Giovanni Paolo II, Conclusione dell’Ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani 1986 (Atti 22, 6)
dal sito:
CONCLUSIONE DELL’OTTAVARIO DI PREGHIERA PER L’UNITÀ DEI CRISTIANI
OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II
Basilica di San Paolo
Sabato, 25 gennaio 1986
“All’improvviso una gran luce dal cielo rifulse intorno a me” (At 22, 6).
1. Fratelli, sorelle, pastori e fedeli delle diverse Comunità ecclesiali, riuniti con me accanto al sepolcro dell’apostolo Paolo, glorifichiamo insieme “la grande luce che dal cielo rifulse attorno a lui”. Fu così forte quella luce, che accecò gli occhi di Saulo (At 22, 11), ma illuminò per sempre il suo spirito. Da persecutore divenne apostolo; da bestemmiatore, “strumento eletto per portare il nome del Signore dinanzi ai popoli e ai figli d’Israele” (At 9, 15).
Quella luce, si può dire, rifulse qui, presso il sepolcro di Paolo, quando Papa Giovanni XXIII, il 25 gennaio 1959, annunciò a tutto il mondo l’intendimento di convocare il Concilio Ecumenico Vaticano II. Quella luce guidò il Concilio nelle diverse fasi dei lavori e nella elaborazione dei suoi magistrali documenti; essa guida ora le nostre Chiese nell’impegno di attuarne gli orientamenti. Per questo l’anno scorso da questo santo tempio è stato annunciato il Sinodo straordinario dei vescovi, per il cui felice compimento ora rendiamo grazie al Signore, mentre rinnoviamo l’impegno di proseguire con fedele alacrità sulla strada che il Concilio ha tracciato.
2. Siamo qui raccolti stasera per chiedere al Signore che la sua luce rifulga davanti agli uomini della presente generazione. Ci conforta in questa invocazione la promessa che abbiamo ascoltato dalle parole del profeta Isaia: il Signore “strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli” (Is 25, 7). Un velo, in tutto l’arco della storia umana, ha in parte oscurato all’uomo la luce di Dio. L’uomo, a motivo del “velo” che ne ottenebra lo sguardo interiore, riesce spesso a cogliere soltanto un riflesso, oscuro e deformato, della verità di Dio: come in uno specchio, oppure, secondo un’altra celebre immagine, come nel fondo di una caverna.
Ma il Signore, nella parola della sua promessa, dà appuntamento a tutti i popoli su di un monte (Is 25, 6): su quel monte strapperà il velo. La luce della gloria si riverserà dappertutto, illuminando ogni tenebra e moltiplicando la gioia. “Su di un monte”, dice il profeta Isaia. Di che cosa è immagine quel “monte”? Per noi che siamo testimoni della realizzazione della profezia, la risposta è facile: quel monte è simbolo della Chiesa. Non è forse nella Chiesa che il Signore ha imbandito il “banchetto” dell’Eucaristia? Non è forse in essa che, con la luce del Vangelo, egli “ha strappato il velo che copriva la faccia dei popoli”? Non è la Chiesa anticipazione nel tempo di quel che avverrà alla risurrezione, quando Dio “eliminerà la morte per sempre“?
Se questo è la Chiesa, allora in essa deve rifulgere la luce del Signore, perché gli uomini possano esserne attratti e, muovendosi verso di essa, trovarvi la salvezza. La luce del Signore risplende nella potenza del messaggio di cui la Chiesa è banditrice, e nella santità della vita con cui essa lo testimonia davanti al mondo.
3. Questa luce ha brillato vivacemente nella Chiesa primitiva, alla quale apparteneva Saulo di Tarso, divenuto poi Paolo, che nella seconda lettura ci ha ricordato la propria conversione.
La prima ora del cristianesimo è caratterizzata dalle meraviglie compiute da Dio nel cuore di uomini e di donne appartenenti al popolo di Gesù. Nel manifestarsi di tali meraviglie noi scorgiamo, con stupore sempre nuovo, l’inizio del compimento della profezia di Isaia: Dio comincia a strappare il velo che ricopre il volto dei popoli. Lo strappa dal volto di Paolo: nella teofania della strada di Damasco, l’uomo di Tarso di Cilicia incontra ciò che contemplerà per tutto il resto dei suoi giorni e annunzierà al mondo intero: il mistero di Cristo vivente nella Chiesa. In quella “grande luce” (At 22, 6) che lo getta al suolo chiamandolo per nome, egli riconosce la pienezza meridiana di quella stessa luce che risplendeva già, come nella sua aurora, nella Chiesa nascente. Divenuto apostolo egli consumerà la sua vita feconda per convocare tutti i popoli, secondo l’oracolo del profeta, su quel monte dove Dio ha definitivamente lacerato il velo, donando alla vita dell’uomo, nella coscienza e nell’esperienza dell’amore di Cristo, un’anticipazione della gioia promessa per il banchetto eterno.
4. “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura” (Mt 16, 15). Il comando di Cristo, che Paolo di Tarso ha accolto con cuore generoso, ha continuato a risuonare nella Chiesa, suscitando nel corso dei secoli schiere di apostoli pronti ad affrontare disagi e fatiche per portare alle genti la parola della salvezza.
Anche la Chiesa di oggi sente urgente dentro di sé il dovere della missione. Essa desidera servire l’uomo con tutte le sue forze; e il primo fondamentale servizio, essenzialmente legato alla sua ragione d’essere, resta la predicazione del Vangelo a ogni creatura.
Ma la fedeltà al comando missionario del Signore esige che la Chiesa, nella sua stessa esistenza, lasci trasparire più chiaramente il mistero che la costituisce, perché anche l’uomo contemporaneo sia conquistato dallo splendore che da esso promana. Si comprende subito, da questa prospettiva, la ragione per la quale il compito ecumenico della ricostituzione dell’unità visibile fra tutti i cristiani sia oggi una delle maggiori preoccupazioni: la realizzazione più matura e compiuta della natura della Chiesa come segno sacramentale dell’unità è la luce che il mondo oggi specialmente attende.
5. L’esperienza del Sinodo straordinario dei vescovi ha mostrato quanto sia vivo oggi il desiderio, in obbedienza alla voce dello Spirito, di rivivere l’esperienza della stessa Chiesa nel mattino della Pentecoste, al cenacolo di Gerusalemme.
L’indivisibile pienezza allora ricevuta dalla Chiesa nascente era chiamata a svilupparsi, nel corso dei secoli, in una molteplicità di forme storiche diverse e complementari.
Il compito ecumenico mira appunto a questo traguardo: realizzare la Chiesa come sacramento dell’unità sinfonica delle molteplici forme di un’unica pienezza, a immagine del mistero trinitario, sorgente e fondamento di ogni unità. Per questa nobilissima causa noi abbiamo pregato durante questa settimana, che è intensamente celebrata nelle Chiese di tutto il mondo.
Adesso, concludendola in questa Basilica veneranda, io desidero salutare e ringraziare con particolare affetto i rappresentanti delle Chiese ortodosse, anglicane ed evangeliche, che sono qui presenti e che costituiscono, assieme a noi, un unico coro di lode e di preghiera. Questo momento liturgico sia “culmen et fons” per un rinnovato slancio dell’impegno ecumenico a livello universale e nelle singole Chiese locali, in particolare nella Chiesa di Roma ove, grazie a Dio, fervono numerose iniziative di dialogo, di ascolto della Parola e di collaborazione in vari servizi caritativi. Le Chiese in Italia hanno accolto con gioia la traduzione interconfessionale dell’intera Bibbia, che anche in questa Basilica è stata l’anno scorso solennemente presentata ai giovani nella festa dei santi apostoli Pietro e Paolo.
Auspico che intorno al rinnovato interesse per la lettura e la meditazione della Parola di Dio, si crei una mentalità nuova, fraterna e riconoscente per quanto Dio ha fatto nel nostro secolo riavvicinando i cristiani dispersi.
6. In questo cammino di preghiera e di servizio compiuto insieme da fratelli delle diverse comunità ecclesiali, ci guidi con efficace chiarezza la luce che conquistò Paolo, e ci spronino l’intercessione e l’esempio dei santi. Invochiamo la protezione di Paolo, ma anche di un Papa, che qui è vissuto come monaco e poi abate, Gregorio VII, Ildebrando di Soana, di cui è stato recentemente celebrato il IX centenario della morte. In risposta all’imperatore Michele di Costantinopoli, il quale per mezzo di due monaci aveva inviato, come il Papa riconosce, “una lettera piena della dolcezza del vostro amore e di non poca devozione da voi nutrita per la santa Chiesa Romana”, san Gregorio VII incarica il patriarca di Venezia di farsi messaggero dei suoi sentimenti: “Noi infatti non solo desideriamo rinnovare la concordia tra la Chiesa Romana e l’antica Chiesa Costantinopolitana, ma anche, se sarà possibile e per quanto ci sarà concesso, aver pace con tutti gli uomini” (S. Gregorii VII Epistula, a. 1073: PL 148, 300-301).
7. “Pace all’interno della Chiesa, pace fra tutti gli uomini”.
Le parole di Papa Gregorio VII acquistano un’eco di particolare attualità in questo 1986, che l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha proclamato Anno Internazionale della pace. Nessun cristiano, anzi nessun essere umano, che creda in Dio Creatore del mondo e Signore della storia, può restare indifferente di fronte a un problema che tocca così intimamente il presente e il futuro dell’umanità. È necessario che ciascuno si mobiliti per recare il proprio contributo alla causa della pace. La guerra può essere decisa da pochi, la pace suppone il solidale impegno di tutti.
In questa prospettiva, io lancio un pressante appello a tutti i fratelli e sorelle cristiani e a tutte le persone di buona volontà perché si uniscano durante questo anno in insistente e fervorosa preghiera per implorare da Dio il grande dono della pace. La Santa Sede desidera contribuire a suscitare un movimento mondiale di preghiera per la pace che, oltrepassando i confini delle singole nazioni e coinvolgendo i credenti di tutte le religioni, giunga ad abbracciare il mondo intero. Interessanti iniziative sono già state prese in questo senso da alcune Chiese d’Oriente e di Occidente e da alcune Organizzazioni religiose. Auspico che tale spirituale impegno di grande solidarietà si diffonda, raccogliendo sempre più larghe adesioni nel mondo.
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