Archive pour avril, 2011

Venerdì 29 Aprile 2011: Dalle «Catechesi» di Gerusalemme

VENERDÌ 29 APRILE 2011

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura

Dalle «Catechesi» di Gerusalemme

(Catech. 21, Mistagogica 3, 1-3; PG 33, 1087-1091)

L’unzione dello Spirito Santo
Battezzati in Cristo e rivestiti di Cristo, avete assunto una natura simile a quella del Figlio di Dio. Il Dio, che ci ha predestinati ad essere suoi figli adottivi, ci ha resi conformi al corpo glorioso di Cristo.
Divenuti partecipi di Cristo, non indebitamente siete chiamati «cristi» cioè «consacrati», perciò di voi Dio ha detto: «Non toccate i miei consacrati» (Sal 104, 15).
Siete diventati «consacrati» quando avete ricevuto il segno dello Spirito Santo. Tutto si è realizzato per voi in simbolo, dato che siete immagine di Cristo. Egli, battezzato nel fiume Giordano, dopo aver comunicato alle acque i fragranti effluvi della sua divinità, uscì da esse e su di lui avvenne la discesa del consustanziale Spirito Santo: l’Uguale si posò sull’Uguale.
Anche a voi, dopo che siete emersi dalle sacre acque, è stato dato il crisma, di cui era figura quello che unse il Cristo, cioè lo Spirito Santo. Di lui anche il grande Isaia, parlando in persona del Signore, dice nella profezia che lo riguarda: «Lo Spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri» (Is 61, 1).
Cristo non fu unto dagli uomini con olio o altro unguento materiale, ma il Padre lo ha unto di Spirito Santo, prestabilendolo salvatore di tutto il mondo, come dice Pietro: Gesù di Nazareth, che Dio unse di Spirito Santo (cfr. At 10, 38). E il profeta David proclama: «Il tuo trono, Dio, dura per sempre; è scettro giusto lo scettro del tuo regno. Ami la giustizia e l’empietà detesti; Dio, il tuo Dio, ti ha consacrato con olio di letizia, a preferenza dei tuoi eguali» (Sal 44, 7-8).
Egli fu unto con spirituale olio di letizia, cioè con lo Spirito Santo, il quale è chiamato olio di letizia, perché è lui l’autore della spirituale letizia. Voi, invece, siete stati unti con il crisma, divenendo così partecipi di Cristo e solidali con lui.
Guardatevi bene dal ritenere questo crisma come un puro e ordinario unguento. Santo è quest’unguento e non più puro e semplice olio. Dopo la consacrazione non è più olio ordinario, ma dono di Cristo e dello Spirito Santo. E’ divenuto efficace per la presenza della sua divinità e viene spalmato sulla tua fronte e sugli altri tuoi sensi con valore sacramentale. Così mentre il corpo viene unto con l’unguento visibile, l’anima viene santificata dal santo e vivificante Spirito.

Responsorio    Cfr. Ef 1, 13-14; 2 Cor 1, 21-22
R. Venendo alla fede, avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo promesso, che è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato, * a lode della sua gloria, alleluia.
V. Con l’unzione, Dio ci ha segnati e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori,
R. a lode della sua gloria, alleluia.

PORTRAITS OF PAUL

PORTRAITS OF PAUL dans immagini sacre 18%20EC%20ITALIENNE%20ST%20PAUL

http://www.artbible.net/Jesuschrist_fr.html

Publié dans:immagini sacre |on 28 avril, 2011 |Pas de commentaires »

Siamo eredi di Dio, coeredi di Cristo (Sant’Ambrogio)

dal sito:

http://www.aquilaepriscilla.it/5ord_merc.htm

Dalle  » Lettere  » di sant’Ambrogio, vescovo

Siamo eredi di Dio, coeredi di Cristo

Come dice l’Apostolo, colui che per mezzo dello Spirito fa morire le opere del corpo, vivrà. Nessuna meraviglia che viva, perché chi ha lo Spirito di Dio diventa figlio di Dio. t figlio di Dio, e conseguentemente, non riceve uno spirito da schiavi, ma uno spirito da figli adottivi. Per questo lo Spirito Santo attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E la testimonianza dello Spirito Santo consiste nel fatto che è proprio lui che grida nei nostri cuori:  » Abbà, Padre! « , come è scritto nella lettera ai Galati (Gal 4, 6). Quella testimonianza, poi, che siamo figli di Dio è veramente grande: perché siamo  » eredi di Dia e coeredi di Cristo  » (Rin 8, 17). Coerede di Cristo è colui che partecipa alla sua gloria; ma partecipa alla sua gloria solo chi, soffrendo per lui, partecipa alle sue pene. Per  esortarci alla sofferenza, aggiunge che tutto .quello che soffriamo è inferiore e non paragonabile al premio riservato a chi sopporta tali pene. Grande infatti sarà la mercede di beni futuri che si rivelerà in noi, quando, riformati sull’immagine di Dio, meriteremo di contemplare la sua gloria faccia a faccia. Per esaltare, poi, la grandezza della rivelazione futura, afferma che anche la creazione, ora sottomessa alla caducità non per suo volere, ma nella speranza di essere liberata, attende con impazienza la liberazione dei figli di Dio. Essa spera da Cristo .la grazia che spetta alla sua funzione. Anch’essa sarà liberata dalla corruzione e ammessa alla libertà della gloria dei figli di Dio. Ci sarà un’unica libertà, quella della creazione e quella dei figli di Dio, allorquando sarà manifestata la loro gloria. Frattanto. mentre tale manifestazione viene procrastinata, tutta la creazione geme nell’attesa della gloria della nostra adozione e della nostra redenzione. Sospira fin d’ora di dare alla luce quello spirito di salvezza e brama di essere liberata dalla schiavitù della caducità. Il concetto è chiaro. I fedeli, che possiedono le primizie dello Spirito, gemono interiormente aspettando l’adozione a figli. L’adozione a figli è la redenzione di tutto il corpo mistico. Si verificherà quando esso vedrà Dio, sommo ed eterno bene, quasi fosse tutto suo figlio adottivo. L’adozione a figli si ha però già ora nella Chiesa del Signore poiché già ora lo Spirito grida:  » Abbà, Padre! « , come si legge nella lettera ai Galati (Gal 4, 6). Ma essa sarà perfetta solamente quando tutti quelli che meriteranno di vedere il volto di Dio risorgeranno incorruttibili, splendidi e gloriosi. Allora la creatura umana potrà dirsi davvero liberata. -Perciò l’Apostolo si gloria dicendo:-  » Nella speranza noi siamo stati salvati  » (Rm 8, 24). Ci salva, infatti la speranza, cosi come ci salva la fede, della quale è detto:  » La tua fede ti ha salvato  » (Lc 18, 42).

Il genio di san Paolo (O.R. 13 novembre 2008)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/commenti/2008/265q01b1.html

DA: L’OSSERVATORE ROMANO
(13 novembre 2008)

Nel confronto tra fede e ragione

Il genio di san Paolo

di Juan Manuel de Prada

La commemorazione di questo Anno paolino dovrebbe servirci da stimolo per riflettere su uno dei tratti più distintivi e geniali di san Paolo, l’impulso di universalismo che presto sarebbe divenuto un elemento costitutivo della fede in Gesù Cristo. Un universalismo che, oltre a dare compimento alla missione che Gesù aveva affidato ai suoi discepoli, avrebbe definito l’orientamento innovatore del cristianesimo come religione che incorpora nel suo patrimonio culturale la sapienza pagana. Questa assimilazione culturale trasforma il cristianesimo, fin dai suoi inizi, in una religione diversa da qualsiasi altra:  poiché mentre le altre religioni stabiliscono che la loro identità si deve costituire negando l’eredità culturale che le precede, il cristianesimo comprese, grazie al genio paolino, che la vocazione universale della nuova fede esigeva di introdursi nelle strutture culturali, amministrative e giuridiche della sua epoca; non per sincretizzarsi con esse ma per trasformarle radicalmente dal di dentro. E questa illuminazione geniale di san Paolo – che senza dubbio fu illuminazione dello Spirito – deve servire da vigorosa ispirazione per noi cattolici di oggi, spesso tentati di arroccarci contro un mondo ostile.
San Paolo, nato a Tarso di Cilicia, in seno a una famiglia ebrea, fu anche cittadino romano; e questa condizione o status giuridico lo aiutò a comprendere che la vocazione di universalità del cristianesimo si sarebbe realizzata pienamente solo se fosse riuscita a introdursi nelle strutture dell’Impero padrone del mondo. Introdursi per beneficiare della sua vasta eredità culturale; introdursi, anche, per lavare dal di dentro la sua corruzione. Il cristianesimo non sarebbe riuscito a essere quello che in effetti fu se non avesse fatto proprie le lingue di Roma; e se non avesse adottato le sue leggi, per poi umanizzarle, fondando un diritto nuovo, penetrato dalla vertiginosa idea di redenzione personale che apporta il Vangelo. I cristiani avrebbero potuto accontentarsi di rimanere ai margini di Roma, come dei senza patria che celebrano i propri riti nella clandestinità. Addentrandosi nella bocca del lupo, armati solo della fiaccola della fede, rischiarono di perire tra le sue fauci; ma alla fine provocarono un incendio più duraturo dei monumenti di Roma.
Di quale potente lega era fabbricato quell’uomo che sconvolse per sempre il corso della storia? Sappiamo che nella formazione culturale di san Paolo si amalgamavano elementi ebraici e ellenistici. Possedeva una esauriente conoscenza della lingua greca, nutrita dalla Scrittura secondo la versione dei Settanta. Si distingueva però anche per una conoscenza affatto superficiale dei miti greci, come pure dei loro filosofi e poeti:  basta leggere il suo discorso nell’Areopago di Atene per renderci conto della sua solida cultura classica. E anche, naturalmente, del modus operandi della sua missione evangelizzatrice:  san Paolo inizia il suo discorso apportando riflessioni nelle quali pagani e cristiani potevano convergere, fondandosi anche su citazioni di filosofi; lo conclude però con l’annuncio del Giudizio Finale, pietra dello scandalo per i suoi ascoltatori – fra i quali, a quanto sappiamo, si contavano alcuni filosofi epicurei e stoici – che potevano accettare l’immortalità dell’anima, ma non la resurrezione della carne. Quel gruppo di filosofi probabilmente si sciolse prendendo san Paolo per matto; tuttavia, di ritorno a casa, mentre rimuginavano sulle parole che avevano appena ascoltato, forse riuscirono a scoprire che i principi sui quali si fondava il discorso di san Paolo si potevano cogliere attraverso la ragione. E questi principi assimilabili da un pagano che affiorano nel discorso dell’Areopago sono gli stessi che san Paolo incorpora nelle sue epistole:  la possibilità di conoscere Dio attraverso la sua Creazione, la presenza di una legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo, la sottomissione alla volontà di Dio come frutto della nostra filiazione divina. Principi sui quali in seguito san Paolo erigeva il suo portentoso edificio cristologico. Mettiamoci nei panni di quei filosofi pagani che ascoltarono san Paolo. Come non sentirsi interpellati da una predicazione che univa, in un modo così misteriosamente soggiogante, principi che la ragione poteva accettare con tesi che esigevano il concorso di una nuova fede? Come non sentirsi interpellato da questo Mistero che rendeva congruente ciò che ascoltavano e ciò che la mera intelligenza non permetteva loro di penetrare? E, nel cercare di approfondire quel Mistero, come non aprirsi agli orizzonti inediti di libertà e di speranza di cui Cristo era portatore?
Così accadde allora; e il genio paolino ci insegna che può continuare ad accadere ora. A un patrizio romano come Filemone non doveva sembrare più strano concedere la libertà al suo schiavo Onesimo, accogliendolo come un « fratello carissimo » nel Signore, di quanto deve sembrare a un uomo del nostro tempo – ad esempio – aborrire l’aborto. Se il genio paolino riuscì a far sì che un patrizio romano rinunciasse al diritto di proprietà su un altro uomo che le leggi gli riconoscevano, perché noi non possiamo far sì che gli uomini della nostra epoca recuperino il concetto di sacralità della vita umana, per quanto le leggi della nostra epoca sembrino averlo dimenticato? Per farlo, dovremo usare parole che risultino intelligibili agli uomini del nostro tempo; e così riusciremo, come a suo tempo riuscì il genio paolino, a minare dal di dentro una cultura che si è allontanata da Dio, senza arroccarci contro di essa.
Dobbiamo tornare a predicare in questa società neopagana che Dio si è fatto uomo; non per innalzarsi su un trono, ma per partecipare ai limiti umani, per provare le stesse sofferenze degli uomini, per accompagnarli nel loro cammino terreno. E, facendosi uomo, Dio ha fatto sì che la vita umana, ogni vita umana, divenisse sacra. San Paolo riuscì a farsi capire dagli uomini del suo tempo; e così trasformò in realtà la missione insostituibile che noi cristiani abbiamo nel mondo, descritta con parole sublimi nella Lettera a Diogneto:  « Come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani (…) L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo (…) Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare ».
Arroccarsi contro il mondo equivale ad abbandonare il posto che Dio ci ha assegnato. Il genio paolino ci insegna che possiamo continuare a essere l’anima del mondo, senza rinunciare ai nostri principi e senza rinnegare la nostra essenza.

(L’Osservatore Romano 13 novembre 2008)

Immagine dalla festa di Cristo Re dell’Universo

Immagine dalla festa di Cristo Re dell'Universo dans immagini sacre

http://www.santiebeati.it/

Publié dans:immagini sacre |on 27 avril, 2011 |Pas de commentaires »

Quella mistica ebraica in cui Dio « dà i numeri » (2006)

dal sito:

http://www.stpauls.it/jesus06/0607je/0607je52.htm

(7 LUGLIO 2006)

Quella mistica ebraica in cui Dio « dà i numeri »

di Matilde Passa 

In passato il termine evocava ostiche verità esoteriche e chi vi si dedicava aveva fama di seguace dell’occulto. Il filone mistico dell’ebraismo ha spesso suscitato interesse e qualche curiosità morbosa. Dopo decenni di oblio, la qabbalà oggi è tornata di moda, complice la voglia di originalità di qualche star hollywoodiana. E con l’esplosione del fenomeno, è diventato difficile distinguere la seria ricerca spirituale dalla superstizione o, peggio, dal mero affarismo sotto le mentite spoglie di nuovi movimenti religiosi di sapore New Age.
I media l’hanno battezzata Pop Kabbalah per la sua penetrazione nel mondo dello spettacolo. Da quando l’ha scoperta, Madonna indossa magliette con la scritta «Kabbalists do it better», durante i concerti si attorciglia nei tefillin, le strisce con il testo della Torà che gli ebrei osservanti usano per la preghiera mattutina, aggiunge al suo nome d’arte cattolico quello di Esther, moglie ebrea di Mardocheo re di Persia, della quale è ritenuta la reincarnazione, indossa il braccialetto rosso contro il malocchio (Evil eye), si dice stia per acquistare un villino a Rosh Pina, nel centro dello wadi, il luogo che dovrebbe accogliere i passi del prossimo messia nell’angolo di Galilea più sacro per i cabalisti. Soprattutto, la poliedrica rockstar versa milioni di dollari nelle lussureggianti casse del Kabbalah Centre che, grazie alle sue donazioni, ha aperto una succursale a Londra.
Non è da meno Britney Spears, fotografata con un tatuaggio (espressamente vietato nella Bibbia) che combina misticamente lettere ebraiche e decora la sua sexy nuca proprio in corrispondenza della componente ossea destinata, secondo la cultura ebraica tradizionale, a non decomporsi perché da lì dovrebbe partire la resurrezione. E ancora: a Elisabeth Taylor «la qabbalà ha donato una luce per attraversare le tenebre»; a Demi Moore ha «insegnato a dare valore alle cose che contano davvero»; a un nugolo di star hollywoodiane, che annovera tra le sue fila Barbra Streisand, Gwyneth Paltrow, Diane Keaton, nonché a miti del pallone come David Beckham, ha offerto una via alternativa all’altrettanto in voga Scientology; ai rotocalchi di tutto il mondo ha regalato un surplus di folclore religioso con il quale impepare le stanche pagine del gossip; ai cacciatori di sette e di bufale ultraterrene, materiale per riempire pagine di dossier; agli avvocati, laute parcelle per le cause intentate dagli adeptipentiti che si ritengono truffati dalle promesse di pseudo-cabalisti dell’ultima ora. Al Kabbalah Centre un fiume di denaro proveniente dai centri sparsi in tutto il mondo: una decina negli Stati Uniti e più di 50 nel mondo.
Insomma: da Hollywood è partita la nuova moda di sapore New Age, che si avvale degli antichissimi testi esoterici, linfa del misticismo ebraico, per secoli avvolti nel mistero e riservati ai pochi studiosi in grado di penetrarne i significati arcani, di decifrarne le complesse simbologie, di attraversarne l’oscuro linguaggio. Un universo di parole dove è possibile perdersi se non si hanno in mano le chiavi per aprirne le serrature e che i custodi dell’ortodossia avevano da sempre riservato agli iniziati disposti a dedicar loro la vita.
Con il suo misto di astrologia, numerologia, psicologia, pratiche ai confini della magia, vendite di amuleti e acque sante che si dice siano in grado di depurare anche i corsi d’acqua inquinati dall’apocalisse di Cernobyl, Philip Berg, fondatore del Kabbalah Centre, ha costruito un vero e proprio impero che oggi conta tra i manager del gruppo anche la moglie Karen (vera mente affarista della coppia, sembra) e i figli. Dal 2000 al 2003, secondo quanto riportato dai giornali, cinque fondazioni del Centro di Berg hanno ricevuto importi per 60 milioni di dollari.
Mentre i rabbini ultraortodossi si indignano, arrivando a volgari insulti per la scelta di Madonna-Esther come icona del movimento, e altri liquidano il fenomeno con frasi del tipo «gli insegnamenti di Berg stanno alla vera qabbalà come l’astrologia sta all’astronomia» o «come la pornografia sta al vero amore», il gruppo della famiglia Berg ha superato in fama ed entrate la potentissima Scientology. E soprattutto ha dato la stura alla qabbalmania, che ormai si sta diffondendo – grazie anche a centinaia di siti internet – ben oltre le coste degli Stati Uniti, e al di là dei ristretti confini demarcati dalla presenza delle comunità ebraiche della diaspora.
Ma cosa cercano e cosa trovano gli ebrei e i non ebrei che si rivolgono al Kabbalah Centre di rav Berg? Franco Kalonymos, quarantenne scrittore di cinema, di famiglia ebraica emigrata in Israele nel 1980, racconta così la sua esperienza: «Anni fa ero a Los Angeles per lavoro, spesso passavo davanti al Kabbalah Centre ma non vi ero mai entrato. Poi un giorno mi sono fermato a parlare con una signora molto gentile che mi ha invitato a trascorrere lo Shabat con lei al Kabbalah Centre. Ho esitato un poco ma poi mi sono detto: che male c’è a provare? Appena entrato mi sono accorto che il rabbino in sala stava dicendo: « Stiamo entrando nel mese dello scorpione… ». Sono rimasto enormemente colpito perché io sono uno studioso di astrologia e per la prima volta ascoltavo un rabbino che prendeva l’astrologia sul serio e la incuneava nella mistica ebraica. A parte questi aspetti, la qabbalà ha una capacità di trasformazione che nessun’altra esperienza mi ha fornito. Ti insegna a distinguere l’istinto buono da quello cattivo. Ti dà modo di gestire gelosia, ira, paura e di trasformare queste passioni negative in un’energia positiva».
«Secondo me, Philip Berg ha compiuto un lavoro molto pulito di apertura ai non ebrei», commenta Yaov Dattilo, psicologo e da molti anni studioso della qabbalà e della sua diffusione nel mondo. «Nella domanda di spiritualità che ha investito la società contemporanea mancava qualcosa che facesse riferimento alla tradizione ebraica e lui l’ha fornita. Lo straordinario successo, il dilagare dei suoi centri, hanno trasformato l’iniziale impresa in una sorta di multinazionale, ma io credo che l’ispirazione sia giusta e che la sua operazione non sia riconducile solo alla spettacolarizzazione o all’affarismo. I suoi gruppi svolgono un’importante attività umanitaria, lavorano insieme ai cristiani…».
Tutto bene, ma le vendite dell’acqua santa, i braccialetti contro il malocchio, e tutti gli altri contenuti magici nel messaggio di Berg, sono compatibili con la tradizione autentica della qabbalà? «Esiste una qabbalà pratica, ovviamente, ma la magia è distante ed espressamente vietata», risponde Dattilo. «Le pratiche sono finalizzate esclusivamente a fare emergere la nostra forza interiore. Ogni elemento è denso di significati spirituali, la ghematria (che studia il valore numerico di ogni parola), la fisiognomica sono strumenti per entrare in contatto con il mistero, così come i precetti sono canali metafisici per lavorare con i mondi superiori, un modo per portare il sacro in ogni piccolo gesto. Anche nel gruppo di Berg, quando si fa riferimento all’apertura del Mar Rosso, (che si dice sia stata operata da Mosè attraverso la contemplazione dei 72 nomi di Dio, che si ottengono combinando le 22 lettere dell’alfabeto ebraico) si rimanda all’interiorità dell’individuo quando si afferma « sei tu che devi aprire il Mar Rosso »».
Ebrei ultraortodossi pregano al Muro del pianto,
a Gerusalemme (foto AP/O. Balilty).
Però il merchandising fiorisce, come d’altra parte in altre tradizioni religiose che decidono di affidarsi ai miracoli. «Soprattutto fiorisce la banalizzazione di una tradizione di grande profondità», afferma Guido Vitale, ebreo ortodosso, direttore di
www.mosaicocem.it, il sito ufficiale della Comunità ebraica di Milano. E aggiunge non senza una punta di orgoglio che «l’ebraismo è una delle rare culture umane che non fa proselitismo. Questo suscita un interesse quasi morboso da parte di chi vorrebbe aderire alla religione ebraica, e ci sono alcuni che offrono delle scorciatoie. C’è un illuminante passaggio nel Talmud dove si riporta la seguente leggenda ebraica: un viandante fuori dalle mura di Gerusalemme chiede a un bambino la via per arrivare al Tempio. Il bambino risponde: « Vuoi la strada breve che invece è lunga o la strada lunga che invece è breve? ». Questo per dire che i segreti dell’ebraismo non sono preclusi ma difficili da raggiungere».
Per districarsi nel caleidoscopico labirinto della tradizione cabalistica, che attrae per la visionarietà, la capacità di rendere pulsante di sacro il prodotto dell’uomo, che, per citare Gershom Sholem, ci insegna come «la via mistica verso Dio è l’inverso della via per la quale procediamo da Dio», insomma per arrivare al cuore dell’insegnamento non basta una vita di studi.
Ed è quanto spiegano le decine di gruppi che negli ultimi tempi hanno scelto la via della propaganda religiosa telematica, mettendo online la tradizione mistica ebraica. Per chi si accosta al tema non è facile, nel pulviscolo di internet, distinguere la scintilla divina che ci condurrà davvero verso la luce, dal granello di polvere che brilla di luce riflessa, anche se ci sono centri molto seri che si dedicano alla diffusione della qabbalà. Ma non c’è dubbio che questa nuova passione abbia portato molte persone a guardare all’ebraismo con un interesse diverso, non sempre superficiale.
«Sì, potrebbe sembrare una moda», esordisce Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, «e la banalizzazione è scandalosa, però l’apertura della tradizione cabalistica ai non ebrei non è affatto una novità. Ci sono stati periodi nei quali i cabalisti hanno avuto un grande impatto sulla cultura del mondo circostante. Già nei primi secoli dell’era volgare tra la gnosi e la qabbalà ci furono scambi di teorie mistiche, per non parlare dell’epoca rinascimentale quando si diffuse tra filosofi e scienziati cristiani. La qabbalà ritiene necessario il fatto che i suoi concetti vengano conosciuti, anche perché è una dottrina rivoluzionaria che, sotto l’effige della tradizione, modifica profondamente le cose mettendo in evidenza aspetti meno considerati dell’ebraismo, al fine di creare un sistema di armonia e di pace interiore. Mi sembra, però, che la recente moda tenda a divulgarne gli elementi esteriori indulgendo sull’aspetto psicologico-estatico che è quello di più facile presa».
Sorride, Riccardo di Segni, stimato primario ospedaliero a Roma, e aggiunge: «Vede, l’altro giorno mio figlio si è laureato in Fisica, discutendo una tesi con un titolo del quale io non sono riuscito a decifrare neppure una parola. Quando si entra in mondi diversi ci vogliono anni solo per carpire il significato di un sostantivo… Figuriamo per penetrare i segreti di una tradizione così complessa come quella cabalistica».

Matilde Passa

Publié dans:EBRAISMO - STUDI |on 27 avril, 2011 |Pas de commentaires »

ORTODOSSIA: 10. GIOVEDÌ DEL GRANDE CANONE

dal sito:

http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/commentilit/giovedigrandecanoneschmemann.htm

TRIODION – GRANDE QUARESIMA

10. GIOVEDÌ DEL GRANDE CANONE

         È oggi molto importante tornare all’idea e all’esperienza della Quaresima in quanto viaggio spirituale, il cui scopo è di trasferirci da uno stato spirituale ad un altro. All’inizio della Quaresima, come inaugurazione, troviamo il “Canone di sant’Andrea di Creta”, il grande canone penitenziale che è come il diapason che dà il tono all’intera melodia. Diviso in quattro parti, viene letto al Grande Apodipnon (compieta), la sera dei primi quattro giorni di Quaresima. Lo si può adeguatamente descrivere come una lamentazione penitenziale, che ci rivela l’estensione e la profondità del peccato, che scuote l’anima con la disperazione, il pentimento e la speranza. Con un’arte straordinaria, sant’Andrea ha intrecciato i grandi temi biblici – Adamo ed Eva, il paradiso e la caduta, Noè e il diluvio, i patriarchi, Davide, la terra promessa, e infine Cristo e la Chiesa – con la confessione del peccato e il pentimento. Gli eventi della storia sacra sono presentati come eventi della mia vita, le azioni di Dio nel passato come azioni che concernono me e la mia salvezza, la tragedia del peccato e del tradimento come mia tragedia personale. La mia esistenza mi viene mostrata come parte della lotta gigantesca e universale fra Dio e le potenze delle tenebre che si rivoltano contro di lui.

         Il Canone inizia con questa nota profondamente personale: “Da dove comincerò a piangere sulle azioni abominevoli della mia vita? Quale fondamento porrò, o Cristo, per questa lamentazione?”.
         Uno dopo l’altro, i miei peccati vengono rivelati nel loro rapporto profondo con il dramma perenne della relazione dell’uomo con Dio; la storia della caduta dell’uomo è la mia storia: “Ho fatto mio il misfatto di Adamo; mi riconosco privato di Dio, del Regno eterno e della beatitudine, a motivo dei miei peccati…”.
         Ho perduto tutti i doni divini: “Ho macchiato la veste del mio corpo, ho oscurato l’immagine e la somiglianza di Dio… Ho ottenebrato la bellezza della mia anima; ho lacerato la mia prima veste intessuta per me da Creatore, ed eccomi nella nudità…”.
         Così, per quattro sere consecutive, le nove odi del Canone mi dicono e ridicono la storia spirituale del mondo che è anche la mia storia. Esse mi confrontano con gli eventi e le azioni decisive del passato, il cui significato e la cui portata, tuttavia, sono eterni, perché ogni anima umana – unica e insostituibile – passa attraverso lo stesso dramma, si trova ad affrontare le stesse scelte fondamentali, scopre la stessa realtà ultima. Gli esempi scritturistici sono ben più di semplici “allegorie”, come pensano tanti, i quali trovano, perciò, questo Canone “sovraccarico”, troppo appesantito da nomi ed episodi irrilevanti. Perché parlare, si chiedono molti, di Caino e Abele, di Davide e Salomone, quando sarebbe tanto più semplice dire “Ho peccato”? ciò che non comprendono, però, è che la parola stessa peccato ha, nella tradizione biblica e cristiana, una profondità e una densità che l’uomo “moderno” è incapace di cogliere e che fa della sua confessione dei peccati qualcosa di molto differente dal vero pentimento cristiano. La cultura in cui viviamo e che modella la nostra visione del mondo esclude in effetti la nozione di peccato. Perché, se il peccato è innanzitutto la caduta dell’uomo da un’altezza incredibilmente elevata, se è il rigetto da parte dell’uomo della sua “alta vocazione”, ch e cosa può significare tutto questo all’interno di una cultura che ignora e nega questa “altezza” e questa “vocazione”, e definisce l’uomo non a partire “dall’alto”, bensì “dal basso”? Che spazio può avere in una cultura che, anche quando non nega Dio apertamente, è di fatto materialistica da cima a fondo e pensa la vita dell’uomo esclusivamente in termini di beni materiali ignorandone la vocazione trascendente? Il peccato, in tale contesto, è visto in primo luogo come una “debolezza” naturale, dovuta di solito a un “disadattamento”, il quale, a sua volta, ha delle radici sociali e può, quindi essere eliminato da una migliore organizzazione sociale ed economica. Per questo, anche quando confessa i propri peccati, l’uomo “moderno” non si pente più: in base alla comprensione che egli ha della religione, o enumera in modo formale delle trasgressioni formali a regole formali, oppure comunica i propri “problemi” al confessore, attendendosi dalla religione qualche trattamento terapeutico che lo renda di nuovo felice e ben inserito nel suo ambiente. Ma in nessuno dei due casi abbiamo il pentimento come esperienza sconvolgente di colui che vede in se stesso “l’immagine della gloria ineffabile” e si rende conto di averla deturpata, tradita e rifiutata nella propria vita; come dispiacere che viene dal più profondo della coscienza dell’uomo, come desiderio di ritornare, come un arrendersi all’amore e alla misericordia di Dio. Questo il motivo per cui non è sufficiente dire: “Ho peccato”. Una tale confessione prende significato ed efficacia solo se il peccato è compreso e sperimentato in tutta la sua profondità e tristezza.
         Scopo del Grande Canone è proprio quello di rivelarci il peccato e di condurci così al pentimento; ed esso lo svolge non attraverso definizioni ed enumerazioni, bensì attraverso una profonda meditazione sulla grande storia biblica, che è, in effetti, la storia del peccato, del pentimento e del perdono. Questa meditazione ci introduce in un mondo spirituale diverso, ci confronta con una visione totalmente differente dell’uomo, della sua vita, delle sue mete e delle sue motivazioni. Essa ristabilisce in noi il quadro spirituale fondamentale, all’interno del quale ridiventa possibile il pentimento. Per esempio, quando noi ascoltiamo: “Non ho fatto mia la giustizia di Abele, o Gesù, non ti ho offerto un dono accettabile né un’azione divina né un sacrificio puro né una vita immacolata…”, noi comprendiamo che la storia del primo sacrificio, ricordato in forma così breve dalla Bibbia, rivela qualcosa di essenziale riguardo alla nostra propria vita, riguardo all’uomo stesso. Comprendiamo che il peccato è innanzitutto il rifiuto della vita in quanto offerta o sacrificio a Dio o, in altri termini, il rifiuto dell’orientamento della vita a Dio; che il peccato, quindi, è, nelle sue radici, la deviazione del nostro amore dal suo fine ultimo. È questa rivelazione che ci permette allora di affermare qualcosa che è profondamente rimosso dalla nostra esperienza “moderna” della vita, ma che ora diventa “esistenzialmente” vero: “Riempiendo di vita la polvere, tu mi hai dato carne ed ossa alitando il tuo soffio di vita. O Creatore, Redentore e Giudice, accetta il mio pentimento…”.
         Per ascoltare in modo appropriato il Grande Canone è necessario aver indubbiamente una certa conoscenza della Bibbia e la capacità di meditare sul significato che essa ha per noi. Se oggi tanti trovano la Bibbia noiosa e senza interesse, è perché la loro fede non si nutre più alla sorgente delle sante Scritture, che per i Padri della Chiesa erano la sorgente della fede. Dobbiamo reimparare a penetrare nel mondo qual è rivelato dalla Bibbia e a vivere in esso; e per questo non c’è via migliore di quella della liturgia della Chiesa, che non solo ci trasmette gli insegnamenti biblici, ma ci rivela il modo di vivere conforme alla Bibbia. Il viaggio quaresimale comincia così con un ritorno al “punto di partenza”: il mondo della creazione, della caduta e della redenzione; il mondo in cui tutte le cose parlano di Dio e ne riflettono la gloria, in cui tutti gli eventi sono riferiti a Dio, in cui l’uomo trova la vera dimensione della propria vita e, una volta trovata, si converte.
         Il giovedì della quinta settimana, al Mattutino, udiamo ancora, ma questa volta nella sua totalità, il Grande Canone. Se all’inizio della Quaresima esso era come una porta aperta sul pentimento, ora, alla fine della Quaresima, esso appare come una sintesi del pentimento e del suo compimento. Se all’inizio l’abbiamo semplicemente ascoltato, ora – speriamo! – le sue parole sono diventate le nostre parole, la nostra lamentazione, la nostra speranza, il nostro pentimento, e anche il criterio del nostro sforzo quaresimale, il metro con cui misurare il cammino fino ad ora percorso.

da A. Schmemann, Great Lent, St. Vladimir’s Seminary Press 1974

Publié dans:CHIESA ORTODOSSA |on 27 avril, 2011 |Pas de commentaires »
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