DOMENICA DELLE PALME ANNO 2009 – COMMENTO ALLE LETTURE
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DOMENICA DELLE PALME ANNO 2009
COMMENTO ALLE LETTURE
La sesta domenica di Quaresima, detta anche delle Palme, si presenta come un grande portale. Infatti con essa entriamo, nel coinvolgimento di tutta la Chiesa (e nostro) nel “memoriale” del Mistero pasquale durante la celebrazione liturgica di questa Settimana Santa. Ci sia permesso di servirci di questo “entrare” come filo conduttore della nostra riflessione sulle ricchissime letture di questa domenica.
Il complesso delle letture bibliche che la liturgia odierna ci offre, è molto vasto:
Il Vangelo della processione delle palme;
La lettura tratta dall’Antico Testamento;
Il Salmo responsoriale;
La lettura dell’Apostolo;
La narrazione della Passione secondo il Vangelo di Marco.
Questo insieme di letture sono collegate da una strettissima tematica.
Non essendo possibile un adeguato commento a tutte le letture, viene tralasciato il racconto della Passione, che sarà centrale nella celebrazione del Venerdì Santo, per soffermarci sul Vangelo della Processione delle Palme (Mc 11,1-10). La proclamazione di questo Vangelo fa rivivere l’entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme; e in tale contesto questo verbo entrare assume un significato fondamentale e ci apre lo sguardo ad approfondire il significato dell’incomparabile mistero che rivivremo.
Il verbo entrare permette di effettuare un collegamento con l’epistola agli Ebrei della quale ci serviremo perchè ci fornisce una chiave di lettura sul significato della passione e morte del Signore. Gesù entra in Gerusalemme poveramente (cavalcando un puledro), ma l’atmosfera è quella dell’entrata trionfale di un re vittorioso: in particolare l’esclamazione della folla osannante “Benedetto il regno che viene, del nostro padre David!”. L’accostamento con l’epistola agli Ebrei ci presenta però Gesù come sacerdote che offre se stesso quale sacrificio espiatorio per i peccati del mondo. Per questo motivo il Suo entrare regale in Gerusalemme acquista un significato sacerdotale fornendo una luce interpretativa al racconto della passione che verrà letto come vangelo della celebrazione eucaristica.
Così recita la Lettera agli Ebrei:
“…Anche la prima alleanza aveva norme per il culto e un santuario terreno. Fu costruita infatti una tenda… nella prima tenda entrano sempre i sacerdoti per celebrare il culto; nella seconda invece solamente il sommo sacerdote, una volta all’anno, e non senza portarvi del sangue, che egli offre per se stesso e per quanto commesso dal popolo per ignoranza… Cristo invece è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una Tenda più grande e più perfetta, non costruita da mani di uomo, cioè non appartenente a questa creazione Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue,ottenendo così una redenzione eterna. Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale mosso da uno Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, perchè serviamo al Dio vivente?” (9,1-2.6-7.11-14).
Il sacrificio di Cristo è stato un sacrificio personale ed esistenziale, perché ha offerto a Dio non una vittima animale, bensì la propria vita. E’ diventato egli stesso vittima sacrificale, e dato che “ha offerto se stesso”, il suo sacrificio non è stato esteriore alla sua persona, ma è stato un sacrificio volontario di tutto se stesso. A differenza dei sacerdoti dell’Antico Testamento, Cristo ha potuto elevare un sacrificio di questo genere perché era davvero “senza macchia”. Di conseguenza Dio Padre si è compiaciuto in lui.
Così commenta un Padre della Chiesa, S. Fulgenzio di Ruspe, Vescovo:
“Egli, secondo l’insegnamento dell’Apostolo, “ha dato se stesso per noi offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” (Ef 5,2). Egli, vero Dio e vero pontefice, è entrato per noi nel santuario non con il sangue di tori e di capri ma con il suo sangue. E questo stava a significare quel pontefice che ogni anno entrava nel Santo dei santi con il sangue delle vittime. Questi è dunque colui che in sé solo offrì tutto quello che sapeva essere necessario per il compimento della nostra redenzione, egli che è al tempo stesso sacerdote, sacrificio, Dio e tempio: sacerdote, per mezzo del quale siamo riconciliati, sacrificio che ci riconcilia, Dio a cui siamo riconciliati, tempio in cui veniamo riconciliati” (Dal trattato: “Sulla fede in Pietro”).
La dimensione sacrificale ha animato l’intera vicenda terrena di Cristo fin dalla sua incarnazione; è ancora la Lettera agli Ebrei che ne fa il collegamento esplicito con il culto dell’Antico Testamento:
“… è impossibile infatti che il sangue di tori e di capri elimini i peccati. Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”… Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre” (10, 4-7.10).
Questo entrare di Gesù nel mondo indica che nella sua missione, accettata fin dall’inizio, Egli era consapevole del suo dover divenire “sacrificio”, il vero e veramente efficace sacrificio di espiazione di tutti i peccati, che nella passione è giunto alla sua massima realizzazione, perchè in esso, più che mai, egli ha sacrificato la propria volontà per portare a termine la missione divina.
L’ampiezza di questa riflessione sul testo della lettera agli Ebrei, dovrebbe farci entrare più facilmente nelle letture della liturgia odierna.
La prima lettura (Is 50,4-7), fa parte del Deuteroisaia, e ci presenta la figura del Servo nel terzo canto del Servo di JHWH. Egli appare come un personaggio cui viene affidata una missione attiva nel disegno di salvezza universale, non è solo “il luogo” dove il disegno di Dio si manifesta e brilla di fronte a tutti, ma assume un ruolo attivo di mediazione. La sua sofferenza non è presentata come dovuta al peccato e inflitta da Dio quale castigo purificatore, bensì come inerente alla sua missione salvifica. Egli ha, innanzitutto, ricevuto un dono da Dio: la capacità di parlare, finalizzata alla missione di sostenere gli stanchi e di confortarli (v. 4). La possibilità di dire la parola giusta è frutto della costante attenzione nei confronti della Parola di Dio (v. 4b), e, d’altro canto, è frutto anche di quella capacità di percepire la volontà di Dio come suo dono, alla quale il Servo si rende totalmente disponibile (v. 5). La capacità di ascolto così diventa la capacità di cogliere il disegno di Dio per poter essere a servizio di istruzione, di chiarificazione della fede, di conforto verso lo stanco e sfiduciato.
La sicurezza del Servo sta unicamente nella fiducia nel Signore (v. 7) e la persecuzione che deve subire è una persecuzione connessa con la vocazione profetica e missionaria all’interno della fedeltà a Dio. Il racconto della Passione in Marco della liturgia odierna, vuole chiaramente presentare Gesù come il “Servo di JHWH”; ha voluto mostrare che Gesù compie l’attesa del profeta. Gli oltraggi, che sembrano una vittoria su Gesù, sono in realtà non una sconfitta del piano di Dio, ma la sua più profonda realizzazione. Per questo Gesù è la chiave che permette a noi, oggi, di capire in profondità il testo di Isaia.
La seconda lettura (Fil 2,6-11) ci porta nel cuore del mistero della passione di Gesù: quel suo entrare si manifesta qui in tutta la sua portata di sacrificio accettato, voluto che coinvolge tutte le dimensioni esistenziali di questo Figlio reso pienamente, totalmente disponibile al volere del Padre. Paolo, che utilizza questo inno preesistente per i cristiani come motivazione profonda ad affrontare le situazioni difficili che si presentano nella diffusione del vangelo, ha formulato il “mistero di Cristo” come mistero di abbassamento ed esaltazione, come realizzazione della figura profetica del Servo di JHWH.
Ancora S. Fulgenzio di Ruspe così commenta per noi:
“Il Figlio pur rimanendo uguale al Padre, si è abbassato facendosi simile all’uomo. Si è umiliato ancora di più quando annichilì se stesso prendendo la forma di servo. Ecco l’annientamento di Cristo, la sua umiliazione; non c’era per lui annichilimento più grande che prendere l’aspetto di Servo.
Il Cristo dunque, rimanendo l’Unigenito di Dio al quale offriamo sacrifici come al Padre, si è fatto sacerdote prendendo l’aspetto di servo; e noi per mezzo suo possiamo offrire a Dio un’ostia viva, santa, a lui gradita. Ma non avremmo potuto offrire quest’ostia se il Cristo non si fosse fatto ostia per noi: poiché in lui la nostra stessa natura umana è vittima di salvezza.” (San Fulgenzio di Ruspe, dalle “Lettere”).
La liturgia di oggi si presenta quindi per noi come un invito pressante ad entrare con Gesù nella grande celebrazione della Settimana Santa per essere coinvolti con lui vittima e sacerdote, caricandoci con lui delle ansie, delle sofferenze e del peccato di tutta l’umanità, ad offrire la nostra vita al Padre entrando nel Tempio che è il corpo di Cristo, ad attendere con fiducia piena di risorgere con lui partecipi dell’umanità trasfigurata nella nuova Gerusalemme.