Archive pour avril, 2011

DOMENICA DELLE PALME ANNO 2009 – COMMENTO ALLE LETTURE

dal sito:

http://www.omelie.org/nuovoarchivio.php?a=citerna&dom=palme&anno=2009&titolodom=Domenica%20delle%20Palme&autore=Benedettine%20di%20Citerna&data=5%20aprile%202009

DOMENICA DELLE PALME ANNO 2009

COMMENTO ALLE LETTURE

La sesta domenica di Quaresima, detta anche delle Palme, si presenta come un grande portale. Infatti con essa entriamo, nel coinvolgimento di tutta la Chiesa (e nostro) nel “memoriale” del Mistero pasquale durante la celebrazione liturgica di questa Settimana Santa. Ci sia permesso di servirci di questo “entrare” come filo conduttore della nostra riflessione sulle ricchissime letture di questa domenica.

Il complesso delle letture bibliche che la liturgia odierna ci offre, è molto vasto:
Il Vangelo della processione delle palme;
La lettura tratta dall’Antico Testamento;
Il Salmo responsoriale;
La lettura dell’Apostolo;
La narrazione della Passione secondo il Vangelo di Marco.
Questo insieme di letture sono collegate da una strettissima tematica.
Non essendo possibile un adeguato commento a tutte le letture, viene tralasciato il racconto della Passione, che sarà centrale nella celebrazione del Venerdì Santo, per soffermarci sul Vangelo della Processione delle Palme (Mc 11,1-10). La proclamazione di questo Vangelo fa rivivere l’entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme; e in tale contesto questo verbo entrare assume un significato fondamentale e ci apre lo sguardo ad approfondire  il significato dell’incomparabile mistero che rivivremo.

Il verbo entrare permette di effettuare un collegamento con l’epistola agli Ebrei della quale ci serviremo perchè ci fornisce una chiave di lettura sul significato della passione e morte del Signore.  Gesù entra in Gerusalemme poveramente (cavalcando un puledro), ma l’atmosfera è quella dell’entrata trionfale di un re vittorioso: in particolare l’esclamazione della folla osannante “Benedetto il regno che viene, del nostro padre David!”. L’accostamento con l’epistola agli Ebrei ci presenta però Gesù come sacerdote che offre se stesso quale sacrificio espiatorio per i peccati del mondo. Per questo motivo il Suo entrare regale in Gerusalemme acquista un significato sacerdotale fornendo una luce interpretativa al racconto della passione che verrà letto come vangelo della celebrazione eucaristica.

Così recita la Lettera agli Ebrei:
 “…Anche la prima alleanza aveva norme per il culto e un santuario terreno. Fu costruita infatti una tenda… nella prima tenda entrano sempre i sacerdoti per celebrare il culto; nella seconda invece solamente il sommo sacerdote, una volta all’anno, e non senza portarvi del sangue, che egli offre per se stesso e per quanto commesso dal popolo per ignoranza… Cristo invece è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una Tenda più grande e più perfetta, non costruita da mani di uomo, cioè non appartenente  a questa creazione Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue,ottenendo così una redenzione eterna. Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale mosso da uno Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, perchè serviamo al Dio vivente?” (9,1-2.6-7.11-14).

Il sacrificio di Cristo è stato un sacrificio personale ed esistenziale, perché  ha offerto a Dio non una vittima animale, bensì la propria vita. E’ diventato egli stesso vittima sacrificale, e dato che “ha offerto se stesso”, il suo sacrificio non è stato esteriore alla sua persona, ma è stato un sacrificio volontario di tutto se stesso. A differenza dei sacerdoti dell’Antico Testamento, Cristo ha potuto elevare un sacrificio di questo genere perché era davvero “senza macchia”. Di conseguenza Dio Padre si è  compiaciuto in lui.

Così commenta un Padre della Chiesa, S. Fulgenzio di Ruspe, Vescovo:
 “Egli, secondo l’insegnamento dell’Apostolo, “ha dato se stesso per noi offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” (Ef 5,2). Egli, vero Dio e vero pontefice, è entrato per noi nel santuario non con il sangue di tori e di capri ma con il suo sangue. E questo stava a significare quel pontefice che ogni anno entrava nel Santo dei santi con il sangue delle vittime. Questi è dunque colui che in sé solo offrì tutto quello che sapeva essere necessario per il compimento della nostra redenzione, egli che è al tempo stesso sacerdote, sacrificio, Dio e tempio: sacerdote, per mezzo del quale siamo riconciliati, sacrificio che ci riconcilia, Dio a cui siamo riconciliati, tempio in cui veniamo riconciliati” (Dal trattato: “Sulla fede in Pietro”).

La dimensione sacrificale ha animato l’intera vicenda terrena di Cristo fin dalla sua incarnazione; è ancora la Lettera agli Ebrei che ne fa il collegamento esplicito con il culto dell’Antico Testamento:
 “… è impossibile infatti che il sangue di tori e di capri elimini i peccati. Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”… Mediante quella  volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre” (10, 4-7.10).
Questo entrare di Gesù nel mondo indica che nella sua missione, accettata fin dall’inizio, Egli era consapevole del suo dover divenire “sacrificio”, il vero e veramente efficace sacrificio di espiazione di tutti i peccati, che nella passione è giunto alla sua massima realizzazione, perchè in esso, più che mai, egli ha sacrificato la propria volontà per portare a termine la missione divina.
L’ampiezza di questa riflessione sul testo della lettera agli Ebrei, dovrebbe farci entrare più facilmente nelle letture della liturgia odierna.

La prima lettura (Is 50,4-7), fa parte del Deuteroisaia, e ci presenta la figura del Servo nel terzo canto del Servo di JHWH. Egli appare come un personaggio cui viene affidata una missione attiva nel disegno di salvezza universale, non è solo “il luogo” dove il disegno di Dio si manifesta e brilla di fronte a tutti, ma assume un ruolo attivo di mediazione. La sua sofferenza non è presentata come dovuta al peccato e inflitta da Dio quale castigo purificatore, bensì come inerente alla sua missione salvifica. Egli ha, innanzitutto, ricevuto un dono da Dio: la capacità di parlare, finalizzata alla missione di sostenere gli stanchi e  di confortarli (v. 4). La possibilità di dire la parola giusta è frutto della costante attenzione nei confronti della Parola di Dio (v. 4b), e, d’altro canto, è frutto anche di quella capacità di percepire la volontà di Dio come suo dono, alla quale il Servo si rende totalmente disponibile (v. 5). La capacità di ascolto così diventa la capacità di cogliere il disegno di Dio per poter essere a servizio di istruzione, di chiarificazione della fede, di conforto verso lo stanco e sfiduciato.
La sicurezza del Servo sta unicamente nella fiducia nel Signore (v. 7) e la persecuzione che deve subire è una persecuzione connessa con la vocazione profetica e missionaria all’interno della fedeltà a Dio. Il racconto della Passione in Marco della liturgia odierna, vuole chiaramente presentare Gesù come il “Servo di JHWH”; ha voluto mostrare che Gesù compie l’attesa del profeta. Gli oltraggi, che sembrano una vittoria su Gesù, sono in realtà non una sconfitta del piano di Dio, ma la sua più profonda realizzazione. Per questo Gesù è la chiave che permette a noi, oggi, di capire in profondità il testo di Isaia.

La seconda lettura (Fil 2,6-11) ci porta nel cuore del mistero della passione di Gesù: quel suo entrare si manifesta qui in tutta la sua portata  di sacrificio accettato,  voluto che coinvolge tutte le dimensioni esistenziali di questo Figlio reso pienamente, totalmente disponibile al volere del Padre. Paolo, che utilizza questo inno preesistente per i cristiani come motivazione profonda ad affrontare le situazioni difficili che si presentano nella diffusione del vangelo, ha formulato il “mistero di Cristo” come mistero di abbassamento ed esaltazione, come realizzazione della figura profetica del Servo di JHWH.

Ancora S. Fulgenzio di Ruspe così commenta per noi:
“Il Figlio pur rimanendo uguale al Padre, si è abbassato facendosi simile all’uomo. Si è umiliato ancora di più quando annichilì se stesso prendendo la forma di servo. Ecco l’annientamento di Cristo, la sua umiliazione; non c’era per lui annichilimento più grande che prendere l’aspetto di Servo.
Il Cristo dunque, rimanendo l’Unigenito di Dio al quale offriamo sacrifici come al Padre, si è fatto sacerdote prendendo l’aspetto di servo; e noi per mezzo suo possiamo offrire a Dio un’ostia viva, santa, a lui gradita. Ma non avremmo potuto offrire quest’ostia se il Cristo non si fosse fatto ostia per noi: poiché in lui la nostra stessa natura umana è vittima di salvezza.” (San Fulgenzio di Ruspe, dalle “Lettere”).

La liturgia di oggi si presenta quindi per noi come un invito pressante ad entrare con Gesù nella grande celebrazione della Settimana Santa per essere coinvolti con lui vittima e sacerdote, caricandoci con lui delle ansie, delle sofferenze e del peccato di tutta l’umanità, ad offrire la nostra vita al Padre entrando nel Tempio che è il corpo di Cristo, ad attendere con fiducia piena di risorgere con lui partecipi dell’umanità trasfigurata nella nuova Gerusalemme.

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Omelia 1 lettura per il 16 aprile 2011

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/14992.html

Omelia (04-04-2009)

Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno
“Li libererò da tutte le ribellioni con cui hanno peccato, li purificherò e saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio.”

Come vivere questa Parola?
È bello, nell’approssimarsi della settimana santa, sentire rinnovata solennemente, attraverso la voce del profeta Ezechiele, l’Alleanza nuziale che Dio stipulò con Abramo e con tutto Israele, anzi con ogni uomo. Dice infatti subito dopo: “Farò con loro un’alleanza di pace che sarà un’alleanza eterna” (v.26).
Il peccato ci ha tallonato di continuo, dentro ogni nostra opposizione (lucida e voluta) a ciò che Dio vuole da noi. Ma il Signore, ecco, ci vuole liberare da queste ribellioni. E più consolante ancora è per noi apprendere che il patto di Alleanza si risolve anche, concretamente, in un’azione purificatoria nei confronti del nostro peccato.
Tutto il sangue versato da Gesù lungo l’itinerario del Golgota, tutta la forza redentiva di quella sua passione e morte che stiamo per celebrare nei prossimi giorni, è un tale detergente che nulla regge al suo confronto. E così capisco perché si parla di “Alleanza di pace” di “Alleanza eterna” che, da parte di Dio, non sarà mai tradita
Oggi contemplo la tua croce gloriosa, Gesù, da cui sgorgano fiumi di grazia. Mi espongo. Chiedo di essere purificato. E mi rendo conto, comunque, che pur nell’assoluta gratuità il tuo patto di alleanza chiede ch’io corrisponda con un’attenzione amorosa a non cadere in quella stoltezza che è la ribellione a Dio, al suo volere e dunque al mio bene vero
Signore, concedimi un’anima vigilante! Ch’io mi renda conto e accetti con gioia tutto l’impeto di grazia che mi viene da te. Ch’io riconosca subito gli adescamenti al male che mi distolgono da te e turbano la pace della tua alleanza.

La voce di un dottore della Chiesa
Tutti siamo nati col peccato: tutti, vivendo, aggiungiamo qualcosa a ciò che eravamo quando siamo nati […]. Dove saremmo noi, se non fosse venuto colui che non aveva peccato, per assolvere ogni peccato? In quanto non credevano a lui, i giudei giustamente si sentirono dire: «Morrete nel vostro peccato». Vi è impossibile essere senza peccato, dato che col peccato siete nati: ma tuttavia – egli dice in sostanza – se in me crederete pur essendo nati nel peccato, non morrete nel vostro peccato.
S. Agostino

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Omelia (16-04-2011)

dal sito:

http://www.lachiesa.it/

Omelia (16-04-2011)

Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno
Uno di loro, di nome Caifa’, […] essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi.

Come vivere questa Parola?
Il progetto di Dio è quello dell’unità. Vuole in tutti modi unificare « i suoi figli » che vivono la dispersione. Nel momento in cui gli Israeliti sono lontani dalla loro terra e divisi in schiavitù, il profeta Ezechiele, come dice la prima lettura, si fa voce del Signore nel profetizzare: « Io prenderò gl’Israeliti dalle genti tra le quali sono andati e li radunerò da ogni parte; farò di loro un solo popolo ». Ecco, quello che la prima lettura tramite Ezechiele ci offre come profezia, si realizza in Gesù. Ed è interessante che il sommo sacerdote Caifa’, ben lontano dal credere di trovarsi davanti al Messia nella persona di Gesù, proprio lui, senza averne consapevolezza, stia individuando la tattica di Dio. È quella di sacrificare uno solo per tutti, sacrificare il Figlio unigenito « per riunire i figli di Dio che erano dispersi », come si esprime l’evangelista, interpretando quanto ha espresso Caifa. Sì, Dio vuole l’unificazione e la compie attraverso la passione, morte e risurrezione di Gesù. È a questo modo che realizza la sua presenza fra gli uomini per mezzo di Gesù che « vive per la fede nei nostri cuori » come dice S. Paolo. Si tratta dunque di cogliere che siamo anche noi dispersi, dissipati, divisi non solo tra noi ma anche all’interno di noi stessi. Eppure il processo di unificazione è possibile.

Oggi, nella mia pausa contemplativa, contemplerò Gesù crocifisso sotto questo profilo. La sua morte coincide col progetto, per me, di una vita unificata, pacificata, che si qualifica perché all’insegna dell’amore.

Gesù, che io vinca in me ogni dispersione, e trovi in Te il mio centro di unità, la forza che vince ogni dispersione e galvanizza in me le energie dell’amore.

La voce di una testimone
Bisogna parlare di unità nell’amore, perché, sempre più mi accorgo che questo è l’autentico spirito del Vangelo, l’autentico spirito del Cristo.
Piccola Sorella Magdeleine di Gesù

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Eucharistic Adoration

Eucharistic Adoration dans immagini sacre new+212
http://poetryprayerandpraise.blogspot.com/2010_10_01_archive.html

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I santi sanno ridere (O.R. 29 agosto 2009)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/198q04a1.html

OSSERVATORE ROMANO
29 agosto 2009

I santi sanno ridere

Pubblichiamo uno stralcio del libro di Ferdinando Castelli All’uscita del tunnel. Panoramiche religiose dell’odierna letteratura (Città del Vaticano, Libreria editrice vaticana)

di Ferdinando Castelli

« La letteratura antica non conosce – questo è caratteristico – l’umorismo, ma solo il comico:  l’umorismo è serbato al cristiano quale espressione della sua nuova libertà, che lo innalza, come creatura spirituale, sopra tutte le creature non libere » (Giuseppe Sellmair). E ancora:  « Noi siamo dei comici. Dovremmo vederci sotto questo aspetto. Solo l’umorismo, rosa o nero o crudele, solo l’umorismo può renderci la serenità ». L’affermazione è di Ionesco. Con essa il drammaturgo rumeno vuol ricordarci che la sola maniera di poterci consolare dell’infelicità di sentirci perduti in questo mondo votato alla morte è l’evasione nell’umorismo. Dunque, suggerisce:  ridere della nostra comicità di creature che non riescono mai a sentirsi a loro agio in un’esistenza tallonata dalla sofferenza e dalla morte; ridere per sfuggire alla disperazione e alla follia; ridere per non essere sempre costretti a vedersi dinanzi il muro del mistero (o dell’assurdo).
In realtà, molti testi teatrali di Ionesco fanno ridere, divertono, trasportano in mondi surreali:  si pensi a La lezione, Le sedie, La cantatrice calva, Il rinoceronte. Danno anche la serenità? Ne dubitiamo. L’umorismo, nero e crudele, che da essi si sprigiona, offre un divertimento che sa di desolazione.
È indubbio però che l’umorismo è un mezzo regale per stabilirci nella serenità. Esso fa parte della saggezza che è dono dello Spirito Santo; « occupa un posto molto importante nella vita religiosa », anzi « è il sale della vita, e in un certo senso è il sale della vita religiosa, il quale la preserva da ogni guasto ».
Padre Benson non esitava a definire l’umorismo di santa Teresa d’Avila « dono divino », dono che ha reso la vita di tanti santi un’avventura piena di fascino:  si pensi a Francesco di Sales, Tommaso Moro, Filippo Neri, Ignazio di Loyola, Papa Giovanni, Giorgio La Pira. Il Roche arriva ad affermare che « la storia di tante eresie è in molta misura una storia di perdita del senso dell’umorismo. Non si potrebbero altrimenti spiegare, lasciando da parte l’opera del demonio, certe loro aberrazioni e assurdità ».
Bisogna pertanto concludere che c’è umorismo e umorismo. Altro è l’umorismo di George Bernard Shaw, intriso di amara ironia, altro quello di Gilbert Keith Chesterton, sapido di saggezza umana e cristiana; altro l’umorismo di Voltaire, corrosivo e chiuso a ogni trascendenza, altro quello di Tommaso Moro, benevolo e illuminato da una sapienza superiore; altro l’umorismo di Cervantes, espressione dell’anima religiosa, altro quello degli scrittori dell’assurdo, riso amaro e soffocato.
Allora, quando c’è vero umorismo? E che cos’è l’umorismo? Definirlo non è semplice. Le sfumature, le sottigliezze, la varietà di significato che caratterizzano il termine impediscono una definizione precisa. Del resto ogni espressione di umorismo riflette diversità di cultura, di mentalità, di abitudini; non solo, ma esso è una proiezione dell’individuo. Ogni popolo ha una specifica forma di umorismo e ogni umorista una sua particolare fisionomia. Sintetizzando, gli elementi essenziali dell’umorismo – o del sense of humour, nella caratteristica espressione anglosassone – sono la capacità di cogliere i lati buffi e contraddittori della vita, ridendone con benevola comprensione, uno sguardo superiore che permette di vedere meglio e « oltre »; un’intelligenza nuova che relativizza e ridimensiona quanto si vorrebbe prendere per assoluto ed eccelso.
Si comprende subito che l’umorismo ha vari elementi in comune col comico, con l’ironia e col riso, ma che da essi si diversifica nettamente. Il comico si alimenta degli aspetti bizzarri della vita per divertire e divertirsi, l’umorismo nasce dalla scoperta delle miserie umane e si accompagna a un atteggiamento di comprensione, che compatisce e costruisce; fa anche divertire, ma soprattutto fa pensare.
L’ironia aggredisce, ferisce, distrugge anche; l’umorismo è indulgente, benevolo, compassionevole. Ma come l’ironia, il riso e il comico, l’umorismo prende le distanze dal soggetto, non per una reazione di difesa né per un senso di disprezzo o di rifiuto, ma per una nuova dimensione in esso scoperta. Agli occhi dell’umorista certi eventi o persone assumono aspetti diversi, capaci di suscitare nuovi punti di vista e di significato. Così una situazione seria si trasforma in una situazione buffa, e viceversa, in un’atmosfera di simpatia che avvicina le persone, le comprende, le affratella. Per realizzare tale spostamento di piani e acquistare questa nuova intelligenza, l’umorista deve poter disporre « di una certa saggezza umana, frutto di esperienza, e di una notevole capacità di osservazione sugli altri e su se stessi. Diciamo, se si preferisce, che nasconde un giudizio implicito, fondato su una concezione dell’uomo e dell’esistenza umana. Ciò probabilmente spiega perché il bambino è incapace di humour ».
Se l’umorismo fiorisce su una determinata concezione dell’uomo e dell’esistenza, bisogna dire che il cristianesimo ne è la sua più piena e più ricca espressione. Non per nulla Kierkegaard considera l’umorismo come l’estrema approssimazione dell’umano a ciò che è propriamente religioso-cristiano. C’è anche chi sostiene che soltanto nel cristianesimo è possibile una piena forma di humour.
In verità, esaminando attentamente la questione, si approda alla convinzione che cristianesimo e umorismo vanno perfettamente d’accordo, anche se, a prima vista, parrebbe vero il contrario.
Nonostante qualche accenno, il principale lavoro teologico sulla commedia è stato effettuato soltanto di recente, e può riassumersi nella nozione che sia per il cristianesimo sia per la sensibilità comica nulla va preso troppo sul serio. Il mondo è importante, ma non in modo assoluto.
« Come il buffone, l’uomo di fede può sorridere alle pretese del principe perché sa che il principe non è altro che un uomo che un giorno sarà ridotto in polvere ». Dunque, è umorista Dio? La risposta ci è data innanzitutto dal mistero dell’Incarnazione. Che Dio, eterno e infinito, del quale nessuno può vedere il volto e restare vivo (Esodo, 33, 20), che « abita una luce inaccessibile » (1 Timoteo, 6, 6), « alfa e omega » (Apocalisse, 1, 8), semper maior di quanto di lui si possa dire o pensare, supra quem nihil, extra quem nihil, sine quo nihil:  che questo Dio assuma la natura umana e diventi uomo come noi; come noi soffra la fame e la sete, la solitudine e la malattia, il freddo e il caldo; subisca come noi la passione e la morte; si sottometta ai capricci degli uomini; che « con l’Incarnazione si sia unito in certo modo ad ogni uomo » (Gaudium et spes, n. 22), tutto ciò sconvolge la mente.
Ma, se l’uomo si smarrisce, Dio « si diverte »:  di un divertimento che è espressione di amore infinito, che sfugge a ogni comprensione, annienta ogni misura. Dietro lo scandalo dell’Incarnazione c’è l’abisso inesplicabile della ricchezza dell’amore e della sapienza con cui Dio ha disposto la trama segreta dei fatti di cui è intessuta la storia umana (Romani, 11, 33).
Se la base dell’umorismo va ricercata nella legge del contrasto e nell’accostamento dei contrari, bisogna concludere che, in fatto di umorismo, Dio è maestro insuperabile.
Questo umorismo divino accompagna l’opera della salvezza e s’incarna in scelte che non finiscono mai di sconcertare. « Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono » (1 Corinzi, 1, 28). Tutta la storia della Chiesa è una sequenza di scelte – scelte di persone, di eventi, di strumenti – che Dio opera con immutato sense of humour e che le conferiscono un inconfondibile sapore di ottimismo e di gioiosa sorpresa.
In questa prospettiva umoristica va inquadrata e compresa l’esistenza cristiana. Essa paradossalmente si snoda tra l’eterno di Dio e gli eventi, spesso insignificanti, del nostro quotidiano; tra la vittoria definitiva del Signore e le nostre impotenze e sconfitte; in una Chiesa che è, nello stesso tempo, sposa senza macchia e comunità di peccatori. Tutto ciò getta sull’esistenza cristiana una luce nuova, che permette di vedere uomini e cose in angolature ricche di significato. Concepito in chiave cristiana, l’umorismo non chiude gli occhi sulle brutture e miserie della vita; neanche si pone – come succede per l’ironia, la satira e l’arguzia – di fronte a esse come un giudice.
Guidato dalla fede, esso scorge il lontano grande comune progetto di Dio; getta qui il suo pensiero e avanza sorridendo mentre scopre le stoltezze di noi mortali. Nell’umorista si nasconde una straordinaria forza di sopportazione e un’irrefrenabile libertà dell’essere; il suo regno è oltre i contrasti terreni e nessuna fredda valutazione riesce a deprimerlo.
Tra gli effetti più importanti dell’umorismo cristiano vi è la demitizzazione di sé e degli altri. Capitano giorni in cui tutti sono tentati di vedersi in prospettive eroiche, in pose da grandi, su piedistalli costruiti col materiale più vario. In queste ore di grazia ci si sente padroni del mondo, capaci di sfidare e vincere le debolezze nelle quali, chi più chi meno, inciampano tutti. In ognuno di noi c’è un po’ di Pietro che proclama:  « Se anche dovessi morire con te, non ti rinnegherò » (Marco, 14, 31). L’impatto con la realtà della nostra miseria, quando questa s’impadronirà di noi e stenderà la sua ombra sulla nostra vita, potrebbe essere drammatico. Vera valvola di sicurezza sarà, allora, il sense of humour. Esso non nasconde le nostre debolezze, né le edulcora o le ammanta di inutili orpelli, ma ce le fa vedere con lo sguardo del Signore:  con quell’amore che è comprensione dei nostri limiti, dono di fiducia, promessa di perdono. Egli sa che Pietro, prima che il gallo canti due volte, lo rinnegherà tre volte, ma invece di rifiutarlo, gli affida la sua Chiesa. Sa che il triplice rinnegamento non è espressione di cattiveria, ma di debolezza. E deve aver sorriso di fronte alla baldanza del futuro primo Papa.
Con questo stesso sguardo l’umorismo riesce a « ridimensionare » noi e gli altri. Sul crollo delle impalcature eroiche germoglia allora l’umiltà e la fiducia. La prima sgombra il terreno da ogni presunzione e permette di camminare in verità, invita ad « attingere forza nel Signore e nel vigore della sua potenza » (Efesini, 6, 10), ricorda « agli anziani che il mondo non è finito con loro e ai giovani che il mondo non è incominciato con loro ». La fiducia ci proietta in avanti, ci rende intraprendenti, ci fa soggetti di storia, ci apre la porta all’amore degli altri.
Si comprende pertanto che l’umorismo cristiano è un nuovo modo di essere e di sentire:  converte il pessimismo in audacia, il disprezzo in pietà, l’insofferenza dei limiti in feconda accettazione. Questa benefica novità deriva dal fatto che, nell’ottica umoristica, l’esistenza e gli eventi ricevono senso e valore non in se stessi, ma in Dio che « sa di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere » (Salmi, 102, 14).
Isolata dal flusso della redenzione operata da Cristo, la realtà umana fa orrore perché prigioniera del male, del banale, della noia, della disperazione. « Innumerevoli – afferma Sofocle nell’Antigone – sono le cose spaventose, ma nulla c’è di più spaventoso dell’uomo ». L’uomo? « Un misero commediante, che incede e si agita sulla scena e più non se ne parla ».
Conseguenza? Disgusto, rifiuto, pena, che si esprimono nel lazzo, nell’ironia amara, nel riso senza gioia. L’umorismo opera un’inversione di prospettiva. L’uomo non è visto isolato e abbandonato alla sua miseria, ma all’ombra dell’amore di Dio che comprende e usa misericordia; non si offre al nostro sguardo come una « cosa spaventosa », ma come un figlio amato che, per un capriccio di bambini, crede di poter fare a meno dei genitori; meritevole più di indulgenza che di condanna, più di tenerezza che di severità.
Questo sguardo di tenerezza e d’indulgenza ci dà la grazia – poiché di una vera grazia si tratta – di ridere di noi stessi:  dei nostri fallimenti, dei nostri sogni infranti, dei nostri voli mancati. L’umorismo riesce a sdrammatizzare gli eventi, a sottolineare la relatività di ogni cosa, a eliminare ogni patina di fatalità, e tutto collocare in una giusta prospettiva. Grazie al suo famoso sense of humour, espressione della speranza cristiana e di una fede viva, sir Thomas More è riuscito a sdrammatizzare anche la sua morte. Salendo la vacillante scaletta del patibolo, esclama:  « Per favore, messer luogotenente, volete darmi una mano per farmi salire sicuro? Poi, per scendere, lasciate pure che mi arrangi da solo ». Incoraggia anche il carnefice:  « Su, amico, fatti animo, e compi il tuo ufficio senza timore. Ma guarda che ho il collo piuttosto corto:  perciò sta’ attento a colpire diritto, per non macchiare il tuo buon nome ».
Il senso d’insoddisfazione e di amarezza di cui spesso tanti di noi sono vittime deriva dal fatto che il mondo non va come noi vorremmo e che la Chiesa non la pensa come a noi piacerebbe. Qui deve soccorrerci l’umorismo che ci fa prendere una certa distanza dai nostri punti di vista e ci ricorda che non siamo le sole persone intelligenti, le sole che pensano rettamente e che dispongono dello Spirito Santo. Nello spazio creato dall’umorismo le tensioni si allentano, molte cose si vedono meglio e trovano la loro giusta collocazione.
« Troppi individui stanno eccessivamente addossati alle cose. E allora la visione risulta parziale, distorta, centrata sui particolari, senza prospettiva, senza sfumature, marcata dalla passionalità, da tinte troppo cariche. Significative, a questo proposito, certe discussioni tra gente accigliata, tesa, arrabbiata, amara, nervosa, perfino isterica, che fa di ogni problema una tragedia, di ogni novità un’eresia, di ogni critica una sciagura, di ogni protesta una rivoluzione. La confusione celebra inenarrabili trionfi. Invece è urgente, è igienico costruirsi una nicchia nel cuore, da dove scaturirà quel sorriso che è capacità di guardare con benevolenza a tutte le cose, che è senso del limite, proprio e altrui ».
Tale capacità è anche libertà di spirito che permette di dominare gli eventi e di navigare nei mari della serenità e della fiducia. Un teologo tutt’altro che superficiale, il cardinale Henri-Marie de Lubac, ha scritto:  « Al colmo della sofferenza guardati ogni tanto con humour, onde sfuggire al veleno che essa distilla. Credimi, il rimedio è più efficace di qualsiasi eroico combattimento. È anche più facile, per poco che tu sia abitualmente sensibile alla commedia umana, senza però metterti fuori del gioco ». E riporta il consiglio di un anonimo cenobita:  « Se la tua anima è turbata va in chiesa, prosternati e prega. Se la tua anima rimane ancora turbata vai a trovare il tuo padre spirituale, siediti ai suoi piedi e aprigli l’animo. E se la tua anima è sempre turbata, ritirati allora nella tua cella, stenditi sulla stuoia e dormi ».
L’opposto dell’umorista è il corrucciato. Sprovvisto del senso del relativo, prende tutto sul serio, soprattutto se stesso; dimentico della sostanziale debolezza umana, non sa compatire; il suo sorriso, quando c’è, è stentato; la sua presenza non suscita né fiducia né simpatia; parla di Dio come di un giudice e di un custode della legge più che di un padre. Quando un suo progetto fallisce o gli vengon meno gli amici, si lascia andare a un’amarezza che gli avvelena l’esistenza. Generalmente angosciato, è anche « pesante » perché carico dei propri punti di vista, dei propri umori, delle proprie disillusioni.
Il cristiano che ha il sense of humour, invece, quando cozza contro la disillusione, comprende e sorride:  comprende i suoi limiti e sorride del crollo delle sue illusioni. L’intelligenza del relativo lo sposta sul terreno dell’assoluto:  può così collocarsi al suo giusto posto, in rapporto a un Altro immensamente più grande di lui, che lo avvolge con benevola Provvidenza. Per questo motivo Champollion, a proposito di Taulero, parla dell’umorismo come di un dono estremamente frequente presso i mistici. Ossia, presso persone che « non si fanno soverchie illusioni sulla santità del loro stato ».
Sorride, si diceva. E ci viene in mente una pagina di Karl Rahner in cui si argomenta sul fatto che Dio « ride nel cielo », come si legge nel salmo 2:  « Se ne ride chi abita nei cieli ». Dinanzi al tumulto dei popoli che vogliono liberarsi dal suo dominio, Dio ride.
« Ride con calma – scrive Rahner – si potrebbe quasi dire:  come se tutto ciò non lo toccasse. Pieno di compassione. Lui conosce perfettamente il dramma amaro di questa terra. Dio ride, dice la Scrittura. E, con ciò, afferma che perfino il più minuscolo riso puro e argentino, che scaturisce da non importa dove, da un cuore retto, dinanzi a una qualsiasi idiozia di questo mondo, riflette un’immagine e un raggio di Dio. È un ricalco del Dio vincitore e signore della storia e dell’eternità. Di quel Dio il cui riso sta a dimostrare che, in fondo, tutto è buono alla fin fine ».
Nel mosaico dell’abside di San Paolo fuori le mura, Papa Onorio iii si è fatto ritrarre piccolissimo, su misura del piede destro del Signore. « In tal modo, con un sorriso di soddisfazione che la barba non riesce a celare, lascia al Pantocràtor il compito di governare da Signore la propria Chiesa ».
In merito, la lezione più sorprendente ce l’ha fornita Papa Giovanni. L’umorismo è stato tra le principali e più feconde caratteristiche della sua spiritualità:  esso si rifletteva in quel sorriso, aperto, cordiale, paterno, che era un irresistibile invito alla fiducia e alla pace interiore. Scriveva:  « Lo Spirito Santo ha scelto me. Si vede che vuole lavorare da solo. Mi sembra talvolta di essere un sacco vuoto che lo Spirito Santo riempie improvvisamente di forza »

(L’Osservatore Romano 29 agosto 2009)

Publié dans:OSSERVATORE ROMANO (DALL') |on 15 avril, 2011 |Pas de commentaires »

SCOPRIRE IL TESORO DELLA PAROLA DI DIO

dal sito:

http://www.zenit.org/article-26350?l=italian

SCOPRIRE IL TESORO DELLA PAROLA DI DIO

Intervista all’Arcivescovo di Toronto sulla lectio divina

di Kathleen Naab
 
TORONTO, venerdì, 15 aprile 2011 (ZENIT.org).- Benedetto XVI punta molto sulla lettura orante della Scrittura, nota come lectio divina, tanto da aver dedicato a questa pratica ampio spazio nell’esortazione “Verbum domini” oltre ad aver tenuto egli stesso in più di un’occasione la lectio divina con sacerdoti e seminaristi della sua diocesi.
L’Arcivescovo di Toronto è uno dei presuli che ha risposto all’invito del Santo Padre, non solo a livello personale ma anche coinvolgendo i fedeli della sua comunità.
Mons. Thomas Collins, che tiene incontri di lectio divina nella sua Arcidiocesi da 10 anni, ha pubblicato di recente un libro per condividere la sua esperienza con un pubblico più vasto.

ZENIT ha parlato con monsignor Collins su come promuovere la lectio divina e sul suo libro dal titolo « Pathway to Our Hearts: A Simple Approach to Lectio Divina with the Sermon on the Mount » (Ave Maria Press).

Il suo libro “Pathway to Our Hearts” è un adattamento delle lectiones divinae da lei svolte nella cattedrale della sua diocesi. La lectio divina è pensata per un gruppo di persone, è necessaria una guida, oppure è più idonea per essere fatta individualmente?

Monsignor Collins: Il modo migliore per fare l’esperienza della lectio divina è a livello individuale, ma negli ultimi 10 anni ho sviluppato una sorta di sessione di lectio divina per le prime domeniche del mese, da settembre a dicembre, nella mia cattedrale. L’auspicio è che coloro che partecipano una volta al mese nella cattedrale possano beneficiare di questa esperienza, ma soprattutto che possano adattare la forma pubblica della lectio divina a un uso personale, durante la preghiera quotidiana.
Il libro è descritto come un “adattamento dell’antica pratica della lectio divina ai cattolici di oggi”. Che adattamenti sono richiesti? Quali sono le differenze tra la pratica antica della lectio divina rispetto all’uso odierno?

Monsignor Collins: La lectio divina consiste in sostanza in una lettura orante della Scrittura – diversamente da uno studio biblico (esegesi) – o nella proclamazione della Parola di Dio nella liturgia, o nella lettura di lunghi brani della Bibbia. Lo scopo è quello di fare l’esperienza di un incontro con il Signore, attraverso la lettura orante di una piccola parte della Bibbia. In questi 2.000 anni i cristiani hanno sviluppato diverse modalità per fare questo.
Anche in epoca moderna, questa pratica ha subito diversi adattamenti, sia per la forma pubblica che per quella privata. In pubblico, la lectio divina che io propongo consiste semplicemente nella lettura orante di un brano della Bibbia. E il mio auspicio è che coloro che partecipano siano poi capaci di adattare questo metodo alla loro preghiera privata quotidiana.
Ci può spiegare sinteticamente il metodo che lei propone per la lectio divina? Esiste solo una metodologia definita, o può ciascun lettore – in questo caso l’Arcivescovo di Toronto – avere la propria struttura o il proprio metodo?

Monsignor Collins: Il mio modo di svolgere una lectio divina si basa su metodologie usate da altri, con alcuni adattamenti personali. Ciascuno può farlo in modi diversi. Inizio con le solenni preghiere della sera nella cattedrale, cantando i salmi. Questa è un’antica pratica che arricchisce la nostra vita moderna. Poi mi posiziono ai margini della chiesa e talvolta do qualche breve informazione che possa essere utile nella preghiera del testo.
Vi sono quindi tre fasi nella lectio divina. Anzitutto si fa il Segno della Croce, per iniziare il periodo della lectio divina. Dobbiamo porre noi stessi consapevolmente alla presenza di Dio, chiedendo perdono per i nostri peccati e abbandonando le distrazioni che impediscono di porre la nostra attenzione sulla Parola di Dio. Preghiamo secondo le parole del piccolo Samuele: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”.
La seconda fase è quella della preghiera del sacro testo. Prima leggo l’intero brano lentamente e ad alta voce, chiedendo a ciascuno di considerare cosa ci dice alla nostra testa, al nostro cuore e alle nostre mani, ovvero al nostro conoscere Dio, amare Dio e servire Dio.
Dopo un periodo di silenzio leggo il primo verso del brano e svolgo qualche riflessione invitando le persone a indugiare qualche momento in silenzio per meditare su quanto hanno ascoltato. Seguo lo stesso schema per tutti i versetti – testo, commento, silenzio – e leggo poi nuovamente l’intero brano ad alta voce, per passare poi a un momento di silenzio.
La terza fase consiste nella preghiera del Padre Nostro, dell’Ave Maria, del Gloria al Padre e nel Segno della Croce, per poi entrare nuovamente nelle questioni della nostra vita quotidiana.

Benedetto XVI ha più volte incoraggiato la lectio divina. Nel 2005 ha detto che se fosse “efficacemente promossa” porterebbe ad una nuova primavera della Chiesa. Cosa si può fare in proposito?

Monsignor Collins: Credo che sia una cosa buona che i vescovi e i sacerdoti svolgano la lectio divina in pubblico o illustrino questa forma di preghiera nelle loro conferenze o nei ritiri. È un modo molto semplice e profondo di incontrare Dio nella Bibbia.
Le sessioni che stanno alla base del libro “Pathway” risalgono agli anni 2007-2008, quindi quasi quattro anni fa. Possiamo dire che una promozione della lectio divina si sia già radicata nella Chiesa? E’ un processo in atto in Canada e nel resto del mondo?

Monsignor Collins: Io porto avanti la lectio divina in pubblico da 10 anni, ma altri lo stanno facendo da anni in altri modi. Le sessioni riprodotte in “Pathway to Our Hearts” riguardano l’anno in cui le mie lectiones erano incentrate sul Discorso della montagna. In altri anni i testi utilizzati erano tratti dai Salmi, dalle parabole o da altri brani della Scrittura. Non so come si faceva da altre parti, anche se il cardinale Martini, a Milano, ha svolto una forma diversa di lectio divina molti anni fa.
Infine, come Arcivescovo, come dovrebbe essere la lectio divina nella vita dei sacerdoti?

Monsignor Collins: Credo che possa essere di grande beneficio per i sacerdoti trascorrere un’ora ogni giorno in adorazione davanti a Nostro Signore nel Santissimo Sacramento ed è un bene svolgere una qualche forma di lectio divina durante quell’ora di preghiera quotidiana.

Publié dans:LECTIO DIVINA |on 15 avril, 2011 |Pas de commentaires »

Achillea x lewisii ‘King Edward’

Achillea x lewisii 'King Edward' dans immagini sacre achillea_x_lewisii_40a

http://www.floralimages.co.uk/page.php?taxon=achillea_x_lewisii,1

Publié dans:immagini sacre |on 14 avril, 2011 |Pas de commentaires »
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