Archive pour mars, 2011

un bella interpretazione del passo di Paolo da Efesini in questa Omelia…

un bella interpretazione del passo di Paolo da Efesini in questa Omelia, i testi erano:  Prima Lettura: Siracide 24,1-4. 8-12 Salmo: 147 Seconda Lettura: Efesini 1,3-6. 15-18 Vangelo: Giovanni 1,1-18 Quella Luce, …, dal sito:

http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.pax?mostra_id=17010

II Domenica dopo Natale (03/01/2010)

Vangelo: Gv 1,1-18 (forma breve Gv 1,1-5.9-14)  

Di solito, dopo aver ascoltato tutt’e tre le letture proposte dalla Liturgia, ci soffermiamo sul Vangelo; durante l’Avvento abbiamo concentrato la nostra attenzione sulla Prima Lettura, per andare alla scoperta delle promesse che Dio Padre ha pronunciato per mezzo dei suoi profeti.
In questa seconda domenica dopo Natale, vorrei che insieme rivolgessimo una cura particolare alla Seconda Lettura. Diciamoci la verità: tante volte risulta un po’ trascurata.
Persino mentre viene proclamata, ci sono persone che perdono il filo, che si distraggono. Non per cattiveria o superficialità, li capisco: è che quasi sempre si tratta di brani tratti dalle lettere di San Paolo e questo grande Apostolo scrive in maniera un po’ difficile, oppure affronta argomenti complessi. Per noi tutti è più facile seguire e comprendere la Parola di Dio quando ci presenta fatti, persone, avvenimenti.
Però il brano di quest’oggi della Seconda Lettura, merita che gli si dedichi un piccolo sforzo della mente e del cuore.
L’apostolo Paolo scrive rivolgendosi alla comunità dei primi cristiani della città di Efeso, nei territori della Turchia di oggi. La lettera comincia con una preghiera, un inno, un vero e proprio canto di gioia e di benedizione.
La voce dell’Apostolo proclama benedetti Dio Padre e il Figlio Gesù, per tutte le meraviglie che, nell’amore e per amore, hanno compiuto:
« Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato. »
Proviamo a rileggerla, usando parole più vicine a noi, così da poter far nostra questa preghiera di benedizione:
« Benedetto sei tu, o Dio, che ci hai colmati di ogni bene da sempre.
Benedetto sei tu, o Dio, che ci hai sognati e voluti fin dalla creazione del mondo.
Tu ci ami così tanto che ci circondi di ogni tenerezza e hai di continuo cura di noi.
Per questo, ti aspetti che corrispondiamo al tuo amore crescendo nella capacità di amare, per somigliare sempre più a Gesù, tuo Figlio.
Così, noi che ti possiamo chiamare Padre, potremo veramente essere a tutti gli effetti tuoi figli adottivi. »
Dopo questa splendida preghiera, san Paolo si rivolge direttamente agli Efesini e comincia con il far loro i complimenti: « avendo avuto notizia della vostra fede nel Signore Gesù e dell’amore che avete verso tutti i santi, continuamente rendo grazie per voi ricordandovi nelle mie preghiere ».
L’Apostolo dice ai cristiani di Efeso tutta la sua gioia perché ovunque sente parlare di quanto sia forte la fede di questa piccola comunità e come siano capaci di amore gli uni per gli altri.
Sono veramente parole di grande elogio, che fanno sicuramente piacere a chi le ascolta. Pensate se qualcuno, magari il Vescovo, inviasse una lettera da leggere alla fine della Messa e in questa lettera ci scrivesse: « Mi rallegro tanto perché da tutti sento parlare bene di voi. Tutti mi descrivono la vostra fede che è forte e salda. Tutti mi testimoniano quanto vi volete bene tra voi, come condividete ogni cosa e come siete capaci di accogliere ogni nuovo parrocchiano, facendolo sentire subito amato. »
Se arrivasse una lettera così, non ci sentiremmo tutti orgogliosi e felici? Anche per gli Efesini sarà stato bello sentirsi rivolgere quei bei complimenti da un grande Apostolo, come san Paolo.
Questo infaticabile missionario del Vangelo aggiunge, nella sua lettera, ancora qualcosa che è molto importante: « il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi. »
Cioè, san Paolo sta dicendo nelle sue preghiere per gli Efesini, chiede al Signore Dio un dono ben preciso: che tutti i credenti possano ricevere il dono della sapienza per poter arrivare a possedere una profonda comprensione di Dio e del suo sogno su ciascuno di noi e sull’umanità intera.
Cerchiamo di fermarci con calma su questo desiderio di san Paolo: la preghiera che nasce dal cuore di un santo e di un Apostolo è densa di significato, perciò vogliamo assimilarla bene.
Paolo chiede il dono della sapienza, che non è il sapere tante cose, l’aver letto tanti libri, l’avere preso una laurea. La sapienza è la capacità di assaporare le cose che viviamo, arrivando a comprenderle fino in fondo. Gli avvenimenti tristi e quelli lieti, quelli che ci fanno cantare e quelli che ci fanno piangere: viverli in profondità, immergerci in essi, e così, passo passo, crescere nella comprensione di noi stessi, del mondo e delle persone che ci stanno accanto.
Ebbene, dice l’apostolo Paolo, io vorrei che voi, abitanti di Efeso, poteste diventare sempre più sapienti. Cioè sempre più capaci di comprendere che cosa Dio sogna per il mondo e per ognuno dei suoi figli.
Sapete perché san Paolo ha questo desiderio, fino al punto da chiederlo nella preghiera? Perché sta pensando a uno dei più grandi pericoli che possono capitare a chi vive nella fede: l’abitudine.
Fare l’abitudine al rapporto con Dio è una terribile malattia, che ci rende pian piano annoiati, insipidi, quasi inutili. Tutti noi credenti rischiamo di fare l’abitudine al mistero grande di Dio, perché ne sentiamo parlare da che siamo nati!
C’è il rischio di vivere tutto come un’abitudine, qualcosa che è sempre stato così, ma che non ci tocca la vita, non ci coinvolge fino nel profondo di noi. Rischiamo di « abituarci » ad essere cristiani: abituarci a dire le preghiere, prendere l’abitudine a venire a Messa, dare per scontato il festeggiare il Natale e la Pasqua, credere che sia ovvio poter ricevere i sacramenti…
Un missionario comboniano, che vive in Africa, in una sua lettera agli amici rimasti in Italia, citava un proverbio africano: « Chi abita vicino alla cascata, dopo tre giorni non sente più il rumore dell’acqua ».
Questo è il nostro rischio! La cascata produce un rumore fragoroso, perché l’acqua che cade dall’alto, che precipita sulle rocce e poi si riversa fino a terra riempie lo spazio intorno di suoni potenti, che assordano. Vicino a una cascata, per potersi parlare, anche se si è a pochi passi gli uni dagli altri, è necessario gridare per riuscire a sentirsi a vicenda.
Però, dice saggiamente il proverbio africano, succede qualcosa di strano: quando si va ad abitare vicino a una cascata, quel rumore sembra, giorno dopo giorno, sempre meno assordante. Pian piano ci si fa l’abitudine: diventa normale sentirlo come sottofondo di tutte le giornate e di ogni notte. Diventa ovvio, quasi naturale, parlare gridando, anche nelle conversazioni tra amici. Persino un elemento naturale così maestoso, così impressionante come può essere una cascata spumeggiante, diventa normale, ovvio, banale… basta poco tempo e non gli si presta più attenzione.
Questo è il rischio che può correre la nostra fede: siccome ci troviamo costantemente immersi nel dono straordinario dell’amore di Dio che non ci abbandona mai; siccome siamo abituati a trovarlo sempre presente, qui nel tabernacolo; siccome ogni domenica possiamo ascoltare i suoi inviti attraverso la Sacra Scrittura; siccome sappiamo che possiamo sempre ricevere il suo perdono, rischiamo di mettere il Padre Buono come una sorta di sottofondo, di ritenerlo ovvio, dovuto, banale.
Ma come, Lui che è Dio, che ha creato ogni cosa, che vuole la nostra amicizia, che mantiene ogni sua promessa, noi lo releghiamo al ruolo di sfondo, come il rumore di una cascata a cui ci si è fatta l’abitudine? No, non può essere!
Eppure accade, sapete… San Paolo sente che questo è un rischio pericoloso: mette in guardia i credenti della città di Efeso e invita anche tutti noi a mantenere mente e cuore ben svegli, per non cedere alla forza dell’abitudine.
In questo la Liturgia ci aiuta moltissimo, perché ogni anno ci permette di fermarci a contemplare il cammino di Gesù nella sua vita di uomo: le settimane dell’Avvento e del Natale, per esempio, servono proprio ad aiutarci a ricordare che cosa l’amore di Dio ha fatto per noi, lungo la storia; a osservare e riconoscere i tanti doni che ora, oggi, proprio in questo tempo, il Padre Nostro continua a offrire a ciascuno; a rinnovare la certezza che il Suo amore non verrà mai meno e ci condurrà alla festa senza fine della vita eterna.
Usiamo bene, allora, questi ultimi giorni delle vacanze di Natale per dedicare un po’ del nostro tempo, un po’ dei nostri pensieri, al Signore Dio.
Rendiamo di qualche minuto più lunga la preghiera del mattino e della sera, proprio per dire al Signore il nostro grazie, facendo anche qualche breve elenco: per il sole che vedo fuori dalla finestra; per la colazione che mi è stata preparata, per i compiti delle vacanze che ormai ho completato; per il tempo passato a giocare con gli amici; per la buona cenetta tutti insieme in famiglia; per il calduccio piacevole che c’è in casa, mentre fuori fa tanto freddo; per il letto morbido e accogliente in cui tra poco mi tufferò…
Se terremo occhi e cuore aperti all’azione dello Spirito Santo, non correremo il rischio di fare l’abitudine e daremo sempre al Signore Dio il giusto posto nella nostra vita.

Commento a cura di Daniela De Simeis

Omelia 22 marzo 2011 – Commento su Is 1,18

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/17399.html

Omelia (02-03-2010)

Eremo San Biagio

Commento su Is 1,18

Dalla Parola del giorno
« Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come neve. »

Come vivere questa Parola?
Se ripenso alle abbondanti nevicate di quest’inverno mi sembra di vedere quasi l’immagine alla quale Isaia fa riferimento! « Diventeranno come neve », i nostri peccati!
Quando nevica è come se la montagna vive un’ora di stupenda trasfigurazione: la terra si veste di candore, come una sposa. Però sotto questo manto tutto è come prima: sassi, arbusti secchi, sterpi e foglie bruciate dal gelo invernate.
Invece quello che avviene in noi per il perdono di Dio è ben diverso. Non è un solo momento di trasfigurazione esteriore ma di vera trasformazione interiore. Quando noi chiediamo perdono, il Signore crea veramente qualcosa di nuovo e di bello dentro di noi. Perfino dei nostri peccati Egli fa un’occasione di grazia, di verità su noi stessi, di abbandono a Lui. Davvero ciò che era rosso come la cocciniglia diventa candido come la neve, cioè una sorgente di più profonda conoscenza dell’amore di Dio per noi e della nostra povertà creaturale. È evidente che in tal modo il cuore convertito « contrito e umiliato » prende sul serio il cammino spirituale. Non gioca con le apparenze. Che cosa penseranno o diranno di me? Che bella o brutta figura sto facendo? Dirò questo anche mentendo pur di non ‘perdere la faccia’. Questo modo farisaico di essere e agire, stigmatizzato da Gesù nel vangelo odierno, sarà alieno a chi, perdonato e riconciliato, cammina in novità di vita.
Tutto questo mi soffermerò a meditare, nella mia pausa contemplativa, oggi. Visualizzando la bellezza di un paesaggio candido di neve illuminato dal sole, chiederò al Signore la piena consapevolezza del suo perdono che rinnova dal di dentro la mia vita.
Gesù, tu hai distrutto il mio peccato e non lo hai soltanto ricoperto perché hai usato quel detergente formidabile che è il sangue della tua crocifissione. Fammi sperimentare la gioia del perdono e del ricominciare sempre a diventare autentico: sulla linea dell’ »essere » e non del « sembrare », sulla linea dell’essere a SERVIZIO per amore.

La voce di un Padre della Chiesa
Solo dai peccati gli uomini vengono separati da Dio; e da essi in questa vita ci si purifica non per le nostre forze, ma solo per divina misericordia: per sua indulgenza, non per nostra potenza. Infatti la stessa forza, quantunque essa sia, che può esser detta nostra, ci è concessa dalla sua bontà. Molto
S. Agostino

Omelia (22-03-2011): Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/21856.html

Omelia (22-03-2011)

Monaci Benedettini Silvestrini

Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo

È facile trasformare la fede in religione. Difficile, arduo è invece far sì che la religione diventi fede, sia cioè vita vissuta nella realtà del quotidiano secondo la Parola di Dio. Oggi in modo particolare è divenuto quasi impossibile trasformare la religione in fede a motivo della verità della Parola del Signore che è assente. Si dona la Parola di Dio, ma senza il suo contenuto, è come se uno desse il riccio della castagna, ma senza il suo prezioso contenuto. Il riccio è bello, armonioso, possiede una sua particolare struttura, esso però non nutre. Non è questa la funzione, bensì solo quella di custodire ermeticamente il frutto prima che giunga a maturazione.
Farisei e scribi avevano ridotto la religione a pura ipocrisia. L’apparato esteriore era stupendo, la vitalità interiore era del tutto assente. Mancava una forte moralità e un’ascesi alta. Non c’era Dio nella loro religione, ma l’uomo che aveva preso il posto di Dio. Infatti molte cose le facevano per essere ammirati dagli uomini ed anche la Parola del Signore non veniva insegnata secondo equità, giustizia, verità. Vi era una parzialità dilagante. Era l’uomo che aveva un potere assoluto sulla Parola e la diceva pesante per gli altri, assai leggera per se stesso. Tutto era a servizio della loro gloria, superbia, potere, governo dei cuori e delle coscienze.
Gesù non vuole la religione della superbia, nella quale non c’è posto né per il Padre suo e né per gli uomini, nostri fratelli. Desidera invece la religione dell’umiltà. Quando una religione è umile? È umile quando ognuno vivendo di sola obbedienza alla Parola mette se stesso all’ultimo posto e pone la sua vita a servizio degli altri. Nell’umiltà il pio fedele del Signore lavora per magnificare il Signore e i suoi fratelli, per innalzare Dio e gli uomini, per dare gloria a Dio e agli uomini. Attraverso la sua umiltà deve risplendere nel mondo la più alta dignità di Dio e di ogni altra persona. Se un solo uomo viene escluso da questo innalzamento, è segno che nella nostra religione vi sono della falle, degli errori, delle parzialità, superficialità, arroganza spirituale, inconsistenza morale.
Gesù vuole la religione della fratellanza universale. Non però una fratellanza secondo le moderne posizioni culturali del livellamento degli uomini. Sarebbe questa una fratellanza contro il Vangelo e la verità rivelata. Distinzione, differenza, particolarità, unicità, specificità, singolarità sono essenza della persona e sempre da rispettare e magnificare, elevare e coltivare. La fratellanza evangelica insegna invece che ognuno di noi deve porre se stesso a servizio del bene di tutti gli uomini, che sono nostri fratelli. Il bene supremo è la loro redenzione e salvezza, per ottenere la quale ognuno deve mettere la sua vita come prezzo del riscatto, così come ha fatto Gesù sulla Croce.
Vergine Maria, Madre della Redenzione, aiutaci a vivere la vera fratellanza così come l’ha vissuta Gesù. Angeli e Santi del Cielo, liberateci da ogni superbia e vanagloria.

Il creato come dono di Dio da amare

dal sito:

http://www.coldiretti.it/dottrinasocialecristiana/collegamento/16/amare_il_creato.htm#1

Il creato come dono di Dio da amare

Si pone in questo quadro il secondo atteggiamento da coltivare: accogliere il creato come un dono di Dio, da amare, e da cui risalire al Creatore e Padre. Niente è senza motivo nel mondo creato: tutto è o può diventare un richiamo a lodare il Signore. Con Teresa di Lisieux, potremmo dire: « Tutto è grazia »: Questo è già vero nell’ordine della natura: tutto è grazia, tutto è dono di Dio e rimanda a lui, sorgente di ogni bene. Solo il peccato, come atto nostro, volontaria di rifiuto del progetto del Creatore e Redentore del mondo, vi si oppone. Per questo il Salmista, dopo aver descritto le meraviglie della creazione nel salmo 104 di cui abbiamo letto alcuni versetti, invoca da Dio la cancellazione del male morale dalla faccia della terra.
« Scompaiano i peccatori dalla terra
e gli empi cessino di esistere » (Sal 104,35)
La presenza del peccato deturpa infatti la bellezza del creato, come una macchia su un tessuto terso: solo vincendolo, si è in grado di cogliere la bellezza del mondo e di innalzare la nostra lode al Signore, come ci invita a fare lo stesso salmista:
« Sia gloria al Signore nei secoli,
si allieti il Signore nelle sue opere.
Canterò al Signore per tutta la mia vita,
inneggerò al mio Dio, finché vivrò.
Grato gli sia il mio canto;
io gioirò nel Signore.
(Sal 104, 31-33)
E’ in una simile prospettiva che si riscopre il vero volto di Dio Padre come di un Dio che ama le sue creature e le ama con infinito amore, come ama con infinito affetto ognuno di noi. Il Dio della rivelazione biblico-cristiana, infatti, non è un Dio che incute paura, pur essendo un Dio esigente e giusto, ma un Dio che rispetta e predilige quanto ha creato, come ci ricorda in termini estremamente espressivi e toccanti il libro della Sapienza:
« Prevalere con forza, o Signore, ti è sempre possibile.
Chi potrebbe opporsi al potere del tuo braccio?
Tutto il mondo è davanti a te come un granello
di polvere sulla bilancia,
come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra.
Eppure tu hai compassione di tutti, perché tutto puoi.
Non guardi al peccato degli uomini, purché si pentano,
perché tu ami tutte le cose esistente
nulla disprezzi di quanto hai creato;
se non l’avessi amate neppure l’avresti create.
E come potrebbe sussistere una cosa se tu non la volessi
O come si conserverebbe, se tu non l’avessi
chiamata all’esistenza
Ma Tu risparmi tutte le cose, perché tutte le cose sono tue,
Signore, amante della vita » (Sap 11,21-26).
« Signore, amante della vita » . Dio è definito con questa qualifica: una delle più straordinarie qualifiche che la rivelazione biblica ci offra; essa ci invita ad essere – a nostra volta – uomini e donne, credenti, « amanti della vita »: amanti della vita umana, fin dal suo sbocciare nel grembo della madre o nel crepuscolo dell’esistenza, amanti della vita in tutte le sue forme nelle quali si manifesta all’interno della mirabile sinfonia dell’universo. Il cristiano è un « amante della vita » sul modello del Dio a cui crede: amante della vita umana, perché la persona umana, fatta ad immagine e somiglianza di Dio, è il centro del creato, dono massimo di Dio all’umanità, come una prima partecipazione al suo essere.
Lo afferma, con una breve ma densa espressione, il santo Padre Giovanni Paolo II nell’enciclica « Evangelium Vitae »: « La vita che Dio offre all’uomo è un dono con cui Dio partecipa qualcosa di sé alla sua creatura » (EV 34). Per questo motivo, la Chiesa non può accettare che la vita sia ridotta ad un oggetto da manipolare o addirittura da eliminare in base a criteri umani o di arbitrio soggettivo, come avviene nell’aborto o nell’eutanasia. Solo Dio Padre è padrone della vita; l’uomo ne è solo un amministratore, e lo deve essere in modo saggio e fedele. Allo stesso modo, la Chiesa – collegandosi alla fede biblica – proclama il valore inalienabile del creato come di un bene che Dio dona all’uomo perché lo « coltivi » e lo « custodisca » (Gen 2,15), non perché lo abbandoni o lo distrugga. E’ tale è il compito che Dio affida ad ogni uomo, come ricorda ancora Giovanni Paolo II: « Difendere e promuovere, venerare e amare la vita è un compito che Dio affida ad ogni uomo, chiamandolo come sua palpitante immagine, a partecipare alla signoria che Egli ha sul mondo » (EV 42). Più si ama Dio più si ama – in senso vero – le creature del mondo, a partire dal suo vertice, la persona umana, uomo e donna, coronamento e vertice di tutte le meraviglie del creato. L’amore per il creato, comincia infatti con l’amore per la vita umana. Chi non rispetta la vita umana, la vita delle persone, non può dire di amare il creato o farsi paladino di chissà quale ecologia. Solo alla luce di Dio Padre e del suo amore si può amare il creato nella sua vera valenza simbolica, senza incorrere nel pericolo di panteismi o di idolatrie antiche o recenti. Non è a questa metodologia che rimandano le parole di Gesù sui gigli del campo e gli uccelli del cielo?
« Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non ammassano nei granai; eppure il Padre vostro li nutre…Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano; eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro » (Mt 6,26-29).
Lo sguardo di Gesù si posa sulle bellezze del creato, sui gigli del campo o sugli uccelli del cielo, con immenso stupore e amore, ma non per fermarsi a tali bellezze, ma per risalire attraverso di esse al Padre del cielo che si prende cura di tutti noi e ama come i figli, al punto che non ha alcun senso lasciarsi prendere dalla paura, la quale è piuttosto un indice di mancanza di fede. Il riferimento alle realtà create, il volgere lo sguardo ad esse, diviene un motivo di fiducia, di affidamento totale alla divina provvidenza. l’universo una via, una scala per andare Dio e riconoscere la sua infinita potenza e bontà.
La fede si presenta allora a noi come un aprirsi fiducioso al mondo e rimanda alla capacità di cogliere il creato in quella dimensione più alta che è data solo dalla consapevolezza che se la vita ci è donata da Dio, il nostro compito è di farne dono a Lui e agli altri, con generosità, altruismo e gratuità, e di ricondurre tutto il creato sotto la signoria del Signore Gesù, Redentore dell’uomo e del mondo. Come « amanti della vita », i cristiani sono i cantori del mondo nuovo inaugurato dal Signore Risorto, nella consapevolezza che solo in lui la creazione ritrova la sua bellezza e la sua armonia. Per questo il loro amore per la vita e il creato si coniuga in modo inseparabile con il loro amore per il Signore Gesù e la sua grazia. Solo in Gesù infatti risplende la primavera del mondo, in attesa della definitiva liberazione della creazione, come preannuncia Paolo: « La creazione intera sarà liberata dalla corruzione per aver parte alla libertà della gloria dei figli di Dio » (Rm 8,21).
Anno 2000 n. 16

Publié dans:MEDITAZIONI |on 21 mars, 2011 |Pas de commentaires »

buona notte

buona notte dans immagini sacre betonica_officinalis_21d3

betonica officinalis

http://www.floralimages.co.uk/page.php?taxon=betonica_officinalis,1

Publié dans:immagini sacre |on 21 mars, 2011 |Pas de commentaires »

Omelia per il 21 marzo 2011

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/17420.html

Omelia (01-03-2010)

Monaci Benedettini Silvestrini

Misericordiosi come il Padre

Nella grande veglia pasquale del Sabato santo il diacono o lo stesso celebrante, nel preconio, canterà: « O felice colpa, che meritò di avere un tanto nobile e grande redentore! ». In queste parole troviamo la sintesi della nostra storia. Ci ricordano la nostra colpa, quella originale e quelle successive, con cui ci siamo allontanati da Dio. Ci ricordano soprattutto il suo intervento misericordioso, che culmina con la venuta di Cristo e la sua immolazione sulla croce per tutti noi. La misericordia è un dono gratuito, immeritato, che sgorga soltanto ed unicamente dall’amore infinito del Signore, un amore che non si arresta dinanzi al peccato, anzi, assume una intensità inattesa e insperata, proprio quando l’amore è offeso e ripudiato. Senza l’esperienza del peccato non avremmo mai potuto scoprire a fondo e tanto meno sperimentare, l’amore che perdona gratuitamente. Per questo, rasentando l’assurdo, osiamo dire «felice colpa!». Sulla scia di questa esperienza e di questa memoria, oggi ci sentiamo ripetere da Gesù: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro». Non possiamo impunemente essere fruitori di perdono da parte di Dio e poi negarlo ai nostri fratelli. Suscita sdegno in noi il comportamento di quel servo, di cui parla il vangelo, a cui viene condonato un grosso debito e che poi afferra per il collo un suo conservo, che gli doveva solo pochi spiccioli. Noi rischiamo lo stesso comportamento quando, perdonati da Dio per i nostri debiti, non li rimettiamo ai nostri debitori. Gesù ci mette in guardia dai pericoli che insorgono spontaneamente in noi come pretesti per negare il perdono al nostro prossimo: sono il giudizio e la condanna. Mettiamo in atto soltanto la nostra povera logica e trasformiamo il perdono cristiano in codice penale. A quel punto la misura dell’amore diventa minuscola e volontariamente ci priviamo della misericordia divina: «Perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio». La grettezza dello spirito è capace di distruggere l’amore.

Trasfigurazione del Signore (Vangelo di domani)

Trasfigurazione del Signore (Vangelo di domani) dans immagini sacre

http://www.santiebeati.it/

Publié dans:immagini sacre |on 19 mars, 2011 |Pas de commentaires »
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