La Bibbia, grande codice della cultura dell’Occidente : Mons. Gianfranco Ravasi

dal sito:

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La Bibbia, grande codice della cultura dell’Occidente

Mons. Gianfranco Ravasi

Il tema che propongo alla vostra attenzione ha per sua natura orizzonti sterminati. È un tema che può essere seguito e approfondito sia da persone credenti, sia da chi è ancora in ricerca e in cammino verso la fede e persino da agnostici. Comincerò col far passare davanti ai nostri occhi, in maniera quasi casuale, alcuni personaggi diversissimi, con battute che citerò in modo letterale.

Testimoni appassionati
Ed inizio col primo: «Per noi il patriarca Abramo è più di ogni altra persona della storia greca o tedesca. Tra ciò che sentiamo alla lettura dei Salmi e ciò che proviamo leggendo Pindaro o Petrarca c’è la stessa differenza esistente tra la patria e la terra straniera». Così scriveva Friedrich Wilhelm Nietzsche nella sua opera Aurora. Un altro laico, spirito altissimo, liberale, Francesco De Sanctis, narra nell’opera La Giovinezza come iniziò giovanissimo la carriera di professore universitario, scegliendo un corso sulla Bibbia che suscitò stupore, e alla fine racconta le sue esperienze emozionanti alla lettura del libro di Giobbe – «Non ho trovato nulla di simile nella cultura classica» – e alla lettura del Cantico dei Cantici. Egli conclude così: «Mi meraviglio che nelle scuole, dove si fanno leggere tante cose frivole, non sia penetrata un’antologia biblica, atta a tener desto il sentimento religioso che è lo stesso sentimento morale nel senso più elevato». Sentiamo, però, anche la testimonianza di un credente altissimo, un genio dell’umanità, Blaise Pascal, che nel pensiero 532 dell’edizione Brunsvicg afferma: «La Scrittura ha per ognuno passi atti a consolare tutte le condizioni, ma ha anche passi atti a intimorire e a inquietare tutte le condizioni».
E da ultimo introduciamo Umberto Eco, persona notissima che, per ragioni di cultura e di moralità generale, si batte da tempo per portare la Bibbia nelle scuole. Citatissima è una sua frase: «Perché i nostri ragazzi devono sapere tutto di Omero e nulla di Mosè? Perché la Divina Commedia e non il Cantico dei Cantici?».

Un dittico luminoso
Vorrei, dunque, proporre una riflessione sulla Bibbia in due suoi volti, in due aspetti: quello estetico generale e quello artistico-letterario nella sua espressione concreta. Si tratta di aspetti rilevanti anche per il credente. Sappiamo, infatti, che l’elemento fondamentale della Rivelazione è l’incarnazione, cioè il fatto che il Logos, la Parola perfetta, si riveste di carne, cioè di parole umane. Alcuni anni fa un grande critico canadese si è battuto lungamente per la conoscenza biblica all’interno delle università: Northrop Frye ha scritto un libro, Il grande codice (tradotto in italiano dall’editore Einaudi) che dichiarava: «Le Sacre Scritture sono l’universo entro cui la letteratura e l’arte hanno operato fino al XVIII secolo e stanno ancora in larga misura operando». Il pittore ebreo Marc Chagall diceva: «Per me, come per tutti i pittori dell’Occidente, la Bibbia è stata l’alfabeto colorato in cui ho intinto i miei pennelli».
Ecco, allora, che nell’ideale dittico che voglio presentarvi riguardo alla Bibbia, il primo quadro sarà quello, un po’ teorico, dell’estetica. La Parola di Dio, testo capitale della spiritualità per il credente, si pone con una sua concezione estetica.
La via attraverso la quale si realizza la bellezza del testo biblico è la parola. La Bibbia non ha scelto l’immagine, che pure è più affascinante. Infatti, nel Decalogo leggiamo la gelida frase del cosiddetto «comandamento aniconico»: «Tu non ti farai immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo, né di ciò che è quaggiù in terra, né di ciò che è nelle acque sotto terra».
Tant’è vero che il grande peccato d’Israele è il vitello d’oro. La Bibbia si affida alla reatà più debole e più fragile in assoluto, la parola. La Bibbia comincia così: Bereshît … wajiômer ‘Elohîm: jehî ‘ôr wajehî ‘ôr, «In principio… Dio disse: Sia la luce, e la luce fu». Nel silenzio assoluto dell’essere risuona la parola di Dio, parola perfetta, efficace, incisiva, creatrice e la luce si accende.
Ma la parola resta una realtà fragile, che una volta pronunciata scompare; e la Bibbia ne ha coscienza; tant’è vero che a un certo momento il profeta Isaia in 29,4, rivolgendosi a Gerusalemme – che rappresenta l’umanità, l’uomo – dice: «Prostrata, tu parlerai da terra / e dalla polvere della terra saliranno fioche le tue parole; / sembrerà di un fantasma la tua voce dalla terra / e dalla polvere la tua parola risuonerà come un bisbiglio». (Ho fatto una traduzione il più possibile vicina all’originale, anche se un po’ inceppata. D’altrone il grande Cervantes, autore del Don Chisciotte, dice che tutte le traduzioni sono come il rovescio di un arazzo). Dio dall’alto fa scendere la sua parola efficace e la fa annodare con l’ebraico, una lingua poverissima di pastori, grezza come le pietre del deserto. Dio per la sua Rivelazione ha scelto questa lingua povera, simile a un «bisbiglio», un mezzo «chenotico» (come dicono i teologi derivando l’aggettivo dal vocabolo kenosis col quale S. Paolo esprime l’abbassamento, lo «svuotamento» del Cristo, Figlio di Dio nella persona umana). Quando nell’Antico Testamento parliamo di Dio, usiamo le quattro lettere J h w h, che non si possono neppure pronunciare: il nome di Dio è una parola che persino «tace».

«Una voce di silenzio lieve»
Ma la Bibbia suggerisce un’esperienza maggiore, provocatrice in questo nostro tempo in cui l’aggressione, la violenza fonetica è diventata offensiva. Siamo nel Primo Libro dei Re, capitolo 19, versetto 12. Elia, il profeta perseguitato dalla regina Gezabele, deve fuggire: è in crisi, desidera abbandonare tutto, la sua stessa vocazione e decide di ritornare alle radici di Israele, al Sinai. Finalmente vi arriva e lì attende Dio. Anzi lì Dio lo aspetta. Ma non come vorremmo noi, credenti e non credenti, che Egli si rivelasse, cioè in maniera superba, nel fulmine che incendia i boschi o nella tempesta o nel terremoto che sconvolge le fondamenta della terra o nel vento impetuoso che spacca le pietre. No, la Bibbia rappresenta l’apparizione di Dio a Elia, stando alla pallida traduzione delle Bibbie che abbiamo tra le mani, «nel mormorio di un vento leggero». In realtà l’ebraico più suggestivamente dice: «come qôl demamah daqqah, cioè qôl, «voce»; demamah, «silenzio»: daqqah, «lieve». Dio è «una voce di silenzio lieve, leggero».
Si tratta di un «silenzio bianco»: come il bianco è la sintesi di tutti i colori, così quel silenzio divino è la sintesi di ogni comunicazione divina, non è il silenzio «nero» che incute paura. Dio parla attraverso una parola sottile, ma che ha tutta la sua forza. Una forza tale nella Bibbia da aver generato opere immortali nell’arte e nella letteratura di tutti i secoli, e tale da potervi ancora attingere ispirazione. Il poeta francese Paul Claudel diceva: «La Bibbia è stata il vocabolario al quale hanno attinto sempre poeti, letterati e artisti: è, quindi, parola ricca». Ad esempio, il Cantico dei Cantici è uno dei testi più affascinanti: solo 1250 parole fanno entrare il lettore in un giardino ove Lei e Lui vivono la straordinaria avventura di un amore che conosce l’eros, il fascino della bellezza dei sensi, ma che conosce anche la totalità della donazione.

Il trionfo dei simboli
Pensiamo anche all’Apocalisse che è come un manto tutto tempestato di simboli: se non li si conosce, il testo rimane una crittografia oscura, mentre in realtà è trasparentissimo per chi conosce il significato dei simboli. Pensiamo ancora al delizioso libretto di Giona, unico testo biblico che, dopo un racconto simbolico della pianta di ricino, del verme e del vento, finisce con un punto di domanda destinato non solo al protagonista – chiuso in sé, gretto, prima, renitente ad affrontare una difficile missione in terra pagana e noi stupito e quasi rattristato per le conversioni ottenute – ma destinato ai lettori di tutti i tempi, a noi che Dio vuole aperti alla salvezza di tutti gli uomini amati e chiamati da Dio.
Se poi passiamo a considerare, nel Nuovo Testamento, Gesù e la sua predicazione, restiamo conquistati dal fascino della stessa scelta dei temi e degli esempi presi dall’orizzonte quotidiano palestinese. Da esso Gesù ricava lo spunto per indicare l’amore di Dio, la sua provvidenza e il suo Regno. Persino lo scorpione bianco palestinese, simile a una piccola pagnotta, serve per far capire agli ascoltatori che Dio è padre e al figlio che gli chiede un pane non dà, appunto, uno scorpione. Così pure i cani randagi, il tarlo, le previsioni del tempo, le crisi familiari, i figli difficili, i ricchi beceri, i portieri di notte sono esempi efficaci per la predicazione di Gesù sul Regno dei cieli. E il seme, deposto nella terra a marcire per poter germogliare e produrre la messe, è un modo trasparente, efficace e indimenticabile per iniziare gli ascoltatori al mistero della morte e risurrezione che attende Gesù di Nazaret Figlio di Dio. Le prediche di Gesù non sono – come dice ironicamente il titolo di un libretto sulle omelie ecclesiastiche – il «tormento dei fedeli», ma inquietano le coscienze degli ascoltatori contemporanei a Lui e le nostre.
Concludendo, possiamo rappresentare la bellezza e la forza della Parola di Dio, realtà fragile ma insieme gloriosa, con un versetto salmico, quello del Salmo 56,9: «Signore, le mie lacrime nell’otre tuo raccogli; / non sono forse scritte nel tuo libro?». Come il pastore conserva nel prezioso scrigno, che è il suo otre, l’acqua, tesoro principale per la vita nel deserto, così il Signore raccoglie le lacrime degli uomini sofferenti come se fossero perle, e le scrive nel libro della vita perché non siano dimenticate. Il simbolo riesce a rendere fragrante e intenso lo stesso messaggio che si vuole comunicare.
A questo punto, possiamo fare una conclusione per questa prima tavola del dittico. La esprimiamo con la domanda di un mistico orientale, Massimo il Confessore, il quale così stimolava i suoi ascoltatori alla conoscenza della Bibbia: «Se tu non conosci le parole del testo, come potrai conoscere la Parola?».

Tre modelli d’interpretazione
Passiamo ora alla seconda tavola, nella quale cercheremo di illustrare come la letteratura e le arti abbiano attinto e ancora dipendano dalla Bibbia. Lo faremo considerando tre registri o modelli.
Il primo registro è quello interpretativo. La Bibbia è sempre lontana da noi. Ma l’artista la legge e la reinterpreta in modo più vicino e comprensibile per noi, cioè l’attualizza. Lo mostro con due esempi. Il primo è nel c. 22 della Genesi, pagina molto sobria ma drammatica: il sacrificio di Isacco. Il Dio «amato e crudele» – come ha scritto in una sua ballata il compianto amico p. David Maria Turoldo – aveva concesso ad Abramo il figlio Isacco; ora glielo richiede in sacrificio. Per tre giorni e tre notti Abramo cammina col figlio in silenzio verso il monte Moria, il monte della prova. Poi, in una scena «sacerdotale», prepara l’altare, vi lega il figlio e gli Ebrei vedranno nella scena della «legatura» la rappresentazione della shô’ah, l’«Olocausto» del popolo intero. Il pittore Rembrandt immortala in un quadro conservato ad Amsterdam la scena di Abramo che chiude gli occhi al figlio perché non veda il coltello che egli sta per vibrare su di lui. Il filosofo danese credente Sören Kierkegaard nel libro Timore e Tremore immagina quattro diverse soluzioni del dramma. Ne ricordo una, che evoca la prassi orientale della madre che, per staccare il figlio dal proprio seno, tinge questo di nero perché non sia desiderabile quando il bambino non può più attaccarvisi. Dio prova la sua creatura per farla crescere nella sua libertà di decisione e di azione.
La seconda scena è quella di Genesi 32, la misteriosa lotta di Giacobbe al fiume Jabbok, quando il patriarca cambia il suo nome in «Israele», divenendo così l’eroe eponimo del suo popolo. Egli però nel contempo esce zoppicante dal duello perché colpito all’anca e ci insegna, così, che dal contatto col mistero non si esce mai indenni. Nel quadro di Gauguin del «periodo bretone» – conservato alla National Gallery of Scotland di Edimburgo – che ha per soggetto «La lotta con l’angelo» (ma il titolo dato dal pittore è Dopo il sermone) si vedono in primo piano le donne bretoni dalle tipiche cuffie. Esse uscendo dalla chiesa, trovano inondata di sangue la piazza dove Giacobbe sta combattendo. Il pittore vuole così ammonire: la vicenda della lotta con l’angelo è realtà quotidiana: dopo aver ascoltato la parola di Dio, tu la vedi in azione nel tuo presente, nella piazza del tuo villaggio. In tal modo l’artista riesce a dire più di quanto abbia potuto rivelare l’esegeta.

Il testo deformato
Il secondo registro di interpretazione delle Scritture è quello degenerativo. Lo sperimentiamo per la lettura del libro di Giobbe. Giobbe viene considerato il modello della pazienza, ed invece è l’uomo che si rivolge a Dio con parole forti, accusatrici e persino blasfeme. Quindi la lettura di Giobbe uomo paziente è un’interpretazione falsa, degenerata. Ma il culmine si ha nella ripresa operata da Jung, uno dei padri della psicanalisi. Per lui Giobbe è la figura dell’uomo morale contro un Dio immorale che decide il bene e il male come gli pare, mentre Giobbe gli ricorda alcune leggi fondamentali della morale e si erge davanti all’ira cieca divina.
Ma Jung continua: Dio si incuriosisce di Giobbe e a un certo momento manda suo figlio Gesù, che diventa uomo, fratello di Giobbe. Contro l’ira del Dio terribile si erge ora il Figlio che ricorda al Padre le ragione dell’uomo e lo placa. È un esempio di lettura originale ma stravagante.
Un altro esempio di questa seconda lettura può essere quello di Mosè interpretato da Freud o quello ripreso in musica nel Mosè ed Aronne di Schönberg, un’esperienza straordinaria, diventata un bellissimo film di Straub che purtroppo, come tanti film raffinati, non ha avuto grande successo. Anche in questo film le vicende di Mosè ed Aronne sono interpretate in maniera psicologica, come ribellione a qualsiasi forma di divinità, per ottenere l’assoluta libertà.
Un ultimo esempio potrebbe essere assunto da uno scrittore famoso, André Gide, che ha stravolto la parabola del figlio prodigo di peccato e del padre prodigo di amore – presente in Luca 15 – la parabola evangelica dell’amore che va al di sopra di ogni peccato e di ogni limite. Gide, nell’opera Il ritorno del figliol prodigo, fa di questo uno sconfitto e introduce un personaggio inesistente nel racconto evangelico, il fratello minore. Il «prodigo», ritornato fallito, – così immagina lo scrittore francese – una notte aiuta il fratello minore a lasciare la casa paterna e gli dice: «Tenta tu la mia strada. Io non ce l’ho fatta: tenta tu a mordere in pienezza la melagrana della libertà! Questo è un « Addio! », non voglio che sia un « Arrivederci! ». Anche in questo caso la parabola è diventata qualcosa di diverso rispetto all’originale, anche se, purtroppo essa si ripete spesso nella storia delle nostre famiglie.

L’arte trasfigura la Scrittura
Ma esiste un terzo registro, quello trasfigurativo. Basti ricordare il filosofo Bachelard che dell’amico pittore ebreo Marc Chagall diceva: «Chagall legge la Bibbia e subito i passi biblici diventavano luce per tutti». Infatti i quadri di Chagall rappresentano la Bibbia nell’interno della vita comune degli uomini che s’incontrano per le strade; gli angeli escono dai comignoli; le scene bibliche sono quadretti di vita del villaggio ebreo mitteleuropeo. Dio non è lontano; la Bibbia non è remota rispetto al tuo presente che diventa improvvisamente nobile e solenne, perché l’arte riesce a farti vedere il mistero che si annida in quelle scene quotidiane in cui sei attore. Potremmo, infine, trovare due esempi del modello «trasfigurativo» prendendoli dal mondo della musica. Il primo è nell’opera di Bach, cioè nella sua Passione secondo Matteo. Il brano corale che chiude la Passione è un grande, tenerissimo «addio» alla salma di Gesù che è nella tomba ma, per fremiti, brividi e intuizioni, è già la celebrazione della gloriosa Risurrezione. Il secondo esempio musicale è il Salmo 117, K 339 di Mozart. Si tratta del salmo più breve del Salterio, che contiene, però, le due parole ebraiche – intraducibili adeguatamente nelle nostre lingue moderne – che sono la sintesi dell’alleanza tra Dio e l’uomo, hesed we’emet, «misericordia et veritas» – come traduce la Bibbia Vulgata (latina). Si tratta di parole che nella lingua originale esprimevano per l’ebreo tutto quello che Dio sente per l’uomo e a cui l’uomo è chiamato a rispondere con la sua fede. Ebbene, Mozart riesce a rendere questa emozione interiore e teologica proprio attraverso lo splendore supremo della sua musica.
Da ultimo, ricorreremo all’arte figurativa: è il quadro del Caravaggio che si può ammirare nella cappella Contarelli della chiesa di S. Luigi dei Francesi a Roma, la Vocazione di Matteo. Caravaggio cita dall’affresco michelangiolesco della Sistina l’indice del Dio creatore e lo rappresenta nella vocazione di Matteo, rivolgendolo da parte del Cristo al discepolo futuro perché si comprenda che in tal modo Gesù gli sconvolge e gli ricrea la vita.
L’indice appare anche nella Crocifissione – una tra le più belle di Grünewald nell’altare di Isenheim a Colmar: questa volta è il Battista che, ai piedi della croce, lo punta verso il Cristo crocifisso quasi a dire: «Bisogna che Lui cresca e io diminuisca».

L’orecchio ostruito di ortiche
Concludiamo con due testi che lasciamo alla comune meditazione. Il primo è di una poetessa ebrea, che fu premio Nobel per la letteratura, e che è morta a Stoccolma, ove si era rifugiata durante le persecuzioni naziste, Nelly Sachs, ed è un testo dedicato ai profeti: «Se i profeti irrompessero per le porte della notte / incidendo ferite con le loro parole; / se i profeti irrompessero per le porte della notte / e cercassero un orecchio come patria, / orecchio degli uomini ostruito di ortiche, / sapresti tu ascoltare?». È una domanda che dalle Scritture Sacre serpeggia ancora in mezzo a noi, che siamo ostruiti nell’ascolto da ortiche di ogni genere – consuetudine, abitudine, distrazione e non sappiamo ascoltare.
L’altro testo è un paragrafo suggestivo dello scrittore agnostico argentino Jorge Luís Borges che, nel suo racconto L’artefice, ci fa balenare dove possiamo trovare il volto di Cristo: «Abbiamo perduto quei lineamenti di Cristo, come si può perdere un numero magico di cifre abituali, come si perde per sempre un’immagine che ci ha affascinato nel caleidoscopio. Possiamo quei lineamenti scorgerli e non riconoscerli. Può il profilo di un uomo nella ferrovia sotterranea essere il profilo stesso di Cristo? Forse un tratto del volto crocifisso si cela in questo specchio. Forse quel volto, il volto di Cristo morì, si cancellò per sempre affinché Dio sia tutto in tutti». Anche uno scrittore agnostico come Borges aveva bisogno della divina sorgente del volto di Cristo presente in ogni specchio, cioè in ogni volto umano. E il testo si conclude con una citazione di Paolo (1 Corinzi 15, 28) che esalta il Dio «tutto in tutti».

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