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LUNEDÌ 9 MAGGIO 2011 – III SETTIMANA DI PASQUA

LUNEDÌ 9 MAGGIO 2011 – III SETTIMANA DI PASQUA

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dal «Commento sulla prima lettera di Pietro» di san Beda Venerabile, sacerdote  (Cap. 2; Pl 93, 50-51)

Stirpe eletta, sacerdozio regale

«Voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale» (1 Pt 2, 9). Questa testimonianza di lode una volta fu data all’antico popolo di Dio per mezzo di Mosè. Ora ben a ragione l’apostolo Pietro la dà ai pagani perché hanno creduto in Cristo, il quale come pietra angolare ha accolto le genti in quella salvezza che Israele aveva avuto per sé.
Chiama i cristiani «stirpe eletta» per la fede, per distinguerli da coloro che col rigettare la pietra viva, sono diventati rèprobi.
Poi «sacerdozio regale» perché sono uniti al corpo di colui che è re sommo e vero sacerdote, il quale, in quanto re, dona ai suoi il regno e, in quanto pontefice, purifica i loro peccati col sacrificio del suo sangue. Li chiama «sacerdozio regale» perché si ricordino di sperare un regno senza fine e di offrire sempre a Dio i sacrifici di una condotta senza macchia.
Sono chiamati anche «gente santa e popolo, che Dio si è acquistato» secondo quello che dice l’apostolo Paolo, esponendo il detto del profeta: Il mio giusto poi vive di fede; se invece indietreggia, non si compiace di lui l’anima mia; ma noi, dice, non siamo di quelli che si sottraggono per loro perdizione, ma gente che sta salda nella fede per salvare l’anima propria (cfr. Eb 10, 38). E negli Atti degli Apostoli: «Lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue» (At 20, 28).
Perciò siamo diventati «popolo che Dio si è acquistato» (1 Pt 2, 9) con il sangue del nostro Redentore, cosa che era una volta il popolo di Israele redento dal sangue dell’agnello in Egitto.
Perciò nel versetto seguente, dopo di avere ricordato misticamente l’antica storia, insegna che questa deve essere compiuta anche in senso spirituale dal nuovo popolo di Dio dicendo: Perché abbiate ad annunziare i suoi prodigi (cfr. 1 Pt 2, 9). Come infatti coloro che da Mosè furono liberati dalla schiavitù egizia intonarono un canto trionfale al Signore, dopo il passaggio del Mar Rosso e l’annegamento dell’esercito del faraone, così bisogna che anche noi, dopo aver ricevuto la remissione dei peccati nel battesimo, ringraziamo degnamente per i benefici celesti.
Infatti gli Egizi, che angariavano il popolo di Dio, e che significano anche «tenebre» e «tribolazione», simboleggiano bene i peccati che ci perseguitano, ma che sono stati distrutti nel battesimo.
Anche la liberazione dei figli di Israele e il loro arrivo alla terra da tempo promessa, ben si addice al mistero della nostra redenzione, per mezzo della quale aspiriamo alla luce della celeste dimora, sotto l’illuminazione e la guida della grazia di Cristo; la luce di questa grazia la dimostrò anche quella nube e colonna di fuoco che per tutto quel viaggio li difese dall’oscurità della notte e, attraverso un cammino pieno di indescrivibili peripezie, li condusse alla promessa patria definitiva.

Responsorio   Cfr. 1 Pt 2, 9; Dt 7, 7; 13, 6
R. Voi siete la stirpe eletta, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato: * proclamate le opere meravigliose di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce, alleluia.
V. Il Signore vi ha scelto e vi ha riscattato dalla condizione di servi:
R. proclamate le opere meravigliose di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce, alleluia.

Papa Benedetto XVI – Rav Di Segni

Papa Benedetto XVI - Rav Di Segni dans immagini sacre papa-rabbino

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Rav Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma: (2004/5765) Percorsi fatti e questioni aperte nei rapporti ebraico cristiani oggi

dal sito:

http://www.nostreradici.it/dialogo-DiSegni.htm

Percorsi fatti e questioni aperte nei rapporti ebraico cristiani oggi

Rav Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma

Roma, 19 ottobre 2004, 5 Cheshwan 5765, presso la Pontificia Università Gregoriana

Trent’anni della Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo.

Ringrazio l’amico prof. Joseph Sievers, direttore del Centro « cardinale Bea » per gli Studi Giudaici, organizzatore di questo importante corso, per l’onore che mi ha fatto invitandomi a parlare in questa prestigiosa sede, insieme a S. Em. il card. Walter Kasper. Saluto… e in particolare, tra il pubblico presente, le delegazioni della Commissione Vaticana per le relazioni religiose con gli ebrei e della Commissione di Rabbini capi israeliani per il dialogo Ebraico-Cristiano; delegazioni che si stanno riunendo, in un nuovo incontro, proprio in questi giorni nella villa Cavalletti vicino a Roma. È proprio il lavoro di queste due delegazioni uno dei segni più indicativi dei progressi compiuti nel dialogo ebraico-cristiano. Non solo per la presenza di una rappresentanza ufficiale di un organismo dello Stato d’Israele; ma anche e soprattutto per il coinvolgimento di una parte del mondo rabbinico ortodosso ad un livello che sarebbe stato impensabile ancora pochi anni fa; dal punto di vista ebraico questo è probabilmente uno dei segni più importanti, se non il più importante, di una mutata percezione rabbinica dei termini del problema.
Il percorso dei rapporti è stato in questi anni segnato da ormai numerose cerimonie, atti pubblici, dichiarazioni, convegni, incontri, pubblicazioni, ma rimaneva sempre sospeso un nucleo essenziale del problema: la risposta dell’ebraismo ortodosso. Questo problema è ancora lontano dalla sua soluzione; ma la partecipazione di alcuni capi rabbini israeliani è segno di una disponibilità all’ascolto e dell’apertura di un credito di fiducia. Accanto ai grandi gesti ufficiali non bisogna trascurare quelli che sembrano piccoli passi, ma chissà se proprio in questi passi, non accompagnati dal clamore dei media, non si nascondano i germi di quello che dovrà essere il corretto rapporto ebraico-cristiano nei tempi medi e lunghi. La prima questione aperta, argomento del nostro incontro, è proprio la definizione di chi siano gli interlocutori e dei rappresentanti; nella Chiesa Cattolica è chiaro, nel resto del mondo cristiano ancora no; per la parte ebraica la varietà delle tendenze rende ancora più complesso il discorso.
Se qualcuno ritiene ingiustificata o ingenerosa la riluttanza di molti ambienti rabbinici ad alcune forme di apertura, e si meraviglia della lentezza delle loro reazioni, non si rende conto della caratteristica fondamentale che distingue il rapporto ebraico-cristiano Non è un rapporto tra uguali, non è un rapporto simmetrico; come non è simmetrico il rapporto tra figlio e padre, tra chi è grande numericamente e chi è piccolo, tra chi per secoli ha dominato e chi è stato appena tollerato; e soprattutto per l’essenza stessa delle due fedi: per il cristiano è impossibile una fede che non sia radicata in quella originaria di Israele, ma nella quale si manifesta l’incarnazione; per l’ebraismo quell’incarnazione è negazione della fede originaria. Per il cristiano l’incontro con l’ebraismo è la riscoperta della radici della sua fede; per l’ebreo l’incontro con il cristianesimo è quello della diversità inserita nelle sue radici. Teologicamente il cristiano non può fare a meno di Israele; l’ebreo, nella sua fede, deve fare a meno di Cristo se non vuole negarla.
È proprio a causa di questa fondamentale asimmetria teologica, e di tutte le conseguenze che ha determinato nel corso della storia, che il rapporto ebraico – cristiano, come si è sviluppato dai tempi del Vaticano II, è stato, salvo poche eccezioni, un grande processo promosso in prima persona dalle Chiese cristiane, che ha visto le varie componenti dell’ebraismo ora scettiche, ora riluttanti, ora collaboranti con entusiasmo; ma quasi sempre nel ruolo dell’invitato.
L’ebreo Jules Isaac che bussava alle porte del Vaticano non era un rabbino in cerca di conoscere le altrui verità o di imporre agli altri le proprie, era uno storico, personalmente vittima di un’enorme ingiustizia, che chiedeva la fine della predicazione dell’odio. Anche questa era una manifestazione della radicale asimmetria: non un semplice incontro tra rappresentanti di due mondi in conflitto, ma l’incontro del perseguitato con l’istituzione che ancora si manifestava storicamente come ispiratrice dell’ostilità. Strettamente parlando, la richiesta di Jules Isaac non era quella del dialogo, come dopo si è sviluppato – anche se lo anticipava – ma della fine dell’insegnamento dell’odio.
A questa richiesta la Chiesa cattolica, e con lei molte altre Chiese, ha risposto con un impegno decisivo e crescente alla rimozione dell’insegnamento dell’odio e con un invito al confronto e alla riconciliazione. Ma l’ha fatto spesso e inevitabilmente con il suo linguaggio, con la sua mentalità, con la sua cultura, con la sua visione del mondo, con le sue esigenze. Tutte queste cose sono diverse nell’ottica, anzi nelle numerose ottiche ebraiche. Per cui il dialogo ebraico-cristiano, svolta epocale della fine del millennio, deve ancora attraversare in forma sperimentale tutte le complessità della differenza e dell’asimmetria. È necessario comprendere che ogni atto del confronto, dalla definizione delle agende e degli obiettivi, fino agli aspetti cerimoniali dei grandi gesti, di non poca importanza in una civiltà mediatica, deve essere basato su regole condivise. Bisogna chiarire bene prima a che cosa si vuole arrivare e come si procede. Altrimenti, anziché risolvere i problemi, si generano ulteriori incomprensioni, resistenze ed esclusioni. L’esempio delle vostre due commissioni al lavoro va in qualche modo in direzione opposta, mostrando i buoni frutti che possono nascere dalla disponibilità all’ascolto e dai chiarimenti preliminari dei limiti e degli obiettivi.
I risultati conseguiti non possono nascondere le difficoltà esistenti; tenterò di spiegarne qualcuna, da un’ottica ebraica. La prima è la sensazione di incertezza nei confronti della teologia cristiana dell’ebraismo, e delle reali volontà nei nostri confronti. Gli sviluppi recenti della teologia cristiana hanno portato ad aperture di tutti i tipi, con un’enorme rivalutazione della sacralità delle proprie origini ebraiche, da cui deriva, nei nostri confronti, un rapporto completamente rivisto di rispetto e amore; e questo è un dato decisivo che va oltre il generico rispetto per le differenze religiose di cui la Chiesa si fa espressione negli ultimi decenni. Ma oltre a questo la prospettiva, per noi che osserviamo dall’esterno, è indefinita e probabilmente molto articolata. C’è una frase nella Nostra aetate che non viene quasi mai citata, ma rivela il nodo del problema: « E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio… » dice il documento. È in qualche modo una ripresa dell’antico tema del verus Israel , che nella sua formulazione conciliare lascia aperto il problema: se « nuovo » popolo di D. significa che il vecchio non lo è più, o se insieme vecchio e nuovo hanno un ruolo nella salvezza. Il card. Bea, coraggioso difensore del documento conciliare, e a cui questo centro è dedicato, non aveva dubbi su questo punto: spiegava che « naturalmente è vero che il popolo ebraico non è più il popolo di D. nel senso di istituzione di salvezza per l’umanità »[1].
Certo da allora il pensiero della Chiesa si è articolato ed evoluto. Alcuni affermano che ormai c’è chiarezza, o abbastanza chiarezza, o perlomeno una dialettica viva tra le diverse posizioni che quindi consente il confronto; altri invece sottolineano la prevalenza di posizioni rigoristiche nella Chiesa, e ne deducono una sostanziale inaffidabilità per un dialogo sincero; altri ancora ritengono che non si possa chiedere alla Chiesa di modificare la sua essenza e che il dialogo debba prescindere da tutte queste questioni. Un famoso rabbino dei nostri tempi, discendente da illustri dinastie di maestri del chasidismo, e personalmente uno dei primi attivi nel dialogo ebraico-cristiano, parlo di Avraham Yehoshua Heschel, sosteneva che « La fede della Chiesa in Gesù rende il Giudaismo incompleto; se si nega questa fede, il Cristianesimo è falso. Non c’è dialogo su questo punto ». Il dialogo secondo questa linea non deve toccare i principi della fede. E non deve toccare neppure i principi dell’autocoscienza religiosa, il modo in cui la comunità di fede definisce il suo rapporto con D., a meno che questa autocoscienza non comporti pulsioni aggressive verso gli altri. Il problema che gli osservatori ebrei si pongono rispetto ai percorsi della teologia cristiana non è tanto quello dei principi, su cui non si deve discutere, ma sulle potenzialità aggressive che possono nascondersi sotto quei principi.
Come è possibile predicare il dialogo nel rispetto dell’identità, non solo quella propria, ma anche e soprattutto quella dell’interlocutore, quando allo stesso tempo si lanciano segnali allarmanti e contrastanti? Più chiaramente e direttamente: L’ebreo che si converte al cristianesimo è un modello di dialogo o la sua negazione? L’imponente investimento dottrinale che c’è stato, ad esempio, intorno al processo di beatificazione e poi di santificazione di Edith Stein ci mostra una Chiesa che ancora propone come modello di virtù eroiche l’ebrea o l’ebreo convertito, e ne santifica l’immagine, arrivando addirittura alla definizione, per noi profondamente inquietante, di « novella Ester ». Per citare un altro esempio recentissimo, una prestigiosa casa editrice cattolica ha pubblicato l’autobiografia di un discusso rabbino romano, passato al cristianesimo nel 1945, e tenuto a battesimo da un piccolo gruppo di illustri prelati, legati a questa università, tra i quali Agostino Bea; la pubblicazione di quest’opera si è accompagnata a una vivace promozione pubblicitaria nell’editoria cristiana con recensioni elogiative nella stampa specializzata e in quella generale. C’è stata persino, da parte di un importante giornalista, una proposta di beatificazione.
Il dato che segnalo, è che a 39 anni dalla Nostra aetate e a 30 anni dalla Commissione non mi è parso di vedere – e sarei lieto se qualcuno mi potesse contraddire – un solo articolo di un cattolico dove si dicesse che i tempi sono cambiati e che un rabbino che si converte al cristianesimo non è più un obbiettivo e un ideale per la Chiesa Cattolica.
Un altro punto critico del dialogo è quello della contraddizione tra i tanti risultati ottenuti e la fragilità delle conquiste. Una delle prime necessità era cambiare radicalmente la didattica dell’ostilità antiebraica, basata tra l’altro sulla rimozione dell’accusa di deicidio. Non si può non prendere atto dell’impegno dispiegato dalla Chiesa per una diversa presentazione del popolo ebraico e per la creazione di un nuovo clima. Sono quotidianamente testimone, come molti altri ebrei, di questo clima mutato, di un rispetto non di facciata, di un atteggiamento di stima, ammirazione e affetto nei confronti degli ebrei che è sicuramente derivato da un tipo diverso di educazione religiosa. Certo è un processo che richiede tempo e pazienza, per cui si è lontani dall’ideale; ma talvolta si dubita se questo ideale sia realmente un obiettivo. Non sono riuscito a cancellare il ricordo di quanto è successo pochi mesi fa, quando si sono scatenate le passioni intorno alla « passione », quella rappresentata in un film. Non sto qui a riprendere la discussione sul film. Quello su cui bisogna meditare è la reazione della Chiesa e del Vaticano nel momento della polemica. Mentre il card. Kasper, evitando di commentare il film, dichiarava in un’intervista [2] che l’occasione era opportuna per riaffermare gli insegnamenti recenti della Chiesa, ben altre erano le voci che si diffondevano in altri ambienti ufficiali.
L’amara impressione che il mondo ebraico ha ricavato da tutto questo è che davanti a esigenze di forti esperienze mistiche ed enormi interessi pastorali, ma anche di altro tipo, il problema dei rapporti corretti con gli ebrei potesse essere messo in ultima fila e che bastasse a salvarlo un richiamo generico ai documenti ufficiali che venivano contraddetti dai fatti. Riprendendo le parole del card. Kasper, l’occasione dovrebbe essere utile non solo per riaffermare gli insegnamenti della Chiesa, ma per riflettere sul senso che hanno realmente in momenti di crisi.
Passando da quello che si spera sia stato un incidente isolato alla riflessione su problemi di fondo, credo che non si possa più evitare di affrontare alcune implicazioni radicali del confronto. Anche se non abbiamo superato alcune necessità primordiali come quella della lotta all’antisemitismo, il clima del confronto è ben diverso è più maturo e pone davanti a scelte difficili. C’è il problema del limite, del senso dell’assoluto e del relativo, di ciò che possiamo chiedere all’altro senza offenderlo o compromettere la sua integrità, ma senza essere costretti a cedere sui principi. La teologia e la norma, quella che noi chiamiamo halakhà, hanno le loro regole interne di formazione ed evoluzione e solo tangenzialmente sono investite dalla realtà contingente, per quanto importante essa sia. Quindi il dialogo non dovrebbe o potrebbe influire direttamente sul loro sviluppo. E poi c’è il problema della verità. Ognuno di noi possiede una parte di verità o tutta quanta? È una domanda decisiva. Perché se ognuno di noi possiede solo una parte di verità, allora unendoci insieme ne possederemo di più[3]. Non so se questa scelta sarebbe auspicabile per il cristianesimo. Per l’ebraismo rappresenterebbe un’unica cosa: la sua fine. Di nuovo l’asimmetria del nostro incontro e del nostro dialogo. In ogni caso devono esserci limiti, nelle nostre pretese e nelle nostre possibilità di concessioni; e devono esserci spazi di libertà per pensare alle nostre fedi in un modo che non sia né arrogante né aggressivo, ma che rimanga comunque forte e senza compromessi. Il dialogo può seguire le regole della cortesia diplomatica, ma non è una trattativa diplomatica basata su reciproche concessioni.
Un rischio sempre all’orizzonte è quello di proporre l’immagine semplificata di una religione universale, o di un’ONU delle religioni in cui tutte le fedi sono uguali. Ho in mente i risultati di un recente sondaggio (istituto Piepoli, 19-9-2004) sulla religiosità dei romani, in cui il 48% degli intervistati riteneva che « le religioni più o meno si equivalgono tutte ». Non è solo ignoranza; sono le conseguenze di un appiattimento oggi molto comune che confonde il rispetto per la dignità di ognuno e le differenze di pensiero con il valore intrinseco da dare delle proprie convinzioni. Questa è una realtà che dovrebbe preoccupare tutti gli interlocutori religiosi, perché mette alla luce un relativismo più volte denunciato e condannato. Ma più di tutti preoccupa la nostra parte, perché un indebolimento generale del senso religioso è a sfavore della parte numericamente più debole. Nel corso della storia, come alla fine del ‘400 in Spagna, abbiamo pagato per questo un duro prezzo.
Un altro rischio è che in un rapporto di superiorità numerica si pensi alle differenze minoritarie come a curiose piccole varianti, e che uno possa parlare per tutti. Ma il dialogo tra le religioni non ha le regole della rappresentanza democratica. Nella politica e nell’etica possiamo e dobbiamo fare insieme battaglie per valori comuni, ma non dobbiamo confonderci quando i pensieri sono differenti. Non abbiamo ad esempio condiviso l’insistente richiesta cattolica di un richiamo alle radici giudaico-cristiane nella costituzione europea, perché non è con un trattino tra giudaico e cristiano che si risolve il problema di ciò che abbiamo in comune e di ciò che possiamo dare agli altri; e anche perché, memori della nostra storia, non potevamo dimenticare che di quelle radici cristiane gli ebrei avevano spesso conosciuto i frutti amari. Sarebbe stato molto più utile un confronto preliminare tra i due mondi su questo tema; credo che se combattiamo insieme per qualche cosa, convinti di avere ciascuno un suo ruolo, e non di essere soltanto trascinati dall’altro, la nostra forza verso il mondo diventa enorme. Nel campo dell’etica, e della bioetica in particolare, non tutto può ridursi in una visione comune. Le differenze che tra noi esistono, ad esempio sul problema delle cellule staminali, non ci consentono se non in qualche caso di creare fronti comuni; ma qui proprio il dialogo dovrebbe servire a una causa essenziale che invece non è mai in agenda: e farci cercare la strada per una legge civile che sia rispettosa delle differenze piuttosto che espressione di maggioranze forti.
Veniamo alle conclusioni. Se guardiamo il programma di questo corso, dove si parla ripetutamente di teologia cristiana dell’ebraismo, si rileva un’altra asimmetria. Non si parla mai di teologia ebraica del cristianesimo. Ma questa teologia c’è? Certo che c’è. E ci sono state evoluzioni nel pensiero di questi ultimi anni? Certo, come in passato, ma non parallele a quelle del cristianesimo. Molto più lente, e molto più dialettiche. Israele, come il patriarca Ja’aqov nel suo momento di reincontro con il fratello maggiore Esav, che lo invita a viaggiare insieme, risponde che ha bisogno di tempo, del suo tempo, dei suoi ritmi (Gen. 33:14).
Il dialogo, che non deve essere teologico, pone inevitabilmente a Israele il problema teologico della definizione dell’altro. Questo è un problema che dovrà essere risolto all’interno e con dinamiche interne, fuori dal dialogo, ma al quale, con i suoi tempi naturali, Israele non potrà sottrarsi. Ma nell’ebraismo la teologia (termine assente dal suo vocabolario classico) non può essere disgiunta dalla halakhà, la regola, ben più importante e decisiva. Nei secoli passati la durezza dei rapporti nei nostri confronti ha in qualche modo reso facili certe scelte di opposizione. Le regole che abbiamo ereditato sono nate in luoghi e periodi differenti e nascono da visioni contrastanti sul ruolo del cristianesimo, sulla natura della sua fede, sui rischi dell’incontro, sui limiti possibili e sulle giustificazioni alle concessioni. E’ necessario che oggi anche su questi temi sia la halakhà a riprendere il suo ruolo primario di guida al comportamento, riaprendo la discussione e proponendo le risposte. Ma la halakhà ha le sue regole, e i risultati non sono programmabili politicamente.
Sul piano della dottrina possiamo concederci un po’ più di libertà. Certamente, sulla base dei testi, ci sono piste da percorrere anche se con cautela, per nuove riflessioni dottrinali. Ne propongo due, ricche di implicazioni simboliche. La prima: il profeta Isaia (49:14) riferiva il lamento di Sion « Sion dice: il Signore mi ha abbandonato, il S. mi ha dimenticato » . La risposta al lamento è una consolazione: non c’è abbandono nè oblio, perchè D. è per Israele come una madre, anzi più di una madre che non abbandona il suo piccolo. Un Maestro del Talmud (TB Berakhot 32 b) si chiedeva perché ci fossero due termini nel lamento: abbandono e oblio; spiegava: è come un uomo che ha abbandonato la prima moglie per un’altra, e si è dimenticato della prima. Strana spiegazione che un po’ contraddice il seguito, dove i rapporti simbolici sono quelli tra madre e figlio e non quelli tra coniugi. Ma resta un’immagine interessante (che magari non sarà gradita alle donne di oggi): come un uomo può avere più mogli, stabilendo con ognuna un rapporto affettivo speciale, così D. può unirsi a vari popoli, dopo essere stato unito a Israele come sua prima compagna. Non c’è limite all’amore divino; ma resta da definire se a ogni nuova unione la precedente compagna sia ripudiata e negletta per sempre o se resti sempre amata; e il testo profetico deporrebbe per la seconda ipotesi; ma in fondo questa riflessione rabbinica non esclude la possibilità di affetti non esclusivi per D. E con un po’ d’ironia potremmo anche immaginare che, come spesso succede nelle famiglie poligamiche dopo l’iniziale contrasto tra le rivali, le mogli si alleino per dominare o resistere al marito. Sarebbe un’imprevedibile e paradossale evoluzione storica.
La seconda pista: Racconta la Genesi (27:45) che quando Esav minacciò di uccidere il fratello Ja’aqov non appena il padre Izchaq fosse morto, la madre Rivkà ordinò a Ja’aqov di fuggire, dicendo « perché dovrei rimanere priva di voi due in solo giorno? » I due potrebbero essere Izchaq e Ja’aqov, o, secondo i rabbini, Ja’aqov ed Esav, forse condannato per la sua colpa. Rashì, riprendendo l’idea dal Talmud (TB Sotà 13a), dice che in quel momento Rivkà era stata dotata di spirito profetico, e aveva intuito, come il midrash deduce dal racconto biblico, che effettivamente, dopo molti anni, i due fratelli gemelli sarebbero morti (o sarebbero stati sepolti) nello stesso giorno.
Le parole di Rashì fanno pensare a una cosa importante: Che tra i due fratelli non ci sarà uno che scomparirà prima dell’altro, magari inghiottito dall’altro. Siamo destinati a stare nel bene e nel male per sempre insieme e finché uno di noi vivrà, vivrà anche l’altro.
Teniamo presente questa prospettiva, e cerchiamo di trasformare il destino della nostra forzata coesistenza in uno stimolo di confronto positivo e non distruttivo, di crescita benefica per noi e per tutta l’umanità.
In questo momento epocale, in cui quelli che abbiamo considerato in un certo senso i discendenti di Esav stanno rinfoderando la spada sguainata contro Israele, mentre i discendenti di Ishmael la stanno brandendo dopo secoli di relativa calma, è il senso delle nostre origini umane e delle nostre responsabilità a dover prevalere; riprendendo le parole della preghiera di Isaia (64:7): « Ora, o Signore, tu sei il nostro Padre; noi siamo la materia e tu sei il nostro creatore; e tutti noi siamo opera delle Tue mani ».

Riccardo Di Segni

[1] « Il popolo ebraico nel piano divino della salvezza » Civiltà Cattolica 1965, IV, 209-229, ristampato in L. Sestieri, G. Cereti, Le Chiese cristiane e l’ebraismo, 1947-1982, Marietti ,Casale Monferrato 1983, pag. 95. Sembra seguirne la dottrina il car. Ratzinger quando afferma che « Nell’Antico Testamento [il popolo di D.] era il popolo d’Israele, da Cristo in avanti il nuovo popolo è quello dei suoi seguaci » (il Tempo, 27.2.2004, pag.7).
[2] CNN international, 24-2-2004
[3] Come suggerisce provocatoriamente rav Jonathan Rosenblum, Jerusalem Post, 1-1-2004.

UDIENZA DEL PAPA A UNA DELEGAZIONE DI B’NAI B’RITH INTERNATIONAL

 dal sito:

http://www.zenit.org/article-26671?l=italian
 
UDIENZA DEL PAPA A UNA DELEGAZIONE DI B’NAI B’RITH INTERNATIONAL

Organizzazione ebraica internazionale di azione sociale

CITTA’ DEL VATICANO, giovedì, 12 maggio 2011 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il discorso che Papa Benedetto XVI ha rivolto questo giovedì a una delegazione di B’nai B’rith International, associazione ebraica mondiale di azione sociale, nella Sala dei Papi del Palazzo Apostolico.
* * *

Cari amici,
sono lieto di salutare questa delegazione di B’nai B’rith International. Ricordo con piacere il mio primo incontro con una delegazione della vostra organizzazione circa cinque anni fa.
In questa occasione, desidero esprimere apprezzamento per il vostro impegno nel dialogo tra cattolici ed ebrei e in particolare per la vostra partecipazione attiva all’incontro del Comitato Internazionale di Collegamento Cattolico-Ebraico, svoltosi a Parigi alla fine di febbraio. L’incontro si è tenuto nel quarantesimo anniversario del dialogo, che è stato organizzato congiuntamente dalla Commissione della Santa Sede per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo e il Comitato Internazionale Ebraico per le Consultazioni Interreligiose. Ciò che è accaduto in questi quarant’anni va considerato come un grande dono del Signore e un motivo di sincera gratitudine verso Colui che guida i nostri passi con la sua saggezza infinita ed eterna.
L’incontro di Parigi ha confermato il desiderio dei cattolici e degli ebrei di affrontare insieme le sfide immense delle nostre comunità in un mondo in rapido mutamento e, in maniera significativa, la nostra comune responsabilità religiosa di combattere la povertà, l’ingiustizia, la discriminazione e la negazione dei diritti universali dell’uomo. Ci sono molti modi in cui ebrei e cristiani possono cooperare per migliorare il mondo secondo la volontà dell’Onnipotente per il bene dell’umanità. Nell’immediato i nostri pensieri sono rivolti a opere concrete di carità e servizio ai poveri e ai bisognosi. Tuttavia, una delle cose più importanti che possiamo fare insieme è rendere una testimonianza comune del nostro credo, profondamente sentito, che tutti gli uomini e tutte le donne sono creati a immagine divina (cfr. Gn 1, 26-27) e quindi possiedono pari inviolabile dignità. Questa convinzione rimane il fondamento più sicuro di ogni sforzo volto a difendere e a promuovere i diritti inalienabili di ogni essere umano.
In un colloquio recente fra delegazioni del Gran Rabbinato d’Israele e la Commissione della Santa Sede per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo, svoltosi a Gerusalemme alla fine di marzo, è stata sottolineata la necessità di promuovere una giusta comprensione del ruolo della religione nella vita delle società contemporanee come correttivo a una visione meramente orizzontale e quindi tronca della persona umana e della coesistenza sociale. La vita e l’opera di tutti i credenti dovrebbero rendere una testimonianza costante del trascendente, mirare alle realtà invisibili che sono al di là di noi e incarnare la convinzione che una Provvidenza amorevole e compassionevole guida l’esito finale della storia, indipendentemente da quanto difficile e minaccioso possa apparire a volte il cammino. Grazie al profeta abbiamo questa assicurazione: «Io, infatti, conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo — dice il Signore — progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29, 11).
Con questi sentimenti invoco su di voi e sulle vostre famiglie le benedizioni divine di saggezza, misericordia e pace.

Omelia 26 di Sant’Agostino per il Vangelo di Oggi: Gv 6,44-51

dal sito:

http://www.augustinus.it/italiano/commento_vsg/omelia_026.htm

Omelia 26 di Sant’Agostino per il Vangelo di Oggi: Gv 6,44-51

SANT’AGOSTINO

OMELIA 26

ll pane che io darò è la mia carne offerta per la vita del mondo.

O sacramento di pietà, o segno di unità, o vincolo di carità! Chi vuol vivere, ha dove vivere, ha donde attingere la vita. Si accosti, creda, sarà incorporato, sarà vivificato.
1. Quando nostro Signore Gesù Cristo, come abbiamo sentito dalla lettura del Vangelo, affermò di essere lui il pane disceso dal cielo, i Giudei cominciarono a mormorare dicendo: Ma non è costui Gesù, il figlio di Giuseppe, del quale conosciamo il padre e la madre? Come può dire dunque: Sono disceso dal cielo? (Gv 6, 42). Essi erano lontani da quel pane celeste, ed erano incapaci di sentirne la fame. Avevano la bocca del cuore malata; avevano le orecchie aperte ma erano sordi, vedevano ma erano ciechi. Infatti, questo pane richiede la fame dell’uomo interiore; per cui in altro luogo il Signore dice: Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, poiché essi saranno saziati (Mt 5, 6). E l’apostolo Paolo dice che la nostra giustizia è Cristo (cf. 1 Cor 1, 30). Perciò chi ha fame di questo pane, deve sentir fame di giustizia: ma della giustizia che discende dal cielo, della giustizia che Iddio dà, non di quella che l’uomo si fa da sé. Se, infatti, l’uomo non si facesse una sua giustizia, non direbbe il medesimo Apostolo a proposito dei Giudei: Misconoscendo la giustizia di Dio e volendo stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio (Rm 10, 3). Così erano costoro: incapaci d’intendere il pane del cielo, perché, sazi della propria giustizia, non sentivano fame della giustizia di Dio. Cosa s’intende qui per giustizia di Dio e giustizia degli uomini? Per giustizia di Dio s’intende non la giustizia per cui Dio è giusto, ma quella che Dio comunica all’uomo, affinché l’uomo sia giusto per grazia di Dio. E quale era, invece, la giustizia di quei tali? Una giustizia che essi presumevano dalle loro forze, illudendosi di poterla compiere appoggiandosi sulla propria virtù. Ora, nessuno può adempiere la legge, senza l’aiuto della grazia, che è il pane che discende dal cielo. Compie la legge – dice in maniera concisa l’Apostolo, – soltanto chi ama (Rm 13, 10): chi ama non il denaro, ma chi ama Dio; chi ama non la terra o il cielo, ma colui che ha fatto il cielo e la terra. Donde attinge, l’uomo, questo amore? Ascoltiamo lo stesso Apostolo: L’amore di Dio viene riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato (Rm 5, 5). Il Signore, che avrebbe donato lo Spirito Santo, affermò di essere il pane che discende dal cielo, esortandoci a credere in lui. Mangiare il pane vivo, infatti, significa credere in lui. Chi crede, mangia; in modo invisibile è saziato, come in modo altrettanto invisibile rinasce. Egli rinasce di dentro, nel suo intimo diventa un uomo nuovo. Dove viene rinnovellato, lì viene saziato.

[La fede ha le sue radici nel cuore.]
2. Che cosa ha risposto, allora, Gesù a quei tali che mormoravano? Non mormorate tra voi. Come a dire: so perché non avete fame, so perché non comprendete e quindi non cercate questo pane. Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato (Gv 6, 43-44). Mirabile esaltazione della grazia! Nessuno può venire se non è attratto. Se non vuoi sbagliare, non pretendere di giudicare se uno è attratto o non è attratto, né di stabilire perché viene attratto questo e non quello. Cerca di prendere le parole come sono e cerca d’intenderle bene. Non ti senti ancora attratto? Prega per essere attratto. Cosa voglio dire con ciò, o fratelli? Voglio forse dire che se veniamo attratti dal Cristo, allora crediamo nostro malgrado, siamo costretti e non siamo più liberi? Ebbene, può accadere che uno entri in chiesa contro la sua volontà, e, contro la sua volontà, si accosti all’altare e riceva il Sacramento, ma credere non può se non vuole. Se il credere fosse un’azione esteriore, potrebbe avvenire anche contro la nostra volontà, ma non è col corpo che si crede. Ascolta l’Apostolo: E’ col cuore che si crede per ottenere la giustizia. E che cosa dice poi? e colla bocca si fa la professione per avere la salvezza (Rm 10, 10). E’ dalle radici del cuore che sorge la professione di fede. Ti accadrà di sentire uno professare la fede, senza per questo sapere se egli crede davvero. Ma se ritieni che egli non creda, non puoi chiamare, la sua, una professione di fede: perché, professare, significa esprimere ciò che si ha nel cuore. E se nel cuore hai una cosa e ne dici un’altra, tu dici delle parole ma non fai una professione di fede. Poiché dunque è col cuore che si crede in Cristo, per cui la fede non può essere una cosa forzata, e d’altra parte chi è attratto sembra che sia costretto a credere contro sua volontà, in che modo possiamo risolvere il problema posto dalle parole: Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato?
3. Si dirà che se uno è attratto, viene suo malgrado. Ma se viene suo malgrado, vuol dire che non crede: e se non crede non viene. Non si va a Cristo camminando, ma credendo. Non si raggiunge Cristo spostandoci col corpo, ma con la libera decisione del cuore Così quella donna che toccò un lembo della veste del Signore, toccò più che tutta la folla che lo schiacciava, tanto che il Signore domandò: Chi mi ha toccato? I discepoli stupiti, esclamarono: La folla ti preme d’ogni parte, e tu dici: chi mi ha toccato? Ma egli riprese: Qualcuno mi ha toccato (Lc 8, 45-46). La donna lo tocca, la folla preme. Che significa toccare se non credere? Per questo, a quella donna che dopo la risurrezione si voleva gettare ai suoi piedi, disse: Non mi toccare: non sono ancora asceso al Padre (Gv 20, 17). Come a dire: Tu credi che io sia soltanto ciò che vedi: non mi toccare. Che vuol dire? Vuol dire: tu credi che io sia solo ciò che appaio, non credere più così. Questo è il significato delle parole: Non mi toccare: non sono ancora asceso al Padre; cioè per te non sono ancora asceso, in quanto io non mi sono mai allontanato da lui. Se non poteva toccarlo mentre stava in terra, come avrebbe potuto toccarlo quando fosse asceso al Padre? In tal modo, con tale spirito vuole che lo si tocchi; e così lo toccano coloro che lo toccano con fede, ora che egli è asceso al Padre, ora che sta alla destra del Padre, essendo uguale al Padre.

[Ciò che ci piace ci attrae.]
4. Così, quando ascolti: Nessuno viene a me se non è attratto dal Padre, non pensare di essere attratto per forza. Anche l’amore è una forza che attrae l’anima. Non dobbiamo temere il giudizio di quanti stanno a pesare le parole, ma sono incapaci d’intendere le cose di Dio; i quali, di fronte a questa affermazione del Vangelo, potrebbero dirci: Come posso credere di mia volontà se vengo attratto? Rispondo: Non è gran cosa essere attratti da un impulso volontario, quando anche il piacere riesce ad attrarci. Che significa essere attratti dal piacere? Metti il tuo piacere nel Signore, ed egli soddisfarà i desideri del tuo cuore (Sal 36, 4). Esiste anche un piacere del cuore, per cui esso gusta il pane celeste. Che se il poeta ha potuto dire: « Ciascuno è attratto dal suo piacere » (Virg., Ecl. 2), non dalla necessità ma dal piacere, non dalla costrizione ma dal diletto; a maggior ragione possiamo dire che si sente attratto da Cristo l’uomo che trova il suo diletto nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, in tutto ciò, insomma, che è Cristo. Se i sensi del corpo hanno i loro piaceri, perché l’anima non dovrebbe averli? Se l’anima non avesse i suoi piaceri, il salmista non direbbe: I figli degli uomini si rifugiano all’ombra delle tue ali; s’inebriano per l’abbondanza della tua casa, bevono al torrente delle tue delizie; poiché presso di te è la fonte della vita e nella tua luce noi vediamo la luce (Sal 35, 8-10). Dammi un cuore che ama, e capirà ciò che dico. Dammi un cuore anelante, un cuore affamato, che si senta pellegrino e assetato in questo deserto, un cuore che sospiri la fonte della patria eterna, ed egli capirà ciò che dico. Certamente, se parlo ad un cuore arido, non potrà capire. E tali erano coloro che mormoravano tra loro. Viene a me – dice il Signore – chi è attratto dal Padre.

[Rivelandosi a noi, Dio ci attrae.]
5. Ma perché uno deve essere attratto dal Padre, se il Cristo stesso ci attrae? Perché dice che uno deve essere attratto dal Padre? Se dobbiamo essere attratti, lo saremo da colui al quale una donna innamorata dice: Correremo dietro l’odore dei tuoi profumi (Ct 1, 3). Ma consideriamo, o fratelli, e, per quanto è possibile, cerchiamo d’intendere ciò che ha voluto dirci. Il Padre attira al Figlio coloro che credono nel Figlio, in quanto sono persuasi che egli ha Dio per Padre. Dio Padre, infatti, ha generato il Figlio uguale a sé; e il Padre attrae al Figlio colui che, nella sua fede, sente e sa che colui in cui crede è uguale al Padre. Ario ha creduto che il Figlio fosse una creatura: il Padre non lo ha attirato, perché chi ritiene che il Figlio non sia uguale al Padre non pensa rettamente del Padre. Che dici, Ario? Che discorsi stai facendo, o eretico? Chi è Cristo? Non è vero Dio, rispondi, ma una creatura del vero Dio. Il Padre non ti ha attratto: perché non hai capito chi è il Padre, di cui rinneghi il Figlio. Ti sei fatta del Figlio un’idea sbagliata. Non sei attratto dal Padre, e tanto meno sei attratto al Figlio, che è ben altro di ciò che tu dici. Fotino dal canto suo dice: Cristo è solo uomo, non è anche Dio. Se uno pensa così, vuol dire che il Padre non lo ha attratto. Colui che il Padre ha attratto, ha detto: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Non sei come un profeta, non sei come Giovanni, non sei come un qualsiasi uomo giusto; tu sei l’unico, l’eguale, tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Pietro è stato attratto, ed è stato attratto dal Padre: Beato te, Simone figlio di Giovanni, perché non carne e sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli (Mt 16, 16-17). Questa rivelazione è essa stessa un’attrazione. Tu mostri alla pecora un ramo verde, e l’attrai. Mostri delle noci ad un bambino e questo viene attratto: egli corre dove si sente attratto; è attratto da ciò che ama, senza che subisca alcuna costrizione; è il suo cuore che rimane avvinto. Ora se queste cose, che appartengono ai gusti e ai piaceri terreni, esercitano tanta attrattiva su coloro che amano non appena vengono loro mostrate – poiché veramente « ciascuno è attratto dal suo piacere » -, quale attrattiva eserciterà il Cristo rivelato dal Padre? Che cosa desidera l’anima più ardentemente della verità? Di che cosa dovrà l’uomo essere avido, a quale scopo dovrà custodire sano il palato interiore, esercitato il gusto, se non per mangiare e bere la sapienza, la giustizia, la verità, l’eternità?
6. E dove l’anima potrà essere saziata? Dove si trova il sommo bene, la verità totale, l’abbondanza piena. Qui in terra, anche se ci sostiene l’autentica speranza, è più facile aver fame che esser saziati. Beati – dice infatti il Signore – coloro che hanno fame e sete di giustizia, – cioè che hanno fame e sete qui, in terra – perché saranno saziati (Mt 5, 6). Ma dove saranno saziati? In cielo. Così, dopo aver detto: Nessuno viene a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato, cosa aggiunge? E io lo risusciterò nell’ultimo giorno (Gv 6, 44). Gli do ciò che ama, e gli rendo ciò che spera; vedrà ciò che senza vedere ha creduto, mangerà ciò di cui adesso ha fame e sarà saziato con ciò di cui adesso ha sete. Dove? Nella risurrezione dei morti, perché io lo risusciterò nell’ultimo giorno.

[Dio possiede l'arte di attrarre.]
7. Sta scritto nei profeti: Saranno tutti ammaestrati da Dio (Gv 6, 45). Perché vi cito questo, o Giudei? Voi non siete stati ammaestrati dal Padre, come potete conoscermi? Tutti i figli del Regno saranno ammaestrati da Dio, non dagli uomini. Anche se ascoltano dalla voce degli uomini, ciò che comprendono vien loro comunicato interiormente: è frutto di una illuminazione, di una rivelazione interiore. Che fanno gli uomini con l’annuncio che risuona di fuori? Che faccio io adesso che vi parlo? Faccio giungere alle vostre orecchie il suono delle parole. Se dentro di voi non ci fosse chi ve ne dà la rivelazione, io parlerei a vuoto e vane sarebbero le mie parole. Il coltivatore dell’albero è fuori, il Creatore è dentro. Colui che pianta e colui che irriga agiscono all’esterno, come appunto facciamo noi; ma né chi pianta, è qualcosa, né chi irriga è qualcosa, ma Dio che fa crescere (1 Cor 3, 7). Questo significa saranno tutti ammaestrati da Dio. Tutti chi? Chiunque ha ascoltato il Padre ed ha accolto il suo insegnamento, viene a me (Gv 6, 45). Ecco, come esercita la sua attrattiva il Padre: attrae col suo insegnamento, senza costringere nessuno. Ecco come attrae. Saranno tutti ammaestrati da Dio: attrarre è l’arte di Dio. Chiunque ha ascoltato il Padre ed ha accolto il suo insegnamento, viene a me. Sì, attrarre è proprio di Dio.
8. E allora, fratelli? Se chiunque ha ascoltato il Padre ed ha accolto il suo insegnamento, viene al Cristo, Cristo non gli ha insegnato niente? E allora perché gli uomini non hanno visto il Padre come maestro, mentre hanno visto il Figlio? Gli è che il Figlio parlava, e il Padre insegnava. Io, che sono uomo, a chi insegno, o fratelli, se non a chi ascolta la mia parola? Se io, essendo uomo, insegno a chi ascolta la mia parola, anche il Padre insegna a colui che ascolta il suo Verbo, la sua Parola. E se il Padre insegna a chi ascolta il suo Verbo, domandati chi è Cristo e troverai che è appunto il Verbo del Padre: In principio era il Verbo. Non dice l’evangelista che in principio Dio creò il Verbo, così come la Genesi dice: In principio Dio creò il cielo e la terra (Gn 1, 1). La ragione è che il Verbo non è una creatura. Lasciati attrarre dal Padre al Figlio. Lasciati ammaestrare dal Padre, ascolta il suo Verbo. Quale Verbo, dici tu, devo ascoltare? In principio era il Verbo. Il Verbo non è stato creato, ma era; e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. E in che modo gli uomini fatti di carne potranno udire questo Verbo? Perché il Verbo si è fatto carne e abitò fra noi (Gv 1, 1 14).
9. Il Signore ci spiega anche questo, e ci aiuta a capire il significato delle sue parole: Chi ha ascoltato il Padre ed ha accolto il suo insegnamento, viene a me. E subito aggiunge quanto si sarebbe potuto presentare alla nostra mente: Non che alcuno abbia veduto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha veduto il Padre (Gv 6, 46). Che vuol dire? Io ho visto il Padre, voi non avete visto il Padre: e tuttavia se venite a me è perché il Padre vi attrae. E cos’è essere attratti dal Padre se non apprendere dal Padre? E apprendere dal Padre cos’è se non ascoltare il Padre? E ascoltare il Padre cos’è se non ascoltare il Verbo del Padre, che sono io? Quando io affermo: Chiunque ha ascoltato il Padre e ha accolto il suo insegnamento, voi potreste obiettare: Se non abbiamo mai visto il Padre, come abbiamo potuto accogliere il suo insegnamento? Vi rispondo: Non che alcuno abbia veduto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha veduto il Padre. Io conosco il Padre; io vengo da lui, ma come viene la parola da colui al quale essa appartiene; non come una parola che suona e passa, ma come la Parola che permane presso chi la pronuncia e che attrae chi l’ascolta.
10. Quanto segue deve rimanere in noi ben impresso: In verità, in verità vi dico: chi crede in me ha la vita eterna (Gv 6, 47). Ha voluto rivelare ciò che è. In maniera più concisa avrebbe potuto dire: Chi crede in me, ha me. Cristo è infatti vero Dio e vita eterna. Chi crede in me, egli dice, entra in me; e chi entra in me, ha me. Ma cos’è avere me? E’ avere la vita eterna. Colui che è la vita eterna accettò la morte, ha voluto morire: ma in ciò che possedeva di tuo, non di suo. Egli ha ricevuto la carne da te, in cui poter morire per te. Egli ha preso la carne dagli uomini, ma non nel modo in cui la prendono gli uomini. Egli, che ha il Padre nel cielo, scelse una madre in terra: in cielo è nato senza madre, in terra è nato senza padre. La vita ha accettato la morte, affinché la vita uccidesse la morte. Dunque chi crede in me – dice – ha la vita eterna, che non è quella che si vede, ma quella che non si vede. Infatti, la vita eterna è il Verbo, che era in principio presso Dio, e il Verbo era Dio, e la vita era la luce degli uomini (Gv 1, 1-4). Egli stesso, che è la vita eterna, comunicò la vita eterna anche alla carne da lui assunta Egli venne per morire, ma il terzo giorno risuscitò. La morte venne a trovarsi tra il Verbo che assunse la carne e la carne che risorgeva, e fu debellata.
11. Io sono – dice – il pane della vita. Di che cosa si vantavano i Giudei? I padri vostri – prosegue il Signore – nel deserto mangiarono la manna e sono morti (Gv 6, 48-49). Di che cosa vi vantate? Mangiarono la manna e sono morti. Perché, mangiarono e sono morti? Perché credevano solo a ciò che vedevano; e non comprendevano ciò che non vedevano. E per questo sono vostri padri, perché voi siete simili a loro. Dobbiamo intendere, o miei fratelli, che per quanto riguarda questa morte visibile e corporale, noi non moriremo se mangiamo il pane che discende dal cielo? No, per quanto riguarda la morte visibile e carnale, moriremo anche noi come quelli. Ma per quanto riguarda quella morte che il Signore c’insegna a temere, di cui sono morti i padri di costoro, quella morte ci sarà risparmiata. Mangiò la manna Mosè, la mangiò Aronne, la mangiò Finees e molti altri che erano graditi a Dio, e non sono morti. Perché? Perché ebbero l’intelligenza spirituale di quel cibo visibile: spiritualmente lo desiderarono, spiritualmente lo gustarono, e spiritualmente furono saziati. Anche noi oggi riceviamo un cibo visibile: ma altro è il sacramento, altra è la virtù del sacramento. Quanti si accostano all’altare e muoiono, e, quel che è peggio, muoiono proprio perché ricevono il sacramento! E’ di questi che parla l’Apostolo quando dice: Mangiano e bevono la loro condanna (1 Cor 11, 29). Non si può dire che fosse veleno il boccone che Giuda ricevette dal Signore. E tuttavia non appena lo ebbe preso, il nemico entrò in lui; non perché avesse ricevuto una cosa cattiva, ma perché, malvagio com’era, ricevette indegnamente una cosa buona. Procurate dunque, o fratelli, di mangiare il pane celeste spiritualmente, di portare all’altare l’innocenza. I peccati, anche se quotidiani, almeno non siano mortali. Prima di accostarvi all’altare, badate a quello che dite: Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori (Mt 6, 12). Perdona e ti sarà perdonato: accostati con fiducia, è pane, non è veleno. Ma perdona sinceramente: perché se non perdoni sinceramente, mentisci, e mentisci a colui che non puoi ingannare. Puoi mentire a Dio, ma non puoi ingannarlo. Egli sa come stanno le cose. Egli ti vede dentro, dentro ti esamina, ti guarda e ti giudica, ti condanna o ti assolve. I padri di quei Giudei erano padri malvagi di figli malvagi, padri infedeli di figli infedeli, mormoratori e padri di mormoratori. E’ stato infatti detto di quel popolo che in nessuna cosa abbia offeso tanto il Signore, quanto mormorando contro di lui. Per questo, volendo Gesù far risaltare che essi erano degni figli di tali padri, esordisce: Cosa mormorate tra voi (Gv 6, 43), mormoratori, figli di mormoratori? I vostri padri mangiarono la manna e morirono; non perché la manna fosse cattiva, ma perché la mangiarono con animo cattivo.
12. Questo è il pane che discende dal cielo (Gv 6, 50). Questo pane è stato simboleggiato dalla manna, ed è stato simboleggiato dall’altare di Dio. Ambedue sono segni sacramentali: distinti come segni, ma identici per la realtà da essi significata. Ascolta l’Apostolo: Voglio che sappiate bene, o fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube e tutti attraversarono il mare, e così tutti nella nube e nel mare furono battezzati in Mosè, e tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale (1 Cor 10, 1-4). Sì, lo stesso cibo spirituale, perché materialmente era diverso: per essi era la manna, per noi un’altra cosa. Spiritualmente quel cibo era identico al nostro. Ma si parla dei nostri padri, non dei loro padri; di quei padri ai quali noi siamo simili, non di quelli ai quali essi erano simili. L’Apostolo aggiunge: E tutti bevvero la medesima bevanda spirituale. Era diversa la loro bevanda dalla nostra solo nella specie visibile, ma era identica nella virtù spirituale da essa significata. In che senso essi bevevano la medesima bevanda? Bevevano – dice – ad una pietra spirituale che li accompagnava, e quella pietra era Cristo (1 Cor 10, 4). Il pane viene donde veniva la bevanda. La pietra prefigurava Cristo; il Cristo vero è Verbo e carne. E come bevvero? La pietra fu percossa due volte con la verga (cf. Nm 20, 11); due volte come due sono i legni della croce. Questo è – dunque – il pane che discende dal cielo, affinché chi ne mangia non muoia (Gv 6, 50). Ma questo si riferisce alla virtù del sacramento, non alla sua forma visibile: ciò che conta è che uno mangi interiormente, non solo esteriormente: che mangi col cuore, non che mastichi coi denti.

[Solo il corpo di Cristo vive dello Spirito di Cristo.]
13. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Vivo precisamente perché disceso dal cielo. Anche la manna era discesa dal cielo; ma la manna era l’ombra, questo pane è la stessa verità. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno, e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo (Gv 6, 51-52). Come riuscirà la carne (cioè l’uomo fatto di carne) a capire perché il Signore ha chiamato carne il pane? Egli chiama carne quel pane che la carne non può comprendere, e la carne non lo può comprendere anche perché esso è chiamato carne. Per questo rimasero inorriditi, e dissero che era troppo, e che non era possibile. E’ la mia carne – dice – per la vita del mondo. I fedeli dimostrano di conoscere il corpo di Cristo, se non trascurano di essere il corpo di Cristo. Diventino corpo di Cristo se vogliono vivere dello Spirito di Cristo. Dello Spirito di Cristo vive soltanto il corpo di Cristo. Capite, fratelli miei, ciò che dico? Tu sei un uomo, possiedi lo spirito e possiedi il corpo. Chiamo spirito ciò che comunemente si chiama anima, per la quale sei uomo: sei composto infatti di anima e di corpo. E così possiedi uno spirito invisibile e un corpo visibile. Ora dimmi: quale è il principio vitale del tuo essere? E’ il tuo spirito che vive del tuo corpo, o è il tuo corpo che vive del tuo spirito? Che cosa potrà rispondere chi vive (e chi non può rispondere, dubito che viva), che cosa dovrà rispondere chi vive? E’ il mio corpo che vive del mio spirito. Ebbene, vuoi tu vivere dello Spirito di Cristo? Devi essere nel corpo di Cristo. Forse che il mio corpo vive del tuo spirito? No, il mio corpo vive del mio spirito, e il tuo del tuo. Il corpo di Cristo non può vivere se non dello Spirito di Cristo. E’ quello che dice l’Apostolo, quando ci parla di questo pane: Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo (1 Cor 10, 17). Mistero di amore! Simbolo di unità! Vincolo di carità! Chi vuol vivere, ha dove vivere, ha di che vivere. S’avvicini, creda, entri a far parte del Corpo, e sarà vivificato. Non disdegni d’appartenere alla compagine delle membra, non sia un membro infetto che si debba amputare, non sia un membro deforme di cui si debba arrossire. Sia bello, sia valido, sia sano, rimanga unito al corpo, viva di Dio per Iddio; sopporti ora la fatica in terra per regnare poi in cielo.

Luk-01,39_Mary visits Elizabeth

Luk-01,39_Mary visits Elizabeth dans immagini sacre 16%20MASTER%20OF%20THE%20WORKSHOP%20THE%20VISITATION

http://www.artbible.net/Jesuschrist_fr.html

Publié dans:immagini sacre |on 11 mai, 2011 |Pas de commentaires »

Dai Discorsi di san Leone Magno (Sermo LXXI, 1-5, De resurrectione Domini, I. PL 54,387-390)

dal sito:

http://www.certosini.net/lezion/Domenica/pasqua_2_domenica.htm

Seconda  Domenica di Pasqua

Anno A
 
Domenica in Albis
 
1 Dai Discorsi di san Leone Magno.

Sermo LXXI, 1-5, De resurrectione Domini, I. PL 54,387-390.
 
     Con la pratica quaresimale abbiamo voluto impegnarci in quella osservanza così da sperimentare qualcosa del mistero della croce nel tempo della passione del Signore; ora dobbiamo compiere ogni sforzo per trovarci partecipi della risurrezione di Cristo, passando così dalla morte alla vita mentre siamo ancora in questo corpo.
     Per chiunque passi da un modo di vivere a un altro, qualunque sia la sua trasformazione, lo scopo non è quello di rimanere ciò che era, ma di rinascere quale non era.
     Fondamentale, però, è conoscere per chi si vive o si muore: perché vi è una morte che è fonte di vita, e una vita che è causa di morte. E solo nel tempo presente si può scegliere l’una o l’altra: dalla natura delle azioni compiute in questa vita che passa, dipende una differente retribuzione per l’eternità.
     Si deve perciò morire al diavolo e vivere per Dio; venir meno al male per risorgere alla giustizia. E poiché, come dice la stessa Verità, nessuno può servire a due padroni, il Signore non sia per noi colui che abbatte i superbi, ma piuttosto colui che esalta gli umili alla gloria.
 
2     Dice l’Apostolo: Il primo uomo tratto dalla terra è di terra, il secondo uomo viene dal cielo. Quale è l’uomo fatto di terra, così sono quelli di terra; ma quale il celeste, così anche i celesti. E come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste. Dobbiamo gioire grandemente di questa trasformazione, per cui passiamo dalla ignobile condizione terrena alla dignità celeste, per ineffabile misericordia di colui che, per elevarci a sé discese fino a noi: e discese al punto da assumere non solo l’umana sostanza, ma anche la condizione di natura soggetta al peccato, accettando anche che la divina impassibilità patisse nella sua persona ciò che per intrinseca miseria sperimenta l’umana mortalità.
     Perché l’animo già turbato dei discepoli non provasse il tormento di un dolore prolungato, il Signore seppe abbreviare il tempo dei tre giorni predetti; aggiunse al secondo giorno intero l’ultima parte del primo e una frazione del terzo, in modo da ridurre l’intervallo di tempo senza intaccare il numero dei giorni.
 
3     La risurrezione del Salvatore non trattenne la sua anima agli inferi né il suo corpo nel sepolcro; tanto rapido fu il ritorno della vita in quel corpo incorrotto, che sembrò trattarsi più di sopore che di morte. La divinità, che non si era allontanata dai due elementi dell’uomo che aveva assunto, riunì con la sua potenza ciò che con la stessa potenza aveva separato.
     Seguirono poi numerose prove, atte a stabilire l’autorità della fede, che doveva essere diffusa in tutto il mondo. Già il rovesciamento della pietra, il vuoto del sepolcro, l’abbandono dei lenzuoli, nonché il racconto dell’avvenimento fatto dagli angeli dimostravano ampiamente la realtà della risurrezione del Signore. Tuttavia questi si manifestò e apparve allo sguardo delle donne e, a più riprese, a quello degli apostoli: con essi non solo parlò, ma abitò e sedette a mensa, lasciandosi anzi palpare e toccare minuziosamente dalla curiosità di chi persisteva nel dubbio.
 
4     Il Signore si recava dai discepoli entrando a porte chiuse e, soffiando su di essi, comunicava lo Spirito Santo; rischiarando la loro mente, rivelava i segreti delle Sacre Scritture e mostrava ancora la ferita del costato, le trafitture provocate dai chiodi, tutti insomma i segni della sua recente passione. Così avrebbero potuto rendersi conto che in lui le proprietà della natura divina e della natura umana rimanevano ben distinte. E noi, ben sapendo come il Verbo non si identifica con la carne, avremmo potuto riconoscere che l’unico Figlio di Dio è insieme Verbo e carne.
     Non contraddice a questa fede, o miei cari, la parola dell’apostolo Paolo, il dottore delle genti: Anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così. Infatti la risurrezione del Signore non ha distrutto la sua carne, ma l’ha trasformata, né l’accresciuta potenza ha consumato la sua struttura fisica.
 
5     La trasformazione di Cristo dopo la risurrezione ha interessato le qualità senza che la sua natura umana venisse meno: quel corpo già soggetto alla crocifissione, è divenuto incapace di patire; già soggetto alla morte, è divenuto immortale; già soggetto ai ferimenti, è divenuto incorruttibile. È giusto dire dunque che non si può conoscere la carne di Cristo nella condizione in cui precedentemente era nota: nulla è in essa rimasto di soggetto a patimenti e debolezza; è rimasta identica nella sua essenza, ma non tale nella sua gloria.
     Fa forse meraviglia una simile affermazione a proposito del corpo di Cristo, se lo stesso Paolo di tutti i cristiani che vivono secondo lo spirito dice: Ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne? La nostra risurrezione in Cristo – egli vuol dire – ha avuto inizio precisamente dal fatto che in colui che è morto per tutti si è già realizzato in pieno l’ideale della nostra speranza. Quindi noi non siamo esitanti o dubbiosi, non rimaniamo perplessi nell’incertezza dell’attesa; avendo invece già ricevuto l’anticipo della promessa, siamo in grado di vedere con l’occhio della fede quel che sarà il nostro futuro, e tutti lieti per l’elevazione della nostra natura, possediamo già quel che crediamo.
 
6     Non dobbiamo lasciarci attirare dal fascino delle cose del mondo e la nostra contemplazione non deve deviare dalle realtà celesti al richiamo di quelle terrene. Quel che in massima parte più non esiste dobbiamo considerarlo sorpassato; lo spirito, aderendo alle realtà durature, là volga i suoi desideri dove quel che gli si offre è eterno. È vero senz’altro che noi non abbiamo che la speranza della salvezza e portiamo ancora una carne corruttibile e mortale; pure si può ben dire che non siamo nella carne, se non ci dominano le passioni carnali.
     In breve, è giusto che non portiamo più il nome di ciò di cui non seguiamo più le inclinazioni. E quando l’Apostolo dice: Non seguite la carne nei suoi desideri, non dobbiamo pensare che ci si proibisca quanto conviene alla salute o è richiesto dall’umana debolezza. Piuttosto, dato che non si deve cedere a tutti i desideri né soddisfare qualsiasi impulso, consideriamo che egli ci avverte della necessità di una ben regolata temperanza, dato che non dobbiamo piegarci a tutte le tendenze egoiste o soddisfare tutti i desideri istintivi.
     A questo corpo, che va governato dall’anima, non concediamo il superfluo e non neghiamo il necessario.
 
7     Sempre san Paolo ci dice: Nessuno ha mai preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura.Evidentemente essa va nutrita e curata non per favorire il vizio e la lussuria, ma perché presti quel servizio a cui è tenuta. In tal modo la nostra natura rinnovata si manterrà nell’ordine, le sue facoltà inferiori non avranno ingiustamente un vergognoso sopravvento sulle facoltà superiori, né queste cederanno alle prime. Il vizio non trionferà nell’anima, né la schiavitù si stabilirà là dove dovrebbe essere il vero primato.        
     Riconosca il popolo di Dio che egli costituisce in Cristo una nuova creatura, e questa si renda conto esattamente di chi l’ha adottata o chi essa ha adottato. Quel che è stato rinnovato non deve tornare instabile come era prima; chi ha posto mano all’aratro non smetta il suo lavoro; badi anzi a quel che ha seminato, senza volgersi a quello che lasciò. Nessuno poi deve ricadere nello stato da cui si è sollevato; se, debole com’è il suo corpo, soffre ancora di qualche malanno, deve desiderare ardentemente la più completa guarigione.
 
8     Questa è la strada della salvezza, questa la maniera di imitare la risurrezione iniziata in Cristo. Certo nel cammino insidioso della vita si verificano cadute e scivolamenti: bisogna allora indirizzare i propri passi dalle sabbie mobili alla terra ferma, poiché sta scritto che il Signore fa sicuri i passi dell’uomo e segue con amore il suo cammino. Se cade, non rimane a terra, perché il Signore lo tiene per mano.
     Questa meditazione, miei cari, non va applicata solo alla festa di Pasqua, ma all’intera opera di santificazione della vita. L’attuale esercizio deve far sì che le pratiche che, pur di breve durata, hanno fatto la gioia delle anime fedeli, diventino abituali, rimangano integre, e ogni colpa sia cancellata con un pentimento immediato.
     Difficile e lunga è la cura delle malattie croniche, per cui con tanto maggiore sollecitudine bisogna applicare i rimedi, quanto più fresche sono le ferite. Così sollevandoci sempre, pienamente ristabiliti, dalle nostre cadute, potremo giungere all’incorruttibile risurrezione della carne che pure è destinata alla gloria, in Gesù Cristo nostro Signore.

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