Archive pour mars, 2011

Omelia per il 20 marzo 2011: Gen 12,1.4

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/11904.html

Omelia (17-02-2008)

mons. Antonio Riboldi

Esci dalla tua terra e va’ (Gen 12,1-4)

In una delle vostre lettere, così, un amico – forse impressionato da come stanno andando le cose non solo di casa nostra, ma di tutto il mondo – scrive: « Lei, carissimo vescovo, ogni domenica ci invita ad un ottimismo proprio del Vangelo. A volte ho l’impressione che lei viva in un altro mondo e che non si accorga che ‘stiamo veramente male’. Cerco disperatamente la ragione del nostro vivere quasi preferendo ciò che ci fa tanto male. Comprendo che ‘convertirsi’, ossia cambiare totalmente vita – e lo trovo necessario – sarebbe la saggezza di un popolo che ama la gioia. Giustamente, per lei, ‘convertirsi’ è incamminarsi seguendo Gesù: una scelta propria di ‘chi sa usare le due ali per volare: la nostra e quella che Dio ci presta’. Lo penso e a volte mi verrebbe la voglia di prendere a calci la maschera che il mondo ha stampato sull’anima, facendoci credere che la vita è un carnevale. Ma le sembra tanto facile togliersi quella maschera e dare vita alle due ali? Da soli sembrerebbe una pazzia agli occhi della gente, bisognerebbe essere ‘insieme’ e, guardandomi attorno sembra sia piccolo lo spazio che il mondo ti riserva per volare, uscendo da noi stessi. Ma in questa Quaresima ci voglio provare. Mi dia una mano con la sua parola, la sua amicizia, in modo da sentirsi insieme nel prendere il volo ».
Lascio che a rispondere a questo mio amico sia il racconto di Abramo, nostro padre nella fede e quindi credibile.
« In quei giorni, il Signore disse ad Abràm: Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che Io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò: renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra. Allora Abràm partì, come gli aveva ordinato il Signore » (Gen 12, 1-4).
Sappiamo tutti che Abramo, ripeto, padre di tutte le genti, non conosceva Dio e il Suo amore, come noi oggi abbiamo la possibilità di conoscere attraverso la Sacra Scrittura.
Ma dentro di lui c’era un grande spazio per Dio, per la Sua Legge e una grande generosità.
E questo era sufficiente per affrontare un viaggio di cui non sapeva neppure la destinazione: avrebbe seguito la ‘guida’ di Chi gli chiedeva di lasciare la sua terra per un’altra che Lui stesso aveva scelto e, quindi, indicata. Come di fatto avvenne.
E se noi diamo uno sguardo alla vita dei Santi di ieri e di oggi, scopriamo che la loro storia è simile a quella di Abramo. È bastato fare propria la voce di Cristo che diceva: ‘Se vuoi venire con me, va’, vendi quello che hai, vieni e sèguimi’ e S. Francesco intraprese il meraviglioso viaggio verso la terra che ‘Dio indicava’. E lo stesso potremmo dire di tutti quanti seguono Cristo. Sono ‘usciti dalla loro terra’, ossia dal modo in cui vivevano, senza una meta, e sono approdati o approdano al ‘paese’ di Dio.
È la vocazione alla santità, ossia alla vera scelta di vita.
Gesù conosceva bene la debolezza di quanti aveva chiamato a seguirLo, ossia i Dodici. Anche loro, quando Gesù li aveva chiamati e ‘scelti perché stessero con Lui per poi mandarli’, avevano lasciato ‘la propria terra’, ossia il loro lavoro, gli amici, le famiglie, e senza indugio Lo avevano seguito per andare verso la ‘terra’ che Gesù avrebbe indicato, ossia il mondo da evangelizzare.
Avevano accolto la sua chiamata senza sapere dove li avrebbe condotti.
Ma, avvicinandosi i giorni della Sua passione e morte, Gesù sapeva che, per i suoi, era come un rompere i disegni di poveri uomini, per poi proiettarli nella grande e vera loro vocazione: essere i continuatori dell’opera di Cristo e, quindi, credibili colonne della Sua Chiesa.
Per questo Gesù, come per testimoniare ‘Chi era’ – racconta l’evangelista Matteo – « prese con sé, Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide coma le luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elìa, che conversavano con lui. Pietro allora prese la parola e disse: Signore, è bello stare qui: se vuoi, farò qui tre tende, una per te, una per Mosè ed una per Elìa. Egli stava ancora parlando quando una nube luminosa li avvolse con la sua ombra. Ed ecco una voce che diceva: Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo. All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò e, toccatili disse: Alzatevi e non temete. Sollevando gli occhi non videro più nessuno, se non Gesù solo. E mentre discendevano dal monte, Gesù ordinò loro: Non parlate a nessuno di questa visione, finché il Figlio dell’uomo non sia risuscitato dai morti » (Mt 17. 1-9).
Ricordando la debolezza e l’ignoranza dei Dodici, suscita stupore come, con la discesa dello Spirito Santo, abbiano potuto divenire quello che poi furono: martiri per Cristo.
L’uomo, anche se apparentemente pare sia adattato ad una vita ‘senza luce, che venga dall’Alto’, tuttavia, appena sente che il Cielo si apre, manifestando il volto amabile del Padre, corre verso quel ‘segno’ di Dio tra noi. Basta andare a Lourdes, a Fatima, o in altre parti, per accorgersi del bisogno innato di Dio, che è nell’uomo.
Quante volte, pregando ai piedi della grotta di Lourdes o nella cappella di Fatima, guardando il volto di tanti, li vedevo ‘trasfigurati’, come se in loro si manifestasse la gioia di ‘vedere il volto di Dio’.
E quante volte incontriamo fratelli o sorelle così piene di santità, che irradiano la bellezza della trasfigurazione! Non posso dimenticare il volto del mio carissimo confratello, don Clemente Rebora, che, quando celebrava la S. Messa o pregava nella sua cella, sembrava ‘fuori di questo mondo’, tanto era trasfigurato. Chi vive una fede, che è dialogo con Dio, sempre, anche nella vita quotidiana, anche nella sofferenza, porta il segno della gioia che trasfigura. Come quando si ama veramente…ci si trasfigura!
Davvero il Tabor è possibile a tutti, ma occorre che Dio ci conduca per mano sul Tabor, ossia fuori dalla ‘terra ferma’, dove domina la ‘carcassa della tribolazione senza speranza’.
« Ma se domandessimo – diceva Paolo VI, commentando la trasfigurazione di Gesù – agli uomini del nostro tempo: chi ritenete che sia Gesù Cristo? Come Lo pensate? Ditemi: chi è il Signore? Chi è Gesù? Alla domanda alcuni, molti non rispondono, non sanno che dire. Esiste come una nube – questa sì è opaca e pesante – di ignoranza che preme su tanti intelletti. Si ha una cognizione vaga del Cristo, non lo si conosce bene; si cerca a volte, anzi, di respingerlo. Al punto che all’offerta del Signore di voler essere per tutti, Guida e Maestro, si risponde di non averne bisogno e si preferisce tenerlo lontano. Quante volte gli uomini respingono Gesù e non lo vogliono sui loro passi: lo temono più che amarlo.
Non vogliono che Egli regni su di loro: cercano in ogni modo di allontanarlo. Lo vogliono come annullare e togliere dalla faccia della civiltà moderna; non c’è posto per Dio, né per la religione. Tale è il contenuto di questo laicismo sfrenato che, talvolta, incalza fino alle porte delle nostre chiese e che in tanti paesi, ancor oggi, infierisce. Non si vuole più l’immagine di Gesù » (14 marzo 1965).
Per poter conoscere Gesù, entrare in intimità con Lui, trasfigurare la nostra vita, bisogna ascoltare oggi più che mai quello che disse Dio ad Abràm: « Esci dalla tua patria… verso il paese che io ti indicherò ».
In altre parole ‘esci’ da una vita impostata sulle vanità o sul fango di questa terra.
Sentiamo tutti il grande disagio e lo scontento del come siamo abbarbicati attorno ad una vita che non è il cielo dell’anima e il respiro del cuore.
A volte riusciamo a ‘sognare altro’, a lasciarci affascinare dal bello che è nella gente ‘trasfigurata’, vicino a noi o sulla scena del mondo, come grandi fari di luce, ma non riusciamo a salire sul Tabor con Gesù. Ci pare che ‘il costo sia troppo alto’.
Ma – mi domando – vivere come schiavi delle mode del mondo non è forse un prezzo ancora più alto, che tentare di avviarci verso i sentieri delle beatitudini?
Viene alla mente quanto, lo stesso Paolo VI, disse nella Quaresima del 1955:
« Tu ci sei necessario, o Redentore nostro, per scoprire la nostra miseria e guarirla; per avere il concetto del bene e del male e la speranza della santità; per deplorare i nostri peccati e averne perdono.
Tu ci sei necessario, o fratello primogenito del genere umano, per ritrovare le ragioni vere della fraternità fra gli uomini, i fondamenti della giustizia, i tesori della carità, il bene sommo della pace ».
E con Tonino Bello, oggi, mi viene da pregare per tutti noi:
« Dai ai miei amici e fratelli la forza di osare di più, la capacità di inventarsi, la gioia di prendere il largo, il fremito di speranze nuove.
Il bisogno di sicurezze li ha inchiodati a un mondo vecchio che si dissolve.
Da’ ad essi, Signore, la volontà decisa di rompere gli ormeggi, per liberarsi da soggezioni vecchie e nuove.
Stimola tutti, nei giovani in particolare, una creatività più fresca, una fantasia più liberante e la gioia turbinosa della iniziativa che li ponga al riparo da ogni prostituzione ».

Omelia (20-03-2011): Questo è il Mio Figlio: ascoltatelo!

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/21944.html

Omelia (20-03-2011)

don Roberto Rossi

Questo è il Mio Figlio: ascoltatelo!

« Il Vangelo della Trasfigurazione del Signore pone davanti ai nostri occhi la gloria di Cristo, che anticipa la risurrezione e che annuncia la divinizzazione dell’uomo. La comunità cristiana prende coscienza di essere condotta, come gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, « in disparte, su un alto monte » (Mt 17,1), per accogliere nuovamente in Cristo, quali figli nel Figlio, il dono della Grazia di Dio: « Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo ». E’ l’invito a prendere le distanze dal rumore del quotidiano per immergersi nella presenza di Dio: Egli vuole trasmetterci, ogni giorno, una Parola che penetra nelle profondità del nostro spirito, dove discerne il bene e il male (cfr Eb 4,12) e rafforza la volontà di seguire il Signore » (Benedetto XVI, messaggio per la Quaresima).
La tradizione dà un nome al monte della trasfigurazione: il Tabor. Matteo dice soltanto «un monte»; vuole così segnala­re un nuovo monte Sinai, dove la gloria di Dio si era manife­stata a Mosè e a Elia. I due perso­naggi, Mosè ed Elia, che ebbero il privilegio di «vedere e ascoltare» Dio sul monte Sinai e sull’Oreb, sono a fianco di Gesù sul monte della trasfigurazione e testimoniano la sua identità. La manifestazione gloriosa del Sinai si ripete per Gesù: lo nube lu­minosa, segno della presenza di Dio; lo luce solare del volto di Gesù che fa tutto risplendere; lo scintillìo fosforescente delle sue vesti; lo voce che designa Gesù come il Figlio e come la Parola di Dio; il grande timore; il cadere con lo faccia a terra dei tre disce­poli. Dalla nube luminosa una voce: «Questi è il Figlio mio pre­diletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo». Bisogna ascoltare Gesù come fin allora si era ascoltato Dio. Gesù è il rivelatore del Padre; Gesù è la Parola stessa di Dio. Gesù è Colui che bisogna assolutamente ascoltare. Tutto è centrato su Gesù: è lui il punto di arrivo della storia del­l’Antico Testamento; è lui il punto di partenza di un’Allean­za nuova e definitiva. Prima della trasfigurazione Gesù aveva lodato Pietro perché aveva riconosciuto in lui «il Cristo, il Fi­glio del Dio vivente»; ma subito si era messo a parlare della sua morte imminente e aveva invitato i suoi discepoli ad as­sociarsi, senza riserve, al suo destino: mistero di morte e di trasfigurazione-risurrezione. Per entrare in tale mistero bi­sogna lasciarsi «avvicinare e toccare» da Gesù. La liturgia di questa domenica ci porta sul monte della trasfigurazione per ravvivare lo nostra fede in Cristo; una sosta ripo­sante prima di riprendere, nella pianura, i duri sentieri che conducono al Calvario. C’è bisogno che il Signore risorto e trasfigurato si avvicini e ci tocchi dicendo: «Alzatevi e non te­mete». Il tocco di Gesù: tocco guaritore, tocco che all0ontana le nostre paure, che ci richiama alla realtà quotidiana, che ci rilancia verso la folla degli uomini. Bisogna imparare a «leg­gere» i drammi della vita alla luce della gioia pasquale verso la quale ci conduce Dio; Gesù ne è il testimone luminoso. L’uomo può sopportare la persecuzione, l’odio, il dolore e tutte le difficoltà senza cadere nella disperazione, se crede nella salvezza in Cristo Gesù Perché il vangelo gli assicura che la morte è stata vinta dalla vita.

DOMENICA 20 MARZO – II DI QUARESIMA

DOMENICA 20 MARZO – II DI QUARESIMA

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/quaresA/QuarA2Page.htm

MESSA DEL GIORNO

Seconda Lettura   2 Tm 1, 8b-10
Dio ci chiama e ci illumina.

Dalla lettera di san Paolo apostolo a Timòteo
Figlio mio, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia. Questa ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo.

http://www.bible-service.net/site/377.html

2 Timothée 1,8-10
Paul est prisonnier (1,8), sur la fin de sa vie (4,6). Il adresse un dernier message à son disciple préféré, qui est pour lui un enfant bien-aimé (1,2 ; 2,1). Il l’encourage à continuer son chemin de croyant. Chemin rude, vers l’inconnu, comme ce fut le cas pour Abraham Le passage que nous lisons aujourd’hui reprend avec force un des points les plus fermes de la doctrine paulinienne : le salut par le Christ, le salut comme signe de la grâce de Dieu. On sera attentif au rôle que Paul fait jouer au Christ dans l’histoire du salut : il l’embrasse totalement, il la dirige, il en est le maître. La grâce dont nous prenons possession au cours de notre vie sur cette terre, c’est cette grâce qui « nous avait été donnée dans le Christ Jésus avant tous les siècles (1,9). Tel est depuis toujours le projet du Dieu d’amour sur l’humanité (cf. Éphésiens 1,3-14). Le temps présent, inauguré par la naissance de Jésus (cf. Galates 4,4), est la pleine manifestation de ce plan divin. La passion et la résurrection de Jésus sont discrètement évoquées à la fin du passage : il est « notre Sauveur », il a « détruit la mort » et fait « resplendir la vie ». L’annonce de l’Évangile, commencée par Jésus et reprise au cours des âges par ses disciples, contient en germe cette vie nouvelle. On comprend que Paul présente la vie chrétienne comme une « vocation sainte ».

2 Timoteo 1,8-10
Paul è un prigioniero (1,8) sulla fine della sua vita (4.6). Paolo invia un messaggio finale al discepolo prediletto che è per lui un figlio amato (1.2, 2.1), e lo incoraggia a continuare il suo percorso di credente. Cammino aspro, percorso verso l’ignoto, come è avvenuto per Abramo. Nel brano che leggiamo oggi è ripreso con forza uno dei punti più forti della dottrina paolina: la salvezza per mezzo di Cristo, la salvezza come un segno della grazia di Dio. Saremo attenti al ruolo che Paolo fa giocare a Cristo nella storia della salvezza: l’abbraccia completamente, la dirige, ne è il padrone. La grazia che noi possediamo nella nostra vita sulla terra è questa grazia che « ci era stata data in Cristo Gesù prima dei secoli (1,9).Questo è sempre stato il progetto di amore di Dio per l’umanità (cfr Ef 1,3-14). Il tempo presente inaugurato dalla nascita di Gesù (cfr Gal 4,4), è la piena manifestazione del disegno divino. La passione e la risurrezione di Gesù sono evocati in modo discreto alla fine del brano:  egli è « il nostro Salvatore, » ha « vinto la morte » e fa « risplendere la vita ». L’annuncio del Vangelo, iniziato da Gesù e portato nel corso dei secoli dai suoi seguaci, contiene i semi della nuova vita. Sappiamo che Paolo presenta la vita cristiana come una « vocazione santa santa ».

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dal libro dell’Esodo 13, 17 – 14, 9

Il cammino del popolo fino al Mare Rosso
Quando il faraone lasciò partire il popolo, Dio non lo condusse per la strada del paese dei Filistei, benché fosse più corta, perché Dio pensava: «Altrimenti il popolo, vedendo imminente la guerra, potrebbe pentirsi e tornare in Egitto». Dio guidò il popolo per la strada del deserto verso il Mare Rosso. Gli Israeliti, ben armati uscivano dal paese d’Egitto. Mosè prese con sé le ossa di Giuseppe, perché questi aveva fatto giurare solennemente gli Israeliti: «Dio, certo, verrà a visitarvi; voi allora vi porterete via le mie ossa». Partirono da Succot e si accamparono a Etam, sul limite del deserto. Il Signore marciava alla loro testa di giorno con una colonna di nube, per guidarli sulla via da percorrere, e di notte con una colonna di fuoco per far loro luce, così che potessero viaggiare giorno e notte. Di giorno la colonna di nube non si ritirava mai dalla vista del popolo, né la colonna di fuoco durante la notte.
Il Signore disse a Mosè: «Comanda agli Israeliti che tornino indietro e si accampino davanti a Pi-Achirot, tra Migdol e il mare, davanti a Baal-Zefon; di fronte ad esso vi accamperete presso il mare. Il faraone penserà degli Israeliti: Vanno errando per il paese; il deserto li ha bloccati! Io renderò ostinato il cuore del faraone ed egli li inseguirà; io dimostrerò la mia gloria contro il faraone e tutto il suo esercito, così gli Egiziani sapranno che io sono il Signore!».
Essi fecero in tal modo. Quando fu riferito al re d’Egitto che il popolo era fuggito, il cuore del faraone e dei suoi ministri si rivolse contro il popolo. Dissero: «Che abbiamo fatto, lasciando partire Israele, così che più non ci serva!».
Attaccò allora il cocchio e prese con sé i suoi soldati.
Prese seicento carri scelti e tutti i carri di Egitto con i combattenti sopra ciascuno di essi. Il Signore rese ostinato il cuore del faraone, re di Egitto, il quale inseguì gli Israeliti mentre gli Israeliti uscivano a mano alzata. Gli Egiziani li inseguirono e li raggiunsero, mentre essi stavano accampati presso il mare: tutti i cavalli e i carri del faraone, i suoi cavalieri e il suo esercito si trovarono presso Pi-Achirot, davanti a Baal-Zefon.

Responsorio    Cfr. Sal 113, 1. 2; Es 13, 21

R. Quando Israele uscì dall’Egitto, la casa di Giacobbe da un popolo straniero, * Giuda divenne il santuario, Israele il dominio del Signore.
V. Il Signore marciava alla loro testa con una colonna di nube, per guidarli sulla via.
R. Giuda divenne il santuario, Israele il dominio del Signore.

Seconda Lettura
Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa
(Disc. 51, 3-4. 8; PL 54, 310-311. 313)

La legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo
Il Signore manifesta la sua gloria alla presenza di molti testimoni e fa risplendere quel corpo, che gli è comune con tutti gli uomini, di tanto splendore, che la sua faccia diventa simile al fulgore del sole e le sue vesti uguagliano il candore della neve.
Questa trasfigurazione, senza dubbio, mirava soprattutto a rimuovere dall’animo dei discepoli lo scandalo della croce, perché l’umiliazione della Passione, volontariamente accettata, non scuotesse la loro fede, dal momento che era stata rivelata loro la grandezza sublime della dignità nascosta del Cristo.
Ma, secondo un disegno non meno previdente, egli dava un fondamento solido alla speranza della santa Chiesa, perché tutto il Corpo di Cristo prendesse coscienza di quale trasformazione sarebbe stato soggetto, e perché anche le membra si ripromettessero la partecipazione a quella gloria, che era brillata nel Capo.
Di questa gloria lo stesso Signore, parlando della maestà della sua seconda venuta, aveva detto: «Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro» (Mt 13, 43). La stessa cosa affermava anche l’apostolo Paolo dicendo: «Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi» (Rm 8, 18). In un altro passo dice ancora: «Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria» (Col 3, 3. 4).
Ma, per confermare gli apostoli nella fede e per portarli ad una conoscenza perfetta, si ebbe in quel miracolo un altro insegnamento. Infatti Mosè ed Elia, cioè la legge e i profeti, apparvero a parlare con il Signore, perché in quella presenza di cinque persone di adempisse esattamente quanto è detto: «Ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni» (Mt 18, 16).
Che cosa c’è di più stabile, di più saldo di questa parola, alla cui proclamazione si uniscono in perfetto accordo le voci dell’Antico e del Nuovo Testamento e, con la dottrina evangelica, concorrono i documenti delle antiche testimonianze?
Le pagine dell’uno e dell’altro Testamento si trovano vicendevolmente concordi, e colui che gli antichi simboli avevano promesso sotto il velo viene rivelato dallo splendore della gloria presente. Perché, come dice san Giovanni: «La Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1, 17). In lui si sono compiute le promesse delle figure profetiche e ha trovato attuazione il senso dei precetti legali: la sua presenza dimostra vere le profezie e la grazia rende possibile l’osservanza dei comandamenti.
All’annunzio del Vangelo si rinvigorisca dunque la fede di voi tutti, e nessuno si vergogni della croce di Cristo, per mezzo della quale è stato redento il mondo.
Nessuno esiti a soffrire per la giustizia, nessuno dubiti di ricevere la ricompensa promessa, perché attraverso la fatica si passa al riposo e attraverso la morte si giunge alla vita. Avendo egli assunto le debolezze della nostra condizione, anche noi, se persevereremo nella confessione e nell’amore di lui, riporteremo la sua stessa vittoria e conseguiremo il premio promesso.
Quindi, sia per osservare i comandamenti, sia per sopportare le contrarietà, risuoni sempre alle nostre orecchie la voce del Padre, che dice: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo» (Mt 17, 5).

Responsorio    Cfr. Eb 12, 22. 24.25
R. Vi siete accostati a Gesù, mediatore della nuova alleanza. * Guardatevi dal rifiutare colui che parla.
V. Gli Ebrei per aver rifiutato colui che promulgava decreti sulla terra non trovarono scampo, molto meno lo troveremo noi, se volteremo le spalle a colui che parla dai cieli.
R. Guardatevi dal rifiutare colui che parla. 

Detail of Saint Joseph by the Tyrolean sculptor de:Franz Tavella around 1900 in the Saint Joseph Church in Atzwang/Ritten

Detail of Saint Joseph by the Tyrolean sculptor de:Franz Tavella around 1900 in the Saint Joseph Church in Atzwang/Ritten  dans immagini sacre Saint-Joseph-Atzwang-detail
http://it.wikipedia.org/wiki/File:Saint-Joseph-Atzwang-detail.jpg

Publié dans:immagini sacre |on 18 mars, 2011 |Pas de commentaires »

19 marzo 1969 – Solennità di San Giuseppe: Omelia di Papa Paolo VI

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/homilies/1969/documents/hf_p-vi_hom_19690319_it.html

SOLENNITÀ DI SAN GIUSEPPE

OMELIA DI PAOLO VI

Mercoledì, 19 marzo 1969

Fratelli e Figli carissimi!

La festa di oggi ci invita alla meditazione su S. Giuseppe, il padre legale e putativo di Gesù, nostro Signore, e dichiarato, per tale funzione ch’egli esercitò verso Cristo, durante l’infanzia e la giovinezza, protettore della Chiesa, che di Cristo continua nel tempo e riflette nella storia l’immagine e la missione.
È una meditazione che sembra, a tutta prima, mancare di materia : che cosa di lui, San Giuseppe, sappiamo noi, oltre il nome ed alcune poche vicende del periodo dell’infanzia del Signore? Nessuna parola di lui è registrata nel Vangelo; il suo linguaggio è il silenzio, è l’ascoltazione di voci angeliche che gli parlano nel sonno, è l’obbedienza pronta e generosa a lui domandata, è il lavoro manuale espresso nelle forme più modeste e più faticose, quelle che valsero a Gesù Ia qualifica di «figlio del falegname» (Matth. 13, 55); e null’altro: si direbbe la sua una vita oscura, quella d’un semplice artigiano, priva di qualsiasi accenno di personale grandezza.
Eppure questa umile figura, tanto vicina a Gesù ed a Maria, la Vergine Madre di Cristo, figura così inserita nella loro vita, così collegata con Ia genealogia messianica da rappresentare la discendenza fatidica e terminale della progenie di David (Matth. 1, 20), se osservata con attenzione, si rileva così ricca di aspetti e di significati, quali la Chiesa nel culto tributato a S. Giuseppe, e quali la devozione dei fedeli a lui riconoscono, che una serie di invocazioni varie saranno a lui rivolte in forma di litania. Un celebre e moderno Santuario, eretto in suo onore, per iniziativa d’un semplice religioso laico, Fratel André della Congregazione della Santa Croce, quello appunto di Montréal, nel Canada, porrà in evidenza con diverse cappelle, dietro l’altare maggiore, dedicate tutte a S. Giuseppe, i molti titoli che Io rendono protettore dell’infanzia, protettore degli sposi, protettore della famiglia, protettore dei lavoratori, protettore delle vergini, protettore dei profughi, protettore dei morenti . . .
Se osservate con attenzione questa vita tanto modesta, ci apparirà più grande e più avventurata ed avventurosa di quanto il tenue profilo della sua figura evangelica non offra alla nostra frettolosa visione. S. Giuseppe, il Vangelo lo definisce giusto (Matth. 1, 19); e lode più densa di virtù e più alta di merito non potrebbe essere attribuita ad un uomo di umile condizione sociale ed evidentemente alieno dal compiere grandi gesti. Un uomo povero, onesto, laborioso, timido forse, ma che ha una sua insondabile vita interiore, dalla quale vengono a lui ordini e conforti singolarissimi, e derivano a lui la logica e la forza, propria delle anime semplici e limpide, delle grandi decisioni, come quella di mettere subito a disposizione dei disegni divini la sua libertà, la sua legittima vocazione umana, la sua felicità coniugale, accettando della famiglia la condizione, la responsabilità ed il peso, e rinunciando per un incomparabile virgineo amore al naturale amore coniugale che la costituisce e la alimenta, per offrire così, con sacrificio totale, l’intera esistenza alle imponderabili esigenze della sorprendente venuta del Messia, a cui egli porrà il nome per sempre beatissimo di Gesù (Matth. 1, 21), e che egli riconoscerà frutto dello Spirito Santo, e solo agli effetti giuridici e domestici suo figlio. Un uomo perciò, S. Giuseppe, «impegnato», come ora si dice, per Maria, l’eletta fra tutte le donne della terra e della storia, sempre sua vergine sposa, non già fisicamente sua moglie, e per Gesù, in virtù di discendenza legale, non naturale, sua prole. A lui i pesi, le responsabilità, i rischi, gli affanni della piccola e singolare sacra famiglia. A lui il servizio, a lui il lavoro, a lui il sacrificio, nella penombra del quadro evangelico, nel quale ci piace contemplarlo, e certo, non a torto, ora che noi tutto conosciamo, chiamarlo felice, beato.
È Vangelo questo. In esso i valori dell’umana esistenza assumono diversa misura da quella con cui siamo soliti apprezzarli: qui ciò ch’è piccolo diventa grande (ricordiamo l’effusione di Gesù, al capo undecimo di San Matteo: «Io Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascoste queste cose – le cose del regno messianico! – ai sapienti ed ai dotti, che hai rivelate ai piccoli»); qui ciò ch’è misero diventa degno della condizione sociale del Figlio di Dio fattosi Figlio dell’uomo; qui ciò ch’è elementare risultato d’un faticoso e rudimentale lavoro artigiano serve ad addestrare all’opera umana l’operatore del cosmo e del mondo (cfr. Io. 1, 3 ; 5, 17), e a dare umile pane alla mensa di Colui che definirà Se stesso «il Pane della vita» (Io. 6, 48). Qui ciò ch’è perduto per amore di Cristo, è ritrovato (cfr. Matth. 10, 39), e chi sacrifica per lui la propria vita di questo mondo, la conserva per la vita eterna (cfr. Io. 12, 25). San Giuseppe è il tipo del Vangelo, che Gesù, lasciata la piccola officina di Nazareth, e iniziata la sua missione di profeta e di maestro, annuncerà come programma per la redenzione dell’umanità; S. Giuseppe è il modello degli umili che il cristianesimo solleva a grandi destini; S. Giuseppe è la prova che per essere buoni e autentici seguaci di Cristo non occorrono «grandi cose», ma si richiedono solo virtù comuni, umane, semplici, ma vere ed autentiche.
E qui la meditazione sposta lo sguardo, dall’umile Santo al quadro delle nostre condizioni personali, come avviene di solito nella disciplina dell’orazione mentale; e stabilisce un accostamento, un confronto tra lui e noi; un confronto dal quale non abbiamo da gloriarci, certamente; ma dal quale possiamo trarre qualche buono incitamento; all’imitazione, come nelle nostre rispettive circostanze è possibile; alla sequela, nello spirito e nella pratica concreta di quelle virtù che nel Santo troviamo così rigorosamente delineate. Di una specialmente, della quale oggi tanto si parla, della povertà. E non ci lasceremo turbare per le difficoltà, che essa oggi, in un mondo tutto rivolto alla conquista della ricchezza economica, a noi presenta, quasi fosse contraddittoria alla linea di progresso ch’è obbligo perseguire, e paradossale e irreale in una società del benessere e del consumo. Noi ripenseremo, con S. Giuseppe povero e laborioso, e lui stesso tutto impegnato a guadagnar qualche cosa per vivere, come i beni economici siano pur degni del nostro interesse cristiano, a condizione che non siano fini a se stessi, ma mezzi per sostentare la vita rivolta ad altri beni superiori; a condizione che i beni economici non siano oggetto di avaro egoismo, bensì mezzo e fonte di provvida carità; a condizione, ancora, che essi non siano usati per esonerarci dal peso d’un personale lavoro e per autorizzarci a facile e molle godimento dei così detti piaceri della vita, ma siano invece impiegati per l’onesto e largo interesse del bene comune. La povertà laboriosa e dignitosa di questo Santo evangelico ci può essere ancora oggi ottima guida per rintracciare nel nostro mondo moderno il sentiero dei passi di Cristo, ed insieme eloquente maestra di positivo e onesto benessere, per non smarrire quel sentiero nel complicato e vertiginoso mondo economico, senza deviare, da un lato, nella conquista ambiziosa e tentatrice della ricchezza temporale, e nemmeno, dall’altro, nell’impiego ideologico e strumentale della povertà come forza d’odio sociale e di sistematica sovversione.
Esempio dunque per noi, San Giuseppe. Cercheremo d’imitarlo; e quale protettore lo invocheremo, come la Chiesa, in questi ultimi tempi, è solita a fare, per sé, innanzi tutto, con una spontanea riflessione teologica sul connubio dell’azione divina con l’azione umana nella grande economia della Redenzione, nel quale la prima, quella divina, è tutta a sé sufficiente, ma la seconda, quella umana, la nostra, sebbene di nulla capace (cfr. Io. 15, 5), non è mai dispensata da un’umile, ma condizionale e nobilitante collaborazione. Inoltre protettore la Chiesa lo invoca per un profondo e attualsimo desiderio di rinverdire la sua secolare esistenza di veraci virtù evangeliche, quali in S. Giuseppe rifulgono; ed infine protettore lo vuole la Chiesa per l’incrollabile fiducia che colui, al quale Cristo volle affidata la protezione della sua fragile infanzia umana, vorrà continuare dal Cielo la sua missione tutelare a guida e difesa del Corpo mistico di Cristo medesimo, sempre debole, sempre insidiato, sempre drammaticamente pericolante.
E poi per il mondo invocheremo S. Giuseppe, sicuri che nel, cuore, ora beato d’incommensurabile sapienza e potestà, dell’umile operaio di Nazareth si alberghi ancora e sempre una singolare e preziosa simpatia e benevolenza per l’intera umanità. Così sia.                                      

Chiamati a vivere (Salmo 139) (Gianfranco Ravasi)

dal sito:

http://www.apostoline.it/riflessioni/salmi/Salmo139.htm

I SALMI CANTI SUI SENTIERI DI DIO

GIANFRANCO RAVASI

Chiamati a vivere (Salmo 139)     

C’è una vocazione primordiale che sta alla radice del nostro stesso essere, è la chiamata alla vita. Dice il Signore a Geremia nel giorno della sua vocazione profetica: « Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu venissi alla luce, ti avevo consacrato » (1,5), e questa frase sarà ripresa anche da Paolo per descrivere la sua vocazione nella lettera ai Galati (« Dio mi scelse fin dal seno di mia madre » 1,15). È celebre il detto di Cartesio « Cogito, ergo sum », « penso, quindi esisto ».il teologo K. Barth ha introdotto in questa frase una piccola variante che però la rivoluziona: « Cogitor, ergo sum » « sono pensato (da Dio) e quindi esisto ». È questa la tipica visione della Bibbia che alla radice della nostra esistenza pone l’amore di Dio e la sua parola: « In principio Dio disse: Facciamo l’uomo…! ».
Ora, questa grande vocazione che si irradia su tutta la nostra esistenza, su tutto lo spazio che percorreremo, su tutti nostri anni, i mesi, i giorni, le ore della nostra vita  è stupendamente cantata in un salmo, il 139, un testo piuttosto lungo che non possiamo ora citare integralmente ma che invitiamo a riprendere e a leggere con attenzione sulla propria Bibbia. « Il Salmo 139 è una delle più penetranti riflessioni sul significato e sulla presenza di Dio in tutta la letteratura religiosa. Vi si avverte,  più che altrove, il senso miracoloso, avvincente e straordinario di Dio che si proietta in ogni direzione, al di sopra, al di sotto, innanzi e indietro ». Queste parole del teologo anglicano A. T. Robinson in un libro che a suo tempo fece scalpore, Dio non è così (Firenze 1965), colgono il cuore di questo splendido ma molto difficile cantico sapienziale.
La libertà delle immagini, il bagliore delle intuizioni, la forza dei sentimenti, la mutevolezza delle tonalità, il tormento del testo a noi giunto non impediscono al Salmo di avere una struttura nitida e un suo rigore ideologico. La sostanza del messaggio è subito percepibile. Dio tutto sa e tutto può e l’uomo non può sottrarsi a lui. Lo scopo ultimo del poema è quello di far convergere verso l’abbraccio salvifico di Dio tutte le dimensioni, tutta la realtà, tutta l’umanità. Citando due poeti greci, Arato e Cleante, Paolo ad Atene affermava: « In lui viviamo, in lui ci muoviamo ed esistiamo » (Atti 17,28). In un testo aramaico di El-Amarna  (Egitto) leggiamo questa frase: « Se noi saliamo in cielo, se noi scendiamo negli inferi, la nostra testa è nelle Tue mani ».
La prima strofa (vv.1-6) è la celebrazione dell’onniscienza divina, come è attestato dal riecheggiare del verbo « conoscere », che nel mondo semitico indica la penetrazione totale del conoscente nell’oggetto conosciuto. Dio mi conosce « quando seggo e quando mi alzo, quando cammino e quando sosto »: le azioni « polari » estreme della vita che riassumono tutte le altre non sfuggono allo sguardo di Dio, come gli sono familiari il nostro pensiero e la nostra parola prima ancora che essi sboccino.
All’onnipresenza divina è dedicata la seconda strofa (vv. 7-12) in cui si descrive il « folle volo » dell’uomo per sottrarsi a Dio. Tutto lo spazio è percorso, dalla verticale cielo-inferi all’orizzontale est-ovest (aurora- mare Mediterraneo). Tutto il tempo con la sua sequenza notte-giorno è perlustrato da Dio a cui non resiste né la morte né la tenebra.

Leggiamo ora la terza strofa (vv. 13-18) che si fissa sulla realtà più mirabile dell’essere, l’uomo, il « prodigio » di Dio.

Sei tu che hai creato i miei reni,
mi hai intessuto nel grembo di mia madre.
Ti ringrazio perché con atti prodigiosi mi hai fatto mirabile:
meravigliose sono le tue opere
e la mia anima le riconosce pienamente.
Il mio scheletro non ti era nascosto
quando fui confezionato nel segreto,
ricamato nelle profondità della terra.
Anche l’embrione i tuoi occhi l’hanno visto
e nel tuo libro erano tutti scritti
i giorni che furono formati
quando ancora non ne esisteva uno.
Quanto sono insondabili per me i tuoi pensieri, o Dio,
quanto è complessa la loro sostanza!
Se li conto sono più numerosi della sabbia.
Mi risveglio ed ecco sono ancora con te.

Attraverso il simbolismo « plastico » del vasaio e dello scultore e quello « tessile » del ricamo si dipinge l’azione di Dio all’intero del grembo della gestante. Quel grembo notturno e oscuro, che è paragonato a quello della madre Terra, è trapassato dallo sguardo creatore di Dio e diventa come un cantiere del nostro destino fisico e spirituale. La funzione della donna è vista dal poeta in parallelo a quella della terra: come il seme cade nel terreno e fa esplodere la sua energia nell’humus che espleta la funzione di matrice, così il seme maschile nel grembo della donna, alimentato dal sangue mestruo (secondo l’antica fisiologia orientale) si trasforma in creatura vivente. Il miracolo della creazione e dell’esistenza è contemplato dal nostro poeta con lo stupore della poesia e della fede.
L’ultima strofa (vv. 19-24) è piuttosto sorprendente perché con la sua veemenza sembra in opposizione alla pace della contemplazione precedente. Il tema è quello del giudizio divino sul male nei cui confronti l’orante si dichiara puro. Anzi, egli « odia con odio implacabile » i nemici di Dio. Si tratta di un’espressione molto forte, di sapore orientale, per indicare lo sdegno contro l’ingiustizia che dilaga nel mondo e per esprimere la propria amorosa adesione al bene. È quasi una scelta di campo  che l’orante fa, ben sapendo che a Dio egli deve tutto e che a lui vuole tutto consacrare.
Si chiude così questo canto di gloria al Dio creatore dell’uomo. « Numerose sono e meraviglie del mondo ma la più grande delle meraviglie resta l’uomo », scriveva il poeta greco Sofocle nell’Antigone. Il nostro salmo è un canto di adorazione al Creatore di un simile capolavoro. Lo scrittore ebreo tedesco Joseph Roth, l’autore della Leggenda del santo bevitore, in un’altra sua opera esprimeva suggestivamente questa sensazione: « Nell’istante in cui potei prendere tra le braccia mio figlio provai un lontano riflesso di quella ineffabile sublime beatitudine che dovette colmare il Creatore il sesto giorno quando egli vide la sua opera  imperfetta pur tuttavia compiuta. Mentre tenevo fra le mie braccia quella cosina minuscola, urlante, brutta, paonazza,sentivo chiaramente quale mutamento stava avvenendo in me. Per piccola, brutta e rossastra che fosse la cosa tra le mie braccia, da essa emanava una forza invincibile ».

 (da SE VUOI)

17 MARZO 2011 – VIVA L’ITALIA

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Publié dans:ITALIA |on 17 mars, 2011 |Pas de commentaires »
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