Archive pour avril, 2011

Omelia (15-04-2011) : Perché sappiate e conosciate che il Padre è in me, e io nel Padre

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/22068.html

Omelia (15-04-2011)

Movimento Apostolico – rito romano

Perché sappiate e conosciate che il Padre è in me, e io nel Padre

Ecco cosa dice Gesù ai Giudei: Voi dite che io bestemmio perché ho detto: « Sono Figlio di Dio? ». Al di là del fatto che la Scrittura chiama tutti i credenti « dèi », cioè « figli di Dio », vi è un’altra realtà che voi dovete considerare con somma attenzione. Gli « dèi » devono compiere sempre opere da « dèi », quindi opere sante, giuste, buone, perché Dio sempre compiere opere buone, giuste, sante. Io altro non sto facendo in mezzo a voi che compiere le opere di Dio. Sono Figlio di Dio e compio le opere di Dio, compio quelle opere che solo Dio può compiere e nessun altro.
Se io compio le opere di Dio, significa che questa è la mia natura, o allora che il Padre è in me ed agisce per mezzo di me. Le mie parole vi possono anche trarre in inganno. Sono parole proferite con voce umana, escono da un cuore umano, provengono da una mente umana e tutto ciò che viene dal di dentro dell’uomo può ingannare un altro uomo. Le opere invece non ingannano mai. Sempre chiunque può sapere se un’opera viene da Dio o dagli uomini, dalla carne o dallo spirito, dalla santità o dal peccato, dalla luce o dalle tenebre, dall’ipocrisia o dalla bontà del cuore.
È vero. Anche le opere possono ingannare un uomo. Non tutte però. Solo alcune. Di altre mai si potrà dubitare. Le opere di Gesù sono esclusive. Nessuno mai prima di Lui ha fatto opere come queste. In tutto l’Antico Testamento mai nessuno ha operato in un modo così divino come Gesù. Lui è il più grande di tutti i Profeti e i Giusti del passato, perché le sue opere sono più grandi. Sono opere di Dio. Dio è in Lui e con Lui.
Vergine Maria, Madre della Redenzione, aiutaci a compiere opere sempre sante. Da esse si riconoscerà la nostra verità. Angeli e Santi di Dio, venite in nostro soccorso.

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Giovanni Paolo II, Conclusione dell’Ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani 1986 (Atti 22, 6)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/homilies/1986/documents/hf_jp-ii_hom_19860125_basilica-s-paolo_it.html

CONCLUSIONE DELL’OTTAVARIO DI PREGHIERA PER L’UNITÀ DEI CRISTIANI

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Basilica di San Paolo
Sabato, 25 gennaio 1986

“All’improvviso una gran luce dal cielo rifulse intorno a me” (At 22, 6). 

1. Fratelli, sorelle, pastori e fedeli delle diverse Comunità ecclesiali, riuniti con me accanto al sepolcro dell’apostolo Paolo, glorifichiamo insieme “la grande luce che dal cielo rifulse attorno a lui”. Fu così forte quella luce, che accecò gli occhi di Saulo (At 22, 11), ma illuminò per sempre il suo spirito. Da persecutore divenne apostolo; da bestemmiatore, “strumento eletto per portare il nome del Signore dinanzi ai popoli e ai figli d’Israele” (At 9, 15).
Quella luce, si può dire, rifulse qui, presso il sepolcro di Paolo, quando Papa Giovanni XXIII, il 25 gennaio 1959, annunciò a tutto il mondo l’intendimento di convocare il Concilio Ecumenico Vaticano II. Quella luce guidò il Concilio nelle diverse fasi dei lavori e nella elaborazione dei suoi magistrali documenti; essa guida ora le nostre Chiese nell’impegno di attuarne gli orientamenti. Per questo l’anno scorso da questo santo tempio è stato annunciato il Sinodo straordinario dei vescovi, per il cui felice compimento ora rendiamo grazie al Signore, mentre rinnoviamo l’impegno di proseguire con fedele alacrità sulla strada che il Concilio ha tracciato.
2. Siamo qui raccolti stasera per chiedere al Signore che la sua luce rifulga davanti agli uomini della presente generazione. Ci conforta in questa invocazione la promessa che abbiamo ascoltato dalle parole del profeta Isaia: il Signore “strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli” (Is 25, 7). Un velo, in tutto l’arco della storia umana, ha in parte oscurato all’uomo la luce di Dio. L’uomo, a motivo del “velo” che ne ottenebra lo sguardo interiore, riesce spesso a cogliere soltanto un riflesso, oscuro e deformato, della verità di Dio: come in uno specchio, oppure, secondo un’altra celebre immagine, come nel fondo di una caverna.
Ma il Signore, nella parola della sua promessa, dà appuntamento a tutti i popoli su di un monte (Is 25, 6): su quel monte strapperà il velo. La luce della gloria si riverserà dappertutto, illuminando ogni tenebra e moltiplicando la gioia. “Su di un monte”, dice il profeta Isaia. Di che cosa è immagine quel “monte”? Per noi che siamo testimoni della realizzazione della profezia, la risposta è facile: quel monte è simbolo della Chiesa. Non è forse nella Chiesa che il Signore ha imbandito il “banchetto” dell’Eucaristia? Non è forse in essa che, con la luce del Vangelo, egli “ha strappato il velo che copriva la faccia dei popoli”? Non è la Chiesa anticipazione nel tempo di quel che avverrà alla risurrezione, quando Dio “eliminerà la morte per sempre“?
Se questo è la Chiesa, allora in essa deve rifulgere la luce del Signore, perché gli uomini possano esserne attratti e, muovendosi verso di essa, trovarvi la salvezza. La luce del Signore risplende nella potenza del messaggio di cui la Chiesa è banditrice, e nella santità della vita con cui essa lo testimonia davanti al mondo.
3. Questa luce ha brillato vivacemente nella Chiesa primitiva, alla quale apparteneva Saulo di Tarso, divenuto poi Paolo, che nella seconda lettura ci ha ricordato la propria conversione.
La prima ora del cristianesimo è caratterizzata dalle meraviglie compiute da Dio nel cuore di uomini e di donne appartenenti al popolo di Gesù. Nel manifestarsi di tali meraviglie noi scorgiamo, con stupore sempre nuovo, l’inizio del compimento della profezia di Isaia: Dio comincia a strappare il velo che ricopre il volto dei popoli. Lo strappa dal volto di Paolo: nella teofania della strada di Damasco, l’uomo di Tarso di Cilicia incontra ciò che contemplerà per tutto il resto dei suoi giorni e annunzierà al mondo intero: il mistero di Cristo vivente nella Chiesa. In quella “grande luce” (At 22, 6) che lo getta al suolo chiamandolo per nome, egli riconosce la pienezza meridiana di quella stessa luce che risplendeva già, come nella sua aurora, nella Chiesa nascente. Divenuto apostolo egli consumerà la sua vita feconda per convocare tutti i popoli, secondo l’oracolo del profeta, su quel monte dove Dio ha definitivamente lacerato il velo, donando alla vita dell’uomo, nella coscienza e nell’esperienza dell’amore di Cristo, un’anticipazione della gioia promessa per il banchetto eterno.
4. “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura” (Mt 16, 15). Il comando di Cristo, che Paolo di Tarso ha accolto con cuore generoso, ha continuato a risuonare nella Chiesa, suscitando nel corso dei secoli schiere di apostoli pronti ad affrontare disagi e fatiche per portare alle genti la parola della salvezza.
Anche la Chiesa di oggi sente urgente dentro di sé il dovere della missione. Essa desidera servire l’uomo con tutte le sue forze; e il primo fondamentale servizio, essenzialmente legato alla sua ragione d’essere, resta la predicazione del Vangelo a ogni creatura.
Ma la fedeltà al comando missionario del Signore esige che la Chiesa, nella sua stessa esistenza, lasci trasparire più chiaramente il mistero che la costituisce, perché anche l’uomo contemporaneo sia conquistato dallo splendore che da esso promana. Si comprende subito, da questa prospettiva, la ragione per la quale il compito ecumenico della ricostituzione dell’unità visibile fra tutti i cristiani sia oggi una delle maggiori preoccupazioni: la realizzazione più matura e compiuta della natura della Chiesa come segno sacramentale dell’unità è la luce che il mondo oggi specialmente attende.
5. L’esperienza del Sinodo straordinario dei vescovi ha mostrato quanto sia vivo oggi il desiderio, in obbedienza alla voce dello Spirito, di rivivere l’esperienza della stessa Chiesa nel mattino della Pentecoste, al cenacolo di Gerusalemme.
L’indivisibile pienezza allora ricevuta dalla Chiesa nascente era chiamata a svilupparsi, nel corso dei secoli, in una molteplicità di forme storiche diverse e complementari.
Il compito ecumenico mira appunto a questo traguardo: realizzare la Chiesa come sacramento dell’unità sinfonica delle molteplici forme di un’unica pienezza, a immagine del mistero trinitario, sorgente e fondamento di ogni unità. Per questa nobilissima causa noi abbiamo pregato durante questa settimana, che è intensamente celebrata nelle Chiese di tutto il mondo.
Adesso, concludendola in questa Basilica veneranda, io desidero salutare e ringraziare con particolare affetto i rappresentanti delle Chiese ortodosse, anglicane ed evangeliche, che sono qui presenti e che costituiscono, assieme a noi, un unico coro di lode e di preghiera. Questo momento liturgico sia “culmen et fons” per un rinnovato slancio dell’impegno ecumenico a livello universale e nelle singole Chiese locali, in particolare nella Chiesa di Roma ove, grazie a Dio, fervono numerose iniziative di dialogo, di ascolto della Parola e di collaborazione in vari servizi caritativi. Le Chiese in Italia hanno accolto con gioia la traduzione interconfessionale dell’intera Bibbia, che anche in questa Basilica è stata l’anno scorso solennemente presentata ai giovani nella festa dei santi apostoli Pietro e Paolo.
Auspico che intorno al rinnovato interesse per la lettura e la meditazione della Parola di Dio, si crei una mentalità nuova, fraterna e riconoscente per quanto Dio ha fatto nel nostro secolo riavvicinando i cristiani dispersi.
6. In questo cammino di preghiera e di servizio compiuto insieme da fratelli delle diverse comunità ecclesiali, ci guidi con efficace chiarezza la luce che conquistò Paolo, e ci spronino l’intercessione e l’esempio dei santi. Invochiamo la protezione di Paolo, ma anche di un Papa, che qui è vissuto come monaco e poi abate, Gregorio VII, Ildebrando di Soana, di cui è stato recentemente celebrato il IX centenario della morte. In risposta all’imperatore Michele di Costantinopoli, il quale per mezzo di due monaci aveva inviato, come il Papa riconosce, “una lettera piena della dolcezza del vostro amore e di non poca devozione da voi nutrita per la santa Chiesa Romana”, san Gregorio VII incarica il patriarca di Venezia di farsi messaggero dei suoi sentimenti: “Noi infatti non solo desideriamo rinnovare la concordia tra la Chiesa Romana e l’antica Chiesa Costantinopolitana, ma anche, se sarà possibile e per quanto ci sarà concesso, aver pace con tutti gli uomini” (S. Gregorii VII Epistula, a. 1073: PL 148, 300-301).
7. “Pace all’interno della Chiesa, pace fra tutti gli uomini”.
Le parole di Papa Gregorio VII acquistano un’eco di particolare attualità in questo 1986, che l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha proclamato Anno Internazionale della pace. Nessun cristiano, anzi nessun essere umano, che creda in Dio Creatore del mondo e Signore della storia, può restare indifferente di fronte a un problema che tocca così intimamente il presente e il futuro dell’umanità. È necessario che ciascuno si mobiliti per recare il proprio contributo alla causa della pace. La guerra può essere decisa da pochi, la pace suppone il solidale impegno di tutti.
In questa prospettiva, io lancio un pressante appello a tutti i fratelli e sorelle cristiani e a tutte le persone di buona volontà perché si uniscano durante questo anno in insistente e fervorosa preghiera per implorare da Dio il grande dono della pace. La Santa Sede desidera contribuire a suscitare un movimento mondiale di preghiera per la pace che, oltrepassando i confini delle singole nazioni e coinvolgendo i credenti di tutte le religioni, giunga ad abbracciare il mondo intero. Interessanti iniziative sono già state prese in questo senso da alcune Chiese d’Oriente e di Occidente e da alcune Organizzazioni religiose. Auspico che tale spirituale impegno di grande solidarietà si diffonda, raccogliendo sempre più larghe adesioni nel mondo. 

Pesach

dal sito:

http://www.paoline.it/Conoscere-la-Bibbia/LE-FESTE-NELLA-BIBBIA/articoloRubrica_arb58.aspx

Pasqua ebraica

[FILIPPA CASTRONOVO]

Pesach, la pasqua ebraica era la festa più mportante, il fondamento di tutte le altre. Celebrava la liberazione dall’Egitto: il popolo era passato dalla schiavitù, alla libertà di servire Dio.Le feste nella Bibbia celebrano la fedeltà di Dio verso il suo popolo e la risposta che, in occasione delle feste, il popolo rinnova a Dio. Le feste sono perciò, il memoriale delle diverse tappe della storia della salvezza. Celebrandole il popolo rivive le radici della sua fede per riprendere il suo cammino con cuore rinnovato. Intorno ad esse è possibile costruire la storia biblica.
Il calendario ebraico comprende cinque importanti feste d’origine biblica. Tre richiedono il pellegrinaggio a Gerusalemme: Pesach o pasqua, Shavuot o pentecoste, Sukkoth o festa delle Capanne. E due feste penitenziali: Rosh Hashana o capodanno e Yom Kippur o giorno della purificazione.
Vi sono poi feste minori Purim o Sorti, collegata al libro di Ester per ricordare l’esito felice di una grave crisi che aveva colpito Israele e Yom Tov, vale a dire, giorno buono nel quale si gioisce dei piaceri del mondo dati da Dio e ci si dedica alla preghiera e allo studio, e la festa della dedicazione Hannukka, che ricorda la purificazione del tempio profanato dai pagani (1Mac 4,59).
Pesach (pasqua) è la festa più importante, il fondamento di tutte le altre (cfr Es 12,122; 13,1-9; Dt 16,1-8).
Si celebra il 14 del mese di Nisan (marzo–aprile) e può cadere in qualsiasi giorno dell’anno. Le sue origini si perdono nel tempo. Era la festa primaverile dei pastori per la nascita degli agnelli e dei contadini per il primo raccolto. Queste due feste si fusero nell’unica festa che celebra la liberazione dall’Egitto: il passaggio dalla schiavitù alla libertà di servire Dio.
Pasqua è detta anche festa delle azzime (mazzot).
L’uso del pane azzimo è legato alla convinzione che attribuisce al lievito il seme della corruzione. Ecco allora che il pane non lievitato assume significato di inizio completamente nuovo. Nella festa di pesach il pane azzimo ricorda che gli ebrei in fuga non ebbero il tempo di far lievitare il pane e mangiarono pane azzimo (cfr Lv 23,6). Il pane azzimo si mangia per tutta la durata della festa.
Il termine pasqua significa anche passare, scavalcare, salvare, zoppicare (Es 12,13.23.27). Gli Ebrei ricordano che il Signore vedendo il sangue dell’agnello, che avevano arrostito e mangiato in fretta, sugli stipiti delle loro porte, è passato oltre risparmiandoli dai flagelli che colpirono l’Egitto.
A pasqua si celebra, dunque, il Dio che ci ha liberati. E questo evento non può essere dimenticato.
Il comando del Signore è: “Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione, lo celebrerete come rito perenne” (Es 12,14). Celebrando il memoriale di pesach, ogni ebreo si considera salvato e liberato da Dio, come se egli stesso fosse uscito dall’Egitto. “In quel giorno tu istruirai tuo figlio: E’ a causa di quanto il Signore ha fatto per me, quando sono uscito dall’egitto” (Es 13,8; Dt 16, 1ss).
Durante la celebrazione si cantano salmi, inni e il grande Hallel (Sal 136) e si bevono quattro coppe di vino. La prima si riferisce al qiddush (santificazione della festa); la seconda alla haggadah (la liberazione dall’Egitto); la terza è l’azione di grazie che conclude il pasto; la quarta, è quella dello hallel, i salmi di lode che concludono la celebrazione di questa sera speciale.
La tradizione rapporta le quattro coppe alle quattro espressioni adoperate dalla Torah al momento della promessa fatta da Dio a Mosé, di liberare Israele dalla schiavitù (Es 6,6-7):
« lo vi farò uscire dal paese d’Egitto, vi libererò dalla schiavitù, vi salverò con il braccio teso, vi prenderò come mio popolo”.

Da sapere che
La cena pasquale anche oggi si svolge secondo un preciso ordine detto Seder. Ci si nutre di cibi amari per ricordare l’amarezza della schiavitù egiziana e la stupore della libertà ritrovata.
Per celebrare la pasqua gli israeliti al tempo di Gesù ogni anno si recavano a Gerusalemme. Anch’egli vi si recava. La sua morte avvenne in occasione della pasqua ebraica. Egli è per noi l’agnello pasquale che risparmia dalla morte, il pane nuovo che rende nuovi (cfr 1Cor 5,7-8).

Filippa Castronovo

Publié dans:EBRAISMO: LE FESTIVITÀ |on 14 avril, 2011 |Pas de commentaires »

Sacra Sindone – antica illustrazione

Sacra Sindone - antica illustrazione dans immagini sacre sacra_sindone_antica_illustrazione_02

 http://www.thecropcircles.eu/sacra_sindone.htm

Publié dans:immagini sacre |on 13 avril, 2011 |Pas de commentaires »

PASQUA: « O morte dov’è la tua vittoria? » (Enzo Bianchi)

31/03/2009

PASQUA: « O morte dov’è la tua vittoria? »

(ENZO BIANCHI
Dare senso al tempo)

«Il solo e vero peccato è rimanere insensibili alla resurrezione» diceva Isacco il Siro, un padre della chiesa antica. Proprio per questo nel giorno di Pasqua è possibile misurare la fede del cristiano e discernere la sua capacità di sperare per tutti e comunicare a tutti gli uomini questa speranza. Nel giorno di Pasqua ogni cristiano proclama la vittoria della vita sulla morte, perché Gesù il Messia è risuscitato da morte per essere il vivente per sempre: colui che essendo uomo come noi, carne come noi siamo carne, colui che è nato e vissuto in mezzo a noi, colui che è morto di morte violenta, che è stato crocifisso e sepolto, è risorto!

http://www.monasterodibose.it/index.php/content/view/1100

O morte, dov’è la tua vittoria? O morte, tu non sei più l’ultima parola per gli uomini, ma sei diventata un passaggio, l’ora dell’esodo dalla vita terrena alla vita eterna, da questo mondo al regno di Dio …
Questo dovrebbe essere il canto del cristiano in questo giorno della Pasqua, festa delle feste, perché Cristo è risorto quale primizia di tutti noi, perché la vita regna definitivamente e in ogni creatura è iniziato un processo segreto ma reale di redenzione, di trasfigurazione.

La morte è una dominante su tutti gli uomini, una vera potenza efficace: non solo perché desta paura e angoscia contraddicendo la vita degli uomini, ma anche perché a causa di essa gli uomini diventano cattivi e peccano. Il peccato è sempre egoismo, è sempre contraddizione alla comunione con gli uomini e con Dio, ed è proprio la presenza della morte che scatena questo bisogno di salvarsi, di vivere addirittura senza gli altri o contro gli altri. La morte non è solo «salario del peccato» (Rm 6,23), ma anche istigazione al peccato … Se gli uomini sono spinti a peccare è a causa dell’angoscia della morte, di quella paura che rende gli uomini schiavi per tutta la loro vita (cf. Eb 2,14-15). A causa dell’angoscia e della paura la brama di vita degli uomini diventa odio, misconoscimento dell’altro, concorrenza, rivalità, sopraffazione. L’angoscia può sfigurare tutto, anche l’amore. Così la morte appare essere attiva e presente non solo nel momento dello spegnimento della vita fisica del corpo umano, ma anche prima: essa è una potenza che compie incursioni nella sfera dell’esistenza e attenta alla pienezza delle relazioni e della vita.
Questa è la morte contro la quale Gesù ha lottato fino a riportare la vittoria. L’agonía iniziata da Gesù nell’orto degli Ulivi (Lc 22,44) è una lotta (agón) che si è conclusa con la discesa agli inferi, quando ha sconfitto il diavolo – e dunque la morte e il peccato – in modo definitivo. E Gesù non ha vinto solo la sua morte, ma la Morte: «Con la morte ha vinto la morte», canta oggi la liturgia! Ora, questa dimensione di lotta è essenziale per il cristiano: tutta la vita è lotta, è una guerra contro la morte che ci abita e contro gli istinti e le pulsioni di morte che ci attraggono.
La resurrezione di Gesù è dunque il sigillo posto dal Padre sulla lotta del Figlio, sul suo agón: questi, mostrando di avere una ragione per morire (dare la vita per gli altri), ha mostrato che c’è una ragione per vivere (amare, dimorare nella comunione). Allora il Padre lo ha richiamato dai morti facendolo Signore per sempre.
Gli uomini tutti, anche se non conoscono Dio e neppure il suo disegno, portano nel loro cuore il senso dell’eternità e tutti si domandano: «Che cosa possiamo sperare?» Essi sanno che, se restano insensibili alla resurrezione, si vietano di conoscere «il senso del senso» della loro vita. Gli uomini attendono, cercano a fatica, e a volte per cammini sbagliati, la buona notizia della vita più forte della morte, dell’amore più forte dell’odio e della violenza. Cristo, risorto e vivente per sempre, è la risposta vera che attende dai cristiani quella narrazione autentica che solo chi ha fatto l’esperienza del Vivente può dare. Dove sono questi cristiani? Sì, oggi ci sono ancora cristiani capaci di questo: ci sono nuovamente martiri cristiani, ci sono nuovamente profeti cristiani, ci sono testimoni che non arrossiscono mai del Vangelo. Ancora una volta giunge dalla tomba vuota, oggi come quel mattino della resurrezione, l’annuncio: «Non temete, non abbiate paura, non siate nell’angoscia! Il Crocifisso è risorto e vi precede!» Sì, è ormai vicina per la chiesa una primavera, una stagione in cui lo Spirito del Risorto si farà presente più che mai, una stagione in cui la Parola di Dio sarà meno rara.
E sarà una stagione senza fughe, né evasioni, né spiritualismi, ma segnata dal vivere la risurrezione nell’esistenza, nella storia, nell’oggi, in modo che la fede pasquale diventi efficace già ora e qui. Cosa significa questo secondo i Vangeli? Che i credenti devono mostrare nella compagnia degli uomini la risurrezione, devono narrare agli uomini che la vita è più forte della morte, e devono farlo nel costruire comunità in cui si passa dall’io al noi, nel perdonare senza chiedere reciprocità, nella gioia profonda che permane anche nelle situazioni di pressura, nella compassione per ogni creatura, soprattutto per gli ultimi, i sofferenti, nella giustizia che porta a operare la liberazione dalle situazioni di morte in cui giacciono tanti uomini, nell’accettare di spendere la propria vita per gli altri, nel rinunciare ad affermare se stessi senza gli altri o contro di essi, nel dare la vita liberamente e per amore, fino a pregare per gli stessi assassini.
Perché il cuore della fede cristiana sta proprio in questo: credere l’incredibile, amare chi non è amabile, sperare contro ogni speranza. Sì, fede, speranza e carità sono possibili solo se si crede alla risurrezione. Allora, davvero l’ultima nostra parola non sarà la morte né l’inferno, ma la vittoria sulla morte e sull’inferno. La Pasqua apre per tutti l’orizzonte della vita eterna: che questa Pasqua sia Pasqua di speranza per tutti. Veramente per tutti!

Publié dans:FESTE - PASQUA, FESTE DEL SIGNORE |on 13 avril, 2011 |Pas de commentaires »

DOMENICA DI PASQUA 2009 – OMELIA DI PAPA BENEDETTO

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2009/documents/hf_ben-xvi_hom_20090412_pasqua_it.html 

DOMENICA DI PASQUA NELLA RISURREZIONE DEL SIGNORE

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Sagrato della Basilica Vaticana

12 aprile 2009

Cari fratelli e sorelle,

“Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!” (1 Cor 5,7). Risuona in questo giorno l’esclamazione di san Paolo, che abbiamo ascoltato nella seconda lettura, tratta dalla prima Lettera ai Corinzi. È un testo che risale ad appena una ventina d’anni dopo la morte e risurrezione di Gesù, eppure – come è tipico di certe espressioni paoline – contiene già, in una sintesi impressionante, la piena consapevolezza della novità cristiana. Il simbolo centrale della storia della salvezza – l’agnello pasquale – viene qui identificato in Gesù, chiamato appunto “nostra Pasqua”. La Pasqua ebraica, memoriale della liberazione dalla schiavitù d’Egitto, prevedeva ogni anno il rito dell’immolazione dell’agnello, un agnello per famiglia, secondo la prescrizione mosaica. Nella sua passione e morte, Gesù si rivela come l’Agnello di Dio “immolato” sulla croce per togliere i peccati del mondo. È stato ucciso proprio nell’ora in cui era consuetudine immolare gli agnelli nel Tempio di Gerusalemme. Il senso di questo suo sacrificio lo aveva anticipato Egli stesso durante l’Ultima Cena, sostituendosi – sotto i segni del pane e del vino – ai cibi rituali del pasto nella Pasqua ebraica. Così possiamo dire veramente che Gesù ha portato a compimento la tradizione dell’antica Pasqua e l’ha trasformata nella sua Pasqua.
A partire da questo nuovo significato della festa pasquale si capisce anche l’interpretazione degli “azzimi” data da san Paolo. L’Apostolo si riferisce a un’antica usanza ebraica: quella secondo la quale, in occasione della Pasqua, bisognava eliminare dalla casa ogni più piccolo avanzo di pane lievitato. Ciò costituiva, da una parte, un ricordo di quanto accaduto agli antenati al momento della fuga dall’Egitto: uscendo in fretta dal paese, avevano portato con sé soltanto focacce non lievitate. Al tempo stesso, però, “gli azzimi” erano simbolo di purificazione: eliminare ciò che è vecchio per fare spazio al nuovo. Ora, spiega san Paolo, anche questa antica tradizione acquista un senso nuovo, a partire dal nuovo “esodo” appunto, che è il passaggio di Gesù dalla morte alla vita eterna. E poiché Cristo, come vero Agnello, ha sacrificato se stesso per noi, anche noi, suoi discepoli – grazie a Lui e per mezzo di Lui – possiamo e dobbiamo essere “pasta nuova”, “azzimi”, liberati da ogni residuo del vecchio fermento del peccato: niente più malizia e perversità nel nostro cuore.
“Celebriamo dunque la festa… con azzimi di sincerità e di verità”. Quest’esortazione di san Paolo, che chiude la breve lettura che poco fa è stata proclamata, risuona ancor più forte nel contesto dell’Anno Paolino. Cari fratelli e sorelle, accogliamo l’invito dell’Apostolo; apriamo l’animo a Cristo morto e risuscitato perchè ci rinnovi, perché elimini dal nostro cuore il veleno del peccato e della morte e vi infonda la linfa vitale dello Spirito Santo: la vita divina ed eterna. Nella sequenza pasquale, quasi rispondendo alle parole dell’Apostolo, abbiamo cantato: “Scimus Christum surrexisse a mortuis vere ” – sappiamo che Cristo è veramente risorto dai morti”. Sì! È proprio questo il nucleo fondamentale della nostra professione di fede; è questo il grido di vittoria che tutti oggi ci unisce. E se Gesù è risorto, e dunque è vivo, chi mai potrà separarci da Lui? Chi mai potrà privarci del suo amore che ha vinto l’odio e ha sconfitto la morte?
L’annuncio della Pasqua si espanda nel mondo con il gioioso canto dell’Alleluia. Cantiamolo con le labbra, cantiamolo soprattutto con il cuore e con la vita, con uno stile di vita “azzimo”, cioè semplice, umile, e fecondo di azioni buone. “Surrexit Christus spes mea: / precedet vos in Galileam – Cristo mia speranza è risorto e vi precede in Galilea”. Il Risorto ci precede e ci accompagna per le strade del mondo. È Lui la nostra speranza, è Lui la pace vera del mondo. Amen!

Publié dans:FESTE - PASQUA, FESTE DEL SIGNORE |on 13 avril, 2011 |Pas de commentaires »
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