Archive pour avril, 2011

Giovedì Santo: Una vita data liberamente e per amore (Enzo Bianchi)

dal sito:

http://paroledivita.myblog.it/archive/2009/03/31/giovedi-santo-una-vita-data-liberamente-e-per-amore.html

31/03/2009

Giovedì Santo: Una vita data liberamente e per amore

ENZO BIANCHI

http://www.monasterodibose.it/index.php/content/view/1097

Con il tramonto del giovedì santo ha inizio il triduo pasquale, quei giorni “santi”, distinti dagli altri, in cui noi cristiani meditiamo, celebriamo, riviviamo il mistero centrale della nostra fede: Gesù entra nella sua passione, conosce la morte e la sepoltura e il terzo giorno è risuscitato dal Padre nella forza di vita che è lo Spirito santo. Ma questo evento della passione di Gesù era dovuto al caso o a un destino che incombeva su Gesù? Perché Gesù ha conosciuto una condanna, la tortura e la morte violenta? Sono domande cui si deve dare una risposta se si vuole cogliere e conoscere in profondità il senso della passione. Ma sono gli stessi Vangeli che vogliono fornirci questa risposta testimoniando gli eventi di quei giorni pasquali dell’anno 30 della nostra era. Infatti Gesù, proprio per manifestare ai discepoli che entrava nella passione assumendola come un atto, non costretto dal fato e neppure per la casualità di eventi a lui sfavorevoli, anticipa con un mimo, con un gesto simbolico quello che gli sta per succedere e ne svela così il significato. Nella libertà, dunque, Gesù accetta quella fine che va profilandosi: avrebbe potuto fuggire, avrebbe potuto evitare di affrontare quella prova e, certo, ha chiesto al Padre se non fosse possibile questo, ma se Gesù voleva dimorare nella giustizia, se voleva collocarsi dalla parte dei giusti che in un mondo ingiusto sono sempre osteggiati e perseguitati, se voleva restare nella solidarietà con le vittime, gli agnelli della storia, allora doveva accettare quella condanna e quella morte. Sì, liberamente l’ha accettata perché fosse fatta la volontà del Padre: non che il Padre volesse la sua morte, ma la volontà del Padre chiedeva che Gesù restasse nella giustizia, nella carità, nella solidarietà con le vittime.
Ma questa libertà di Gesù era nutrita e accompagnata anche dall’amore: amore per il Padre, certo, ma anche per la verità e la giustizia, amore per noi uomini. Sì, proprio perché fosse manifesto che Gesù deponeva la sua vita liberamente e per amore – non costretto dal destino né da circostanze fortuite – Gesù anticipa con il segno quello che sta per accadergli. A tavola con i suoi discepoli, Gesù compie sul pane e sul vino delle azioni accompagnate dalle sue parole: il suo corpo è spezzato e dato per gli uomini, il suo sangue è versato e dato per tutti. E il segno della sua morte imminente, il sacramento del rendimento di grazie è l’eucaristia che i cristiani dovranno celebrare in memoria di Gesù per essere essi pure coinvolti in quel gesto che è dare la vita per i fratelli, per gli altri: alla fine di quell’azione Gesù esclama “Fate questo in memoria di me!”. Fino al suo ritorno, per tutto il tempo in cui i cristiani vivono nel mondo tra la morte-risurrezione di Gesù e la sua venuta nella gloria, è nella celebrazione di quel gesto del loro Maestro e Signore che i cristiani saranno plasmati come discepoli, parteciperanno alla vita stessa di Cristo, conosceranno che lui, il Signore, è con loro fino alla fine della storia.
Il giovedì santo non può dunque non celebrare questo evento anticipatore della passione di Gesù, narrazione del suo esodo da questo mondo al Padre. Ma la chiesa, significativamente, nella liturgia del giovedì santo sera, oltre a ricordare e vivere questo gesto del suo Signore come in ogni eucaristia, vive e ripete anche un altro gesto di Gesù, quello della lavanda dei piedi. Anche il quarto Vangelo, infatti, ricorda “l’ultima cena di Gesù con i suoi”, quella cena in cui fu svelato il traditore e annunciato il rinnegamento di Pietro e la fuga di tutti gli altri discepoli, quella cena vissuta in occasione dell’ultima pasqua di Gesù a Gerusalemme prima della sua morte. Però, anziché narrare il segno del pane e del vino, Giovanni narra il segno della lavanda! Perché un’azione “altra”, un segno “altro”? Eppure anche il quarto evangelista conosce il racconto dell’eucaristia, la chiesa ormai da decenni celebra questo sacramento. Perché allora la memoria di quest’altro segno? Possiamo ritenere molto probabile che questa scelta del quarto Vangelo sia motivata da un’urgenza avvertita nella chiesa alla fine del I secolo: la celebrazione eucaristica non può essere un rito disgiunto da una prassi coerente di agape, di amore e servizio ai fratelli, poiché proprio questo è il suo significato: dare la vita per i fratelli!
L’evangelista vuole così riattualizzare il messaggio dell’eucaristia ricordando che o essa è servizio reciproco, dono della vita per l’altro, amore fino all’estremo, oppure è solo un rito che appartiene alla “scena” di questo mondo. Potremmo dire che l’intenzione di Giovanni è che il sacramento dell’altare sia letto e vissuto sempre come sacramento del fratello: celebrazione eucaristica con il pane spezzato e il vino offerto e servizio concreto, quotidiano al fratello si richiamano reciprocamente come due facce della partecipazione al mistero pasquale di Cristo. Ecco allora il gesto di Gesù narrato lentamente, quasi al rallentatore, affinché resti ben impresso nella mente del discepolo di ogni tempo: Gesù depone la veste, prende un asciugamano, se lo cinge ai fianchi, verso l’acqua nel catino, lava i piedi, li asciuga, riprende la veste… Sono verbi di azione che rendono plasticamente l’evento della lavanda. E’ un gesto che Gesù compie in piena consapevolezza: Gesù, il Kyrios, il Signore, lava i piedi ai discepoli. Gesto anomalo, gesto paradossale che capovolge i ruoli, gesto scandaloso, come testimonia la reazione di Pietro! Eppure, proprio così Gesù racconta, “evangelizza” Dio, nel senso che rende Dio “buona notizia” per noi.
Due azioni diverse, due mimi sacramentali, due segni che narrano la stessa realtà: Gesù offre la sua vita e, liberamente e per amore, va verso la propria morte facendosi schiavo. Per questo, come al gesto eucaristico, così anche al gesto della lavanda fa seguito il comando: “Come io ho lavato i piedi a voi, così fate anche voi”. E la chiesa, se vuole essere chiesa del Signore, così deve fare in obbedienza al suo mandato: spezzare il pane, offrire il vino, lavare i piedi nell’assemblea dei credenti e nella storia degli uomini.

ENZO BIANCHI
Dare senso al tempo

And He walked through their midst

And He walked through their midst dans immagini sacre image017

http://www.agdei.com/Roxolana.html

Publié dans:immagini sacre |on 19 avril, 2011 |Pas de commentaires »

SAN PAOLO APOSTOLO – LA VITA IN CRISTO

dal sito:

http://www.sulmonte.org/wp-content/uploads/2010/11/vita-in-cristo-in-san-PAOLO.doc

SAN PAOLO APOSTOLO – LA VITA IN CRISTO

San Paolo conia l’espressione « in Cristo » per indicare l’unione dei cristiani con Cristo e mostrare come questi sono trasferiti nella vita stessa di Cristo. « per renderci conto della formula « in Cristo », noi dobbiamo guardarci dal mettere l’accento sopra l’esperienza, pur privilegiata, di Paolo. Secondo lui in effetti ogni cristiano è in relazione ontologica con il Cristo, quale che sia la coscienza che egli ne abbia. È la fede nel Cristo e l’incorporazione battesimale all’origine di questo beneficio. Esse trasferiscono l’uomo in un nuovo ambiente vitale, dove il suo essere e le sue facoltà sono trasformate ». Il cristiano è « in Cristo »; vivere in Cristo, in un rapporto personale con lui, è per Paolo la verità di quella realtà nuova creata nell’uomo giustificato dalla fede e dal battesimo. Le sue affermazioni dicono la novità del cristiano sul piano del suo essere. Si tratta della novità che è il battezzato stesso. Egli « in Cristo » è già una « nuova creatura », chiamato a rispondere con la propria vita morale alla nuova creazione operata in lui dallo Spirito. Il confronto del testo di Rom 6 con altre lettere dell’epistolario paolino, in particolare le lettere ai Colossesi e ai Galati, conferma e mette ancor più in evidenza il fondamento battesimale della vita in Cristo. Si può affermare infatti che la verità fondamentale secondo cui l’ espressione paolina « in Cristo » deve essere compresa, non riguarda solo l’ « essere in Cristo » del battezzato, ma anche la « vita in Cristo » donata al battezzato, che proprio per questo è costituito come « vivente in Cristo Gesù ». Su questo si fonda e sviluppa il progetto e l’impegno etico di « vivere in Cristo ».
Nella lettera ai Colossesi l’Apostolo presenta gli imperativi morali come conseguenza dall’ essere risuscitati con Cristo; egli dichiara nuovamente che il cristiano partecipa del mistero pasquale di Cristo attraverso il battesimo, presentato ancora più esplicitamente come resurrezione del credente. « In lui infatti siete stati sepolti insieme nel battesimo, in lui siete insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti » (Col 2, 12). L’evidente parallelismo con il cap. 6 della lettera i Romani conferma il valore che Paolo attribuisce al battesimo, ma questo testo sottolinea una più forte unione a Cristo e alla sua risurrezione, come presente e già avvenuta nel battesim026. Nel futuro escatologico ci sarà la manifestazione piena della vita nuova partecipata nel battesimo e ancora avvolta nel mistero, ma ora su questa vita già da risorti si fonda e si mostra possibile l’impegno morale dei battezzati, chiamati a vivere da risorti con Cristo. « Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai
nascosta con Cristo in Dio » (Col 3, 1-3). Ciò che risulta evidente, nella tensione tra presente e futuro, insieme all’affermazione di un presente già in Cristo ma ancora nascosto, rimane l’affermazione che « l’intima appartenenza a Cristo è già realtà; essa infatti ha già avuto il suo fondamento nel battesimo, in cui il cristiano è stato inserito nella morte e risurrezione di Cristo »27.
Nell’ epilogo della lettera ai Galati, scritto da Paolo di suo pugno, l’Apostolo ribadisce il suo pensiero con « grossi caratteri » (Gal 6, 11). Questo particolare – secondo una fondata interpretazione – può indicare che si tratta di un testo importante per comprendere il suo pensiero. Egli afferma che ciò che conta per il cristiano è « l’essere nuova creatura » (Gal 6, 15). Questo viene spiegato a partire dalla testimonianza che l’Apostolo dà di se stesso (cfr. Gal 6, 14), per il legame che questa nuova identità ha con la croce di Cristo e che ha il significato e il valore di una vera circoncisione (cfr. Col 2, 11). A chi lo accusava di cercare il favore degli uomini, Paolo mostra ciò che ispira la sua condotta. Dopo la morte di Cristo, circoncisione e non circoncisione non contano più nulla. Per l’Apostolo ciò che vale ormai è l’opera della croce che ha distrutto il passato per instaurare un ordine nuovo. « Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo del quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo. Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura » (Gal 6,14-15). Ogni vanto del passato, anche la circoncisione della carne, è diventato inconsistente, poiché ora vale la <  Nella stessa lettera si parla del battesimo come di un evento salvifico nel quale il cristiano ha "indossato Cristo", si è rivestito di lui, per appartenere a lui. "Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è più giudeo nè greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, ma tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (GaI 3, 27-28). Mediante il battesimo, il cristiano comunica alla persona di Cristo e al suo essere: "chi è battezzato "in Cristo" viene fatto entrare nell' evento salvifico che fa tutt'uno con nome "Cristo"; gli viene assegnato questo evento"29. I cristiani sono rivestiti di Cristo nel senso che sono assimilati alla sua vita, con l'impegno di "indossare Cristo", conformando cioè la loro vita al modello di Cristo. Nella stessa lettera, Paolo conferma questo suo pensiero con la forza della sua esperienza, testimoniando che Cristo vive in lui, perché egli è stato crocifisso con Cristo (cfr. Gal 2, 19-20). I cristiani, tuttavia, non sono soltanto crocifissi con Cristo, ma partecipano alla sua vita e questa vita è vita nello Spirito. In questi termini nella stessa lettera ai Galati viene presentata e spiegata la novità della vita in Cristo: "Coloro che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito" (Gal 5, 24-25).  
Il cristiano è una nuova creatura per un dono di vita nuova, accolto nella fede e realizzato nel battesimo. Si tratta di un evento sacramentale, che opera una reale trasformazione del cristiano.
È una novità che Paolo afferma anche nella seconda lettera ai Corinzi, dove proclama che "quindi se uno è in Cristo è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ne sono nate di nuove" (2 Cor 5, 17). Per comprendere meglio questo versetto occorre guardare anche a ciò che lo precede, in cui ritroviamo l'espressione - a noi ormai familiare - che il cristiano ormai non vive più per se stesso. "Cristo è morto per tutti, perché quelli che vivono, non vivano più per se stessi, ma per colui che
è morto e risuscitato per loro" (2 Cor 5, 15). I cristiani sono dei "viventi" perché partecipano alla vita di colui che è morto e risorto per loro; sono guadagnati per una nuova esistenza, quella di Cristo in loro. Per questo Paolo testimonia di non conoscere nessuno secondo la carne, poiché ormai egli vive per Cristo; per lui vivere è Cristo (Fil 1, 21) e tutto egli conosce e giudica in lui. È la novità vivente e vitale di colui che è stato conquistato da Cristo, del battezzato che è un uomo nuovo e la cui conoscenza si fonda sul cambiamento del suo essere e del mondo nel suo insieme31.
Dall' analisi di questi testi dell' epistolario paolino sul battesimo risulta evidente che il sacramento del battesimo rappresenta un "atto unico", fondante e attivo in tutta la vita del battezzato, mediante il quale si opera in lui una novità di vita, l'inizio di una vita nuova nella partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo. Per questo evento sacramentale, l'esistenza cristiana può essere definita un "vivere in Cristo", per vivere la vita di Cristo. Per il battesimo, sacramento della pasqua, si determina una nuova situazione ontologica: il cristiano è una nuova creatura (cfr. Gai 5, 6; 6, 15; 2 Cor 5, 17), sperimenta un nuovo intervento creatore di Dio (cfr. Col 3, 10), diventa un uomo nuovo rispetto a ciò che era prima e che non esiste più (cfr. Rom 6, 6; Col 3, 9; Gal 2, 19). Quindi per il battezzato l'essere "in Cristo" non significa semplice relazione psicologica, sentimentale, né fusione o assorbimento, ma comunione personale e vitale, così da essere inserito e incorporato in Cristo, per divenire un essere solo con lui (Gal 3, 27-28). Perciò l'espressione "in Cristo" contiene ed esprime quella relazione esistenziale del cristiano che nel battesimo è posto in rapporto vitale con Cristo, attraverso un evento sacramentale iniziale e unico, ma sempre attuale nella sua efficacia. Secondo la piena verità del suo significato ontologico e morale, l'espressione "vita in Cristo" permette di comprendere che la natura e l'identità della vita morale, che si sviluppa a partire dal dono sacramentale, è una "vita nuova in Cristo", in cui è contenuta e comunicata tutta la verità salvifica e santificante dell' essere in Cristo. "Si tratta sempre per il battezzato di mettere la sua vita in armonia con l'economia dell'era di grazia nella quale è stato introdotto, che è la regola fondamentale dell'etica paolina". TI cristiano vive la vita stessa di Cristo "fuoriuscita" dal suo costato nella vittoria pasquale sul peccato e sulla morte, una vita perciò di riconciliazione con Dio nello Spirito e di partecipazione all'amore trinitario di Dio. Ed è in questo suo essere che si fonda e si sviluppa il suo operare. "Si tratta di affermare l' assolutezza e la radicalità dell' essere in Cristo, dal quale ne seguiranno le conseguenze. Però ciò che è tipicamente paolino è questa radicalità dell'affermazione antropologica cristocentrica e cristocentrata. È pertanto una questione più di fondo, riguardante soprattutto l'idea di uomo".
Ma la "vita nuova in Cristo" è una vita che domanda di essere vissuta. Il battezzato manifesta e realizza la novità ontologica della sua partecipazione alla vita pasquale di Cristo quando in lui diventa memoria esistenziale, quando si manifesta come esistenza nuova, come nuova vita in Cristo.

C.M.Martini, Vita di Mosé: ‘Propheta traditus ‘

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/martini_moses6.htm

Carlo Maria Martini

vita di Mosè – vita di Gesù – esistenza pasquale

sesta meditazione
Mosè: ‘Propheta traditus ‘

Il tema fondamentale di questa meditazione sarà quello della cosiddetta « passione» di Mosè. A questo proposito terremo presente il rapporto tipologico che il Nuovo Testamento rivela tra Mosè e Gesù: al coinvolgimento di Mosè fino alla sofferenza corrisponde il coinvolgimento di Gesù fino alla morte, nella loro opera profetica; al servo sofferente Mosè corrisponde il servo sofferente Gesù. D’altronde, già sappiamo che Mosè è chiamato il «servo di Jahvé »; e probabilmente i famosi quattro canti del servo di Jahvé nel Deuteroisaia sono stati scritti ispirandosi proprio a Mosè e puntando lo sguardo verso un misterioso personaggio messianico. Abbiamo allora tre figure davanti a noi: il Mosè sofferente, il servo di Jahvé – di cui non potremo parlare a lungo -, infine Gesù di fronte alla sua passione.
L’uso di un’espressione latina (propheta traditus) nel titolo di questa meditazione dipende dal fatto che non credo sia possibile trovare in italiano un verbo che, al pari del tradere latino, corrisponda ai tre significati dello stesso verbo greco paradidonai, che il Nuovo Testamento usa in tre accezioni diverse, in riferimento a Gesù. Vediamo un esempio per ciascuno di questi significati.
Nel suo discorso presso il portico di Salomone Pietro dice: «Il Dio di Abramo di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo Figlio Gesù, che voi avete tradito (paredokate)»(At. 3, 13). Voi, dice Pietro, lo avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato. Quindi Gesù è « tradito» dagli uomini, tradito da noi.
In Rom. 8, 32 lo stesso verbo indica l’azione del Padre: «Che cosa diremo: se Dio è in nostro favore, chi sarà contro di noi? Colui che non ha risparmiato il suo Figlio, ma per noi tutti lo ha consegnato (paredoken auton) ». Quindi Gesù è stato dal Padre consegnato nelle nostre mani, perché ne facessimo «quello che volevamo»: lo accogliessimo, lo adorassimo, lo amassimo; con la nostra libertà, però, eravamo in grado anche di non amarlo, di non accoglierlo, di respingerlo, di contestarlo, addirittura di ucciderlo. E il Padre lo ha comunque consegnato all’umanità.
Il terzo significato del nostro verbo compare in Gal. 2, 20, ove esso ha per soggetto il Cristo stesso. Dice Paolo: «Vivo non più io, vive in me Cristo; ciò che ora vivo nella carne lo vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e si è consegnato per me (kai paradontos eauton upèr emou) ». Qui è Gesù stesso che si è consegnato per noi. Mediante l’incrocio di questi tre significati dello stesso verbo, noi possiamo contemplare il mistero della croce, lo svelamento del segreto del roveto ardente: il Padre che consegna il Figlio liberamente agli uomini, il Figlio che si consegna per la nostra salvezza e l’umanità che lo tradisce. Queste realtà saranno l’oggetto della nostra meditazione, che però noi concentreremo sulla figura di Mosè, in quanto tipo di Gesù; Mosè, infatti, è il profeta consegnato nel senso indicato: il profeta che Dio consegna al suo popolo, che consegna se stesso al suo popolo, che il popolo fa soffrire. Mosè non andrà fino alla morte, non darà la vita. È Gesù che dà la vita. Però Mosè soffrirà’ nella sua carne il rigetto da parte del popolo. La prima parte della meditazione, dunque, consisterà nell’esaminare alcune situazioni di sofferenza di Mosè; nella seconda. parte, poi, richiamerò alcune situazioni analoghe, o diverse ma pur sempre corrispondenti, di sofferenza di Gesù: la sofferenza di Mosè ci aiuterà a contemplare e ad intendere meglio la profondità dell’amore di Gesù. La nostra sarà allora davvero contemplazione del mistero del Padre che dona il Figlio e del Figlio che gratuitamente si dona, malgrado il tradimento nostro, e che continua a donarsi nonostante il rifiuto.

1. Le sofferenze di Mosè
Tra i molti episodi narrati nei libri dell’Esodo e dei Numeri, che ci descrivono i vari guai patiti da Mosè, ne ho scelti quattro, che ho intitolato cosi: a) la leggerezza di Mosè; b) le paure di Mosè; c) l’insicurezza di Mosè; d) la pazienza di Mosè.
Come introduzione a questi episodi, vorrei leggere qualche brano di André Neher, un autore ebreo che è un classico in materia. Egli ha pubblicato nel 1955 un libro dal titolo L’essenza del profetismo, nel quale tenta di formulare la fenomenologia dell’esperienza profetica in un quadro di storia delle religioni; e non gli mancano le intuizioni acute. A proposito di Mosè, dice cosi: «Un’esperienza nuova caratterizza Mosè come profeta, che Abramo non aveva conosciuto. È un’esperienza che introduce nel profetismo biblico un dato capitale: Mosè è il primo che prova la sofferenza della vocazione profetica. Abramo accetta tutte le offerte divine con lo stesso cuore: esce dal paese dei Caldei, fa i viaggi che il Signore gli fa fare, affronta le difficoltà; perfino quando si descrive il sacrificio del figlio non c’è una parola sui suoi sentimenti, quasi che egli vivesse tutto con fede assoluta. Egli è il profeta della certezza. Mosè invece è il profeta del dubbio, del rifiuto, della rivolta, ed è a lui che noi ritorniamo incessantemente, quando cerchiamo l’esempio di una profezia nel dolore ». Quindi Neher contrappone direttamente Abramo a Mosè: «Abraham est un prophète abrité, Moïse est un prophète livré; Abramo è un profeta protetto, Mosè è un profeta consegnato ». Ecco la differenza fra i due: «Con Mosè la rivelazione prende un carattere più tragico ». Poi l’autore si domanda perché questo aspetto tragico del servizio della parola, della profezia, venga sottolineato con Mosè e non con Abramo. E dà questa risposta: «Ciò deriva dal fatto che il profeta secondo Abramo è un individuo, il profeta secondo Mosè è inserito nella storia di un popolo. Abramo è il profeta da solo, è da lui che nasce il popolo; la missione di Mosè, invece, lo introduce nell’ambiente di una comunità umana. E allora necessariamente si crea il conflitto, la lotta concreta, il dialogo con gli uomini. Ed è un dialogo molto più difficile e molto differente dal semplice dialogo con Dio, perché è molto più sottomesso al rischio dello scacco». Finché uno tratta col suo Dio, lo scacco è soltanto in lui; se accetta, è in pace con Dio; ma se deve essere profeta per gli altri, allora tutto il suo profetare è sottomesso all’accettazione o al rifiuto, alla pigrizia o alle resistenze degli altri. Mosè è al centro di questo dramma. Questo è tanto vero, dice l’autore, che talora, « quando lo scacco sembra vicino (cioè quando Israele è tutto in rivolta e la sua storia sembra che stia per finire), Dio permette a Mosè di scegliere di diventare un nuovo Abramo, un profeta-patriarca: ‘ Io farò di te un nuovo popolo ‘ ». Mosè, come sappiamo, allora reagirà: «No, voglio continuare con il mio popolo ». E Neher conclude: «La realizzazione della rivelazione fatta a Mosè dipende congiuntamente sia dalla fede di lui che dalla fede del popolo ».
Mi pare molto profondo questo concetto, perché mostra anche quello che è il dramma di Gesù. Gesù può essere accolto o respinto. Non è semplicemente il Gesù che passa glorioso proclamando la parola; l’opera di Gesù è il seme che cade nella terra e che viene o calpestato o mangiato o soffocato, oppure produce frutti. Ma questa alternativa non riguarda soltanto il servizio della parola, bensì anche tutti gli altri servizi, nel senso che essi non dipendono solo da noi che li prestiamo, ma P-\lre da coloro che dovrebbero riceverli. Tante volte pensiamo, ad esempio, che il servizio del pane e dell’acqua, il più umile e il più semplice, viene sempre e comunque ben accolto. Ma noi sappiamo che non è così: molti missionari e missionarie che facevano servizio nei lebbrosari sono stati mandati via. Perché? Perché si è ragionato come se tutto dipendesse soltanto da coloro che intendevano prestare quel certo servizio; non ci si è chiesto che cosa ne pensavano i destinatari di esso, se lo volevano davvero, se era veramente il servizio che in quel momento fosse più utile. Di qui il dramma di servizi offerti con tanto coraggio e fiducia, ma non accettati. Non accettati per molti motivi: talora per gli sbagli di chi li offre, ma talora anche per il rifiuto sbagliato di chi non li accetta. Ad ogni modo l’interpretazione proposta da Neher mi pare molto valida: Mosè soffre perché vuole vivere con la gente; se si contentasse del dialogo con Dio, potrebbe starsene tranquillo, ma il suo coinvolgimento ad un certo punto lo stritola. Ugualmente, il coinvolgimento di Gesù con la gente farà sì che ad un certo punto egli resti schiacciato.
Cercheremo allora di meditare su questa dimensione della sofferenza di Mosè e di Gesù. Vediamo dunque dapprima i quattro episodi della vita di Mosè, su cui vi invito a riflettere.

a) La leggerezza di Mosè
Il primo episodio (Bs. 4, 18-26) consiste in una scena molto misteriosa.
Mosè, obbediente alla volontà di Dio, «partì e tornò da Jetro suo suocero e gli disse: ‘Lascia che io parta e torni dai miei fratelli che sono in Egitto per vedere se sono ancora vivi! ‘ … Jetro disse a Mosè: ‘ va ‘ pure in pace! ‘… Mosè prese la moglie e i figli (notate qui la stessa frase ripresa da Matteo per descrivere il ritorno di Gesù dall’Egitto), li fece salire sull’asino e tornò nel paese d’Egitto. Mosè prese in mano il bastone di Dio ». Mosè, pieno di fiducia e d’abbandono al Signore, con la moglie e i figli si mette in viaggio verso l’Egitto. Però, « mentre si trovava in viaggio, nel luogo dove pernottava, il Signore gli venne incontro e cercò di farlo morire. Allora Zippora prese una selce tagliente, recise il prepuzio del figlio e con quello gli toccò i piedi e disse: ‘ Per me tu sei uno sposo di sangue! ‘. E (il Signore) si ritirò da lui. Essa aveva detto ‘ sposo di sangue ‘ a causa della circoncisione ».
Questo episodio ci spaventa, tanto è misterioso. Anche gli esegeti si chiedono quali tradizioni vi si siano raccolte. Noi cerchiamo di interpretarlo così come ci appare nel suo contesto attuale. In fondo, Mosè ha pensato che la chiamata ricevuta si ponesse più o meno al livello delle cose che faceva prima: tornare in Egitto col gregge, la moglie e i figli e ricominciare un certo lavoro. Il Signore invece gli vuol far capire che le cose sono cambiate e che lui ha preso alla leggera le sue parole, quando ha concepito la missione alla maniera borghese. . . E qui, anche se non riusciamo a capire tutto, capiamo però come Dio gli preannuncia che non si tratterà affatto di un’impresa tranquilla, bensì di qualcosa che lo coinvolgerà fino alla morte.
L’episodio, proprio perché misterioso, può risultare particolarmente ricco di insegnamenti. Il fatto è che seguire la vita evangelica, dandosi ad un apostolato non faraonico, ma di servizio, non comporta soltanto qualche piccolo cambiamento di metodo, qualche aggiustamento nel linguaggio, ma implica un atteggiamento totalmente diverso. Noi siamo sempre tentati di ridurre la novità del Vangelo, con la sua sconvolgente capacità di travolgerci, ad un discorso circa le modalità operative: ma il Signore ci dice che si tratta di ben altro: «Non vi immaginate nemmeno a che cosa vi ho chiamati! ». Mosè, dal canto suo, ora si rende conto che l’impresa cui Dio lo ha chiamato è davvero cominciata, anche se lui non l’aveva capita: l’aveva ridotta alla sua piccola misura, ma Dio glielo impedisce, ricorrendo anche a gesti clamorosi, come quello capitato quella notte.

b) Le paure di Mosè
Fermiamoci ora a riflettere sulle « paure» di Mosè. Mosè ha avuto spesso paura: in particolare quando vede che non può esercitare la sua missione stando dall’altra parte del tavolo, ma deve buttarcisi ‘dentro e correre gli stessi rischi del popolo, anzi più rischi ancora…
Fin dall’inizio Mosè: ha intravisto come si sarebbero messe le cose; perciò cerca di difendersi. In Es. 4, 10 dice: «Mio Signore, non sono un buon parlatore; non lo sono stato mai prima e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo; sono impacciato di bocca e di lingua ». E poi, al v. 13, dopo il dialogo in cui Dio cerca di aiutarlo, quando Mosè capisce che le cose che gli sono chieste sono superiori alle sue forze fisiche – si sente intimorito di fronte a ciò che lo aspetta, allora dice quello che veramente ha nel cuore: «Perdonami, mio Signore, manda chi vuoi mandare! », cioè «manda un altro». Queste parole sono le stesse che dirà il profeta Isaia (cfr. Is. 6, 4-8). Ma Isaia è un altro tipo e le sue parole hanno tutt’altro significato: «Manda chi vuoi mandare », cioè « manda me ». Mosè invece diceva: «Non ci riesco ». Allora la collera del Signore si accende contro di lui: le esigenze della sua chiamata, infatti, non sono qualcosa da cui Mosè può ritirarsi quando vuole; ormai ha preso l’impegno e deve starci fino in fondo.
Un altro momento della paura di Mosè si manifesta nel suo lamento in Es. 5,22-23: «Mio Signore, perché maltratti questo popolo? Perché dunque mi hai inviato? Da quando sono venuto dal faraone per parlargli in tuo nome, egli ha fatto del male al tuo popolo e tu non hai fatto nulla per liberare il tuo popolo ». Mosè si era immaginato una liberazione facile, mentre le cose vanno molto diversamente; allora comincia ad avere paura e si chiede:« Ma che cosa mai vorrà da me? Attraverso quali vie mi vuole portare? ».
Un altro aspetto ancora della paura di Mosè si esprime in Es. 17, 4: «Mosè invocò l’aiuto del Signore, dicendo: ‘Che farò per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno! ‘ ».
Mosè è passato attraverso esperienze difficili, nelle quali ha sentito tutta la sua debolezza. Se vogliamo poi trovare nel Nuovo Testamento un testo che ci aiuti a capire la paura di Mosè, possiamo leggere Mc. 10, 32, ove ci viene presentata la paura degli apostoli: «Mentre erano in viaggio i Dodici con Gesù per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro, ed essi erano stupiti: coloro che venivano dietro erano pieni di timore ». Gesù corre avanti e gli altri seguono impauriti: «Dove andiamo? Dove ci porta? Ma perché andare a Gerusalemme dove la gente è maldisposta? ». Ecco la paura che il Signore non ha risparmiato ai suoi profeti. Diventare profeta, diventare servo del Vangelo non vuol dire andare allegramente avanti con l’animo pieno di entusiasmo: vuol dire soffrire tutta l’angoscia di situazioni nelle quali non si vede apparentemente una via d’uscita. È così che il Signore ci chiama alla fede nella sua parola.

c) L’insicurezza di Mosè
Malgrado i molti colpi che subisce, Mosè resiste; ad un certo punto, però, la sua psicologia sembra venir meno ed egli attraversa una grave crisi, che è descritta nella Bibbia, anche in questo caso, con parole misteriose e velate, tali però da farci capire che qualcosa di grave è successo nell’animo di Mosè.
Si tratta dell’episodio avvenuto presso le acque di Meriba, che ci è raccontato in Num. 20, 3-13: «Il popolo ebbe una lite con Mosè, dicendo: ‘Magari fossimo morti quando morirono i nostri fratelli davanti al Signore! Perché avete condotto la comunità del Signore in questo deserto per far morire noi e il nostro bestiame? E perché ci avete fatti uscire dall’Egitto, per condurci in questo luogo inospitale? Non è un luogo dove si può seminare, non ci sono fichi, non vigne, non melograni e non c’è acqua da bere ». Tutta l’amarezza del popolo si sfoga qui contro Mosè e Aronne. Allora questi due poveretti si allontanano e si prostrano per pregare: quindi il Signore dice a Mosè: «Prendi il bastone … convocate la comunità… parlate alla roccia ». Perciò, Mosè prende il bastone, alza la mano e dice: «’ Ascoltate, o ribelli: vi faremo noi, forse, uscire acqua da questa roccia? ‘. Mosè alzò la mano e percosse la roccia con il bastone due volte e ne uscì acqua in abbondanza; ne bevvero la comunità e tutto il bestiame… Ma il Signore disse a Mosè e ad Aronne: ‘ Poiché non avete avuto fiducia in me, per dar gloria al mio santo nome agli occhi degli Israeliti, voi non introdurrete questa comunità nel paese che io le do ‘ ».
Qui veramente siamo un po’ sconcertati. Questo Mosè che ha obbedito in tutto fino a questo punto, ora è preso da una crisi interiore, che prende corpo in una « mancanza », di cui resta per noi misterioso il significato. Mosè avrebbe forse mancato di fede colpendo due volte la roccia? Secondo un’altra tradizione, invece, Mosè verrebbe punito a causa del popolo che si era rifiutato di salire da Cades verso Canaan. In Deut. 1, 37s., Mosè dice: «Contro di me si adirò il Signore per causa vostra e disse: ‘Neanche tu vi entrerai, ma vi entrerà Giosuè figlio di Nun che sta al tuo servizio ‘». Questo testo e altri passi paralleli (cfr. Deut. 3, 26; 4, 21) sembrerebbero attribuire il castigo di Mosè non tanto all’episodio delle acque, quanto all’aver consentito che la gente non entrasse dal sud e che invece prendesse la strada dell’est, del Giordano. In quell’occasione, Mosè aveva avuto pietà del suo popolo, che si era spaventato alla notizia dei giganti che abitavano in quella terra; in tal modo aveva mancato di fiducia verso Dio. Non so quale spiegazione preferire. Ma certo è molto umano tutto questo. Noi crediamo di ascendere di virtù in virtù, ma certe volte improvvisamente c’è un crollo, o un momento difficile: non si regge più a quel peso che forse si era retto bene per anni. È un fatto a cui anche Mosè ha dovuto soggiacere. Egli ha avuto un momento di grave crisi interiore, che poi avrà le sue conseguenze, accettate da Mosè con molta dignità, con molta umiltà, con molta semplicità di cuore. Mosè si rimprovererà di aver avuto troppa compassione del suo popolo, fino al punto che per proteggerlo si. è staccato dalla Parola di Dio.
Questo capita quando ci si lascia coinvolgere con la gente! E il Signore non ci promette l’indefettibilità né ci risparmierà le conseguenze dell’aver agito in maniera sbagliata; ci promette bensì il perdono e la misericordia.

d) La pazienza di Mosè
L’ultimo aspetto che caratterizza il coinvolgimento doloroso e umiliante di Mosè nel servizio del suo popolo è quello della « pazienza». Anche a questo proposito la figura di Mosè appare grande per il rapporto che c’è in lui tra fragilità, dedizione e fiducia in Dio, che ne fa un’anima complessa, un uomo sofferente. Prendiamo in considerazione un episodio molto interessante, specialmente per la psicologia di Mosè: «Maria ed Aronne parlarono contro Mosè a causa della donna etiope che aveva sposata. Infatti aveva sposato un’Etiope (cioè una donna straniera), E dissero: ‘ Il Signore ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro? ‘ » (Num. 12,1-2).
Il motivo che li fa parlare cosi, in fondo, è l’invidia: un’invidia assai umiliante per Mosè, Aronne e Maria, che costituiscono l’équipe dirigente d’Israele e che non vanno d’accordo tra loro. La situazione è pure assai umiliante, perché Maria è colei che ha salvato Mosè dalle acque, e quindi si sente un po’ la sua protettrice. Fatto sta che «il Signore disse: ‘… Come non avete temuto di parlare contro il mio servo Mosè?  » E l’ira del Signore si accese contro di loro ed egli se ne andò; la nuvola si ritirò di sopra la tenda; ed ecco che Maria era lebbrosa, bianca come neve. Aronne guardò Maria ed ecco era lebbrosa» (12, 6-10). Mosè, però, ormai sa pazientare; perciò pregherà perché sia guarita e così ritornerà la pace in famiglia.
Qui noi vediamo .Mosè, l’uomo paziente, che ha imparato a tacere e a lasciar fare al Signore, sopportando anche la sofferenza più intima, quella di non essere capito nel suo rapporto con Dio dagli stessi familiari.

2. Gesù: il servo sofferente
La seconda parte di questa meditazione è dedicata alla figura di Gesù, al quale si applicano, punto per punto, le considerazioni fatte in precedenza. Anche qui suggerisco molto brevemente quattro considerazioni, che per contrasto o per analogia ci consentono di cogliere quale sia stato il coinvolgimento di Gesù con la gente.
Il primo elemento è quello della chiaroveggenza di Gesù. Mentre Mosè comincia con una certa faciloneria la sua missione (l’asinello, la moglie, i figli, il proposito di passare la vita in campagna, ecc.), Gesù fin dall’inizio sa dove andrà (Lc 9, 21-22). Quando la gente lo acclama per i miracoli e grida al successo, Gesù dice: «Il Figlio dell’uomo dovrà essere tradito ». Gesù ha visto chiaramente che il suo coinvolgimento con la gente doveva essere pagato fino in fondo, e non siè tirato indietro.
Il secondo elemento è quello della paura di Gesù, È questa un’espressione terribile che noi non avremmo mai usata, se essa non comparisse nel Vangelo. In Mc. 14, 33s., Gesù ,« sente paura» e dice: «La anima mia è triste fino alla morte », quasi .come Elia, il quale dice: «Signore, non ne posso più» (cfr. 1 Re 19, 4). E qui vediamo anche un parallelo fra Mosè e Gesù: Mosè ha avuto paura e anche Gesù ha voluto aver paura, mostrando così che il servizio del Vangelo non esime dall’angoscia di fronte alle situazioni catastrofiche che talora ci possono cascare addosso.
Il terzo elemento, che farei corrispondere all’insicurezza di Mosè presso le acque di Meriba, è quello della decisione di Gesù. In Gv 10, 11 ss., dice: «Io do la mia vita per le mie pecore ». Si tratta di un amore totale, insieme con un ascolto pieno del Padre. Mentre Mosè, posto fra il popolo e Dio, perde l’equilibrio emotivo e si butta sul popolo, Gesù offre la sua vita per amore nostro, ma in obbedienza alla parola del Padre. Qui potremmo meditare anche su Lc. 23, 46: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito ». Mentre Mosè non è riuscito ad affidare il suo spirito nel giorno di Meriba, come pure di fronte al tumulto sollevatosi all’arrivo degli esploratori, Gesù, l’artefice della nostra fede, si è affidato nelle mani del Padre per noi.
Infine, l’ultimo elemento da contemplare è quello della pazienza di Gesù. Tra i tanti episodi che si potrebbero citare ho scelto Gv. 18, 22-23: Gesù viene schiaffeggiato in casa di Anna. Mi sembra che ci sia un parallelismo con l’episodio di Mosè schiaffeggiato moralmente da Maria ed Aronne. Mosè non risponde niente a Maria e ad Aronne, e lascia la sua causa a Dio; Gesù invece risponde: « Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti? ». Gesù, quindi, non si è contentato di accettare, ma ha voluto evangelizzare e proporsi come segno di autenticità a quel povero funzionario, forse mal pagato, pieno di frustrazioni e sempre sottomesso, come è proprio degli inferiori posti tra un capo tirannico e i sudditi scontenti: un uomo amareggiato, che a un certo punto non trova di meglio che sfogare la sua ira contro un debole qualunque, magari per guadagnarsi un po’ di favore. Ebbene, Gesù potrebbe accettare in silenzio; invece preferisce fare qualcosa di più, e dice: «Guarda in te stesso. Perché mi hai colpito? Quali sono le radici del tuo atto? Se sono buone, io sono pronto a lasciarmi colpire; ma se non hai una ragione fondata, perché fai cosi? Perché questa scontentezza, perché questa amarezza e questa frustrazione? Che cosa c’è in te che non va? ». Insomma, Gesù colpito compie opera di evangelizzazione e di liberazione nei confronti di un uomo che non aveva mai visto, né rivedrà mai più: l’uomo che l’ha offeso, umiliandolo pubblicamente. Gesù non reagisce con un silenzio sdegnato, ma con una pazienza attiva, che lo fa « essere Vangelo », che lo fa «essere Parola di Dio », data a quell’uomo fino in fondo, senza riserve: Gesù è davvero il profeta che si consegna totalmente agli uomini!

Omelia per il 19 aprile 2011, prima lettura

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/10107.html

Omelia (24-06-2007)

don Marco Pratesi

Farò di te una luce ardente

La prima lettura (della messa del giorno) è il secondo dei quattro canti del Servo del Signore.
Vi si parla di un profeta, oggetto della chiamata e dell’attenzione di Dio fin dal seno materno.
Egli ha goduto di una speciale cura da parte di Dio, che ha voluto rendere la sua parola come una spada e una freccia, una parola penetrante, che entra nel vivo della carne, che colpisce da vicino e da lontano: ad essa non si sfugge comunque.
La sua esistenza è totalmente posta a servizio di Dio, la sua vita è glorificare Dio, lasciar emergere e trasparire la sua bellezza.
Anche per lui, come per altri profeti, ci sarà l’esperienza dell’insuccesso umano: egli ha l’impressione di aver gettato le sue forze, il suo servizio non ha avuto esito, è sfociato nel nulla.
Ma no, nulla è andato perduto: Dio risponde a questa dedizione glorificandolo, « conferendogli un peso », dandogli un posto rilevante nella storia.
Così egli non realizzerà solo la missione di riunire lo scampato resto fedele di Israele: la sua parola si irradierà su tutta l’umanità, sino ai confini del mondo.
Se è evidente che questo testo trova la sua realizzazione ultima in Gesù, la liturgia ci invita a leggerlo in riferimento a S. Giovanni Battista.
Il nome gli è attribuito da Dio (attraverso l’angelo Gabriele, Lc 1,13), e fin dal grembo egli è animato dallo Spirito per una missione di testimonianza (Lc 1,41).
La sua parola colpisce e scuote, al punto che le folle accorrono da tutta la Giudea (Mt 3,5; Mc 1,5), creando un vasto movimento popolare.
Non indica se stesso, non convoca intorno a sé, annunzia un altro (cf. Lc 3,16; Gv 1,26-27). Ha l’animo del piccolo, sa di non essere lo Sposo e trova la sua gioia nell’indicarlo presente (Gv 3,29-30).
Farà l’esperienza del rifiuto e dell’ostilità (Lc 7,33), fino a restarne vittima (Mt 14,2-12; Mc 6,17-29).
Egli però rimane colui che prepara la strada al Salvatore, è nella gloria di chi ha reso testimonianza all’Emmanuele, e rimane per sempre « una lampada che arde e risplende » (Gv 5,35).
In ciascuno di questi aspetti la figura del Battista è puntualmente esemplare. In modo complementare a Maria, egli esprime le attitudini della Chiesa e del discepolo, continuamente chiamato a passare dall’attesa all’adempimento, dalla profezia al Regno (Lc 16,16).

I commenti di don Marco sono pubblicati dal Centro Editoriale Dehoniano – EDB nel libro Stabile come il cielo.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 18 avril, 2011 |Pas de commentaires »

Omelia per il 19 aprile 2011

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/17758.html

Omelia (30-03-2010)

padre Lino Pedron

Gesù aveva già parlato in modo enigmatico dell’amico intimo che lo avrebbe tradito (cfr Gv 13,18), ma ora che denuncia chiaramente il traditore è preso da un turbamento profondo. Questa denuncia così chiara del traditore provoca grande costernazione nel gruppo dei discepoli: essi ignorano di chi stia parlando Gesù.
Il discepolo, « quello che Gesù amava » (v. 23) si trovava a mensa a fianco del Signore. Secondo l’usanza greco-romana, diffusa anche in Palestina, i commensali stavano adagiati sui divani, poggiandosi sopra il gomito sinistro, mentre con il braccio destro prendevano i cibi e le bevande.
In questo brano appare per la prima volta sulla scena questo discepolo innominato, del quale si parlerà anche nel seguito del vangelo: nel brano della morte di Gesù (19, 26ss), nella scoperta della tomba vuota (20,2ss) e nel brano della pesca miracolosa (21,7).
Gesù accoglie la richiesta del discepolo e indica il traditore. Satana entrò nel cuore di Giuda dopo che questi ha mangiato il boccone offerto da Gesù. Il nemico di Dio si impossessa del traditore, immergendolo nelle tenebre dell’incredulità e dell’odio, fino alla consumazione del delitto più grande: l’uccisione del Figlio di Dio (19,11).
Con l’ingresso di satana nel cuore di Giuda, gli eventi precipitano; per questo Gesù esorta il traditore ad affrettarsi nell’attuare il suo disegno criminoso. Il traditore esce dalla luce, abbandona il Cristo luce del mondo (8,12) e si immerge nelle tenebre della notte (v. 30). Nel cuore di Giuda si è spenta la luce della fede; in lui regnano le tenebre dell’incredulità e dell’odio. E’ notte!
Appena il traditore è uscito, Gesù apre il cuore ai suoi amici che lo circondano. Egli è consapevole di essere giunto alla vigilia della sua morte e per questo si premura di spiegare loro il vero significato della sua partenza da questo mondo. La sua morte in croce non è la sua sconfitta, ma il suo trionfo, la sua glorificazione e il suo ritorno al Padre. Con la sua passione e morte Gesù esegue con obbedienza eroica il piano di salvezza voluto dal Padre e dimostra fino a che punto ama Dio e gli uomini.
Attraverso la glorificazione di Gesù si compie anche la glorificazione del Padre. Dio è glorificato per mezzo di Gesù e in Gesù. Il Padre è glorificato dal Figlio con l’esaltazione di Gesù sul trono regale della croce. Da questo trono Gesù manifesta in pienezza la sua divinità (8, 28) e attira tutti a sé (12,32).
L’appellativo « figlioli » (v. 33), usato da Gesù, esprime tutto l’amore e la confidenza per i suoi discepoli. Gesù avverte i suoi amici che sta per lasciarli. In questo momento essi non possono seguirlo; lo raggiungeranno più tardi.
Il ritorno di Gesù al Padre non è un viaggio di piacere, ma di dolore: egli allude alla sua passione e morte. Pietro al momento presente non è in grado di imitare Gesù, nonostante la sua protesta di fedeltà fino al sacrificio della vita; egli lo seguirà con la prigionia e la morte, ma in seguito.
Data l’insistenza di Pietro nell’affermare la sua fedeltà a Gesù fino al sacrificio della vita. Il Signore gli predice l’imminente rinnegamento. Il riferimento al canto del gallo vuole indicare con chiarezza che Pietro rinnegherà tre volte Gesù proprio in quella stessa notte.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 18 avril, 2011 |Pas de commentaires »

Sabato Santo

Sabato Santo dans immagini sacre madonna_del_sabato_santo

http://www.fratiminorilecce.org/siate-apostoli-dei-vostri-coetanei

Publié dans:immagini sacre |on 18 avril, 2011 |Pas de commentaires »
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