NABUCCO – VA PENSIERO (HEBREW SLAVES CHORUS)

dal sito:
http://www.softwareparadiso.it/studio/poesie-italia.htm
GIOVANNI PASCOLI
All’Italia
O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l’erme
Torri degli avi nostri,
Ma la la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi
I nostri padri antichi. Or fatta inerme
Nuda la fronte e nudo il petto mostri,
Oimè quante ferite,
Che lívidor, che sangue! oh qual ti veggio,
Formesissima donna!
Io chiedo al cielo e al mondo: dite dite;
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
Che di catene ha carche ambe le braccia,
Sì che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.
Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
Le genti a vincer nata
E nella fausta sorte e nella ria.
Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
Mai non potrebbe il pianto
Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
Che fosti donna, or sei povera ancella.
Chi di te parla o scrive,
Che, rimembrando il tuo passato vanto,
Non dica: già fu grande, or non è quella?
Perchè, perchè? dov’è la forza antica?
Dove l’armi e il valore e la costanza?
Chi ti discinse il brando?
Chi ti tradì? qual arte o qual fatica
0 qual tanta possanza,
Valse a spogliarti il manto e l’auree bende?
Come cadesti o quando
Da tanta altezza in così basso loco?
Nessun pugna per te? non ti difende
Nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: ío solo
Combatterà, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
Agl’italici petti il sangue mio.
Dove sono i tuoi figli?. Odo suon d’armi
E di carri e di voci e di timballi
In estranie contrade
Pugnano i tuoi figliuoli.
Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
Un fluttuar di fanti e di cavalli,
E fumo e polve, e luccicar di spade
Come tra nebbia lampi.
Nè ti conforti e i tremebondi lumi
Piegar non soffri al dubitoso evento?
A che pugna in quei campi
L’itata gioventude? 0 numi, o numi
Pugnan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
Non per li patrii lidi e per la pia
Consorte e i figli cari, Ma da nemici altrui
Per altra gente, e non può dir morendo
Alma terra natia,
La vita che mi desti ecco ti rendo.
Oh venturose e care e benedette
L’antiche età, che a morte
Per la patria correan le genti a squadre
E voi sempre onorate e gloriose,
0 tessaliche strette,
Dove la Persia e il fato assai men forte
Fu di poch’alme franche e generose!
lo credo che le piante e i sassi e l’onda
E le montagne vostre al passeggere
Con indistinta voce
Narrin siccome tutta quella sponda
Coprir le invitte schiere
De’ corpi ch’alla Grecia eran devoti.
Allor, vile e feroce,
Serse per l’Ellesponto si fuggia,
Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
E sul colle d’Antela, ove morendo
Si sottrasse da morte il santo stuolo,
Simonide salia,
Guardando l’etra e la marina e il suolo.
E di lacrime sparso ambe le guance,
E il petto ansante, e vacillante il piede,
Toglicasi in man la lira:
Beatissimi voi,
Ch’offriste il petto alle nemiche lance
Per amor di costei ch’al Sol vi diede;
Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira
Nell’armi e ne’ perigli
Qual tanto amor le giovanette menti,
Qual nell’acerbo fato amor vi trasse?
Come si lieta, o figli,
L’ora estrema vi parve, onde ridenti
Correste al passo lacrimoso e, duro?
Parea ch’a danza e non a morte andasse
Ciascun de’ vostri, o a splendido convito:
Ma v’attendea lo scuro
Tartaro, e l’ond’a morta;
Nè le spose vi foro o i figli accanto
Quando su l’aspro lito
Senza baci moriste e senza pianto.
Ma non senza de’ Persi orrida pena
Ed immortale angoscia.
Come lion di tori entro una mandra
Or salta a quello in tergo e sì gli scava
Con le zanne la schiena,
Or questo fianco addenta or quella coscia;
Tal fra le Perse torme infuriava
L’ira de’ greci petti e la virtute.
Ve’ cavalli supini e cavalieri;
Vedi intralciare ai vinti
La fuga i carri e le tende cadute,
E correr fra’ primieri
Pallido e scapigliato esso tiranno;
ve’ come infusi e tintí
Del barbarico sangue i greci eroi,
Cagione ai Persi d’infinito affanno,
A poco a poco vinti dalle piaghe,
L’un sopra l’altro cade. Oh viva, oh viva:
Beatissimi voi
Mentre nel mondo si favelli o scriva.
Prima divelte, in mar precipitando,
Spente nell’imo strideran le stelle,
Che la memoria e il vostro
Amor trascorra o scemi.
La vostra tomba è un’ara; e qua mostrando
Verran le madri ai parvoli le belle
Orme dei vostro sangue. Ecco io mi prostro,
0 benedetti, al suolo,
E bacio questi sassi e queste zolle,
Che fien lodate e chiare eternamente
Dall’uno all’altro polo.
Deh foss’io pur con voi qui sotto, e molle
Fosse del sangue mio quest’alma terra.
Che se il fato è diverso, e non consente
Ch’io per la Grecia i mororibondi lumi
Chiuda prostrato in guerra,
Così la vereconda
Fama del vostro vate appo i futuri
Possa, volendo i numi,
Tanto durar quanto la, vostra duri.
(Giacomo Leopardi 19° secolo)
dal sito:
http://www.chiesadimilano.it/or/ADMI/pagine/00_PORTALE/C_D_V/CDV_2008_12.pdf
DIOCESI DI MILANO
preghiera corale per le vocazioni per il primo giovedì del mese di dicembre
Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù
Introduzione alla preghiera
Dicembre è il mese in cui contempliamo il mistero della nascita di Gesù. Dio sceglie di rendere visibile il suo amore nella storia degli uomini facendosi uomo: “spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini”. Questo abbassarsi si esprime nella vita di Gesù nel mettersi al servizio, nell’amare fino alla fine, nel dare la vita per amore. Paolo invita ogni cristiano a coltivare questo stesso atteggiamento di Gesù: “abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù”. Questa è la radice del nostro essere cristiani, questa è la radice di ogni vocazione.
Invocazione
Signore Gesù, vorrei amare fino alla fine!
Signore Gesù, ti guardo mentre ti decidi per me,
e la tua scelta è chiara: è amore fino alla fine.
fino all’umile servizio del fratello,
fino al perdono, fino a rimetterci,
fino a offrirti tutto, a dare la vita per ogni uomo,
anche per me, anche per i miei fratelli.
Signore Gesù, ti guardo mentre mi dai l’esempio:
colmami del tuo Spirito, che mi dia luce
per conoscere la volontà del Padre
e forza per compierla: solo così troverò la gioia.
Signore Gesù, ti guardo mentre vai fino in fondo:
tu mi ami da sempre, comunque e per sempre;
tu mi inviti, mi chiami alla felicità più grande;
tu mi mostri che ogni fatica è per la gioia,
ogni sofferenza trova una consolazione,
ogni notte è vinta dall’alba di un nuovo giorno,
ogni croce porta alla risurrezione.
Signore Gesù, che di continuo
poni il tuo sguardo d’amore su di me,
fammi forte: io vorrei somigliarti.
Vorrei imparare da te
ad amare fino alla fine. Amen.
dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Filippesi (Fil 2,1-11)
1 Se c’è pertanto qualche consolazione in Cristo, se c’è conforto derivante dalla carità, se c’è qualche comunanza di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, 2 rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti. 3 Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, 4 senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri. 5 Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, 6 il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; 7 ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, 8 umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. 9 Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; 10 perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si
pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; 11 e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre.
Riflessione
Paolo scrive ai cristiani di Filippi dal carcere (probabilmente imprigionato ad Efeso). La comunità è sottoposta ad attacchi esterni che mettono in pericolo la fede: Paolo invita a rimanere saldi nella fede anche a costo di soffrire a causa del Vangelo. La comunità è in pericolo anche da contrapposizioni interne alla comunità stessa. Qui Paolo usa un tono accorato quasi di supplica, richiamando i vincoli di comunione che lo legano alla comunità di Filippi, per invitarli a una vita di COMUNIONE che sappia superare gli egoismi e le rivalità interne. Paolo invita all’UMILTÁ. Solo rapporti personali basati su un’alta stima reciproca (“ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso”) possono rompere le catene della rivalità e della vanagloria. L’umiltà di cui parla Paolo la si può solo imparare da Cristo cercando di coltivare in sé “gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù”. Gesù risulta così colui che fonda la propria identità di cristiano. La stessa logica di umiltà e obbedienza che ha caratterizzato tutta la storia di Gesù di Nazareth deve diventare sempre più la logica di vita dei cristiani. È una progressiva assimilazione del cuore del discepolo a quello del Maestro. Per questo il cristiano è invitato a contemplare il mistero della kènosi di Dio: il suo abbassamento, il suo spogliarsi di ogni regalità divina, il suo farsi simile all’uomo e diventare servo fino a morire in croce! Essere cristiani vuol dire far propria questa logica di vita, entrando così dentro la dinamica della Pasqua di Cristo: all’abbassamento di Cristo corrisponde il conferimento da parte del Padre della signoria su tutto l’universo. in questo mosaico, che si trova nella cappella della nunziatura di Damasco, riconosciamo lo stile inconfondibile di Marko Ivan Rupnik. Troviamo alla nostra sinistra, Paolo in ginocchio che “si apre” verso Cristo, quasi uscisse dal suo mantello come da un grosso guscio, con un occhio già liberato e con le squame in mano. La sua mano sinistra indica decisamente Cristo, tutta la vita di Paolo si consumerà nel gesto di indicare il Signore. Osserviamo un Cristo risorto che ha in sé i segni della passione ed impone la sua destra su Paolo, consacrandolo suo discepolo, suo apostolo. L’altra mano di Cristo è abbassata e girata in modo da far vedere la ferita dei chiodi. Paolo si presenta a Cristo con le squame nelle mani e con il suo mantello, ora i suoi occhi hanno visto la verità, il mantello rappresenta la sua vecchia identità che sta perabbandonare, per accogliere la nuova, offerta da Cristo risorto. È l’inizio di una grande avventura d’amore con il Signore e la partecipazione a questo amore, è dono dello Spirito Santo, come è ben evidenziato nei colori intensi e forti dello sfondo. Paolo lo afferma apertamente: solo nello Spirito Santo si può dire che Gesù Cristo è Signore.
Testimonianza
IN PRIGIONE, PER CRISTO di Francois-Xavier Nguyen Van Thuan (1928-2002),
Arcivescovo vietnamita imprigionato dal regime comunista dal 1975 al 1988.
Gesù,ieri pomeriggio, festa di Maria Assunta,sono stato arrestato.
Trasportato durante la notte da Saigon fino a Nhatrang, quattrocentocinquanta chilometri di distanza in mezzo a due poliziotti, ho cominciato l’esperienza di una vita di carcerato. Tanti sentimenti confusi nella mia testa: tristezza, paura, tensione, il mio cuore lacerato per essere allontanato dal mio popolo. Umiliato, ricordo le parole della Sacra Scrittura: « È stato annoverato tra i malfattori» (Lc 22,37). Ho attraversato in macchina le mie tre diocesi, Saigon, Phanthìet, Nhatrang: con tanto amore verso i miei fedeli, ma nessuno di loro sa che il loro Pastore sta passando, la prima tappa della sua Via Crucis. Ma in questo mare di estrema amarezza, mi sento più che mai libero. Non ho niente con me, neanche un soldo, eccetto il mio rosario e la compagnia di Gesù e Maria. Sulla strada della prigionia ho pregato: « Tu sei il mio Dio e il mio tutto ». Gesù, ormai posso dire come san Paolo: «Io Francesco, a causa di Cristo, ora sono in prigione» (Ef 3,1). Nel buio della notte in mezzo a questo oceano di ansietà, d’incubo, piano piano mi risveglio: « Devo affrontare la realtà ». «Sono in prigione, se aspetto il momento opportuno per fare qualcosa di veramente grande, quante volte nella vita mi si presenteranno simili occasioni? No, afferro le occasioni che si presentano ogni giorno, per compiere azioni ordinarie in un modo straordinario». Gesù, io non aspetterò, vivo il momento presente, colmandolo di amore. La linea retta è fatta di milioni dì piccoli punti uniti uno all’altro. Anche la mia vita è fatta di milioni di secondi e di minuti uniti uno all’altro. Dispongo perfettamente ogni singolo punto e la linea sarà retta. Vivo con perfezione ogni minuto e la vita sarà santa. Il cammino della speranza è lastricato di piccoli passi di speranza. La vita di speranza è fatta di brevi minuti di speranza. Come tu, Gesù, che hai fatto sempre ciò che piace al Padre tuo. Ogni minuto
voglio dirti: Gesù, ti amo, la mia vita è sempre una « nuova ed eterna alleanza » con te. Ogni minuto voglio cantare con tutta la Chiesa: Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo.
Preghiera responsoriale
Sollecitati dalla Parola e dalla testimonianza ascoltata rivolgiamo al Signore le nostre preghiere:
contemplare la tua nascita in una mangiatoia, così come adorarti nell’eucarestia:
- apra il nostro cuore allo stupore del tuo farti piccolo per amore
rendici persone umili che sappiano riconoscere la propria piccolezza:
-perché possiamo così affidare tutta la nostra vita a te.
converti i nostri cuori dall’egoismo e dalle rivalità
- perché le nostre comunità siano sempre più luoghi di comunione
donaci la fortezza, dono del tuo Spirito,
-perché possiamo perseverare nella fede anche nelle difficoltà della vita
riempi il nostro cuore di pace e serenità
- perché possiamo testimoniare con la gioia di essere cristiani
non manchino mai nella Chiesa persone che con la loro vita
-ci testimonino il fascino della loro specifica vocazione
Preghiera finale
«HO SCELTO GESÙ» (di Francois-Xavier Nguyen Van Thuan)
Signore Gesù,sul sentiero della speranza,
da duemila anni,
il tuo amore, come un’onda,ha avvolto tanti pellegrini.
Essi ti hanno amato dì un amore palpitante,
con i loro pensieri, le loro parole, le loro azioni.
Ti hanno amato con un cuore
più forte della tentazione,
più forte della sofferenza e anche della morte.
Essi sono stati nel mondo la tua parola.
La loro vita è stata una rivoluzione
che ha rinnovato il volto della Chiesa.
Contemplando, fin dalla mia infanzia,
questi fulgidi modelli,
ho concepito un sogno:
offrirti la mia intera vita,
l’unica mia vita che sto vivendo,
per un ideale eterno e inalterabile.
Ho deciso!
Se compio la tua volontà
tu realizzerai questo ideale
ed io mi lancerò
in questa meravigliosa avventura.
Ti ho scelto,
e non ho mai provato rimpianti…
Il tuo amore sarà là
a inondare il mio cuore
d’amore per tutti.
La mia felicità sarà totale…
È per questo che io ripeto:
Ti ho scelto.
Non voglio che te
e la tua gloria.
Amen.
Nella residenza obbligatoria
a Giang-xà (Nord Vièt Nam),
19 marzo 1980,
Solennità di san Giuseppe
dal sito:
http://www.zenit.org/article-25951?l=italian
LA MUSICA, QUEL GEMITO INEFFABILE CHE GRIDA NEL SILENZIO
di Aurelio Porfiri*
MACAO, martedì, 15 marzo 2011 (ZENIT.org).- “Perché contemplando te, tutto viene meno…”. Tempo fa, mi sono impegnato in un commento del bellissimo inno eucaristico medioevale “Adoro Te devote”. Proprio alla fine della prima strofa c’è questo bel verso che abbiamo appena citato. Da musicista e da credente peccatore, mi sono sentito estremamente sollecitato da questo verso, in quanto per me racchiude una verità profonda che va oltre probabilmente l’intenzione dell’autore dell’inno (tradizionalmente attribuito a san Tommaso d’Aquino).
Qui s’incontrano Dio, la musica, le nostre menti, il silenzio…Innanzitutto mettiamo le carte in tavola: chi mi legge non è certo a digiuno di tematiche che trattano il silenzio. In effetti se ne parla sempre molto e lo si nomina a proposito e, spesso, a sproposito. Ma, anche se so di parlare a degli “intenditori”, permettetemi lo stesso di dire due parole su come questo musicista vive il silenzio prima di addentrarmi per quanto possibile nel tema centrale dell’articolo.
Io sono un “cercatore del silenzio”. Come ho scritto da altre parti, ho sempre vissuto con angoscia i silenzi imposti nei ritiri parrocchiali, quando un prete di buona volontà ci intimava improvvisamente: “e ora ognuno per conto suo per due ore a meditare in silenzio!”. Due ore in silenzio!? E che faccio in questo tempo? Perché ho scoperto solo molto più tardi che questo atteggiamento nascondeva un errore di fondo ancora oggi molto vivo nel mondo cattolico e specificamente in quello liturgico. Il silenzio è visto e concepito come assenza di suono: stiamo zitti. E io per molti anni ho creduto che fosse proprio così. Poi la mia formazione musicale mi ha messo in contatto con quel repertorio venerabile della tradizione cattolica che viene chiamato con nome improprio, ma oramai convenzionale, “canto gregoriano”. Qui c’è stata una prima svolta verso una concezione del silenzio più matura. Grazie soprattutto allo “Jubilus”. Cosa è? Negli Alleluia del repertorio classico gregoriano (quello più autentico), sull’ultima sillaba di solito c’è un melisma a volte molto esteso, in cui sembra che la parola perda l’efficacia significante e il testo si perda nel regno dell’afasia. Ecco lo jubilus! È il dire non dicendo. Agostino dedicherà pagine memorabili proprio allo jubilus. Specialmente questa:
“Cantate a Lui un cantico nuovo. Spogliatevi di quanto è in voi vecchio: avete conosciuto il cantico nuovo. Nuovo uomo, Nuovo Testamento, nuovo cantico. Il cantico nuovo non compete a uomini vecchi: lo apprendono solo gli uomini nuovi, rinnovati dalla vecchiaia per mezzo della grazia, che già appartengono al Nuovo Testamento, che è il Regno dei cieli. Ad esso sospira tutto il nostro amore, e canta il nuovo cantico. Lo canti però non con le labbra, ma con la vita. Cantategli un cantico nuovo: bene cantate a Lui. Ognuno chiede in qual modo cantare a Dio. Canta a Lui, ma canta bene. Egli non vuole che le sue orecchie siano offese. Canta bene, fratello.(…) Quando puoi offrirgli una così elegante bravura nel canto da non essere in nulla sgradito ad orecchie così perfette? Ecco che Egli quasi intona per te il canto: non cercare le parole, quasi che tu potessi dare forma a un canto per cui Dio si diletti. Canta nel giubilo. Che significa giubilare? Intendere senza poter spiegare a parole ciò che con il cuore si canta. Infatti coloro che cantano, sia mentre mietono, sia mentre vendemmiano, sia quando sono occupati con ardore in qualche altra attività, incominciano per le parole dei canti ad esultare di gioia, ma poi,quasi pervasi da tanta letizia da non poterla più esprimere a parole, lascian cadere le sillabe delle parole, e si abbandonano al suono del giubilo. Il giubilo è un certo suono che significa che il cuore vuol dare alla luce ciò che non può essere detto. E a chi conviene questo giubilo se non al Dio ineffabile? Ineffabile è ciò che non può essere detto: e se non puoi dirlo, e neppure puoi tacerlo, che ti resta se non giubilare, in modo che il cuore si apra a una gioia senza parole, e la gioia si dilati immensamente ben al di là dei limiti delle sillabe? Bene cantate a Lui nel giubilo”. (Esposizione II sul Salmo 32, Discorso 1, 8).
Non c’è dubbio che si tratti di un testo straordinario da leggere e meditare con attenzione. Ma vorrei soprattutto concentrarmi su una delle ultime frasi, in modo così da collegarmi all’oggetto principale dell’articolo. Sant’Agostino dice che la gioia si dilata immensamente fino ad andare ben al di là del limite delle sillabe. Ma quanto godiamo nel canto possiamo goderlo nella contemplazione orante di Dio. In effetti, il canto è contemplazione orante già di per sé. Si arriva ad un certo limite in cui quello che si può dire, fare, toccare, articolare, viene meno. Ma qual è l’oggetto di questa dilatazione contemplativa? Non so che chiamarlo “silenzio”. Ma allora il silenzio non è più assenza di suono, ma pienezza di senso. Dunque non si “fa silenzio” in modo meccanico, ma il vero silenzio è una scuola di alta mistica che merita ben altra applicazione. Quando le parole perdono efficacia, quando le sillabe vengono dilatate fino alla loro massima capacità fino a disintegrarsi, quando la voce cede il passo all’afasia, ecco che una dimensione altra si impone.. Ecco quel contemplare che crea il “deficit”, la mancanza, il “vuoto pieno”. Anche le parole, seppure ispirate, ad un certo punto falliscono. Bruno Forte:
“Noi accoglieremo la Parola, ed essa sarà per noi la porta e la via, se, ascoltandola, la trascenderemo verso il Silenzio della sua origine. Obbedisce veramente alla Parola chi “tradisce” la Parola, chi non si ferma alla lettera, ma ruminando la Parola, scava in essa per entrare nei sentieri del Silenzio. Perciò è doveroso non pronunciare mai la Parola, senza prima aver lungamente camminato nei sentieri del Silenzio. Questo ci dice la rivelazione cristiana: Dio è Parola, Dio è silenzio. La Parola è e resta l’unico accesso al Silenzio della divinità, l’indispensabile luogo a cui resteremo sospesi, come inchiodati alla Croce” (Confessio Theologi, Cronopio Editore, Napoli 2002, pag. 27-28).
Il fine di ogni musica e, vorrei dire, di ogni vita, è quello di ritrovarsi in questo silenzio originario e originante, questo silenzio che è mistero ma non nel senso di arcano, magico, lontano. È mistero che si svela velandosi, è itinerario della mente a Dio (per citare san Bonaventura), è perdersi per ritrovarsi. Ecco! Lo smarrimento! Perché non invocare lo smarrimento, quello smarrimento che non è vagare nel nulla ma nuotare nella pienezza, nell’oceano di Dio di cui non sappiamo distinguere le rive ma sappiamo appena intravedere l’azzurro che ci sovrasta e circonda. Non è questo smarrimento il dono d’amore della sposa nel Cantico dei Cantici? Dove è il mio amato? Dove lo avete portato? Ne spia i rumori, “è il mio diletto che bussa…”. Questo dialogo d’amore si svolge avvolgendo i protagonisti: più ci sembra di perderci, più ci ritroviamo. Non è il perdersi in se stessi, nei propri vizi, nelle proprie paure, nei propri problemi. È il perdersi nell’altro, quello smarrirsi che fa sembrare inutile dirsi “ti amo”. Già tendiamo sempre a verbalizzare tutto, pensiamo che il debole intelletto possa supplire all’immenso che ci sovrasta. Invece è proprio la musica che ci mette dentro quel gemito ineffabile che grida senza posa dalle profondità più recondite del nostro essere. La musica è memoria di eterno, è ritorno del già perso, è ritrovare per ritrovarsi. Invece di perdersi in beghe parrocchiali, i musicisti di chiesa dovrebbero sempre meditare su questo punto e sulla responsabilità di cui sono investiti. Invece ci si battaglia sulle note e si perde di vista la musica. Certo le note sono importanti, se non ci si ferma lì.
“Totum deficit…” come ci fa paura questa “mancanza”. Il silenzio ha una sua grammatica, un suo stile, un suo modo di parlare, senza di essa abbiamo solo un’assenza di suono. Ritroviamoci alla scuola del silenzio, affinché ogni nota, ogni parola, ogni suono lasci spazio al gemito ineffabile che implora da ciascuno di noi.
————
*Aurelio Porfiri vive a Macao ed è sposato, con un figlio. E’ professore associato di musica liturgica e direzione di coro e coordinatore per l’intero programma musicale presso la University of Saint Joseph a Macao (Cina). Sempre a Macao collabora con il Polytechnic Institute, la Santa Rosa de Lima e il Fatima School; insegna inoltre allo Shanghai Conservatory of Music (Cina). Da anni scrive per varie riviste tra cui: L’Emanuele, la Nuova Alleanza, Liturgia, La Vita in Cristo e nella Chiesa. E’ socio del Centro Azione Liturgica (CAL) e dell’Associazione Professori di Liturgia (APL). Sta completando un Dottorato in Storia. Come compositore ha al suo attivo Oratori, Messe, Mottetti e canti liturgici in latino, italiano ed inglese. Ha pubblicato al momento quattro libri, l’ultimo edito dalle edizioni san Paolo intitolato “Abisso di Luce”.
dal sito:
http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/21839.html
Omelia (09-03-2011)
padre Mimmo Castiglione
Teshuva! Il ritorno!
Tempo propizio per operare carità,
per esercitare le pratiche della pietà,
che bisogna fare in ogni caso, sempre e comunque,
anche se inquinate di vanagloria ed interesse privato,
o fatte per esaurire bisogni ed incertezze,
o per essere apprezzati e scansare spregio.
E poi col tempo purificarle, allenando volontà.
Compiere il bene senza aspettarsi ricambio.
E non per essere ammirati. Solo da Dio gratificati.
Per esser figli dello stesso Padre.
Vivere onestamente anche per sé stessi.
Per sentirsi soddisfatti, per dirsi d’esserci stati.
Pregare non per avvisare il Genitore o per costringerlo ad intervenire,
ma per consegnarsi fiduciosi a chi si prende cura,
per stabilire relazione e fare comunione.
Digiunare perché lo Sposo ch’era vicino è stato tolto.
Bisogna ricordare. Mai dimenticare. E rinunciare a qualcosa.
Perché si possa servirlo ancora incontrandolo nell’indigente.
Fare elemosina perché siano cancellati molti peccati.
E sia partecipato, anche poco, dando sollievo al bisognoso.
Ancora abbandonarsi al Provvido
perché intervenga dando ricompensa: il regno e la salvezza.
Nella buona e bella notizia di oggi,
Gesù invita i suoi discepoli a vivere nella verità
e senza ipocrisia le opere buone,
in particolare la preghiera, il digiuno e l’elemosina.
Vivere le opere di pietà perfezionando il modo e le finalità,
facendo un salto di qualità, con dedizione, attenti a Dio,
con una giustizia superiore. Senza retribuzione. Senza pubblicità.
In segreto. Senza ostentazione. Autenticità della religione.
Liberi dalla preoccupazione di non riuscire ad essere i primi della classe.
Liberi dall’ansia di dimostrare d’essere buoni e bravi.
Fare l’elemosina per condividere e non per vanagloria.
Pregare perché ne abbiamo bisogno e non per ostentare.
Digiunare per mantenerci sobri e non per dimagrire.
Mi ascolto. Penso a quante volte ho strumentalizzato queste opere,
praticandole per essere ammirato dagli altri, per ottenere consenso e stima.
Quale ricompensa aspettarmi?! Altro che segreto!
Ho fatto sfoggio, non superando la giustizia degli ipocriti,
che ho sempre giudicato con disprezzo.
PREGHIERA
Benedetto Gesù maestro, che m’indichi il volto del Padre nell’indigente,
e m’insegni a rendergli il vero culto nel servizio ai bisognosi.
Pietà di me o Padre, incapace di scorgere il tuo volto nel povero,
nell’orfano e nella vedova, nell’oppresso e nel forestiero,
nel debole e nel perseguitato, nell’afflitto e nell’abbandonato,
nel disperato e nell’emarginato, nel misero e nel peccatore.
Egoista rivolgo il mio sguardo altrove, quasi sempre al cielo,
illudendomi di vederti, e dove invece incontro solo aria, la mia vanità.
Educami tu o Dio compassionevole e buono alla gratuità.
Abbi pietà di me, per tutte quelle volte che ho pregato,
digiunato e fatto l’elemosina (del mio superfluo)
per propiziarmi la tua benevolenza,
per tenerti a bada e carpire i tuoi favori.
Pietà di me o Dio, ho fatto di te il faraone d’Egitto:
un esattore di tangenti da temere ed un tiranno di cui avere paura.
Possa la consapevolezza della fragilità della mia condizione umana,
farmi prendere coscienza del tuo essere diverso da me,
e riconoscere che tu sei fatto di un’altra pasta,
della quale non posso astenermi facendone beneficenza.