Archive pour avril, 2011

Holy Mary

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Publié dans:immagini sacre |on 7 avril, 2011 |Pas de commentaires »

Il futuro? Conta il presente. Quanto deve accadere è già accaduto. La Lettera di san Paolo ai Romani e la storia della salvezza (Romano Penna)

dal sito:

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Il futuro? Conta il presente. Quanto deve accadere è già accaduto. La Lettera di san Paolo ai Romani e la storia della salvezza

di Romano Penna

Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 28 marzo 2008 un testo del biblista Romano Penna, che il quotidiano ha introdotto con le seguenti parole: « »San Paolo: Apocalisse e Rivelazione » è il tema del convegno internazionale di studi che si tiene a Roma il 27 e il 28 marzo promosso dalla Accademia di Francia e dal Centro culturale San Luigi dei Francesi con il sostegno dell’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede. Pubblichiamo alcuni stralci di una delle relazioni».
Il testo aiuta a puntualizzare il rapporto fra cristologia ed escatologia, nella prospettiva paolina. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Nella Lettera ai Romani Paolo impiega quattro volte lo specifico lessico di rivelazione, e lo fa di volta in volta con tutti e tre i verbi tipici di questo campo semantico: apokalýpto/ »disvelo » (impiegato due volte), faneròo/ »manifesto », en-deìknymi/ »mostro ».
In 1,17 si legge che nell’evangelo « si rivela », apokalýptetai, la giustizia di Dio. Successivamente, in 3,21, Paolo scrive che questa stessa giustizia di Dio « si è manifestata », pefanèrotai, nel sangue di Cristo (cfr. 3,25). Più avanti in 8,18 leggiamo che nel futuro escatologico si rivelerà (apokalyfthènai) la gloria dei figli di Dio (cfr. 8,23) assieme al rinnovamento del cosmo. Infine in 9,17, utilizzando un riporto da Esodo 9,16 LXX, è scritto che Dio aveva suscitato il Faraone con lo scopo di « mostrare » (endeìxomai) in lui la propria potenza perché venisse annunciato il suo nome in tutta la terra.
Come si vede, la cadenza cronologica considerata sul piano grammaticale consiste nell’uso, innanzitutto, di un verbo al presente, poi di un verbo al perfetto, di un infinito aoristo passivo, e infine di un congiuntivo aoristo attivo, sicché nel primo caso si richiama un fatto continuamente posto in essere, nel secondo si rimanda a un evento del passato che perdura tuttora nei suoi effetti, nel terzo si allude a un avvenimento futuro, e nel quarto si formula una intenzionalità di principio posta all’origine di un progetto divino.
È ben chiaro che questa successione e variazione lessicale tocca quattro momenti storico-salvifici diversi. In effetti, Paolo parte dal presente dell’annuncio evangelico, passa per l’evento della morte di Cristo, prospetta una consumazione finale, e infine risale indietro fino alla elezione di Israele connessa con l’esodo. Secondo la logica temporale, però, bisognerebbe risistemare e in buona parte addirittura invertire la successione dei momenti, e partire dalle antiche circostanze dell’esodo per arrivare alla morte di Cristo (« nel kairòs presente »: 3,26) e sfociare infine nell’attuale impegno evangelizzatore proprio della Chiesa, per culminare poi nell’orizzonte escatologico. Tuttavia, l’impostazione argomentativa di Paolo è assai originale e sintomatica, poiché non è di tipo trattatistico-didascalico ma storico-esistenziale. E qui vogliamo onorarla per se stessa, esaminandone le componenti strutturali.
Paolo in Romani 1,17 formula quella che in retorica è qualificabile come propositio, cioè enunciazione tematica, dell’intera lettera. Egli parte dal fatto che c’è una prima rivelazione divina, a cui l’uomo è subito confrontato. Essa non appartiene a un passato che sfugge alla nostra percezione immediata e soprattutto non a un passato consegnato solo alla memoria, o peggio ancora a una mera sedimentazione scritta. Al contrario, a lui interessa partire da una esperienza sempre possibile e verificabile, basata sul continuo annuncio dell’euagghèlion.
È in esso che appunto « si rivela », apokalýptetai, un particolare tipo di giustizia di Dio, che nel contesto va intesa come sinonimo di misericordia. L’annuncio di Cristo, perciò, rappresenta una vera, anzi la vera « apocalisse » di Dio. La scelta del verbo lascia intendere che Paolo non pensa a una rivelazione qualunque; ogni volta che vi ricorre nelle sue lettere è per affermare qualcosa di escatologico o comunque di origine divina, quindi di assolutamente incisivo.
L’idea di rivelazione viene ripresa in 3,21. Paolo ne precisa maggiormente i contorni, cominciando col dire che della giustizia salvifica di Dio non bisogna attendere una rivelazione futura, poiché la sua manifestazione è già avvenuta: « si è manifestata » (pefanèrôtai). Per la verità, il tempo verbale impiegato da Paolo ha una semantica complessa; in greco, infatti, esso ha due connotazioni: una che riguarda il passato, con rimando a un evento già verificatosi, e un’altra che concerne il presente, in quanto l’evento già compiutosi precedentemente viene ricordato nelle sue ricadute attuali tuttora vive – in questo caso: la giustizia di Dio « è manifesta ».
La traduzione nelle nostre lingue comporta inevitabilmente di sacrificare una delle due componenti. Se qui scegliamo di tradurre con il passato è per due ragioni ben precise. La prima è che nel successivo verso 25, venendo concretamente al dunque, Paolo collocherà esplicitamente questa manifestazione in un atto di Dio compiuto nel passato (proètheto, « ha presentato »). La seconda è che il presente era già stato inequivocabilmente impiegato in 1,17 – sia pur con l’utilizzo di un altro verbo: apokalýptetai – per connotare una rivelazione attuale della stessa giustizia di Dio, in quanto essa avviene oggi nell’annuncio evangelico.
Proprio questo confronto con 1,17 arricchisce enormemente il tema paolino della giustizia di Dio. Essa infatti conosce due momenti distinti e insieme complementari della sua dimostrazione: uno nell’effusione storica del sangue di Cristo, l’altro quando quell’evento si fa semplice parola nell’annuncio.
Questa manifestazione, secondo Paolo, avviene storicamente nel sangue di Cristo, proposto da Dio come hilastèrion, cioè come strumento o luogo di espiazione per i peccati degli uomini, e quindi come luogo di redenzione. Proprio i concetti di redenzione (in 3,24) e di espiazione (in 3,25), pur di diversa provenienza semantica, costituiscono la materia della manifestazione-rivelazione della iustitia salutifera di Dio, la quale ormai non è più reperibile nella Leggeetantomenonellasuaosservanza.
Passiamo ora a Romani 8,18 dove si legge: « Penso infatti che le sofferenze del tempo presente non hanno peso in confronto con la gloria futura che sarà rivelata per noi (pròs tèn mèllousan dòxan apokalyfthènai eis hèmas) ». Questa dichiarazione è suggerita e richiesta dalla conclusione del precedente verso 17, concernente l’idea di una eredità futura che andrà ben oltre l’attuale situazione storica.
Avviene così ciò che si era già verificato con la propositio generale di 1,16-17 sul concetto di evangelo, che si agganciava all’idea di evangelizzazione enunciata nella conclusione del precedente 1,15 (cfr. commento). Ma ora l’apertura della frase con « Penso infatti » (logìzomai gàr) è più solenne (cfr. l’assioma enunciato in 3,28: logizòmetha gàr), cioè corrisponde alla formulazione di un principio assiomatico, che esprime una convinzione forte e importante (cfr. anche 2 Corinzi 11,5). L’assioma è incentrato sulla contrapposizione tra le sofferenze attuali e la gloria futura. Viene perciò stabilito un paragone tra due esperienze contrastanti, che caratterizzano rispettivamente due diversi momenti successivi, per negarne ogni equivalenza. Ed è ben possibile che dietro la frase di Paolo ci sia una obiezione, la quale, facendo prevalere l’attuale esperienza di sofferenza dei cristiani, metta in discussione la possibilità stessa di una gloria futura.
La formulazione circa i due stadi temporali successivi e contrapposti evoca la dottrina dei due eoni, propria dell’apocalittica giudaica (cfr. anche 1 Corinzi, 7, 31). Per Paolo, dunque, da una parte c’è « il momento presente », che sta a indicare non soltanto il periodo compreso tra la prima e la seconda venuta di Cristo quanto anche in senso più generale l’attuale esperienza storica dell’uomo e del cristiano nel mondo presente in quanto contrasta con quello futuro.
Dall’altra, poi, c’è « la gloria futura », che rimanda oltre l’attuale periodo di sofferenze a un orizzonte di splendore, e che giustifica l’attuale esperienza di afflizione. Lo stesso schema si ritrova in 2 Corinzi 4,17-19: « Il temporaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, poiché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili; le cose visibili infatti sono momentanee, quelle invisibili invece sono eterne ».
Ovviamente, ai due momenti si accompagnano due situazioni contrarie: rispettivamente, le sofferenze e la gloria. Il primo termine, pathèmata, è tipico del lessico paolino, visto che nel Nuovo Testamento è attestato preferibilmente nel suo epistolario (nove volte su sedici), e indica sia le sofferenze apostoliche sia quelle comuni a tutti. Il secondo, dòxa, che nel Nuovo Testamento è preferibilmente impiegato per designare la gloria propria di Dio, assume qui una interessante connotazione antropologica come sinonimo di splendore, dignità, onore, piena riuscita di sé in quanto acquisizione umana. Il fatto che Paolo non parli solo di felicità o di beatitudine (cfr. 4,6) dice che la sua prospettiva riguarda l’uomo tutto intero, compresa la sua trasformazione fisica. Perciò il verbo « rivelare » viene a significare una affermazione o manifestazione in pienezza di questa dimensione, che il passivo suggerisce prodotta da Dio.
Abbiamo infine la presenza del concetto di rivelazione/manifestazione in Romani 9,14-23 con la presenza del verbo en-deìknymi nel verso 17. Bisogna riconoscere che abbiamo qui delle affermazioni piuttosto dure per quanto riguarda la libertà umana, come si vede nei versi 15-18 e poi nella metafora di Dio come vasaio con la corrispondente distinzione tra « vasi d’ira » e « vasi di misericordia ».
Il tema della libertà umana viene sostanzialmente taciuto; ma non bisogna perdere di vista la spiegazione di questo silenzio, derivante dall’insieme dell’argomentazione paolina e consistente nel fatto che l’Apostolo intende piuttosto rispondere al problema concernente la libertà di Dio e delle sue scelte, per dire che egli nel suo agire è del tutto indipendente e non condizionato.
È dunque quanto mai evidente la forte sottolineatura di un radicale « teo-archismo » nei rapporti Dio-uomo; ma, in ogni caso e ancora una volta, ci si riferisce a Dio in quanto indulgente e non in quanto punitore. Il verso 17 offre una nuova risposta al problema della libera elezione di Dio, mediante il riporto di un altro passo biblico: « Dice infatti la Scrittura al Faraone: « Proprio per questo ti ho suscitato, perché (Io) possa mostrare in te la mia potenza (hòpos endeìxomai en soì tèn dýnamìn mou) e perché il mio nome possa essere divulgato su tutta la terra »".
Nonostante alcune variazioni, il testo biblico corrisponde sostanzialmente a quello greco di Esodo 9,16 LXX. Il senso proprio è che il Faraone, nonostante la sua opposizione a Israele e al piano divino di sottrarlo alla schiavitù, funziona comunque nelle mani di Dio come uno strumento positivo che serve ai suoi disegni. Infatti, nella misura in cui la sua ostinata resistenza venne finalmente vinta (cfr. il racconto in Esodo 5-14, che comprende anche le dieci piaghe scatenate sull’Egitto), il nome di Dio risultò ancora più glorioso (vedi il canto di Mosè in Esodo 15,1-21).
Lo scontro infatti è direttamente tra Dio e il Faraone, tanto che il nome di Mosè viene addirittura taciuto; il complemento « in te » evidenzia bene il ruolo svolto dal Faraone in persona. Qualcosa di analogo avverrà per un altro devastatore di Israele, Nabucodonosor, che Geremia qualificherà addirittura come « servo » di Dio in senso positivo, cioè in quanto servì comunque per portare a termine i suoi disegni. Si delinea così un abbozzo di teologia della storia, secondo cui in ultima analisi è Dio che guida gli avvenimenti umani; e ancora una volta egli viene preposto a ogni decisione presa dall’uomo, persino a quelle apparentemente negative.
Infatti il congiuntivo aoristo endeìxòmai esprime un proposito personale di Dio (infatti è Lui che parla) consistente appunto nell’intento di « mostrare », quasi di far toccare con mano, comunque ancora una volta di manifestare/rivelare apertamente, la sua irresistibile conduzione degli avvenimenti. In questo caso è evidente che il riferimento viene fatto al passato dell’esodo di Israele dall’Egitto, quando appunto Dio rivelò la sua grandezza. I cristiani vengono così ricondotti al mistero di Israele come popolo dell’alleanza, sul quale i Gentili vengono innestati per grazia.
In conclusione possiamo almeno rilevare il fatto che Paolo non utilizza il lessico di rivelazione per applicarlo al futuro. La frase « La notte è avanzata, il giorno si è avvicinato », anche se riprende la metafora del risvegliarsi dal sonno di fatto non impiega alcun linguaggio « apocalittico ». Il parallelo più eloquente lo leggiamo nello stesso Paolo: « Voi, fratelli, non siete al buio, cosicché il giorno vi sorprenda come un ladro; tutti voi infatti siete figli della luce e figli del giorno. Non siamo della notte né del buio. Perciò non dormiamo come gli altri, ma stiamo svegli e sobri. Quelli che dormono infatti dormono di notte e quelli che si ubriacano si ubriacano di notte. Ma noi, essendo del giorno, restiamo sobri » (1 Tes 5,4-7).
Là però manca il dinamismo del passaggio dalla notte al giorno, che invece caratterizza il nostro testo. Evidentemente qui la prospettiva è diversa: Paolo sottolinea, non un passaggio già avvenuto, ma un passaggio ancora a venire. La notte, inserendosi sulla precedente immagine del sonno, diventa figura del presente tempo storico, non solo in quanto transeunte, ma soprattutto in quanto imperfetto e insidioso: non in se stesso, ma in quanto orientato a un ulteriore superamento di ogni imperfezione (cfr. 1 Cor 13,12).
È di questo decorso temporale che si attende la fine, peraltro con la certezza che esso è già in fase quanto mai avanzata. L’affermazione perciò ha il tono rassicurante di una buona notizia. Proprio la dinamica della successione dei due momenti, dove la certezza di una prossima uscita dalla notte equivale a quella di una prossima irruzione del giorno, occasiona l’esortazione a trarne le conseguenze sul piano etico.
Resta il fatto che Paolo predilige sostanzialmente il tempo storico, sia del passato sia del presente, come luogo privilegiato per l’affermarsi della rivelazione di Dio e della manifestazione di ciò in cui consiste l’identità cristiana.

(L’Osservatore Romano – 28 marzo 2009)

Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù il quale spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini di Nicola Bellotti

dal sito:

http://www.piacenzanight.com/sezione-notizie-articolo.asp?cod=4180

Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù il quale spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini   di Nicola Bellotti
12/04/2009

Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome

 Cari amici che leggono Piacenza Night per ritrovare un po’ di sano svago oltre all’informazione quotidiana, per farvi gli auguri di Buona Pasqua ho scelto un brano delle scritture che Mons. Ravasi (Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura agli studenti della sede di Roma dell’Università Cattolica) ha commentato lo scorso 12 marzo durante uno degli incontri culturali promossi dal Consiglio della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Ateneo.

“Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil 2,5-11).

« Egli diventa una grande figura che domina l’abside del cosmo, » ha spiegato Mons. Ravasi. « Il mondo intero lo contempla nella gloria della Resurrezione. Dopo il Venerdì Santo c’è la mattina di Pasqua, il momento in cui il discepolo deve scoprire il volto radioso di Cristo, la speranza della luce, di ciò che è oltre il dolore e la morte. Per poterlo riconoscere è necessario un altro canale di conoscenza, gli occhi carnali, non bastano più, servono gli occhi della fede. Così, la mattina della Domenica, Maria di Magdala, recandosi al cimitero, non riconosce Cristo finché Egli non le parla, chiamandola per nome. Finché cioè non le dà una nuova vocazione, quella dell’essere credente. È la via della fede, la via nuova della conoscenza del Mistero profondo. È all’interno dell’esperienza di fede autentica, che riusciamo a ritrovare il germe della speranza. Perchè il Cristo – e attraverso lo sguardo della fede noi riusciamo a capirlo – attraversando il dolore e la morte lo ha fatto da Dio e come tale li ha irradiati di fecondità, ha deposto cioè un seme di immortalità, di eterno e di infinito dentro il dolore e il morire dell’uomo. Così il Lunedì, i due discepoli, non riconoscono Gesù risorto, che li accompagna nel cammino verso Emmaus, spiegando loro, in chiave cristologica, le Scritture, finché, giunti finalmente nella cittadina, Lui non spezza il pane: in quel momento si consuma il riconoscimento e l’itinerario è compiuto. Nell’ascolto della Parola e nella frazione del pane, i due discepoli di Emmaus fanno esperienza di fede, la stessa che faremo Domenica di Pasqua e che facciamo ogni domenica, quando, nella liturgia, incontriamo Cristo che spiega la nostra sofferenza e la trasfigura in quell’abisso di luce che è il volto della Speranza, della Gioia, della Pasqua ». 

Publié dans:Lettera ai Filippesi |on 7 avril, 2011 |Pas de commentaires »

Sermon for the Third Sunday in Lent, preached by the Rev’d Melody Wilson Shobe. Text is Exodus 3:1-15.

Sermon for the Third Sunday in Lent, preached by the Rev’d Melody Wilson Shobe. Text is Exodus 3:1-15. dans immagini sacre 09-chagall-moses-burning-bush

http://www.christchurchlincoln.org/blog/2010/03/glory-of-god/

Publié dans:immagini sacre |on 6 avril, 2011 |Pas de commentaires »

« Se uno è in Cristo, è una nuova creatura », Pirandello (Catechesi al Movimento Apostolico)

dal sito:

http://www.caffarra.it/incontro140307.php

« Se uno è in Cristo, è una nuova creatura »

(PIRANDELLO E SAN PAOLO)

Catechesi al Movimento Apostolico

Catanzaro, 14 marzo 2007

Vorrei iniziare questo nostro incontro ascoltando la voce di uno dei più radicali nichilisti del nostro tempo e nello stesso tempo testimone del bisogno che l’uomo oggi ha di incontrare Gesù, L. Pirandello.

Egli ha scritto una novella di struggente bellezza, struggente per il bisogno dell’incontro che questa pagina esprime: Ciaula scopre la luna. La vicenda è nota: Ciaula è più un animale che un uomo, costretto come è a lavorare sempre, spesso anche di notte, nella miniera. Ma una notte, distrutto dalla fatica, era appena sbucato dal buio della miniera: « Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle… Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna… Estatico cadde a sedere sul suo carico… E Ciaula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva… per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore » [Novelle per un anno, volume secondo - tomo I, Mondadori ed. Milano 1996, pag. 463-464].
Ed ora poniamoci all’ascolto di S. Paolo: « E Dio che disse: rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo » [2Cor 4,6].
L’ateo Pirandello si incontra coll’apostolo Paolo: l’uomo ha bisogno di luce, altrimenti è costretto a vivere come Ciaula lavorando penosamente dentro una tana. E poiché ne ha bisogno, ciascuno di noi desidera profondamente essere illuminato; desidera di poter vedere la realtà nella sua bellezza, nella sua bontà, nella sua verità.

1. Ciascuno di noi può trovarsi in tre diverse condizioni, che ora cercherò di descrivere.
- Vorrei descrivere la prima condizione con una parabola. Immaginate di viaggiare in treno e che a causa di un guasto si sia fermato. Ma ciò è accaduto in una lunga galleria, in un punto in cui non si vede più la luce dell’inizio e non si vede ancora la luce della fine. Un viaggiatore vi dice: « non vi preoccupate; intanto possiamo passare qualche ora assieme; possiamo parlare di ciò che ci interessa maggiormente; possiamo anche inventare qualche gioco che ci diverta: non ci accorgeremo neppure alla fine di essere fermi in una galleria » -.
Ora cercherò di spiegarvi questa breve parabola. Ad una riflessione attenta e pacata, ci rendiamo conto che i quesiti fondamentali della vita sono due: da dove vengo? verso dove vado? Se uno vi rispondesse: « tu, come ogni persona umana, vieni dal caso; esisti cioè per caso; sei un incidente fortuito, casuale dell’evoluzione della materia ». Se alla seconda domanda poi vi rispondesse: « tu, come ogni persona umana, non sei in possesso di una vita sensata, orientata cioè ad uno scopo ultimo: sei in cammino, ma senza un traguardo finale: un vagabondo, non un pellegrino ».
Se tu ti convincessi che questa è la verità, sulla tua vita, la parabola del treno esprimerebbe perfettamente la tua condizione esistenziale: buio alle spalle; buio davanti. Qualcuno ha vissuto tragicamente questa condizione; altri, hanno cercato di vivere comunque con gli altri nel modo migliore l’attimo di luce fra le due notti. Oggi purtroppo si sceglie spesso la soluzione peggiore: non pensare troppo; soprattutto non porre quelle due domande; e vivere come a ciascuno pare e piace, nella misura del possibile.
- La seconda condizione è narrata stupendamente nella novella di Pirandello. Invece che in un treno fermo sotto una galleria, Ciaula vive nel buio di una miniera perché lavora faticosamente. E la vita è in larga misura fatica e lavoro. Ma Ciaula, l’uomo, può « sbucare all’aperto » e rimanere « sbalordito »: è lo « sbalordimento » di fronte alla bellezza dell’essere. Voi provate questo quando per esempio vi siete resi conto per la prima volta che un/a ragazzo/a vi amava; quando vi siete trovati di fronte alla bellezza di spettacoli naturali. Quanto maggiore è la possibilità di conoscere, quanto più vaste e dettagliate sono le conoscenze dei processi della vita, tanto maggiore è – o almeno dovrebbe essere – lo stupore. Ciaula è ancora nel buio, nella notte, ma la sua notte è « ora piena del suo stupore ».
Anche voi potete essere in questa situazione; o forse conoscete amici vostri che vi si trovano. Può essere l’inizio di un cammino.
- La terza condizione è quella suggerita da S. Paolo. Anche l’Apostolo parla di tenebre. Ma la notte in cui si trova l’Apostolo è all’improvviso illuminata da una luce, potremmo dire, esterna e da una luce interna. La luce esterna è il volto di Cristo, il sole che illumina la notte; la luce interna rifulge nel cuore. Si dà come una sorta di riverbero: il sole che è il volto di Gesù illumina il cuore della persona.
Che cosa significhi questa « illuminazione » cercherò di spiegarlo con due « brevi narrazioni, una evangelica ed una contemporanea ».
La narrazione evangelica. Ricordate tutti l’incontro di Zaccheo con Gesù. Zaccheo desiderava vedere Gesù: curiosità? Stupore e meraviglia per ciò che sentiva dire? Egli comunque « desiderava ». E si sente fare una proposta incredibile: cenare insieme con Gesù; stare a tavola con Lui. È durante quella compagnia che Zaccheo esce dalla « galleria »: il suo cuore è illuminato. Vede la possibilità di una nuova esistenza: non più basata sul possesso ma sul dono. Ha visto Cristo; è stato con Lui: è stato rigenerato nella sua umanità. Le radici della sua persona e della sua esistenza sono state trapiantate in un nuovo terreno: è diventato « figlio di Abramo ». Le promesse di beatitudine fatte da Dio all’uomo sono ora sue: sono fatte anche a lui.
La narrazione contemporanea. Il 14 settembre 1946 una suora professoressa di lingua e letteratura inglese stava accompagnando in treno alcune ragazze al noviziato della sua Congregazione religiosa situato in una piccola città indiana. Ad un certo momento la suora vide non fisicamente ma spiritualmente una folla innumerevole di poveri e di disperati e sentì dentro di sé il grido di Gesù sulla Croce: « ho sete ». Ella vide in ciascuno di quei disperati Cristo sulla Croce che chiedeva di essere saziato sia materialmente sia spiritualmente: fame di pane e di amore: sete di acqua e di affetto. E « si arrese ». In quel momento « nacque » madre Teresa di Calcutta.
Il sole che è il volto sfigurato di Cristo nei poveri, illumina il cuore di quella donna, nel senso che le fa vedere la vocazione, il significato della sua vita: « vivo per dissetare Gesù nei poveri ».
Vi ho descritto le tre condizioni in cui una persona può trovarsi: dentro un treno sotto una galleria, avendo buio alle spalle e buio davanti a sé; sbucati dal buio di una miniera in una notte, ma piena di stupore e con il carico non più sulle spalle; illuminati dalla luce che splende nel volto di Cristo, la quale ci fa vedere da dove veniamo e verso dove andiamo.
Pascal dice tutto questo quando scrive che ci sono tre classi di uomini. Coloro che cercano ed hanno trovato; coloro che cercano e non hanno ancora trovato; coloro che né cercano né trovano.
2. A questo punto potete capire il significato esistenziale dell’affermazione paolina: « se uno è in Cristo è una nuova creatura ».
Chi è in Cristo? il viaggiatore del treno guasto in galleria, Ciaula, Zaccheo – madre Teresa? Sono sicuro che avete già risposto: in nessuna maniera il viaggiatore ["è in Cristo"]; Ciaula è in cammino per diventarlo; Zaccheo – madre Teresa « sono in Cristo ». Non mi ripeto. Ma richiamo subito la vostra attenzione su ciò che accade a chi « è in Cristo »: diventa una nuova creatura.
Vorrei fermarmi brevemente su questa rigenerazione, e così concludere la nostra catechesi.
Questa novità riguarda le radici stesse della nostra esistenza. E quali sono le radici della nostra vita? Che cosa cioè nutre il nostro quotidiano esistere: ciò che ci fa lavorare o studiare, che ci fa prendere moglie/marito, che ci fa desiderare e pensare? Come ha visto bene Agostino: è il desiderio di beatitudine, di pienezza di essere. Le nostre scelte sono sempre in vista di un bene particolare; ma alla fine ciascuna di esse si inscrive e si radica nel desiderio di un bene che sia tale da dare piena soddisfazione alla nostra fame e sete di beatitudine, al nostro sconfinato desiderio di verità, di bontà, di bellezza. Solo una cultura disumana e superficiale come la nostra poteva tentare di estenuare nell’uomo questo suo desiderio, insegnandogli che è possibile ben navigare anche se si naviga sempre a vista senza avere nessun porto a cui dirigersi; che è possibile ben camminare anche senza sapere dove andare.
L’incontro con Cristo pesca in questa profondità dell’essere: Cristo è « sentito » come la risposta vera e totale al proprio desiderio illimitato di beatitudine: « mio Signore e mio tutto » [pregava S. Francesco]. Zaccheo ha capito che non nel denaro, ottenuto con tutti i mezzi, era la risposta al suo desiderio, ma la risposta era Lui, lo « stare a tavola » con Lui. Madre Teresa ha capito che la vita vale nella misura in cui è donata.
Ho parlato di « radici » del nostro essere, della nostra persona. Di radici che pescano nella persona di Cristo, che si impiantano in Lui. Vorrei fermarmi ancora un momento su questo punto richiamando la vostra attenzione all’esperienza di S. Agostino.
Egli era cresciuto nella fede cristiana. Ci confida che fin da bambino era segnato dalla madre Monica con segno della croce: « di tutte queste cose ero certo ». Tuttavia aggiunge: « eppure ero totalmente incapace di godere di te » [Conf. VII, 20,26]. Uno può sapere tutto di una persona, ma non goderne: non godere della sua presenza, della sua compagnia. Si può vivere una dedizione alla « causa » cristiana, ma non essere attratti dalla bellezza di Cristo ed affascinati dal suo volto. La dedizione non è l’attrazione.
Ecco che cosa intendo dire quando dico che siamo rinnovati nella radice della nostra persona. Uso ancora un’espressione agostiniana: « amata est foeda ne remaneret foeda » [È stata amata quando era brutta, ma perché non rimanesse brutta] (En. in ps. 44,3). Siamo attratti da un Amore che ci trasforma; da una Bellezza che ci rende belli. Dice stupendamente Agostino: « evertit foeditatem, formavit pulchritudinem ».
Rinnovati alla radice del nostro vivere, lo siamo di conseguenza anche nei due dinamismi spirituali fondamentali della nostra persona: l’intelligenza e la libertà.
A livello di intelligenza, è soprattutto il testo paolino citato all’inizio ad illuminarci. Sarebbe necessario fare un lungo discorso per comprendere che cosa accade nell’intelligenza della persona che incontra Cristo, che « è in Cristo ». Mi limito ad una sola riflessione.
L’incontro con Cristo mette in moto la tua intelligenza perché tu vuoi sapere la verità e il valore di ciò che è e di ciò che fai alla luce di Cristo. Ti chiedi: che cosa è l’amore umano? Quale è il valore della sofferenza? E così via. Chi « è in Cristo » cerca colla sua ragione la risposta nella luce di Cristo, nella luce della Sapienza stessa di Dio. Ecco perché la ragione del credente è spinta ad esercitarsi al massimo, senza precludersi nulla. Nasce una nuova cultura.
A livello di libertà, è soprattutto la pagina evangelica che narra la storia di Zaccheo ad illuminarci. Anche su questo sarebbe necessario un lungo discorso, perché penetriamo nella chiave di volta di ogni umana esistenza: l’idea e l’esperienza che ciascuno ha della propria libertà. Mi limito ad una sola riflessione.
Zaccheo ha radicalmente cambiato il suo modo di essere libero: dal possesso al dono. Tutto qui! La sua libertà è stata liberata, perché è stata resa capace di amare. Ha acquistato la libertà del dono. Nasce l’amore e l’amicizia. E Paolo con Giovanni dirà che questo è tutto.
Ma c’è qualcosa d’altro nella vita di chi incontra Cristo: colui che incontra Cristo, non può tacere. Paolo percorre quasi tutto l’impero romano per annunciare Cristo; Madre Teresa diventa la pura testimone dell’amore. Non si può tacere!

Conclusione

Mi piace concludere con l’insegnamento di un bambino ed ancora di S. Agostino.
Durante una recente visita pastorale ho tenuto una catechesi ai bambini sul tema della fede, dell’incontro con Gesù. Ad un certo punto un bambino di seconda elementare mi disse: « ma come faccio ad incontrare un morto? ». Si alzò una bambina: « ma Gesù è morto, ma poi è risorto ed è presente in mezzo a noi ».
Ed ora S. Agostino: « Volevo essere considerato sapiente, ma pieno della mia tristezza non piangevo » [VII, 20,26]. Possiamo conoscere tutta la dottrina cristiana, ma questo non basta perché il cuore sia commosso da una presenza, dall’esperienza di una persona che ti ama.
La Chiesa esiste per rendere possibile l’incontro di ogni uomo con Cristo; per rendere possibile ad ogni uomo di essere in Lui. Esiste perché ogni uomo possa piangere di commozione di fronte a Cristo: « habet et laetitia lacrimas suas » [S. Ambrogio, De excessu fra tris sui Satyri I.10].

Venerdì Santo : Buona notizia per i peccatori – Enzo Bianchi

dal sito:

http://www.smsd.it/pls/smsd/consultazione.mostra_pagina?rifi=guest&rifp=guest&id_pagina=580

Venerdì Santo  

Buona notizia per i peccatori – Enzo Bianchi

Giorno severo è il Venerdì santo per i cristiani, ricorrenza percepita come l’”antifesta”, giorno ancora capace di isolare tragicamente la passione e la morte di Gesù rispetto alla sua resurrezione. Quando i cristiani vanno al loro Signore, sempre sono ricondotti all’unico evento della passione-morte-resurrezione, ma in questo giorno è la passione culminata nella morte che è meditata, pensata, celebrata: è la croce che domina con la sua ombra la liturgia e che con il suo imporsi rimanda alla resurrezione solo come speranza, come attesa. Singolarità della fede cristiana l’avere come annuncio centrale il Signore crocifisso e individuare nella crocifissione di Gesù di Nazaret il racconto più epifanico di Dio. Cosa ricordano i cristiani ogni venerdì santo?
Ricordano che il venerdì 7 aprile dell’anno 30 della nostra era a Gerusalemme, città santa e cuore della fede ebraica, Gesù di Nazaret – un rabbi e profeta della Galilea che aveva destato attorno a sé un movimento e che trascinava dietro di sé una piccola comunità itinerante composta di una dozzina di uomini e alcune donne – viene arrestato, condannato e messo a morte mediante il supplizio della crocifissione.
Storicamente si può dire che Gesù è stato arrestato su iniziativa di alcuni capi dei sacerdoti, la ierocrazia di Gerusalemme, a motivo di gesti compiuti e parole pronunciate: alcuni tratti messianici del suo agire, l’appassionata cacciata dei venditori dal tempio, la polemica profetica contro gli uomini religiosi, in particolare i sadducei. Catturato di notte nella valle del Cedron da un pugno di guardie del tempio, fu trascinato presso il Gran Sacerdote alla presenza del quale avvenne un confronto che permise di formulare accuse precise da presentare al governatore romano, l’unico cui spettava il potere di emettere una condanna capitale e di disporne l’esecuzione. Va detto chiaramente che non ci fu un autentico processo formale e che la parte del sinedrio, riunitasi nella notte, quasi certamente non era in grado di deliberare in situazione legale. Gesù viene comunque consegnato a Pilato, il quale, con alcune sedute e procedimenti che paiono un vero e proprio processo, decide di condannarlo con altri malfattori, dopo averlo fatto flagellare. Misura di sicurezza, tentativo di compiacere il gruppo sacerdotale che glielo aveva consegnato, odio verso chiunque tra i giudei apparisse portatore di un messaggio non omogeneo all’ideologia imperiale? Probabilmente tutte queste ragioni insieme portarono Pilato a decidere per la condanna di quel galileo. Certo Gesù muore in croce, subendo quello che per i romani era un “supplizio crudelissimo e orribile” (Cicerone) e per gli ebrei era, come l’impiccagione, segno di scomunica per l’empio, maledizione del bestemmiatore, come recita la Torah: “Maledetto chiunque è appeso al legno” (Dt 21,23; cf. Gal 3,13).
Gesù muore nell’infamia della sua nudità, appeso a mezz’aria perché né il cielo né la terra lo vogliono, muore nella vergogna di chi è condannato dal magistero ufficiale della sua religione e dall’autorità civile perché nocivo al bene comune della pòlis! Gesù, a differenza del Battista, non muore come martire, bensì come scomunicato e maledetto, come ama dire Paolo che si vanta di predicare Gesù crocifisso, scandalo per gli uomini religiosi e follia per i saggi del mondo greco.
La croce, sì la croce è il segno di questa morte nell’infamia di Gesù – “annoverato tra i malfattori”, si compiacciono di annotare gli evangelisti – è il racconto della sua solidarietà con i peccatori, del suo abbassamento fino alla condizione dello schiavo umiliato, “fino alla morte e alla morte di croce”, come testifica Paolo. La croce non deve tuttavia prevalere sul Crocifisso! Non è la croce, infatti, a far grande chi vi è appeso, ma è proprio Gesù che riscatta e dà senso alla croce, in modo che tutti gli uomini che conoscono questa situazione di sofferenza e di vergogna, di ma¬ledizione e di annientamento possano trovare Gesù accanto a loro.
Quello di ogni croce è un enigma, che Gesù rende mistero: in un mondo ingiusto, il giusto può soltanto essere rifiutato, osteggiato, condannato. E una necessitas humana, e Gesù – proprio perché ha voluto “restare giusto”, solidale con le vittime, gli agnelli – ha dovuto conoscere quest’urto dell’ingiustizia del mondo contro di lui. Ma chi sa leggere così la passione e la morte di Gesù è obbligato a comprenderla come una vicenda di gloria per Gesù: gloria di chi ha speso la sua vita per gli uomini, gloria di chi ha amato fino alla fine, gloria di chi muore condannato per aver cercato di narrare che Dio è misericordia, amore. Se c’è un luogo in cui Gesù ha reso Dio “buona notizia”, se lo ha “evangelizzato”, e proprio la croce: buona notizia per tutti i peccatori!
Al venerdì santo i cristiani raccolgono nell’immagine del crocifisso, agnello innocente, tutte le vittime della storia, gli agnelli uccisi dai lupi: i cristiani in questo giorno sono chiamati a imparare a sostenere lo scandalo della croce senza rovesciare le colpe sull’altro, sicuri che dalla croce di ogni giusto si evidenzia una ragione per cui vale la pena dare la vita. Perché solo chi ha una ragione per cui vale la pena dare la vita, ha anche una ragione per cui vale la pena vivere.

 Enzo Bianchi 

Publié dans:FESTE DEL SIGNORE : PASQUA |on 6 avril, 2011 |Pas de commentaires »

buon risveglio

buon risveglio dans immagini...buona notte...e

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Publié dans:immagini...buona notte...e |on 4 avril, 2011 |Pas de commentaires »
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