vangelo è scritto che il Padre ha rivelato i misteri del regno di Dio ai piccoli (Lc 10,21) e che chi vuole entrare nel regno di Dio deve diventare come un bambino (Lc 18,17).
Ma chi sono coloro che diventano come bambini? Che cosa bisogna fare per diventare piccoli?
Leggiamo il vangelo secondo Matteo: « In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: ‘Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?’. Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: ‘In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini non entrerete nel regno dei cieli’ » (Mt 18,1-4).
Gesù non canonizza il bambino; non si fa illusione sui suoi difetti. Egli parla di una certa maniera di esistere che ha alla base due atteggiamenti tutt’altro che puerili: la vera umiltà e la semplicità della fede.
Diventare bambini, diventare veramente umili, diventare poveri in spirito (Mt 5,3) significa dipendere totalmente da Dio. L’uomo che vive nell’umiltà e nella verità sa che dipende da Dio in tutto ciò che è e in tutto ciò che fa. L’uomo non sarà mai « vero » fino a quando non si metterà all’ultimo posto, come servo di tutti e padrone di nessuno. Nel vangelo Gesù condanna la nostra presunzione e abbatte senza pietà la nostra falsa grandezza. Leggiamo: « Sorse una discussione tra loro, chi di essi fosse il più grande. Allora Gesù, conoscendo il pensiero del loro cuore, prese un fanciullo, se lo mise vicino e disse: ‘Chi accoglie questo fanciullo nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Perché chi è il più piccolo tra tutti voi, questi è grande’ » (Lc 9,46-48).
Se accettiamo la condizione di figli, di bambini piccoli quali realmente siamo, Dio rivelerà alla nostra umiltà la grandezza del suo amore di Padre.
Diciamo qualcosa anche sulla semplicità della fede. Gesù nel vangelo esalta i piccoli che credono in lui (Mt 18,6). Vi è una qualità della fede che è propria dell’infanzia; quella fede che, pur passando attraverso le vicissitudini della vita, ha saputo mantenere la semplicità originale. La fede va all’essenziale: scopre come prima realtà la paternità di Dio-Amore. Essa ha l’istinto di questa realtà primaria come il bimbo che si abbandona fiducioso sul seno materno, fonte di vita, di protezione sicura e di riposo beatificante. La fede semplice è l’istinto divino di un figlio verso il suo papà, Dio. A noi adulti capita di smarrirci nelle nostre complicazioni e di perdere ogni curiosità nei confronti di Dio, mentre il bambino assedia continuamente il padre di domande e dimostra una grande avidità di conoscere. Quando Dio non suscita in noi interesse alcuno, quando orientiamo stancamente verso di lui la nostra preghiera e la nostra vita, è segno evidente che siamo vecchi. Quando invece abbiamo fame e sete di Dio, interesse vivo e avidità di conoscerlo, allora siamo veramente come i bambini di cui parla Gesù nel vangelo.
Noi uomini dell’era moderna sentiamo maggiormente le esigenze della fraternità umana a tutti i livelli. Ma come facciamo a considerare gli altri come nostri fratelli se prima non crediamo seriamente che abbiamo un padre comune, colui che giustamente invochiamo Padre nostro?
Dopo le parole « Padre nostro » diciamo « che sei nei cieli ». Queste ultime parole sono di un’importanza capitale. Senza di esse è impossibile comprendere in quale maniera e con quale orientamento di pensiero e di azione noi possiamo santificare il nome del nostro Padre, promuovere il suo regno e fare che nel mondo si compia la sua volontà. In un primo momento, questa espressione « che sei nei cieli » può dare un senso di delusione. Sembra che Cristo, dopo aver avvicinato Dio agli uomini, lo allontani di nuovo e immediatamente, e lo collochi fuori dal nostro mondo. Evidentemente dobbiamo comprendere nel modo giusto questa espressione.
La Bibbia usa i termini cielo e cieli in due accezioni diverse. La prima per indicare la realtà fisica del cielo; e insegna che il cielo, come la terra, appartiene a Dio che l’ha creato. Tuttavia, in questa realtà del cielo, la Bibbia riconosce pure un simbolo e da qui ne deriva la seconda accezione. Quello che noi vediamo alzando gli occhi, quello che scopriamo nell’immensità dei cieli creati, può evocare qualcosa dell’insondabile mistero e dell’infinito di un altro cielo: quello che noi chiamiamo dimora di Dio.
Quando noi diciamo « Padre nostro che sei nei cieli » designamo questa dimora. Per raggiungerla, Gesù, quando giunse la sua ora, dovette lasciarci, andandosene realmente (Gv 16,19-20), ma non ad abitare le profondità del nostro cielo fisico, al di là delle nebulose. La sua scomparsa dalla nostra vista significa che egli è passato da questo mondo al Padre (Gv 13,1), vale a dire che ha trasportato la sua umanità nell’amore, nella potenza e nella gloria di Dio; perché quest’altro mondo invisibile è appunto la pienezza di Dio, il possesso pieno e definitivo di Dio.
Se il Padre nostro ci ha fatto realmente suoi figli, noi apparteniamo a lui e al suo mondo fin d’ora, ed è sulla base dei valori di quel mondo che dobbiamo valutare i beni del mondo presente. Questa presenza del cielo di Dio avvolge tutta la nostra terra, la compenetra e la anima con la sua energia spirituale. Noi non la vediamo perché i nostri occhi non hanno ancora l’acutezza necessaria. Ma essa c’è, e alcuni la scoprono e ne restano illuminati. Per capirci potremmo fare un paragone con l’atmosfera che ci avvolge. In tutte le ore del giorno e della notte siamo immersi in un mondo di suoni. Miliardi di persone prima di noi hanno ignorato l’esistenza di queste onde. Cosi, fatte le dovute precisazioni, sono i non credenti nei confronti del mondo della fede. Per usare un altro paragone terra terra: i credenti hanno il transistor della fede sintonizzato sulle onde della trasmittente di Dio; gli altri non ce l’hanno e si meravigliano che i credenti possano captare realtà così misteriose: sono simili ai primitivi quando vengono introdotti nel mondo dell’elettronica o ai ciechi che non possono vedere la luce.
Questo mondo dell’amore e della gloria di Dio esiste; i credenti ne fanno esperienza e, a poco a poco, entrano più profondamente in esso e diventa loro familiare: diventa un valore grande, una realtà che convince, diventa l’unica realtà che conta e dà senso alla vita. Il credente fin d’ora fa una grande scoperta che gli altri faranno forse al termine della loro vita o al momento stesso della morte. E la scoperta è questa: la terra e il cielo nei quali abitiamo, con tutto quanto contengono, non hanno alcun senso e alcun valore se non come preludio al cielo di Dio, al cielo dell’amore e della vita eterna. Le realtà presenti hanno significato vero e definitivo se sono percepite e vissute nella fede, immerse nel mondo di Dio, nella realtà divina del Padre nostro che è nei cieli.
In altre parole dobbiamo vivere fin d’ora come veri figli di Dio e cittadini del cielo. L’apostolo Paolo ci esorta: « Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra » (Col 3,1-2).
Il giusto che vive di fede (Rm 1,17) valuta gli avvenimenti e le cose della vita presente secondo i criteri di Dio espressi nel vangelo di Cristo. I santi, prima di prendere delle decisioni, prima di fare qualcosa si chiedevano: « Quid hoc ad aeternitatem? », « A che cosa serve per l’eternità? Questa cosa serve per l’eternità? ». E, in base alla risposta ponderata della loro coscienza, agivano nell’unico modo intelligente: secondo la fede, secondo le valutazioni di Dio. In parole semplici: i santi facevano solo cose eterne, arricchivano davanti a Dio, come ha insegnato Gesù nel vangelo: « Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore » (Mt 6,19-21).
E per fare questo non occorre sfuggire al proprio stato di vita e alle proprie responsabilità di sposi, di genitori, ai propri impegni terreni, qualunque sia il campo di attività in cui si svolge la nostra vita, perché non si può diventare santi senza compromettersi con gli altri e per gli altri, come ha fatto Cristo e come farebbe Cristo al nostro posto.
Ma è proprio perché vogliamo impegnarci nell’unico modo giusto per il bene di questo mondo che la conversione al Padre che è nei cieli si impone con maggior forza e urgenza. Gesù Cristo non sarà amato, servito e annunciato sulla terra se non quando la terra sarà evangelizzata da veri cristiani, da cristiani che si riconoscono, nel più profondo della coscienza, autentici cittadini del cielo. Nella Lettera agli Ebrei leggiamo che i nostri antenati (Abele, Enoch, Noè, Abramo e Sara) vissero da stranieri e da pellegrini sopra la terra, aspirando ad una patria migliore, alla patria del cielo, alla città che Dio aveva preparato per loro (Eb 11,13-16).
Per essere testimoni credibili del mondo misterioso di Dio, del regno dei cieli, occorre che coloro che ci incontrano e vedono il nostro modo di vivere percepiscano con chiarezza che noi abbiamo trovato il tesoro nascosto e la perla di grande valore (Mt 13,44-46): il mondo dell’amore e della vita di Dio. Bisogna che essi vedano che noi usiamo del mondo presente come se in realtà non ne usassimo (1Cor 7,29-31). Che ci comportiamo da amministratori e non da proprietari dei beni di Dio: da amministratori distaccati da tutti i beni, compresa la vita che Dio ci ha dato, pronti a lasciare tutto e a considerare tutto come perdita e spazzatura a motivo di Cristo. Lo scrive l’apostolo Paolo: « Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo » (Fil 3,7-8).
Ma come è possibile questo? Come si può vivere da veri figli e da vere figlie di Dio nel mondo d’oggi?
Il vangelo ci risponde: « Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile a Dio » (Mc 10,27). Dobbiamo mantenere salda sino alla fine la fiducia che abbiamo avuta da principio (Eb 3,14): dobbiamo aver fiducia in Dio. All’origine di ogni amore si trova sempre questa scelta, senza calcoli e senza timore, con cui l’essere che ama si mette nelle mani dell’altro, si consegna all’altro per sempre. In ogni vero amore c’è sempre una grande speranza: quella di vedere realizzarsi, per mezzo di questo amore, le promesse della vita, i desideri e le attese.
Dobbiamo riscoprire, tra le tante, la grande devozione al Padre che è nei cieli: devozione fatta di atteggiamento interiore di fiducia e di speranza, come leggiamo nella prima Lettera di Giovanni: « Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui. Per questo l’amore ha raggiunto in noi la perfezione, perché abbiamo fiducia nel giorno del giudizio; perché come è lui, così saremo anche noi, in questo mondo. Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore » (1Gv 4,16-18).
A chi mi chiede: « Che cosa hai fatto finora nella vita e che cosa pensi di fare in futuro? » vorrei poter rispondere con tutta sincerità: « Io ho creduto in Dio mio Padre, mi sono fidato completamente di lui e non ho avuto paura di lui; per il futuro desidero che questa fiducia nell’amore che il Padre ha per me diventi sempre più vera e definitiva ».
Prendiamoci la libertà e l’ardimento di chiamare Dio « Padre » ed egli realizzerà in noi questa familiarità con il suo mondo. Il Padre è in me e mi dà il gusto delle cose di Dio e la capacità di credere che io sono amato da lui e che il mio avvenire sarà un’eternità d’amore beato in lui.
Perché questo non resti un bel sogno, ma diventi la realtà più reale, dobbiamo accogliere l’invito di Gesù a ridiventare come bambini nell’umiltà e nella semplicità della fede. Perché solo l’umiltà e la fede semplice ci consentono di chiamare, in tutta verità, Dio « Padre nostro che sei nei cieli ». 

Shabbat Shalom (preghiera, se la trovo in italiano la metto)

Shabbat Shalom (preghiera, se la trovo in italiano la metto) dans immagini sacre Shabbat+Shalom

http://the2spies.blogspot.com/2010/12/day-13-shabbat-shalom.html

Publié dans:immagini sacre |on 3 mai, 2011 |Pas de commentaires »

Un simbolo biblico dello Spirito Santo: Ruach: vento e respiro

dal sito:

http://www.spiritosanto.org/mensile/312/page1.htm

Un simbolo biblico dello Spirito Santo:

il vento

Padre Ubaldo Terrinoni, OFM Capp.

Ruach: vento e respiro

 È paradossale ma vera l’affermazione del teologo protestante Karl Barth nel suo commento all’epistola ai Romani: «Dello Spirito Santo è impossibile parlarne, impossibile tacere». La terza persona della santissima Trinità non è un fantasma inafferabile, non è una realtà evanescente, né una forza misteriosa, indecifrabile. Tutt’altro! È una persona divina, presente e molto dinamica nella storia della salvezza; svolge la specifica missione di santificare, consigliare, consolare, sostenere e guidare il cammino spirituale di ogni uomo. È Dio eterno, infinito, onnipotente, della stessa sostanza del Padre e del Figlio.
 Nel messaggio biblico viene presentato come l’esegeta del Cristo («Il Consolatore vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» Gv 14,26) che non dice nulla di sé, non spiega e non rivela se stesso («Non parlerà di sé» Gv 16,13) e non propone una sua dottrina («Prenderà del mio e ve lo annunzierà» Gv 16,14). Lo Spirito agisce, rimanendo nell’ombra, nel nascondimento, si dedica a radicali trasformazioni di storie di cuori, senza rendersi mai visibile, compie un’azione misteriosa, incessante e sempre nuova in ogni uomo, senza farsi notare. Ed è precisamente questo suo agire discreto nell’intimo dell’uomo che determina in noi il vivo desiderio di sapere di più di lui, di conoscerlo, di precisarne qualche personale dinamismo! Ovviamente la via migliore da percorrere in questa affascinante ricerca è di partire dai simboli biblici che descrivono la multiforme azione dello Spirito per poter risalire così alla sua persona.
 Sovente la Rivelazione designa la Terza Persona della Trinità con il simbolo del vento che in ebraico suona ruach. È un termine che nel contesto biblico ha un ampio diagramma semantico col significato di vento, alito, soffio, spirito, vapore, fumo, respiro, esalazione, ecc. Nel significato originario indica l’effetto del movimento dell’aria prodotto dall’azione del respiro o dal soffio forte oppure lieve del vento. Non si dimentichi che la primitiva mentalità semitica non conosceva l’aria al di fuori di questo movimento e quindi ciò che suscitava interesse non era tanto il moto in sé quanto il segreto dinamismo dell’energia (respiro o vento) che lo causava e lo manifestava.
 Però, anche se il campo semantico di ruach è molto esteso, può tuttavia essere ricondotto a due termini fondamentali, cioè al binomio vento-respiro. Un numero elevato di testi biblici si riferisce a ruach-vento descritto come una realtà misteriosa, che non ha autonomia in sé, ma dipende esclusivamente dal volere di Dio, il quale ne è l’origine e la fonte e ne dispone liberamente: «Egli fa salire le nubi dall’estremità della terra, produce le folgori per la pioggia e dalle sue riserve libera il vento (ruach)» (Ger 10,13). Il salmista esprime incanto e stupore per il grandioso scenario della creazione e celebra la maestà di Dio che «Cammina sulle ali del vento (ruach) e fa dei venti i suoi messaggeri» (Sal 104,4). Il profeta Amos eleva un canto alla trascendenza di Dio Creatore: «Ecco colui che forma i monti e crea i venti e cammina sulle alture della terra, Signore Dio degli eserciti è il suo nome» (Am 4,13); gli fa eco il profeta Isaia quando magnifica la grandezza di Dio: «Secca l’erba, il fiore appassisce quando il vento del Signore soffia su di essi» (Is 40,7).
 Non meno numerosi sono i testi che si riferiscono a ruach come respiro per indicare l’energia vitale dell’uomo e di ogni altro vivente. La religiosità sapienziale biblica riconosce la totale dipendenza della creatura dal Creatore soprattutto nella dinamica del respiro. È proprio ciò che ricorda il personaggio Eliu, con drammatica tensione, al martoriato Giobbe: «Se egli richiamasse il suo spirito e a sé ritraesse il suo soffio, ogni carne morirebbe all’istante e l’uomo ritornerebbe in polvere» (Gb 34,14-15). In qualunque momento Dio può sottrarre all’uomo il respiro e immediatamente si bloccherebbe il ciclo vita-morte: «Se togli il respiro muoiono e ritornano nella polvere, mandi il tuo spirito e sono creati» (Sal 104,29-30). La complessa vitalità dell’uomo ha poi un’ampia parabola di sensibilità umane che vanno dalle emozioni forti, incontenibili a quelle più lievi e quasi trascurabili. L’energia vitale si manifesta nel furore (Gdc 8,3), nel coraggio (Nm 14,24), nella gioia (Lv 9,24), nel pianto (Sal 142,2-4), nella tensione (Qo 7,8) nella depressione (1Sam 16,14-16.23) e nell’annullamento dello slancio vitale (1Sam 1,15).

Il vento, simbolo dello Spirito
 In alcuni testi del Nuovo Testamento, gli autori ispirati fanno riferimento al fenomeno tanto comune del vento per rendere più accessibili la misteriosa azione dello Spirito Santo nella vita del cristiano. Nella narrazione che Luca fa della Pentecoste descrive la presenza dello Spirito nel Cenacolo di Gerusalemme come un «Vento che si abbatte gagliardo» (At 2,2). Ma già Gesù, nel dialogo notturno con Nicodemo, un capo dei giudei, si era riferito al vento per annunciargli una nuova nascita dall’Alto: «Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,7-8).
 Quel maestro in Israele, Nicodemo, non deve ritenere impossibile ciò che umanamente non è spiegabile. Una nuova nascita per intervento dello Spirito non è impossibile. Al contrario, è possibile e reale, pur restando tanto misteriosa. Del resto si pensi al vento…! Secondo una antichissima convinzione molto diffusa nella cultura semitica, il vento era ritenuto come una realtà piena di mistero, una realtà inafferrabile, imprevedibile, invisibile, ma se ne avverte il passaggio e sono riscontrabili a occhio nudo i suoi effetti: il vento spira, sibila, agita le foglie, rispande il profumo nell’aria, spazza via le nubi e rende azzurro il cielo, piega i rami e sradica gli alberi. Ebbene, come il vento esiste e lo si avverte negli effetti, anche se è inspiegabile, così è dello Spirito: esiste e opera, benché resti misteriosa la sua esistenza e la sua attività. Il vento che soffia dall’Alto, dal Cielo, da Dio, non lo si vede, ma si fa sentire; non ha un volto da offrire alla visione ma fa avvertire la sua presenza: è una forza che afferra tutta la persona, è un fuoco che riscalda e illumina « dentro », è un impulso irresistibile che parte dal più profondo e investe vita, lavoro, aspirazioni e progetti. La sua azione segreta e discreta si manifesta nelle ispirazioni, nelle illuminazioni improvvise, negli eroismi di carità, nella forza di svincolarci dalla stretta delle numerose schiavitù del male, della paura, del conformismo e ci fa risultare persone nuove, coraggiose, ricche di slanci e di creatività. L’esperienza conferma largamente che il vento soffia qua e là, dove più forte e dove meno, dove a lungo e dove brevemente. Spazia per l’universo, sui monti e sui mari, senza che gli si possano imporre degli argini, dei limiti invalicabili e senza che sia possibile catturarlo e imbavagliarlo. Ma ciò è molto più vero dell’altro « Vento » che spira dall’Alto: agisce con sovrana libertà dove vuole, come e quando vuole; il suo arrivo, la sua intima azione e l’incidenza della sua opera restano nascoste all’uomo. Però la certezza assoluta di fede è che egli diventa il nuovo principio vitale dell’uomo, agisce intimamente in lui per modellarlo a immagine di Cristo «Uomo perfetto» (GS, 22). E persegue così la storia della salvezza, ma alla storia dell’antica alleanza costituita da eventi esterni, ne fa seguito un’altra, quella della nuova alleanza, fatta di eventi interiori di cui lo Spirito è protagonista.

Il vento: soffio di vita
 «Respirare, per l’uomo, è una necessità e un mistero. In questa funzione, l’uomo scorge il segreto della vita. Il Signore, che si rivela come il « Dio vivente », appare dotato di un soffio, di un’energia creatrice e restauratrice in cui l’essere umano scopre l’inesauribile sorgente della propria esistenza. Il Signore con un soffio immette la vita» (M. Cocagnac, I simboli biblici, pp. 145-146). Ed è un soffio il gesto che compie Gesù risorto sugli undici nel Cenacolo di Gerusalemme per trasmettere lo Spirito: «Soffiò su di loro e disse: ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,22). Gesù ripete lo stesso gesto che Dio aveva compiuto nell’Eden quando, dopo aver modellato il corpo dell’uomo dalla polvere della terra, «Soffiò nelle narici un soffio vitale» (Gn 2,7). L’evangelista Giovanni si serve dello stesso verbo greco di cui si è servito l’autore del libro della Sapienza nel riferire la creazione di Adamo: «Gli inspirò un’anima attiva e soffiò in lui uno spirito vitale» (Sap 15,11).
 Ad un essere inerme, inattivo, spento, Dio infonde la vita e subito si ha il grande prodigio: un uomo vivo, un essere dinamico, una persona capace di pensare, di volere e di agire. Anche il profeta Ezechiele, portavoce di un ordine di Dio, profetizza su una valle tutta lastricata di scheletri calcificati, su un campo di ossa inaridite, prive del minimo segno di vita, e immediatamente le ossa si accostano l’uno all’altro, tornano a ricomporsi i nervi e la carne, e la pelle ricopre il corpo. Ma in essi manca lo Spirito. Il profeta deve prodursi ancora con un ordine perché lo Spirito scenda su questi corpi: «Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano» (Ez 37,9). E subito si ha una comunità di vivi, grazie al soffio dello Spirito.
 Nel libro dei Proverbi, ci si imbatte in una sorprendente espressione: l’autore afferma che il soffio vitale che è nell’uomo, è come una « Lampada di Dio »: «Il soffio dell’uomo è una fiaccola del Signore che scruta tutti i segreti recessi del cuore» (Pr 20,27). Il dono del « soffio », dunque, non solo fa dell’uomo la creatura più straordinaria del creato, ma gli permette di scrutare se stesso alla luce di questa singolare… lampada di Dio. È la lucerna dell’autocoscienza di cui sono privi gli altri esseri, è la capacità di introspezione che permette di scoprire la giusta norma di vita e di attuarla nel vivere quotidiano.

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