Archive pour mai, 2011

Virgin Mary in Blue/Fragrant Flower

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Virgin Mary in Blue/Fragrant Flower
The icon depicts the Child seated on the Virgin Mary’s left arm and a stalk of a white lily in her right hand. The icon was kept in the Pokrov Monastery of Voronezh. The flower is symbolic of the unfading bloom of virginity.

http://www.paleks.com/icons.htm

Publié dans:immagini sacre |on 9 mai, 2011 |Pas de commentaires »

Bibbia e cultura greca : Tra sapienza e stoltezza

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2010/281q04a1.html

Bibbia e cultura greca

Tra sapienza e stoltezza

Con una tavola rotonda sul tema « Trasmettere il messaggio della Bibbia nella cultura di oggi » si è concluso sabato 4 dicembre alla Pontificia Università Urbaniana il congresso internazionale « La Sacra Scrittura nella vita e nella missione della Chiesa » dedicato all’Esortazione Apostolica Verbum Domini. La tavola rotonda è stata presieduta dal cardinale presidente del Pontificio Consiglio della Cultura che, in occasione dei lavori del congresso, ha scritto per il nostro giornale il seguente articolo. Pubblichiamo anche ampi stralci della relazione del direttore della rivista « Servizio della Parola ».

di Gianfranco Ravasi

La recente esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini ha un intero capitolo dedicato alla « Parola di Dio e culture ». È, questa, un’ulteriore declinazione della categoria teologica centrale cristiana, quella dell’Incarnazione. Essa – afferma Benedetto XVI – « rivela anche il legame indissolubile che esiste tra la Parola divina e le parole umane, mediante le quali si comunica a noi(…) Dio non si rivela all’uomo in astratto, ma assumendo linguaggi, immagini ed espressioni legati alle diverse culture » (109).
Che la Bibbia non sia un aerolito piombato dal cielo della trascendenza, ma sia piuttosto un seme deposto nel terreno della storia è ormai un dato storico-critico e teologico rigettato solo dal fondamentalismo. Il cuore del cristianesimo è nell’Incarnazione, cioè nel Lògos eterno e infinito che s’innesta, s’intreccia e intride la sàrx, cioè la temporalità, la spazialità, l’esistenza, la cultura dell’umanità (Giovanni 1, 14). Riannodandosi a un filo tradizionale, che ebbe nell’enciclica Divino afflante Spiritu di Pio XII uno dei suoi nodi decisivi, Giovanni Paolo ii, rivolgendosi il 27 aprile 1979 alla Pontificia Commissione Biblica, affermava che ancor prima di farsi sàrx, « carne » in senso stretto, « la stessa Parola divina s’era fatta linguaggio umano, assumendo i modi di esprimersi delle diverse culture, che da Abramo al Veggente dell’Apocalisse hanno offerto al mistero adorabile dell’amore salvifico di Dio la possibilità di rendersi accessibile e comprensibile nelle varie generazioni, malgrado la molteplice diversità delle loro situazioni ». Detto in termini sintetici, la Bibbia si presenta anche come un modello di inculturazione o acculturazione sia a livello linguistico, sia in ambito letterario (si pensi ai generi letterari), sia nell’orizzonte tematico e la Verbum Domini ribadisce tale aspetto.
Ovviamente sono innanzitutto le culture dell’antico Vicino Oriente il referente primario, ma non è certo lieve anche l’apporto dell’ellenismo.
Molti sono convinti che Qohelet, l’autore anticotestamentario che incarna la crisi della sapienza tradizionale di Israele, abbia respirato l’atmosfera filosofica greca, in particolare quella dello stoicismo, dell’epicureismo e dello scetticismo dei secoli iv-iii antecedenti all’era cristiana. Si sono, così, infittite le analisi dei contatti tra certe affermazioni sorprendenti dell’autore biblico col pensiero greco. Un esempio per tutti. In Qohelet 1, 9 (cfr. 2, 12; 3, 15) si legge:  « Quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà; non c’è nulla di nuovo sotto il sole ». Ora nella Vita di Pitagora (19) di Porfirio si legge questo detto del celebre filosofo:  tà ghinòmena pòte pàlin ghìnetai, nèon d’oudèn haplòs estin, « ciò che accadde un tempo di nuovo accade, niente di nuovo avviene semplicemente ». Paolo Sacchi nel suo commento a Qohelet intuiva, invece, in quello scritto biblico il balenare dell’aurea mediocritas, ossia di una morale della « via di mezzo ». Infatti in 7, 16-18 si legge:  « Non esagerare con la giustizia, né esser troppo sapiente:  perché rovinarti? Non esagerare, però, neppure con la malvagità o con la stupidità:  perché morire prima del tempo?! È bene aggrapparsi a una cosa senza però staccare la mano dall’altra:  chi rispetta Dio riesce in entrambe ».
Certo che, se pure non è possibile ricondurre Qohelet nell’alveo del pensiero greco, è però molto probabile che il clima culturale ellenistico abbia varcato anche le frontiere abbastanza blindate del mondo giudaico-palestinese, come è attestato un secolo dopo (nel ii secolo antecedente all’era cristiana) anche da un altro sapiente biblico, il « conservatore illuminato » Ben Sira o Siracide (si legga il capitolo 38 sul medico e sulla medicina). Tuttavia, ben più intenso fu il dialogo stabilito dalla Diaspora, soprattutto alessandrina. Suggestivo è il caso del filosofo giudaico Filone ma anche quello di un libro deuterocanonico come la Sapienza, composto in un greco eccellente probabilmente ad Alessandria d’Egitto forse attorno al 30 prima dell’era cristiana.
In particolare, nei capitoli 1-5 dell’opera, brilla la tesi dell’athanasìa/aftharsìa della psychè:  l’immortalità/incorruttibilità dell’anima è certamente formulata e formalizzata attraverso il ricorso al platonismo popolare, anche se il retroterra teologico e antropologico permane saldamente ancorato alla tradizione biblica. Infatti, questa immortalità beata non è tanto una conseguenza metafisica della natura dell’anima spirituale, come si ha nell’argomentazione platonica, bensì dono e grazia essendo comunione trascendente di vita con la stessa divinità. Tuttavia l’autore, che  conosce  anche  Se- nofonte,  offre un testo che è grondante di ammiccamenti alla cultura greca.
In 8, 7 introduce le quattro virtù cardinali di origine platonica (Repubblica iv, 427e-433e):  temperanza, prudenza, giustizia e fortezza. In 11, 17 evoca l’àmorfos hyle, la materia informe, ispirandosi al Timeo (51A) di Platone, mentre in 11, 20 esalta l’opera divina che « tutto dispone con misura, calcolo e peso », formula riscontrabile nelle Leggi platoniche (vi, 757B). In 13, 5 si esalta la conoscenza « analogica » di Dio procedendo dal creato al Creatore secondo una modalità molto affine al De mundo dello Pseudo-Aristotele (vi, 399b, 19 e seguenti). In 8, 17-20 si adotta il « sorite », cioè il sillogismo concatenato progressivo, mentre le componenti della Sapienza divina sono modellate in 7, 17-21 sulla base della didattica scientifico-filosofica ellenistica, quasi « canonizzando » l’insegnamento delle scienze naturali impartito nel Museon di Alessandria. Nella celebrazione che l’autore fa della Sapienza divina (7, 22-24), basata su ventuno attributi, si intuiscono rimandi alla filosofia stoica, mentre nel canto intonato dagli empi nel capitolo 2 occhieggiano concezioni epicuree e persino « materialistiche » (2, 2-3).
L’antropologia a più riprese riflette echi della concezione greca classica. In 9, 15, ad esempio, si afferma che « il corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri », parole che sembrano alludere a un passo del Fedone (81C). In 8, 19-20 si mette in scena Salomone che parrebbe accogliere la tesi della preesistenza delle anime, anche se il contesto ridimensiona l’idea riconducendola a una semplice esaltazione della preminenza dell’anima sul corpo:  « Ero un fanciullo di nobile natura e avevo ricevuto in sorte un’anima buona o, piuttosto, essendo buono, ero entrato in un corpo senza macchia ». In 17, 11 si ricorre al concetto greco di « coscienza » (synèidesis), mentre in 14, 3 e 17, 2 si celebra la provvidenza (prónoia) divina, con tonalità stoiche, come principio che penetra e regge l’universo. In pratica, senza conoscere la cultura greca è quasi impossibile leggere con frutto questo gioiello della saggezza biblica della Diaspora.
Giungiamo, così, al contributo della cultura ellenistica nei confronti dell’esperienza cristiana. Basti solo pensare all’opera missionaria di san Paolo che ha al suo interno un vero e proprio programma di « inculturazione » teologica, elaborata attraverso una strumentazione che ricorre al contributo greco, applicata però in forma molto originale. I grandi centri di Antiochia, Efeso, Corinto e Roma costituiscono l’areopago in cui il cristianesimo, uscito dal grembo giudaico gerosolimitano, si confronta col mondo ellenistico ed entra in dibattito con esso. La sfida che già il giudaismo della Diaspora aveva dovuto raccogliere si ripropone con maggior forza e con esiti decisivi per la nuova fede cristiana ma anche per la stessa civiltà greco-romana.
Se stiamo ai rimandi diretti all’interno del Nuovo Testamento, il bilancio materiale è magro perché i testi di riferimento rimangono ovviamente sempre le Scritture ebraiche. Tre sole sono, infatti, le citazioni dirette:  i Fenomeni di Arato in Atti 17, 28 (« Di Lui noi siamo stirpe »), la Taide frammento 218 di Menandro in 1 Corinzi 15, 33 (« Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi »), il frammento 1 di Epimenide di Creta in Tito 1, 12 (« I cretesi sono sempre bugiardi, male bestie, ventri pigri »). In realtà la messe è ben più copiosa quando si lavora sulla filigrana dei testi neotestamentari.
Pensiamo, ad esempio, all’influenza delle speculazioni ellenistico-giudaiche circa la Sofìa e il Lògos divino all’interno della cristologia paolina e giovannea. Il Lògos del prologo del quarto vangelo, se si àncora alla categoria biblica Davar-Parola, è però segnato da qualche ammiccamento greco a partire da Eraclito fino allo stoicismo. Pensiamo anche alla riflessione sulla preesistenza e sulla missione di Cristo (Romani 1, 3; 8, 3; Galati 4, 4; Giovanni 1, 1.14):  è facile intuire in sottofondo contributi elaborati dal giudaismo che più si era aperto all’ellenismo, cioè a Filone di Alessandria e alle sue concezioni ipostatiche della Sapienza e della Parola divina (De opificio mundi 139; De confusione linguarum 146).
Ma, fuori della mediazione giudeo-ellenistica, il cristianesimo s’inoltra in prima persona nell’orizzonte culturale greco-romano. Vorremmo indicare al riguardo tre modelli. Il primo è quello « etico-filosofico » ove è d’obbligo il nesso con la filosofia stoica allora dominante, soprattutto la Nuova Stoà (basti accennare all’epistolario apocrifo tra san Paolo e Seneca). La dignità della persona, anche se femminile o servile (Galati 3, 28), la relazione intima con l’eterno (2 Corinzi 4, 17-18), il contesto globale unitario in cui l’uomo è collocato e vive (Efesini 4, 4-6), il celibato per  ragioni  superiori  e  trascendenti (1 Corinzi 7, 35), lo stesso perdono delle offese (Luca 23, 44), il bastare a se stessi col proprio impegno (Filippesi 4, 1) sono alcuni esempi di questa osmosi o almeno di contatti culturali.
C’è, poi, il modello « misterico ». Si tratta di un settore ove bisogna procedere con molto rigore e cautela, considerata anche la fluidità degli stessi culti misterici. Così, sulla morte e risurrezione di Cristo è molto arduo voler scovare paralleli nella ritualità mitica dei misteri:  se è certa la morte del dio (Persefone, Osiride, Adone, Attis), molto più problematica è la sua risurrezione che non è mai definita in termini netti e nitidi e soprattutto non secondo le caratteristiche di un evento storico, ma piuttosto seguendo la scansione stagionale della natura. Inoltre, spesso gli scritti misterici profani sono molto tardivi, di probabile impronta cristiana. Diverso è, invece, il caso della comunione e della partecipazione alla vicenda della divinità adorata:  il linguaggio misterico potrebbe aver offerto a Paolo un supporto espressivo per la formulazione della concezione del « con-morire » e « con-risorgere » del fedele con Cristo (Romani 6, 1-5; Colossesi 2, 18). Così, la koinonìa « sacramentale » col corpo  di  Cristo nel pane e nel calice (1 Corinzi 10, 14-22) può aver ricevuto qualche spunto espressivo dal tema della koinonìa con la divinità nel pasto sacro presente nel culto dionisiaco.
Infine, potremo parlare di un modello « politico ». Il punto di partenza è remotissimo a livello ideale rispetto alla visione cristiana ed è quello del culto ellenistico dei sovrani che approda all’ »apoteosi » imperiale del i secolo. Ora, una serie di titoli come Kyrios, Theòs, Sotèr, tipici di quell’ambito, vengono riproposti – ovviamente secondo coordinate del tutto differenti – dalla cristologia soprattutto paolina che nell’uomo Gesù Cristo confessa la pienezza della divinità. La stessa categoria parousìa per indicare la futura « venuta » finale di Cristo attinge alla tipologia delle visite imperiali « graziose » (Ateneo, Deipnosofia 6, 253 c-d) e persino il termine euanghèlion appare in chiave imperiale nella famosa iscrizione di Priene.
Concludendo questa carrellata essenziale sul dialogo tra Bibbia ed ellenismo, il contrappunto proprio di ogni confronto interculturale è ben espresso da due dichiarazioni paoline che ci invitano a evitare i due estremi insiti in ogni comparazione:  il fondamentalismo esclusivista e il sincretismo dissolutore dell’identità propria:  « Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono/bello » (1 Tessalonicesi 5, 21); « I Greci cercano la sapienza(…) noi predichiamo Cristo crocifisso (…) stoltezza per i pagani » (1 Corinzi 1, 22-23).

(L’Osservatore Romano 5 dicembre 2010)

IL CRISTIANESIMO E LA DIFESA DEL BELLO, DEL VERO E DEL BUONO

dal sito:

http://www.zenit.org/article-26628?l=italian

IL CRISTIANESIMO E LA DIFESA DEL BELLO, DEL VERO E DEL BUONO

Un libro della Pannuti in difesa delle immagini sacre

di Antonio Gaspari
 
ROMA, lunedì, 9 maggio 2011 (ZENIT.org).- Le immagini sono al centro dei pensieri e dei progetti culturali e comunicativi dei tempi che viviamo. Non c’è mai stata nella storia un’epoca in cui si è fatto tanto uso delle immagini.
Sorge però il problema sul loro utilizzo, perché se usate per fini utilitaristici ed egoistici potrebbero confondere l’uomo fino a perderlo, piuttosto che farlo progredire e salvarlo.
Ma come si fa a distinguere tra un fine buono piuttosto e une fine riduzionista e meschino? E’ anche per rispondere a questa domanda che Francesca Pannuti ha scritto per le edizioni Fede & Cultura il libro “La difesa delle immagini tra ragione e Fede”.
Nel volume l’autrice ricorda la denuncia fatta dal Cardinale Joseph Ratzinger contro una cultura iconoclasta, la quale, pur accettando di essere invasa da immagini di ogni genere, ha spesso perso il gusto per l’immagine bella e significativa, dalla sfera artistica a quella letteraria, in particolare nell’ambito del sacro.
Per approfondire un tema di così grande attualità, ZENIT ha intervistato la Pannuti, laureata in Filosofia e autrice di diversi saggi.
Perché le immagini sono da difendere e quali immagini lei intende difendere?
Pannuti: Joseph Ratzinger, nel suo “Introduzione allo spirito della liturgia”, denuncia il declino culturale e religioso seguito all’Illuminismo, foriero di un “nuovo iconoclasmo”, in cui «noi, oggi, non sperimentiamo solo una crisi dell’arte sacra, ma una crisi dell’arte in quanto tale, e con un’intensità finora sconosciuta. La crisi dell’arte è un altro sintomo della crisi dell’umanità. […]. Questa situazione può essere certamente definita come un accecamento dello spirito» (p. 126). Tale condizione colpisce sia l’immagine pittorica che quella letteraria, sia sacra che profana, fino a toccare le più intime fibre della nostra spiritualità, laddove ci si forma una qualche rappresentazione di Dio e del nostro rapporto con Lui.
Se nell’arte sacra sempre più spesso la figura umana appare disgregata in un’accentuazione esasperata di colorazioni sgargianti, nella teologia e nell’esegesi biblica si verifica un processo paradossale. Da un lato, spesso si avverte una certa insofferenza per le forti immagini scritturistiche e si cade in una predicazione dai toni moralistici, d’altro lato, a motivo dell’influenza delle impostazioni fenomenologiche ed esistenzialiste, ossia immanentiste, si vorrebbe superare il pensiero e il linguaggio metafisici, considerati astratti e obbiettivanti, mediante un linguaggio poetico che renda possibile l’“apertura” ad un’ulteriorità che pare attingibile solo in una sfera preconcettuale, vale a dire attraverso il simbolo.
Si finisce però per l’allontanare sempre di più il divino in un indefinito “totalmente Altro”, inattingibile dalla nostra ragione, e per esaltare in modo indebito il simbolo, non comprendendo che dove tutto è simbolo anche l’immagine significativa finisce per perdere valore come nel caso del processo di demitizzazione. I miti antichi, ormai considerati desueti e inadatti alla mentalità moderna, verranno, in tal modo, sostituiti con nuovi miti: Jung rispose all’accusa di aver “psicologizzato” il cristianesimo, affermando che “la psicologia è il mito moderno e che la fede si può comprendere solo mediante tale mito”. Per fare ciò occorre mettere in discussione, come denunciato dall’enciclica Pascendi Dominici gregis, l’ispirazione divina delle Scritture. Pertanto, credo che sia urgente ricuperare il vero valore dell’“immagine” in quanto tale, rifacendoci anche a quanto san Tommaso afferma: «l’autore della sacra Scrittura è Dio, il quale ha potere non solo di applicare le voci a significare qualcosa (cosa che può fare anche l’uomo), ma anche le cose stesse» (Summa Theologica, I, q. I, a. 10, co.). E’ su questo che si fonda l’interpretazione spirituale oltre che letterale della Bibbia, la quale ci permette di leggere con gli occhi dell’anima il messaggio di Amore e salvezza di Dio.
Il cristianesimo si distingue nella storia per aver difeso fin dal primo Concilio le immagine sacre. Perché?
Pannuti: «Il secondo concilio di Nicea – afferma ancora Ratzinger – e tutti i sinodi posteriori che hanno trattato delle icone vedono nell’icona una professione di fede nell’Incarnazione e considerano l’iconoclasmo come una negazione dell’Incarnazione, come la somma di tutte le eresie». Il rifiuto dell’immagine si oppone all’uomo come immagine di Dio creatore e al Figlio come immagine perfettissima del Padre. La diffidenza gnostica nei confronti della creazione si estende, anche in questo ambito, alla corporeità e all’Incarnazione. Invece in una corretta visione cristiana, «il Figlio di Dio poté incarnarsi nell’uomo, perché l’uomo era già stato pensato in sua funzione, come immagine di Colui che è, a sua volta, icona di Dio – continua Ratzinger -. […] Proprio allora diventa chiaro che i sensi appartengono alla fede, che il nuovo modo di vedere non li sopprime, ma li porta alla destinazione originaria. L’iconoclasmo si poggia ultimamente su una teologia unilateralmente apofatica, che conosce solo il totalmente ? altro di Dio, che è al di là di tutti i pensieri e di tutte le parole, così che, alla fine, anche la rivelazione è vista come il riflesso umanamente insufficiente di Colui che resta sempre inafferrabile. Allora la fede viene meno. La nostra forma contemporanea di sensibilità, che non riesce più a cogliere la trasparenza dello Spirito nei sensi, porta quasi necessariamente alla fuga nella teologia puramente “negativa” (apofatica): Dio è al di là di ogni pensiero, e per questo tutto ciò che possiamo dire di Lui e tutte le forme delle immagini di Dio sono allo stesso tempo valide e indifferenti. Questa umiltà apparentemente profondissima di fronte a Dio diventa, già di per se stessa, superbia che non lascia più la parola a Dio e che non gli concede di potersi fare realmente presenza nella storia. Da una parte si assolutizza la materia e, al stesso tempo, la si dichiara impermeabile per Dio, materia pura, privandola così della sua dignità» (pp. 119, 120).
Un’altra caratteristica della religione cristiana è quella di proporre la via Pulchritudinis, ovvero la ricerca di Dio attraverso la bellezza. E’ questo che lei intende spiegare nel suo libro?
Pannuti: Se torniamo a considerare che il vero, il bello e il bene non sono schemi della nostra mente, bensì attributi dell’ente, del reale, ricominceremo ad aprire il nostro pensiero alla contemplazione del creato, che rimanda, attraverso il vestigio e l’immagine, al Pulcherrimus, al Bello per eccellenza, Dio. «Questa affinità, questa sintonia tra percorso di fede e itinerario artistico, – dice Benedetto XVI nel Discorso agli artisti del 21 novembre 2009 – l’attesta un incalcolabile numero di opere d’arte che hanno come protagonisti i personaggi, le storie, i simboli di quell’immenso deposito di “figure” – in senso lato – che è la Bibbia, la Sacra Scrittura. Le grandi narrazioni bibliche, i temi, le immagini, le parabole hanno ispirato innumerevoli capolavori in ogni settore delle arti, [...]. Si parla, in proposito, di una via pulchritudinis, una via della bellezza che costituisce al tempo stesso un percorso artistico, estetico, e un itinerario di fede, di ricerca teologica».
Nel libro lei propone il sapiente uso delle immagini, proposto da sant’Antonio di Padova. Può spiegarci di che cosa si tratta?
Pannuti: Il Santo dei miracoli, facendo della penitenza, del sacramento della Confessione il centro della sua predicazione, ha riempito le piazze, diffondendo una dottrina rigorosa, solidissima, in mezzo alle insidie tese dai catari. Egli, che conosceva a memoria le Scritture, l’ha presentata proponendo le immagini bibliche, ben interpretate, e senza depauperarle della loro “fisicità”, stabilendo arditissimi collegamenti tra immagini simili tratte da contesti molto diversi. L’efficacia di tale predicazione fu di aver consolidato una fede vissuta e di aver affascinato i cuori con la Bellezza della Verità e la dolcezza della misericordia divina.
Come fare per contrastare il relativismo moderno in cui la Bellezza viene distorta svilita, mercificata, deificata?
Pannuti: San Bonaventura nel suo Lignum vitae afferma: “l’immaginazione aiuta l’intelligenza”. Sull’esempio dei grandi Dottori medievali, occorre, nel recupero della metafisica dell’essere, ridare respiro e ampiezza al pensare, così che esso sia nuovamente in grado di volgersi al Suo oggetto proprio, il Vero, tanto strettamente unito al Bello e al Bene, in un saldo e ben ordinato rapporto con l’affettività e l’immaginazione. Queste ultime, se correttamente individuate nelle loro caratteristiche e funzionalità proprie, potranno fornire grande slancio alla ragione, come pure alla Fede, e infine ad un’arte rinnovata, a condizione che tutto ciò sia solidamente ancorato al Lógos creatore, fatto Uomo. In tal modo, potremo ricuperare speranza verso il futuro, fiducia nelle nostre capacità e nell’Amore di Dio.

Publié dans:ARTE |on 9 mai, 2011 |Pas de commentaires »

buona notte

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mosaico: l’albero della vita

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Publié dans:immagini sacre |on 8 mai, 2011 |Pas de commentaires »

La Bibbia, grande codice della cultura dell’Occidente : Mons. Gianfranco Ravasi

dal sito:

http://www.proscenium.ch/art/chagall/chagallbibbia/ravasi.html

La Bibbia, grande codice della cultura dell’Occidente

Mons. Gianfranco Ravasi

Il tema che propongo alla vostra attenzione ha per sua natura orizzonti sterminati. È un tema che può essere seguito e approfondito sia da persone credenti, sia da chi è ancora in ricerca e in cammino verso la fede e persino da agnostici. Comincerò col far passare davanti ai nostri occhi, in maniera quasi casuale, alcuni personaggi diversissimi, con battute che citerò in modo letterale.

Testimoni appassionati
Ed inizio col primo: «Per noi il patriarca Abramo è più di ogni altra persona della storia greca o tedesca. Tra ciò che sentiamo alla lettura dei Salmi e ciò che proviamo leggendo Pindaro o Petrarca c’è la stessa differenza esistente tra la patria e la terra straniera». Così scriveva Friedrich Wilhelm Nietzsche nella sua opera Aurora. Un altro laico, spirito altissimo, liberale, Francesco De Sanctis, narra nell’opera La Giovinezza come iniziò giovanissimo la carriera di professore universitario, scegliendo un corso sulla Bibbia che suscitò stupore, e alla fine racconta le sue esperienze emozionanti alla lettura del libro di Giobbe – «Non ho trovato nulla di simile nella cultura classica» – e alla lettura del Cantico dei Cantici. Egli conclude così: «Mi meraviglio che nelle scuole, dove si fanno leggere tante cose frivole, non sia penetrata un’antologia biblica, atta a tener desto il sentimento religioso che è lo stesso sentimento morale nel senso più elevato». Sentiamo, però, anche la testimonianza di un credente altissimo, un genio dell’umanità, Blaise Pascal, che nel pensiero 532 dell’edizione Brunsvicg afferma: «La Scrittura ha per ognuno passi atti a consolare tutte le condizioni, ma ha anche passi atti a intimorire e a inquietare tutte le condizioni».
E da ultimo introduciamo Umberto Eco, persona notissima che, per ragioni di cultura e di moralità generale, si batte da tempo per portare la Bibbia nelle scuole. Citatissima è una sua frase: «Perché i nostri ragazzi devono sapere tutto di Omero e nulla di Mosè? Perché la Divina Commedia e non il Cantico dei Cantici?».

Un dittico luminoso
Vorrei, dunque, proporre una riflessione sulla Bibbia in due suoi volti, in due aspetti: quello estetico generale e quello artistico-letterario nella sua espressione concreta. Si tratta di aspetti rilevanti anche per il credente. Sappiamo, infatti, che l’elemento fondamentale della Rivelazione è l’incarnazione, cioè il fatto che il Logos, la Parola perfetta, si riveste di carne, cioè di parole umane. Alcuni anni fa un grande critico canadese si è battuto lungamente per la conoscenza biblica all’interno delle università: Northrop Frye ha scritto un libro, Il grande codice (tradotto in italiano dall’editore Einaudi) che dichiarava: «Le Sacre Scritture sono l’universo entro cui la letteratura e l’arte hanno operato fino al XVIII secolo e stanno ancora in larga misura operando». Il pittore ebreo Marc Chagall diceva: «Per me, come per tutti i pittori dell’Occidente, la Bibbia è stata l’alfabeto colorato in cui ho intinto i miei pennelli».
Ecco, allora, che nell’ideale dittico che voglio presentarvi riguardo alla Bibbia, il primo quadro sarà quello, un po’ teorico, dell’estetica. La Parola di Dio, testo capitale della spiritualità per il credente, si pone con una sua concezione estetica.
La via attraverso la quale si realizza la bellezza del testo biblico è la parola. La Bibbia non ha scelto l’immagine, che pure è più affascinante. Infatti, nel Decalogo leggiamo la gelida frase del cosiddetto «comandamento aniconico»: «Tu non ti farai immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo, né di ciò che è quaggiù in terra, né di ciò che è nelle acque sotto terra».
Tant’è vero che il grande peccato d’Israele è il vitello d’oro. La Bibbia si affida alla reatà più debole e più fragile in assoluto, la parola. La Bibbia comincia così: Bereshît … wajiômer ‘Elohîm: jehî ‘ôr wajehî ‘ôr, «In principio… Dio disse: Sia la luce, e la luce fu». Nel silenzio assoluto dell’essere risuona la parola di Dio, parola perfetta, efficace, incisiva, creatrice e la luce si accende.
Ma la parola resta una realtà fragile, che una volta pronunciata scompare; e la Bibbia ne ha coscienza; tant’è vero che a un certo momento il profeta Isaia in 29,4, rivolgendosi a Gerusalemme – che rappresenta l’umanità, l’uomo – dice: «Prostrata, tu parlerai da terra / e dalla polvere della terra saliranno fioche le tue parole; / sembrerà di un fantasma la tua voce dalla terra / e dalla polvere la tua parola risuonerà come un bisbiglio». (Ho fatto una traduzione il più possibile vicina all’originale, anche se un po’ inceppata. D’altrone il grande Cervantes, autore del Don Chisciotte, dice che tutte le traduzioni sono come il rovescio di un arazzo). Dio dall’alto fa scendere la sua parola efficace e la fa annodare con l’ebraico, una lingua poverissima di pastori, grezza come le pietre del deserto. Dio per la sua Rivelazione ha scelto questa lingua povera, simile a un «bisbiglio», un mezzo «chenotico» (come dicono i teologi derivando l’aggettivo dal vocabolo kenosis col quale S. Paolo esprime l’abbassamento, lo «svuotamento» del Cristo, Figlio di Dio nella persona umana). Quando nell’Antico Testamento parliamo di Dio, usiamo le quattro lettere J h w h, che non si possono neppure pronunciare: il nome di Dio è una parola che persino «tace».

«Una voce di silenzio lieve»
Ma la Bibbia suggerisce un’esperienza maggiore, provocatrice in questo nostro tempo in cui l’aggressione, la violenza fonetica è diventata offensiva. Siamo nel Primo Libro dei Re, capitolo 19, versetto 12. Elia, il profeta perseguitato dalla regina Gezabele, deve fuggire: è in crisi, desidera abbandonare tutto, la sua stessa vocazione e decide di ritornare alle radici di Israele, al Sinai. Finalmente vi arriva e lì attende Dio. Anzi lì Dio lo aspetta. Ma non come vorremmo noi, credenti e non credenti, che Egli si rivelasse, cioè in maniera superba, nel fulmine che incendia i boschi o nella tempesta o nel terremoto che sconvolge le fondamenta della terra o nel vento impetuoso che spacca le pietre. No, la Bibbia rappresenta l’apparizione di Dio a Elia, stando alla pallida traduzione delle Bibbie che abbiamo tra le mani, «nel mormorio di un vento leggero». In realtà l’ebraico più suggestivamente dice: «come qôl demamah daqqah, cioè qôl, «voce»; demamah, «silenzio»: daqqah, «lieve». Dio è «una voce di silenzio lieve, leggero».
Si tratta di un «silenzio bianco»: come il bianco è la sintesi di tutti i colori, così quel silenzio divino è la sintesi di ogni comunicazione divina, non è il silenzio «nero» che incute paura. Dio parla attraverso una parola sottile, ma che ha tutta la sua forza. Una forza tale nella Bibbia da aver generato opere immortali nell’arte e nella letteratura di tutti i secoli, e tale da potervi ancora attingere ispirazione. Il poeta francese Paul Claudel diceva: «La Bibbia è stata il vocabolario al quale hanno attinto sempre poeti, letterati e artisti: è, quindi, parola ricca». Ad esempio, il Cantico dei Cantici è uno dei testi più affascinanti: solo 1250 parole fanno entrare il lettore in un giardino ove Lei e Lui vivono la straordinaria avventura di un amore che conosce l’eros, il fascino della bellezza dei sensi, ma che conosce anche la totalità della donazione.

Il trionfo dei simboli
Pensiamo anche all’Apocalisse che è come un manto tutto tempestato di simboli: se non li si conosce, il testo rimane una crittografia oscura, mentre in realtà è trasparentissimo per chi conosce il significato dei simboli. Pensiamo ancora al delizioso libretto di Giona, unico testo biblico che, dopo un racconto simbolico della pianta di ricino, del verme e del vento, finisce con un punto di domanda destinato non solo al protagonista – chiuso in sé, gretto, prima, renitente ad affrontare una difficile missione in terra pagana e noi stupito e quasi rattristato per le conversioni ottenute – ma destinato ai lettori di tutti i tempi, a noi che Dio vuole aperti alla salvezza di tutti gli uomini amati e chiamati da Dio.
Se poi passiamo a considerare, nel Nuovo Testamento, Gesù e la sua predicazione, restiamo conquistati dal fascino della stessa scelta dei temi e degli esempi presi dall’orizzonte quotidiano palestinese. Da esso Gesù ricava lo spunto per indicare l’amore di Dio, la sua provvidenza e il suo Regno. Persino lo scorpione bianco palestinese, simile a una piccola pagnotta, serve per far capire agli ascoltatori che Dio è padre e al figlio che gli chiede un pane non dà, appunto, uno scorpione. Così pure i cani randagi, il tarlo, le previsioni del tempo, le crisi familiari, i figli difficili, i ricchi beceri, i portieri di notte sono esempi efficaci per la predicazione di Gesù sul Regno dei cieli. E il seme, deposto nella terra a marcire per poter germogliare e produrre la messe, è un modo trasparente, efficace e indimenticabile per iniziare gli ascoltatori al mistero della morte e risurrezione che attende Gesù di Nazaret Figlio di Dio. Le prediche di Gesù non sono – come dice ironicamente il titolo di un libretto sulle omelie ecclesiastiche – il «tormento dei fedeli», ma inquietano le coscienze degli ascoltatori contemporanei a Lui e le nostre.
Concludendo, possiamo rappresentare la bellezza e la forza della Parola di Dio, realtà fragile ma insieme gloriosa, con un versetto salmico, quello del Salmo 56,9: «Signore, le mie lacrime nell’otre tuo raccogli; / non sono forse scritte nel tuo libro?». Come il pastore conserva nel prezioso scrigno, che è il suo otre, l’acqua, tesoro principale per la vita nel deserto, così il Signore raccoglie le lacrime degli uomini sofferenti come se fossero perle, e le scrive nel libro della vita perché non siano dimenticate. Il simbolo riesce a rendere fragrante e intenso lo stesso messaggio che si vuole comunicare.
A questo punto, possiamo fare una conclusione per questa prima tavola del dittico. La esprimiamo con la domanda di un mistico orientale, Massimo il Confessore, il quale così stimolava i suoi ascoltatori alla conoscenza della Bibbia: «Se tu non conosci le parole del testo, come potrai conoscere la Parola?».

Tre modelli d’interpretazione
Passiamo ora alla seconda tavola, nella quale cercheremo di illustrare come la letteratura e le arti abbiano attinto e ancora dipendano dalla Bibbia. Lo faremo considerando tre registri o modelli.
Il primo registro è quello interpretativo. La Bibbia è sempre lontana da noi. Ma l’artista la legge e la reinterpreta in modo più vicino e comprensibile per noi, cioè l’attualizza. Lo mostro con due esempi. Il primo è nel c. 22 della Genesi, pagina molto sobria ma drammatica: il sacrificio di Isacco. Il Dio «amato e crudele» – come ha scritto in una sua ballata il compianto amico p. David Maria Turoldo – aveva concesso ad Abramo il figlio Isacco; ora glielo richiede in sacrificio. Per tre giorni e tre notti Abramo cammina col figlio in silenzio verso il monte Moria, il monte della prova. Poi, in una scena «sacerdotale», prepara l’altare, vi lega il figlio e gli Ebrei vedranno nella scena della «legatura» la rappresentazione della shô’ah, l’«Olocausto» del popolo intero. Il pittore Rembrandt immortala in un quadro conservato ad Amsterdam la scena di Abramo che chiude gli occhi al figlio perché non veda il coltello che egli sta per vibrare su di lui. Il filosofo danese credente Sören Kierkegaard nel libro Timore e Tremore immagina quattro diverse soluzioni del dramma. Ne ricordo una, che evoca la prassi orientale della madre che, per staccare il figlio dal proprio seno, tinge questo di nero perché non sia desiderabile quando il bambino non può più attaccarvisi. Dio prova la sua creatura per farla crescere nella sua libertà di decisione e di azione.
La seconda scena è quella di Genesi 32, la misteriosa lotta di Giacobbe al fiume Jabbok, quando il patriarca cambia il suo nome in «Israele», divenendo così l’eroe eponimo del suo popolo. Egli però nel contempo esce zoppicante dal duello perché colpito all’anca e ci insegna, così, che dal contatto col mistero non si esce mai indenni. Nel quadro di Gauguin del «periodo bretone» – conservato alla National Gallery of Scotland di Edimburgo – che ha per soggetto «La lotta con l’angelo» (ma il titolo dato dal pittore è Dopo il sermone) si vedono in primo piano le donne bretoni dalle tipiche cuffie. Esse uscendo dalla chiesa, trovano inondata di sangue la piazza dove Giacobbe sta combattendo. Il pittore vuole così ammonire: la vicenda della lotta con l’angelo è realtà quotidiana: dopo aver ascoltato la parola di Dio, tu la vedi in azione nel tuo presente, nella piazza del tuo villaggio. In tal modo l’artista riesce a dire più di quanto abbia potuto rivelare l’esegeta.

Il testo deformato
Il secondo registro di interpretazione delle Scritture è quello degenerativo. Lo sperimentiamo per la lettura del libro di Giobbe. Giobbe viene considerato il modello della pazienza, ed invece è l’uomo che si rivolge a Dio con parole forti, accusatrici e persino blasfeme. Quindi la lettura di Giobbe uomo paziente è un’interpretazione falsa, degenerata. Ma il culmine si ha nella ripresa operata da Jung, uno dei padri della psicanalisi. Per lui Giobbe è la figura dell’uomo morale contro un Dio immorale che decide il bene e il male come gli pare, mentre Giobbe gli ricorda alcune leggi fondamentali della morale e si erge davanti all’ira cieca divina.
Ma Jung continua: Dio si incuriosisce di Giobbe e a un certo momento manda suo figlio Gesù, che diventa uomo, fratello di Giobbe. Contro l’ira del Dio terribile si erge ora il Figlio che ricorda al Padre le ragione dell’uomo e lo placa. È un esempio di lettura originale ma stravagante.
Un altro esempio di questa seconda lettura può essere quello di Mosè interpretato da Freud o quello ripreso in musica nel Mosè ed Aronne di Schönberg, un’esperienza straordinaria, diventata un bellissimo film di Straub che purtroppo, come tanti film raffinati, non ha avuto grande successo. Anche in questo film le vicende di Mosè ed Aronne sono interpretate in maniera psicologica, come ribellione a qualsiasi forma di divinità, per ottenere l’assoluta libertà.
Un ultimo esempio potrebbe essere assunto da uno scrittore famoso, André Gide, che ha stravolto la parabola del figlio prodigo di peccato e del padre prodigo di amore – presente in Luca 15 – la parabola evangelica dell’amore che va al di sopra di ogni peccato e di ogni limite. Gide, nell’opera Il ritorno del figliol prodigo, fa di questo uno sconfitto e introduce un personaggio inesistente nel racconto evangelico, il fratello minore. Il «prodigo», ritornato fallito, – così immagina lo scrittore francese – una notte aiuta il fratello minore a lasciare la casa paterna e gli dice: «Tenta tu la mia strada. Io non ce l’ho fatta: tenta tu a mordere in pienezza la melagrana della libertà! Questo è un « Addio! », non voglio che sia un « Arrivederci! ». Anche in questo caso la parabola è diventata qualcosa di diverso rispetto all’originale, anche se, purtroppo essa si ripete spesso nella storia delle nostre famiglie.

L’arte trasfigura la Scrittura
Ma esiste un terzo registro, quello trasfigurativo. Basti ricordare il filosofo Bachelard che dell’amico pittore ebreo Marc Chagall diceva: «Chagall legge la Bibbia e subito i passi biblici diventavano luce per tutti». Infatti i quadri di Chagall rappresentano la Bibbia nell’interno della vita comune degli uomini che s’incontrano per le strade; gli angeli escono dai comignoli; le scene bibliche sono quadretti di vita del villaggio ebreo mitteleuropeo. Dio non è lontano; la Bibbia non è remota rispetto al tuo presente che diventa improvvisamente nobile e solenne, perché l’arte riesce a farti vedere il mistero che si annida in quelle scene quotidiane in cui sei attore. Potremmo, infine, trovare due esempi del modello «trasfigurativo» prendendoli dal mondo della musica. Il primo è nell’opera di Bach, cioè nella sua Passione secondo Matteo. Il brano corale che chiude la Passione è un grande, tenerissimo «addio» alla salma di Gesù che è nella tomba ma, per fremiti, brividi e intuizioni, è già la celebrazione della gloriosa Risurrezione. Il secondo esempio musicale è il Salmo 117, K 339 di Mozart. Si tratta del salmo più breve del Salterio, che contiene, però, le due parole ebraiche – intraducibili adeguatamente nelle nostre lingue moderne – che sono la sintesi dell’alleanza tra Dio e l’uomo, hesed we’emet, «misericordia et veritas» – come traduce la Bibbia Vulgata (latina). Si tratta di parole che nella lingua originale esprimevano per l’ebreo tutto quello che Dio sente per l’uomo e a cui l’uomo è chiamato a rispondere con la sua fede. Ebbene, Mozart riesce a rendere questa emozione interiore e teologica proprio attraverso lo splendore supremo della sua musica.
Da ultimo, ricorreremo all’arte figurativa: è il quadro del Caravaggio che si può ammirare nella cappella Contarelli della chiesa di S. Luigi dei Francesi a Roma, la Vocazione di Matteo. Caravaggio cita dall’affresco michelangiolesco della Sistina l’indice del Dio creatore e lo rappresenta nella vocazione di Matteo, rivolgendolo da parte del Cristo al discepolo futuro perché si comprenda che in tal modo Gesù gli sconvolge e gli ricrea la vita.
L’indice appare anche nella Crocifissione – una tra le più belle di Grünewald nell’altare di Isenheim a Colmar: questa volta è il Battista che, ai piedi della croce, lo punta verso il Cristo crocifisso quasi a dire: «Bisogna che Lui cresca e io diminuisca».

L’orecchio ostruito di ortiche
Concludiamo con due testi che lasciamo alla comune meditazione. Il primo è di una poetessa ebrea, che fu premio Nobel per la letteratura, e che è morta a Stoccolma, ove si era rifugiata durante le persecuzioni naziste, Nelly Sachs, ed è un testo dedicato ai profeti: «Se i profeti irrompessero per le porte della notte / incidendo ferite con le loro parole; / se i profeti irrompessero per le porte della notte / e cercassero un orecchio come patria, / orecchio degli uomini ostruito di ortiche, / sapresti tu ascoltare?». È una domanda che dalle Scritture Sacre serpeggia ancora in mezzo a noi, che siamo ostruiti nell’ascolto da ortiche di ogni genere – consuetudine, abitudine, distrazione e non sappiamo ascoltare.
L’altro testo è un paragrafo suggestivo dello scrittore agnostico argentino Jorge Luís Borges che, nel suo racconto L’artefice, ci fa balenare dove possiamo trovare il volto di Cristo: «Abbiamo perduto quei lineamenti di Cristo, come si può perdere un numero magico di cifre abituali, come si perde per sempre un’immagine che ci ha affascinato nel caleidoscopio. Possiamo quei lineamenti scorgerli e non riconoscerli. Può il profilo di un uomo nella ferrovia sotterranea essere il profilo stesso di Cristo? Forse un tratto del volto crocifisso si cela in questo specchio. Forse quel volto, il volto di Cristo morì, si cancellò per sempre affinché Dio sia tutto in tutti». Anche uno scrittore agnostico come Borges aveva bisogno della divina sorgente del volto di Cristo presente in ogni specchio, cioè in ogni volto umano. E il testo si conclude con una citazione di Paolo (1 Corinzi 15, 28) che esalta il Dio «tutto in tutti».

Our Church’s Icons/Jesus and the two disciples from Emmaus

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Publié dans:immagini sacre |on 7 mai, 2011 |Pas de commentaires »
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