Archive pour mars, 2011

RISCOPERTA, RIPRISTINO E SVILUPPI DELLA PREGHIERA UNIVERSALE (Matias Augé)

dal sito:

http://www.rivistaliturgica.it/upload/2010/articolo6_893.asp

RISCOPERTA, RIPRISTINO E SVILUPPI DELLA PREGHIERA UNIVERSALE
 
Matias Augé

Scopo di queste pagine è illustrare come si è arrivati alla riscoperta dell’antica «preghiera dei fedeli»[1], chiamata anche preghiera «comune» o meglio ancora «universale», il suo recente ripristino nella liturgia romana e gli ulteriori sviluppi che essa ha conosciuto nei diversi documenti della Chiesa.

1. La riscoperta della «preghiera universale»

C’è un certo consenso tra gli autori per quanto riguarda l’esistenza nella messa romana dei primi sei secoli di una preghiera di supplica per intenzioni varie, collocata dopo la proclamazione del vangelo (e l’omelia) e prima dell’offertorio o preparazione dei doni. Questa preghiera sarebbe scomparsa a metà del secolo VI. Gli studiosi però non coincidono nel modo di spiegare le vicissitudini storiche di questo importante elemento eucologico.
Il problema della natura, struttura e funzione della preghiera universale nell’antica liturgia romana è stato discusso nel corso del secolo XX. Se ne sono occupati diversi studiosi[2]. Ci soffermiamo brevemente su due teorie che hanno meritato un’attenzione particolare, quella di B. Capelle[3] e quella di P. De Clerck[4].
Nella ricerca storica di B. Capelle, il punto di partenza è l’Apologia I di san Giustino, dell’anno 150 circa: la preghiera dei fedeli si fa dopo il vangelo e l’omelia, prima dell’offertorio; si prega «sia per noi stessi, sia per colui che sta per essere illuminato, sia per tutti gli altri, ovunque siano, al fine di essere degni di conoscere la verità, di meritare di essere riconosciuti nei fatti buoni cittadini e custodi dei comandamenti, e di essere ammessi all’eterna salvezza»[5]. In seguito abbiamo la testimonianza della Tradizione apostolica, n. 21 e di altri documenti nel corso dei secoli IV e V, fino a papa Felice III (483-492). Il suo successore, papa Gelasio I (492-496), avrebbe soppresso la preghiera dei fedeli dopo il vangelo, introducendo al suo posto una litania che si ispirava ai modelli greci, collocata però all’inizio della messa e costituita dalla supplica Kyrie eleison cantata dopo ogni invocazione; si tratta della cosiddetta Deprecatio Gelasii. È stato notato che i testi della Deprecatio lasciano più spazio alla menzione delle situazioni umane e delle disposizioni personali degli oranti. Finalmente, Gregorio Magno (590-604) avrebbe eliminato le varie intenzioni e lasciato solo il ritornello Kyrie eleison, più Christe eleison, come semplice acclamazione. L’adozione della Deprecatio Gelasii potrebbe spiegare la presenza, in alcuni formulari di messe dei più antichi Sacramentari (la raccolta di Verona e il Gelasiano antico), di una seconda orazione prima della preghiera sulle offerte; poteva infatti trattarsi di un’oratio post precem, preghiera sacerdotale che concludeva la Deprecatio.
Capelle nota, inoltre, che la preghiera dei fedeli non era un rito specificamente romano, ma lo si trovava dappertutto, in Occidente e in Oriente. Il parallelismo più impressionante, secondo lo studioso, è la preghiera dei fedeli dei libri II e VIII delle Costituzioni apostoliche, dove troviamo l’articolazione: pro… oremus… ut, che ricorda la struttura delle Orationes sollemnes del venerdì santo della liturgia romana, unica testimonianza della preghiera dei fedeli che sarebbe rimasta nel libri romani.
Secondo De Clerck, che mette in discussione alcuni elementi della tesi di Capelle, nella liturgia romana esisteva certamente una preghiera, che egli chiama «universale», tra il vangelo e l’offertorio, rimasta fino al secolo VI, quando sarebbe sparita per la concorrenza della litania processionale che precedeva la messa. Il Kyrie, sorto però come pezzo autonomo, sarebbe divenuto l’acclamazione finale aggiuntiva della litania. Nei giorni nei quali non si celebrava la litania, tale acclamazione avrebbe conservato la sua naturale autonomia; scomparsa definitivamente la litania, il Kyrie avrebbe ricuperato stabilmente la sua indipendenza.
Sia la teoria di B. Capelle che quella di P. De Clerck, di cui abbiamo dato una brevissima sintesi, hanno dei punti deboli messi in rilievo da diversi autori e ripresi, recentemente, da V. Raffa, secondo cui la notizia sulla preghiera dei fedeli trovata nelle Apologie di Giustino e meno chiaramente nella Tradizione apostolica, ha una sua propria spiegazione. Al tempo di Giustino non esisteva ancora a Roma una preghiera eucaristica stabilizzata, capace di albergare anche le intercessioni. Il testo della Tradizione apostolica, a parte che ormai non è accettata da tutti la sua rappresentatività della tradizione romana, menziona una preghiera dei fedeli a proposito di una celebrazione che non si sa fino a che punto rifletta la prima parte della messa. Delle altre testimonianze citate non si può escludere che si riferiscano alle intercessioni del canone della messa[6]. Da parte sua, però, A. Nocent e altri autori affermano che la preghiera universale o dei fedeli e le intercessioni anaforiche sono due realtà molto differenti: la preghiera universale propone (enuncia) delle domande, mentre le intercessioni elencano le intenzioni per le quali si offre il sacrifico eucaristico. Le due preghiere quindi hanno potuto coesistere senza porre dei problemi particolari[7].
Per quanto riguarda la Deprecatio Gelasii, K. Gamber, che ne ha pubblicato i testi, A. Chavasse e altri hanno provato che essa non aveva come risposta il Kyrie, ma: Dicamus omnes: Domine exaudi et miserere, o anche: Praesta Domine praesta[8]. Ci sono altri elementi nella storia della preghiera universale sui quali gli autori divergono. Bastano però questi pochi segnalati per farsi carico della problematica.
Le prime manifestazioni in favore della restaurazione o ripristino della preghiera universale sono degli anni ’50 del secolo scorso[9], però è attorno al 1960 che gli studi di J.-B. Molin fanno delle proposte concrete al riguardo[10]. Le proposte del Molin poggiano sulla sopravvivenza della preghiera dei fedeli nelle cosiddette «prières du prône» medioevali. Agli inizi del secolo X, troviamo un invito rivolto al popolo, dopo il sermone delle domeniche e feste, a pregare per diverse intenzioni. Questo costume si è diffuso nel corso del Medioevo; lo troviamo attestato in parecchie diocesi di Francia, Inghilterra, Germania e anche d’Italia. Nei paesi di lingua francese, le suddette preghiere si chiamavano appunto «prières du prône» (prône: cancellata che separava il coro dalla nave). V. Raffa afferma però che nessuna prova esiste sul fatto che queste preghiere del sermone siano, almeno nell’ambito della messa, la continuazione presbiterale della preghiera universale antica della liturgia papale[11].
Come abbiamo visto, le opinioni degli studiosi sull’origine e gli sviluppi della preghiera dei fedeli non sempre combaciano. In ogni modo, c’è un certo consenso per quanto riguarda l’esistenza nella messa romana dei primi sei secoli di una preghiera per intenzioni varie. Il Concilio Vaticano II ha raccolto il desiderio espresso a più riprese da diversi studiosi ripristinando l’antica preghiera dei fedeli o preghiera universale. In un lungo e documentato studio, F. Dell’Oro afferma che in realtà il contesto nel quale è stato realizzato il ripristino di questa preghiera è fondamentalmente quello caratterizzato dallo sviluppo dell’Ordo missae romano in area franco-germanica e che pertanto corrisponde alla seconda fase dello sviluppo della preghiera dei fedeli, cioè quella che va dal secolo IX/X in poi[12].

2. Il ripristino della «preghiera universale»

La Costituzione conciliare sulla liturgia così determina:

«Sia ripristinata dopo il vangelo e l’omelia, specialmente la domenica e le feste di precetto, la “preghiera comune” o “dei fedeli”, in modo che, con la partecipazione del popolo, si facciano preghiere per la santa Chiesa, per coloro che ci governano, per coloro che si trovano in varie necessità, per tutti gli uomini e per la salvezza di tutto il mondo» (SC 53).

La natura di questa orazione la si ricava dalla tradizione liturgica ed è fondata nel precetto paolino, a cui il testo conciliare rimanda:

«Raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possano condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio» (1Tm 2,1-2).

Nelle successive redazioni, che furono oggetto dello studio dei padri conciliari fino alla promulgazione del testo di SC 53 (nelle due prime redazioni, n. 40), ci sono state alcune varianti significative. Nelle due prime redazione si prescriveva questa preghiera «saltem diebus dominicis et festis de praecepto»; nelle due ultime redazioni, invece, si dice: «praesertim diebus dominicis e festis de praecepto». Non si esclude, quindi, che la nostra preghiera possa essere recitata in ogni celebrazione con la partecipazione del popolo. Le altre varianti riguardano una migliore e più ampia esplicitazione, nelle ultime due redazioni, del contenuto di questa preghiera[13].
A pochi giorni di distanza dalla creazione del Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, è stato redatto un abbozzo di riforma generale della liturgia, che si ritrova sostanzialmente nella stesura definitiva del «Piano generale per la riforma liturgica», un fascicolo presentato a Paolo VI il 15 marzo 1964. Per quanto riguarda il Messale, vi troviamo la «Preghiera comune o dei fedeli». Questo era il titolo iniziale; poi, a evitare ambiguità (ogni preghiera liturgica «comune» è «dei fedeli»), fu cambiato in «universale», in riferimento alla natura di questa preghiera[14]. Notiamo però che, come vedremo più avanti, nei documenti posteriori la terminologia ha continuato a essere diversificata: preghiera comune, universale o dei fedeli[15].
Nove mesi dopo la promulgazione di SC, l’Istruzione della Sacra Congregazione dei Riti Inter Oecumenici (26.09.1964), preparata per incarico di Paolo VI dal Consilium, contiene, al n. 56, alcune norme pratiche e provvisorie per l’applicazione di SC 53. Tre anni dopo, l’Istruzione Eucharisticum Mysterium (25.05.1967) della Sacra Congregazione dei Riti e del Consilium stabilisce, al n. 28, che nelle messe domenicali e festive anticipate alla sera del giorno precedente si celebri la messa indicata nel calendario per la domenica o per il giorno festivo, «senza affatto omettere l’omelia e l’orazione dei fedeli».
Il Consilium pubblicò alcune norme corredate di modelli per la preparazione della preghiera universale. Stampate prima «pro manuscripto», il 13 gennaio 1965, nel fascicolo: De oratione communi seu fidelium. Eius natura, momentum ac structura. Criteria atque specimina ad experimentum Coetibus territorialibus Episcoporum proposita, di pp. 32; in seguito nel volume: De oratione communi seu fidelium. Natura, momentum ac structura. Criteria atque specimina Coetibus territorialibus Episcoporum proposita, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1966, pp. 102. Quest’ultima edizione si distingue da quella «pro manuscripto» soltanto per i 54 schemi disposti secondi i tempi liturgici. Scopo del sussidio era di educare le assemblee eucaristiche a questa nuova forma di preghiera introdotta nella liturgia della messa[16].
Da segnalare ancora che nel sussidio: Cantus, qui in Missali Romano desiderantur, iuxta instructionem ad exsecutionem Constitutionis de sacra liturgia recte ordinandam et iuxta ritum concelebrationis, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1965, pubblicato dalla Sacra Congregazione dei Riti e dal Consilium, ed entrato in vigore il 7 marzo 1965, sono proposti alcuni toni per il canto della preghiera dei fedeli[17].
Aggiungiamo ancora che il gruppo di esperti del Consilium, incaricato della revisione delle litanie dei santi, notava che l’ultima parte delle litanie dei santi corrispondeva alla preghiera universale. Si proponeva, quindi, che nelle messe in cui si dicono le litanie, l’ultima parte delle stesse tenga il posto della preghiera universale, presentando intenzioni che riguardino sia il bene della Chiesa e del mondo, sia le persone e le cose per le quali si compie il rito, cioè i battezzati nella veglia pasquale, gli ordinandi, la chiesa o l’altare che vengono dedicati, ecc.[18].
Nel primo schema della cosiddetta «messa normativa», si diceva che la preghiera dei fedeli era un elemento strutturale e stabile della celebrazione, da non omettersi «in nessuna celebrazione, neppure nei giorni feriali e, in forma opportunamente adattata, neppure nelle messe private»[19].
Come si sa, la messa normativa è stata presentata e celebrata «ad experimentum» nel corso del Sinodo dei vescovi del 1967. Dopo questa dimostrazione, sono stati rivolti ai padri sinodali alcuni quesiti su questa messa. Nelle risposte dei padri, troviamo la seguente osservazione un po’ particolare sull’argomento di cui ci occupiamo:

«2. Osservazioni sulla liturgia della parola:
e) La preghiera universale non sembra necessaria in tutte le messe; si potrebbe fare dopo la comunione»[20].

La proposta non ha avuto un seguito.
3. La «preghiera universale» nelle diverse edizioni del Missale Romanum promulgato da Paolo VI

Con la Costituzione apostolica Missale Romanum di Paolo VI (03.04.1969) viene promulgato il nuovo Messale, introdotto dall’IGMR, dove, sotto il nuovo titolo «La preghiera universale» (Oratio universalis), i nn. 45-47 ne determinano natura, struttura e caratteristiche. Anzitutto la natura teologica:
«Nella preghiera universale, o preghiera dei fedeli, il popolo, esercitando la sua funzione sacerdotale, prega per tutti gli uomini». Si afferma poi che «è conveniente che nelle messe, con partecipazione di popolo, vi sia normalmente questa preghiera». In seguito, viene indicata la successione delle intenzioni: per le necessità della Chiesa; per i governanti e la salvezza di tutto il mondo; per quelli che si trovano in difficoltà; per la comunità locale. Le tre prime intenzioni le abbiamo trovate indicate in SC 53; ad esse si associa ora l’intenzione per la comunità locale con l’aggiunta che, in determinate celebrazioni (confermazione, matrimonio, esequie…), la successione delle intenzioni può venire adattata alla circostanza[21]. Finalmente, riprendendo e completando quanto aveva deciso Inter Oecumenici, viene determinata la struttura celebrativa: il sacerdote che presiede la celebrazione guida la preghiera, invitando, con una breve e adeguata monizione, i fedeli a pregare, e la conclude con un’apposita orazione. Le varie intenzioni sono proposte da un diacono o da un cantore o da qualche altra persona. L’assemblea esprime la sua preghiera con un’invocazione comune o pure pregando in silenzio.
In Appendice, il Missale contiene alcuni schemi o formulari (specimina) per la preghiera universale: due formulari generali, otto per i diversi tempi dell’anno liturgico (dall’Avvento al tempo ordinario), e uno per le messe dei defunti.
Nella seconda edizione tipica del Missale Romanum, apparsa il 26 marzo 1975, i numeri dell’IGMR che a noi interessano non hanno subito dei cambiamenti. Non così nella terza edizione tipica del Missale Romanum del 2002/2008, in cui l’Institutio è stata notevolmente modificata: i nn. 69-71 dell’IGMR, corrispondenti ai nn. 45-47 delle due edizioni anteriori, sono stati arricchiti con alcuni significativi elementi. Sul piano teologico, si aggiunge che con questa preghiera, «il popolo risponde in certo modo (quodammodo respondet) alla parola di Dio accolta con fede». Sul contenuto delle intenzioni, si dice che «siano sobrie, formulate con una sapiente libertà e con poche parole, ed esprimano le intenzioni di tutta la comunità». Per quanto concerne la struttura celebrativa, si precisa che il sacerdote guida la preghiera «dalla sede» e che le intenzioni si leggono «dall’ambone o da altro luogo conveniente». Altra novità della terza edizione del Missale è che nell’Appendice I si offrono alcuni toni gregoriani da adoperare nel canto della preghiera dei fedeli, particolarmente per l’invito e per l’acclamazione.
Notiamo che l’OLM del 1981, nelle premesse, aveva già interpretato la preghiera universale come una sorta di «risposta» alla parola di Dio proclamata: «Nella preghiera universale l’assemblea dei fedeli, alla luce della parola di Dio, alla quale in un certo modo risponde (quodammodo respondet), prega…» (OLM 30). L’IGMR della terza edizione tipica del Missale non ha fatto altro che riproporre quanto scritto nel suddetto OLM.
Alla fine di questo percorso, la novità più significativa è che per la prima volta i documenti ufficiali, l’OLM del 1981 e l’ultima edizione dell’IGMR sopra citati, fanno riferimento alla preghiera universale interpretata come «risposta» alla parola di Dio proclamata. Negli studi del settore e nella prassi pastorale, tale tendenza era emersa da tempo. Già nel 1964, A. Nocent, dopo aver ricordato lo svolgimento dell’azione liturgica descritto da Giustino (ascolto della parola di Dio, risposta dei partecipanti, omelia, preghiera comune dell’assemblea), affermava che la preghiera comune è «il frutto e l’esito dell’attività dinamica della parola di Dio proclamata e accolta. Essa è un zampillio di vita, un effetto dell’attuale presenza del Signore che oggi ha parlato e a cui si risponde con la preghiera»[22]. Lo stesso autore, vent’anni circa dopo, indicherà come prima caratteristica della preghiera universale il «mantenere il legame con le letture»[23]. L’opinione del Nocent è stata accolta da altri autori e ha avuto un certo esito nella prassi pastorale nonché, come abbiamo detto sopra, nei documenti ufficiali.
Nel 1983, P. De Clerck, coerentemente con quanto aveva affermato nei suoi studi precedenti, prese una posizione critica al riguardo della tendenza a concepire la preghiera universale come «risposta» alla Parola proclamata[24]. Secondo lo studioso, il problema sta nel sapere se la preghiera universale è la chiusura o meno della liturgia della Parola. Le testimonianze di Giustino e della Tradizione apostolica la presentano, piuttosto, come inizio della liturgia eucaristica. Secondo questi documenti, dopo il lavacro battesimale, i neofiti sono condotti «nel luogo in cui ci riuniamo per pregare in comune con fervore» (Giustino) e sono ammessi a pregare «insieme con i fedeli» (Tradizione apostolica). Il De Clerck rileva che questo è il significato originario della «preghiera dei fedeli», almeno in Oriente: quando i catecumeni sono stati congedati, i fedeli (che qui significa: coloro che hanno ricevuto il battesimo) rivolgono al Signore la loro preghiera. Se la distinzione tra la liturgia della Parola e la liturgia eucaristica è chiarificatrice, e quindi opportuna, non serve però farne due blocchi distinti. In questo modo si renderebbe più difficile il movimento d’insieme che deve caratterizzare la celebrazione eucaristica.
Più recentemente, V. Raffa, pur considerando la preghiera universale come conclusione naturale della liturgia della Parola, afferma che può essere considerata anche come «cerniera» fra le due parti della messa. Infatti, la parola di Dio ha sempre un carattere universalistico e quindi orienta a interessarsi della situazione dei bisogni dell’intera famiglia umana. L’Eucaristia, poi, è il sacrificio offerto dalla Chiesa per tutti gli uomini[25].

4. Conclusioni

Ci siamo limitati a illustrare in modo sintetico le origini, il ripristino e gli ulteriori sviluppi della preghiera universale o dei fedeli della messa. Abbiamo visto che le origini e primi sviluppi storici della nostra preghiera sono interpretati in modi alquanto diversi dagli autori. Il suo ripristino, auspicato da molti, è stato deciso dal Vaticano II. A. Bugnini ha scritto al riguardo:

«L’orazione comune è la “perla preziosa” che la restaurazione liturgica restituisce al “santo popolo di Dio”, secondo formulari già in uso, o stabiliti dalla competente autorità»[26].

Dall’insieme della documentazione liturgica si deduce una certa evoluzione terminologica che testimonia il desiderio di far sì che anche i termini contribuiscano a individuare meglio questo particolare tipo di preghiera. Senza arrivare a una terminologia unitaria, negli ultimi documenti – noi abbiamo citato solo i principali – prevale l’espressione «preghiera universale», da sola o anche abbinata a quella di «preghiera dei fedeli»[27].
Per quanto concerne la natura teologica della preghiera universale, bisogna attendere la pubblicazione del Missale Romanum del 1970 con l’Institutio che lo precede. Nelle sue diverse edizioni, l’IGMR, come anche le premesse all’OLM, hanno messo in rilievo due caratteristiche principali della preghiera universale: si tratta di una preghiera in cui il popolo esercita la sua funzione sacerdotale e, inoltre, risponde in certo modo alla parola di Dio accolta con fede. La preghiera universale è preghiera del popolo sacerdotale, cioè riservata a coloro che hanno ricevuto il Battesimo e l’unzione dello Spirito Santo e fanno parte perciò del popolo che in Cristo ha accesso al Padre e partecipa della sua mediazione. L’esercizio di questa funzione sacerdotale ha una manifestazione concreta, non unica naturalmente, in questo particolare momento della celebrazione. In una simile prospettiva acquisterebbe tutto il suo valore e significato la terminologia «preghiera dei fedeli»[28].
La preghiera universale è supplica a Dio, non quindi adorazione, rendimento di grazie, e meno ancora predica o catechesi. In essa si chiedono a Dio beni soprattutto universali, pur non essendo esclusa l’intercessione per l’assemblea celebrante. Perciò giustamente F. Dell’Oro afferma che una delle condizioni necessarie alla maturazione armoniosa della preghiera universale è oggi lo studio teologico della preghiera di domanda[29].
A. Catella, nel contesto di alcune linee storiche concernenti il sorgere e l’evolversi della celebrazione delle tempora nella liturgia romana (non escluso il Vaticano II), ha presentato la proposta dell’Orazionale edizione CEI confrontandola con la tradizione e facendo di questa innovazione postconciliare una lettura «moderna» alla quale dovrebbero essere opportunamente iniziati gli utenti dell’«Orazionale per la preghiera dei fedeli»[30].
Nei diversi Ordines, pubblicati dopo il Vaticano II, la preghiera dei fedeli non è un elemento eucologico esclusivo della messa, ma è prevista anche nella celebrazione dei sacramenti, nel rito della professione religiosa, nel rito delle esequie, nella celebrazione della Liturgia delle Ore, ecc.
Per quanto riguarda la Liturgia delle Ore, De Clerck, dopo aver notato che la storia esaustiva sulla tipologia della preghiera universale non può limitarsi solo alla messa, afferma che dovrebbe avere uguale attenzione per le preghiere litaniche dell’Ufficio divino. Lo studioso aggiunge che si tratta di una questione abbastanza «embrouillé»[31]. Le attuali preci delle lodi e dei vespri sono formulate in modo diverso della preghiera universale della messa: quelle delle lodi sono principalmente dirette a dedicare a Dio la giornata che inizia, invocando (da qui il nome di «invocazioni») il suo aiuto e la sua benedizione sulle occupazioni che la riempiranno e sulle persone che si incontreranno. Le preci dei vespri sono soprattutto «intercessioni» per le necessità di tutto il popolo di Dio; l’ultima intercessione è sempre per i defunti[32].
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[1] Le sigle più frequentemente ricorrenti sono: IGMR = Institutio generalis Missalis Romani (diverse edizioni); OLM = Ordo lectionum Missae, Editio typica altera (21.01.1981); SC = Sacrosanctum Concilium (4.12.1963); CEI = Conferenza episcopale italiana.
[2] Una bibliografia abbondante e una sintesi delle diverse opinioni si trova in V. Raffa, Liturgia eucaristica. Mistagogia della messa: dalla storia e dalla teologia alla pastorale pratica, CLV-Ed. Liturgiche, Roma 2003, pp. 348-374 (nuova edizione ampiamente riveduta e aggiornata secondo l’editio typica tertia del Messale Romano).
[3] Cf. B. Capelle, Le Kyrie de la messe et le pape Gélase, in «Revue bénédictine» 46 (1934) 126-144; Id., Le pape Gélase et la messe romaine, in «Revue d’histoire ecclésiastique» 35 (1939) 22-34; Id., L’œuvre liturgique de S. Gélase, in «Journal of Theological Studies» 52 (1951) 129-144; Id., Innocent Ier et le canon de la messe, in «Recherches de Théologie ancienne et médiévale» 19 (1952) 5-16; Id., L’intercession dans la messe romaine, in «Revue bénédictine» 65 (1955) 181-191; tutti questi studi si possono trovare riuniti in Id., Travaux liturgiques de doctrine et d’histoire, vol. 2, Abbaye di Mont César, Louvain 1962.
[4] Cf. P. De Clerck, La «prière universelle» dans les liturgies anciennes. Témoignages patristiques et textes liturgiques, Aschendorf, Münster Westf. 1977. Un’ampia sintesi di questa importante opera si trova in F. Dell’Oro, La «preghiera universale» nelle liturgie latine antiche, in «Rivista Liturgica» 67 (1980) 683-726. Si veda anche P. De Clerck, Prière universelle et appropriation de la Parole, in «La Maison-Dieu» 153 (1983) 113-131; Id., Les prières d’intercession. Les rapports entre Orient et Occident, in «La Maison-Dieu» 183/184 (1990) 171-189.
[5] Apologia I, 65,1, in Giustino, Apologie, a cura di G. Girgenti, Rusconi, Milano 1995, p. 167, cf. anche 67,5.
[6] Cf. Raffa, Liturgia eucaristica, cit., pp. 352-368.
[7] Cf. A. Nocent, La prière commune des fidèles, in «Nouvelle Revue Théologique» 86 (1964) 948-964 (qui p. 963).
[8] Cf. A. Chavasse, A Rome, au tournant du Ve siècle, additions et remaniements dans l’Ordinaire de la Messe, in «Ecclesia Orans» 5 (1988) 25-44.
[9] Cf. B. Opfermann, Um die Erneuerung des Fürbittengebetes in der Messfeier, in «Bibel und Liturgie» 18 (1951) 243-248; P.-M. Gy, Signification pastorale des prières du prône, in «La Maison-Dieu» 30 (1952) 125-136.
[10] Cf. J.-B. Molin, L’«oratio fidelium», ses survivances, in «Ephemerides Liturgicae» 73 (1959) 310-317; Id., Comment redonner pleine valeur aux prières du prône, in «Paroisse et liturgie» 42 (1960) 285-300; Id., Enquêtes historiques, in J.-B. Molin – T. Maertens , Pour un renouveau des prières du prônes, Apostolat liturgique, Bruges 1961, pp. 11-44; Id., Les prières du prône en Italie, in «Ephemerides Liturgicae» 76 (1962) 39-42; Id., L’«oratio communis fidelium» au moyen âge en Occident du X au XV siècle, in Miscellanea liturgica in onore si S.E. il Cardinale Giacomo Lercaro, vol. 2, Desclée, Roma 1967, pp. 313-468.
[11] Cf. Raffa, Liturgia eucaristica, cit., p. 367 in nota.
[12] Cf. F. Dell’Oro, La preghiera dei fedeli: tradizione o innovazione?, in «Rivista Liturgica» 74 (1987) 9-70.
[13] Cf. F. Gil Hellín (ed.), Constitutio de Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium (Concilii Vaticani II Synopsis), LEV, Città del Vaticano 2003, pp. 158-159.
[14] Cf. A. Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975). Nuova edizione riveduta e arricchita di note e di supplementi per una lettura analitica, CLV-Ed. Liturgiche 1997, p. 77.
[15] Raffa preferisce la denominazione «preghiera dei fedeli», più idonea a distinguere questo genere da quello della preghiera presidenziale, la quale potrebbe definirsi, a un titolo più particolare, preghiera universale e comune in quanto viene formulata dal presidente a nome di tutti e della comunità presente. Cf. Raffa, Liturgia eucaristica, cit., pp. 369-370.
[16] Cf. Bugnini, La riforma liturgica, cit., pp. 126 e 253.
[17] Cf. ibid., p. 131.
[18] Cf. ibid., p. 326.
[19] Cf. ibid., p. 341.
[20] Cf. ibid., p. 351.
[21] La problematica che riguarda le messe per gruppi particolari è stata affrontata dal Consilium nel 1968. Tra le proposte vi troviamo la seguente: «c) Preghiera dei fedeli: può essere adattata, ma non manchino mai le intenzioni universali» (Bugnini, La riforma liturgica, cit., p. 427).
[22] Nocent, La prière commune des fidèles, cit., p. 950.
[23] A. Nocent, Storia della celebrazione dell’Eucaristia, in Anàmnesis 3/2, Marietti, Casale M. 1983, p. 222.
[24] Cf. De Clerck, Prière universelle et appropriation, cit., pp. 113-131.
[25] Cf. Raffa, Liturgia eucaristica, cit., pp. 370-371.
[26] Bugnini, La riforma liturgica, cit., pp. 805.
[27] Più documentazione la si può trovare nello studio di M. Sodi, La preghiera universale o dei fedeli nella normativa dei libri liturgici, in «Rivista Liturgica» 74 (1987) 82-102.
[28] Cf. P. Sorci, Significato teologico della preghiera dei fedeli, in «Rivista Liturgica» 74 (1987) 71-81.
[29] Cf. Dell’Oro, La «preghiera universale» nelle liturgie latine, cit., p. 726.
[30] Cf. A. Catella, Preghiera dei fedeli e le Quattro Tempora, in «Rivista Liturgica» 74 (1987) 114-123.
[31] Cf. De Clerck, La «prière universelle» dans les liturgies, cit., p. 269.
[32] V. Raffa, Preghiera dei fedeli – Invocazioni – Intercessioni, in «Rivista Liturgica» 74 (1987) 124-141, dopo una concisa descrizione della natura, importanza e struttura della «preghiera dei fedeli» nella messa e delle «invocazioni» alle lodi e delle «intercessioni» ai vespri nella Liturgia delle Ore, sottolinea gli elementi che sono in comune e quelli che sono propri a ciascuno, sia nel contesto del libro liturgico in cui sono inseriti e sia – anzi principalmente – nella stessa azione liturgica. Conclude con alcune «osservazioni pratiche» degne di attenzione e di intelligente valutazione.

La Buona Pastora

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SANT’AGOSTINO: DISCORSO 299/B – SUL NATALE DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

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http://www.augustinus.it/italiano/discorsi/discorso_420_testo.htm

SANT’AGOSTINO

DISCORSO 299/B – SUL NATALE DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

Pietro il primo, Paolo l’ultimo degli Apostoli. Pietro rinnegò, poi seguì il Signore accettando la passione. Si legge Io 21, 15 ss.

1. La passione dei beati Apostoli ha reso sacro per noi questo giorno: disprezzando il mondo, hanno meritato una tale gloria in tutto il mondo. Pietro il primo degli Apostoli, Paolo l’ultimo degli Apostoli. Cristo, il Primo e l’ultimo, condusse ad un unico giorno di passione il primo e l’ultimo. Per poter ricordare quel che ho detto, tenete presente l’alfa e l’omega. Il Signore stesso dice apertamente nell’Apocalisse: Io sono l’Alfa e l’Omega 1; il Primo: nessuno prima di lui; l’Ultimo: nessuno dopo di lui. È colui che precede tutte le cose, colui che è il termine di tutte. Vuoi avere una visione contemplativa del Primo? Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui 2. Ti volgi a considerare l’Ultimo? Il termine della legge è Cristo per la giustizia di chiunque crede 3. Per vivere nel tempo, hai avuto lui come creatore; per vivere sempre hai lui come redentore. Consideriamo, carissimi, lo stesso beatissimo Pietro, primo degli Apostoli che dice nella sua epistola: Cristo patì per noi, lasciandoci l’esempio, affinché seguiamo le sue orme 4. Infine, durante la lettura del Vangelo, avete ascoltato: Seguimi 5. Gli rivolse l’invito, naturalmente Cristo a Pietro, il Maestro al discepolo, il Signore al servo, il Medico al risanato, per dirgli: Pietro, mi ami? E, come sapete, non gli disse soltanto « mi ami? » ma aggiunse: più di questi 6. Mi ami più di questi, più di quanto mi amano questi? Pietro non rispose « Ti amo più di quanto ti amano questi », giacché non spettava all’uomo giudicare dei sentimenti altrui, ma dette questa risposta: Signore, tu sai che io ti amo 7. A che cerchi da me quel che hai infuso in me? Tu sai che cosa hai dato: perché vuoi sapere da me se ti amo, dal momento che solo da te ho di amarti? Tu sai che ti amo. E il Signore ripeté la medesima domanda e Pietro dette di nuovo la medesima risposta. La terza volta il Signore interrogò: Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: mi ami? 8 Il Signore voleva conoscere l’amore di Pietro, noi vogliamo capire l’afflizione di Pietro. Che ne pensiamo del dispiacere di Pietro, sentendosi chiedere per tre volte: Mi ami? Quante volte volesse domandare il Signore, perché il servo se ne dovrebbe rattristare? Ma è che, alla terza domanda del Signore, Pietro tornò con la mente alla sua terza negazione. Tu comprendi, beato Pietro, comprendi la tua defezione, a ripensarvi ti affliggi, ma rallegrati dopo il turbamento. L’amore confessi colui che aveva rinnegato il timore. Infine, fate attenzione a lui – che prima aveva rinnegato – diventato amante; anzi, fin da prima amante, ma debole fino allora. Diciamo che Pietro ha negato Cristo e non diciamo perché seguì Cristo nel rischio della passione. Il Medico si riservò la gradualità della cura: prima mostrò Pietro a Pietro, ma in seguito si rivelò in Pietro. Quasi a dirgli: Hai avuto la presunzione di morire per me e non per la fiducia in me, ma in quanto contavi sulle tue forze. Interpellato da una serva, scopristi te stesso: piangesti e ritornasti a me.

Pietro annunziatore di Cristo.

2. Di conseguenza, solo affidandogli le sue pecore, il Signore gli preannunciò la passione che oggi celebriamo. Disse: Quando eri più giovane, ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio, tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi. Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio 9. Così avvenne, Pietro negò, Pietro pianse, Pietro lavò nelle lacrime la sua negazione. Cristo risuscitò, Pietro fu esaminato sull’amore: ricevette le pecore affidategli, non sue, ma di Cristo. Non gli disse infatti: Pasci le tue pecore, ma: pasci le mie pecore: pasci quelle che ho acquistato, perché ho riscattato anche te. Quindi, Cristo Signore si trattenne quaranta giorni con i suoi discepoli; una nube lo sollevò sotto i loro occhi ed egli ascese al cielo. Lo accompagnarono con i loro sguardi mentre ascendeva: si fermarono poi in città, al compiersi di cinquanta giorni ricevettero lo Spirito Santo, ne furono ripieni. In quell’istante appresero le lingue di tutti i popoli, cominciarono ad esprimersi in esse tra lo stupore e l’ammirazione di coloro che avevano ucciso Cristo. Il negatore di un tempo, l’amante qual è ora, solo fra tutti, perché il primo di tutti, si precipitò dai Giudei e intraprese ad annunziare Cristo agli uccisori di Cristo. Sparse in mezzo a loro il seme della fede di Cristo, e dispose a morire per Cristo molti di quelli dai quali aveva temuto di essere ucciso per lui.

Viene cantato il Ps 18.

3. Quando si disse, quando venne predetto che gli Apostoli di Cristo avrebbero parlato nelle lingue di tutte le Genti? I cieli narrano la gloria di Dio: intendi per cieli coloro che recano Dio; e l’opera delle sue mani, cioè la gloria di Dio, annunzia il firmamento 10. Questo sono i cieli. Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia 11. Giorno e notte non si smetta di annunziare Cristo. Rifletti tuttavia che il giorno al giorno ne affidò il messaggio: Cristo ai discepoli, la Luce alle luci. E la notte alla notte ne trasmise notizia: Giuda trasmise ai Giudei dove si trovava Cristo. Cristo venne catturato, Cristo fu ucciso, la morte fu uccisa in Cristo, perché Cristo risuscitò, e ascese al cielo, e inviò lo Spirito Santo promesso e ne furono ripieni, come otri nuovi, di vino nuovo. Aveva detto infatti il Signore: Nessuno mette vino nuovo in otri vecchi 12. E sappiate che questo è stato adempiuto. I Giudei pieni di stupore, e alcuni quasi a scherno, senza sapere quel che affermarono, dissero: Costoro sono ubriachi di mosto 13. Se parlarono lingue che non avevano apprese fu dunque perché lo Spirito Santo ne dette e il dono e l’ispirazione e l’illuminazione. Nel loro ambiente ne avevano appresa una, forse due, invece parlarono che diciamo… tre lingue, quattro, cinque, sei… Perché vai cercando il numero? Non è linguaggio e non sono parole di cui non si oda il suono 14; avete ascoltato ora il Salmo, mentre veniva cantato. Anch’essi furono uccisi ma il loro messaggio è stato scritto. Che fecero quelli che li uccisero? Per tutta la terra si è diffuso il loro annunzio 15. Noi residenti in Africa eravamo lontani di là dove non era linguaggio e non erano parole di cui non si udisse il suono. Lontani da lì eravamo, lontano eravamo a giacere, lontano eravamo in preda al sonno; ma, perché fossimo riscossi dal sopore, per tutta la terra si è diffuso il loro annunzio e ai confini del mondo la loro parola. Svegliati, tu che dormi, destati dai morti e ti illuminerà 16 colui che disse a Pietro: Mi ami? 17 Chi è capace di parlare degnamente di Pietro? È da tanto chi sta parlando di Pietro? Senza offesa, beato Pietro, mi si permetta di tacere appena un poco di te, il cui annuncio mi ha riscaldato. Il mio discorso non può esser solo per te; oggi non fosti solo tu a subire il martirio: senza dubbio sei tu il primo degli Apostoli, ma l’ultimo degli Apostoli ebbe il merito di esserti socio.

Lo zelo di Saulo e lo zelo di Paolo.

4. Si porti avanti a noi anche il beato Paolo, dobbiamo dire qualcosa di lui per un poco; avendo infatti questo senso il nome, volle essere chiamato Paolo, poiché in precedenza si chiamava Saulo. Prima Saulo, poi Paolo; perché prima superbo, poi umile. Ripensate al primo nome ed in esso riconoscete la colpevolezza del persecutore. Venne chiamato Saulo da Saul. Saul, dal quale la denominazione di Saulo, perseguitò il santo David, e nel santo David era prefigurato il Cristo venturo dalla stirpe di David, per mezzo della Vergine Maria. Saulo svolse il ruolo quando perseguitò i cristiani. Era stato un persecutore accanitissimo; quando venne lapidato il beato Stefano, egli stesso conservò le vesti dei lapidatori per trovarsi a lapidare nelle mani di tutti. Dopo il martirio del beatissimo Stefano, i fratelli che si trovavano a Gerusalemme vennero dispersi; e poiché erano delle luci, ardevano dello Spirito di Dio; dovunque si erano recati, comunicavano luce. Allora Saulo, notando che il Vangelo di Cristo si divulgava, fu ripieno di asprissimo zelo: ebbe lettere di presentazione dai sommi sacerdoti e partì, nell’intento di condurre in catene, perché fossero puniti, quanti avesse scoperti testimoni del nome di Cristo; e andava furioso di strage, assetato di sangue. Così, mentre andava, mentre era assetato di sangue cercando quanti poteva catturare e uccidere, proprio così, da persecutore qual era, udì una voce dal cielo. Fratelli miei, che aveva meritato di buono, che non aveva meritato di male? E tuttavia, da una sola voce dal cielo venne atterrato il persecutore e si rialzò il predicatore.

Paolo non viene offeso quando si loda la grazia di Cristo. Si legge 2 Tim 4, 9 ss. I meriti di Paolo: i doni di Dio.

5. Dopo Saulo, eccoti Paolo: ecco, ormai predica, ormai ci fa sapere chi sia stato e chi sia. Io – dice – sono il più piccolo degli Apostoli 18. Se il più piccolo, giustamente Paolo. Rammentate il vocabolo latino: ‘poco’ vuol dire ‘modico’. Certo usiamo dire così: ‘Ti vedrò fra poco’. Di conseguenza, quel Paolo si riconosce il più piccolo, quasi la frangia nella veste del Signore, che toccò la donna inferma. Quella che soffriva perdita di sangue era certamente figura della Chiesa delle Genti, alle quali venne inviato Paolo, e il più piccolo e l’ultimo: infatti la frangia è la minima parte della veste e l’ultima. Paolo riconobbe di essere l’uno e l’altro: si disse il più piccolo e l’ultimo. Egli disse: Io sono il più piccolo degli Apostoli, e disse: Io sono l’ultimo degli Apostoli 19. Non è un’offesa la nostra, egli l’ha detto. E che altro ha detto? Lasciamo che sia lui a parlare perché non sembri che intendiamo recare ingiuria; sebbene non vi sia in alcun modo offesa di Paolo dove si fa valere la grazia di Cristo, tuttavia, fratelli, ascoltiamo lui. Io sono – egli dice – il più piccolo degli Apostoli, io sono chi non è degno di essere chiamato apostolo. Ecco chi era: Io sono chi non è degno di essere chiamato apostolo. Perché? Perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. E com’è che sei apostolo? Ma per grazia di Dio sono quello che sono e la sua grazia in me non fu vana, ma ho faticato più di tutti loro 20. Ti prego, san Paolo, uomini non intelligenti ritengono che sia ancora Saulo a parlare: Ho faticato più di tutti loro, dà l’impressione che sia detto con superbia. Eppure è stato proprio detto; ma che viene dopo? Ma quando si accorse di aver detto qualcosa che lo potesse elevare in superiorità – disse infatti: Ho faticato più di tutti loro – ecco subito: Non io, però, ma la grazia di Dio con me 21. L’umiltà si riconobbe, la debolezza trepidò, la perfetta carità confessò il dono di Dio. Quindi adesso parla, come pieno di grazia, come vaso di elezione, come diventato quel che non eri degno; parla, scrivi a Timoteo e annunzia questo giorno. Quanto a me – dice – presto sarò immolato 22. Ora è stato letto dalla Lettera di Paolo, in questo luogo è stato letto quanto sto dicendo adesso: Quanto a me – dice -presto sarò immolato. È prossima la mia immolazione. In effetti, il martirio dei santi è un sacrificio a Dio. Quanto a me presto sarò immolato. È imminente l’ora della mia liberazione. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede; ora mi resta la corona di giustizia che il Signore, il giusto giudice, mi renderà in quel giorno 23. Retribuirà i meriti colui che dona i meriti. È stato eletto apostolo chi non era degno e non sarà coronato chi è degno? Allora infatti non era degno, quando ricevette la grazia non dovuta, ma gratuita: Non sono degno, disse, di essere chiamato apostolo, ma per grazia di Dio sono quello che sono. Ora, invece, esige il dovuto: Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede; ora mi resta la corona di giustizia, mi è dovuta la corona di giustizia. Che mi renderà, perché tu comprenda che è dovuta. Non disse ‘mi dà’, oppure, ‘mi dona’, ma: Mi renderà il Signore, il giusto giudice, in quel giorno. Perché misericordioso mi ha donato, perché giusto mi renderà. Ho davanti agli occhi, beato Paolo, a quali tuoi meriti è dovuta la corona; ma, guardando indietro, riconosco quel che sei stato; proprio i tuoi meriti sono doni di Dio. Hai detto: ho combattuto la buona battaglia, ma tu pure hai detto: Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo 24. Di conseguenza, hai combattuto la buona battaglia, ma hai riportato vittoria per dono di Cristo. Hai detto: Ho terminato la corsa, ma hai pure detto: Non dipende dalla volontà né dagli sforzi di chi corre, ma da Dio che usa misericordia 25. Hai detto: Ho conservato la fede, ma tu pure hai detto: Ho ottenuto misericordia per meritare fiducia 26. Notiamo allora che sono doni di Dio i tuoi meriti e perciò ci rallegriamo della tua corona. E se sono stato da meno nel fare l’elogio dei beati Apostoli, dei quali celebriamo la solennità, non sono venuto meno, tuttavia, all’attesa della vostra Carità secondo quanto si è degnato concedermi colui che li ha coronati.

buona notte (ehm…mi piacciono i gatti)

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Publié dans:immagini...buona notte...e |on 23 mars, 2011 |Pas de commentaires »

Omelia (23-03-2011): È per coloro per i quali il Padre mio lo ha preparato

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/21857.html

Omelia (23-03-2011)

Movimento Apostolico – rito romano

È per coloro per i quali il Padre mio lo ha preparato

Noi andiamo dietro Gesù, ma per che cosa? Qual è la giusta sequela? Chi può dirsi perfetto discepolo? Ci sono delle regole che possono guidarci in questo nostro andare dietro il Maestro divino? Lungo il corso dei secoli tanti si sono scritte delle regole per sé e per gli altri. Tanti altri hanno cercato e definito l’essenza del vero discepolo. Molti sono stati quelli che hanno sbagliato strada, pensando di camminare con Cristo Signore. Perché tutto questo è avvenuto ed avviene ogni giorno?
Per camminare dietro Cristo Gesù occorre possedere la completa, perfetta, esatta conoscenza della verità della sua Persona e della sua missione. Un solo errore sia nella verità della persona che della missione e subito siamo condotti fuori strada. Camminiamo anche fisicamente con Gesù, ma non spiritualmente, non secondo verità. La nostra è una falsa sequela di Lui. Camminiamo con Lui, ma non seguiamo Lui. Andiamo solo dietro i nostri pensieri, le nostre fantasie o immaginazioni. Ci creiamo nella nostra mente un progetto di vita futura e lo inseguiamo, pensando che Cristo Gesù ci serva proprio per questo: perché noi ci realizziamo umanamente nella storia.
Cristo Gesù va seguito nella sua verità e nella sua missione. La sua verità deve essere la nostra verità come anche la sua missione. Niente che è di Lui deve rimanere solo di Lui, tutto invece deve divenire nostro. Per questo è importante conoscere Lui. Per conoscerlo dobbiamo metterci nell’umiltà di ascoltarlo. Dobbiamo anche usare tutta la nostra intelligenza, sapienza, attenzione per cogliere la sua verità dalle cose che lui fa. Ogni nostro senso deve essere messo a servizio di questa conoscenza perfetta; vista, udito, tatto, olfatto, gusto. Niente che è in noi deve rimanere estraneo a questa conoscenza. Lo richiede la sequela. Lo esige il nostro essere suoi discepoli.
Giacomo e Giovanni non possiedono la verità di Gesù e neanche conoscono la sua missione. Chiedono qualcosa di falso in ordine alla loro stessa sequela. Gli altri si sdegnano contro di loro, non perché avevano chiesto il falso, ma perché anche loro erano sulla stessa linea di falsità e si sentivano in qualche modo defraudati. Li vedevano come due usurpatori. Gesù interviene e rivela loro la sua verità. Loro devono essere discepoli di Uno che è venuto ad essere l’ultimo di tutti e il servo di tutto; di Uno che è venuto non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto.
Vergine Maria, Madre della Redenzione, donaci la verità di Cristo Gesù e del suo Corpo mistico che è la Chiesa. Angeli e Santi di Dio, fateci veri discepoli del Signore.

Our Lady of Silence

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Publié dans:immagini sacre |on 22 mars, 2011 |Pas de commentaires »

L’inno dell’apostolo Paolo alla carità attualizzato da un giornalista

dal sito:

http://www.luigiaccattoli.it/blog/?page_id=1044

L’inno dell’apostolo Paolo alla carità attualizzato da un giornalista

(vaticanista: Luigi Accattoli)

Castelvenere – sabato 7 febbraio 2009

1 Corinti 13, 1-13

1 Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. 2 E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. 3 E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. 4 La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, 5 non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6 non gode dell`ingiustizia, ma si compiace della verità. 7 Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. 8 La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. 9 La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. 10 Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. 11 Quand`ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l`ho abbandonato. 12 Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch`io sono conosciuto. 13 Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!

Non faremo una lettura esegetica: non è affar mio. Faremo una lettura da cristiani comuni. Qui abbiamo il vescovo e il parroco, che potrebbero dirci di più. Noi cristiani comuni facciamo una lettura dal punto di vista dell’uomo d’oggi, nella sua lingua media e nella sua media cultura. Ci chiediamo a che cosa penserebbe oggi l’apostolo Paolo dicendo “la carità è paziente, è benigna”. Allora ammaestrava i cristiani di Corinto che si cavavano gli occhi animatamente gareggiando per la leadership della comunità, oggi magari sarebbe colpito dalla sfida tra cristiani che si vituperano con altrettanta animazione a invettive in crociate: “voi di destra, voi di sinistra…”. Sarebbe colpito da questo e da molto altro. Proviamo a chiederci da cosa, seguendo l’inno parola per parola. Per gente semplice quale noi siamo l’inno alla carità è un testo centrale del Nuovo Testamento, come il Simposio di Platone, con il suo elogio dell’eros, è un testo centrale dell’umanesimo greco. E come l’enciclica Deus caritas est di papa Benedetto è un testo centrale per il cristianesimo di oggi. E come le parole di Teresa di Lisieux “Nel cuore della Chiesa mia madre io voglio essere l’amore” sono un dono capitale per ognuno di noi. Teresa e Benedetto ci dicono insieme l’attualità dell’inno di Paolo.

L’inno, come si dice a scuola, lo possiamo dividere in tre parti. E’ detto “inno” perchè ha l’afflato di un canto, di una poesia. E’ uno dei testi in cui Paolo si fa poeta.
Chiameremo la prima parte: il primato della carità, versetti 1-3.
La seconda la chiameremo: natura e opere della carità, versetti 4-7.
La terza: la carità dura per sempre, ovvero l’eternità dell’amore, versetti 8-13.
Siamo probabilmente nel 53 dopo Cristo quando Paolo scrive la Prima lettera ai Corinti: cioè appena venti o quindici anni dopo che i primi cristiani hanno fatto l’esperienza della morte e della resurrezione di Cristo. Prima della redazione dei Vangeli. In questa lettera è la narrazione dell’ultima cena, la prima che sia giunta a noi (capitolo 11).
Incredibile tempismo di Paolo. L’Anno Paolino ci provoca a riflettere sulla posizione principe di Paolo nel Nuovo Testamento.
In questa lettera Paolo parla a una comunità cristiana con forti divisioni interne, simile alla Chiesa di oggi; inserita in una società libertaria, che amava ostentare l’attrazione dei corpi, proprio come la nostra. Tra i cristiani di Corinto c’è “uno che convive con la moglie di suo padre” (5, 1). E’ in questa lettera che Paolo dice: “Sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo” (4, 15). E’ qui che leggiamo le parole consolanti per ogni coppia cristiana: “Il marito non credente viene reso santo dalla moglie credente e la moglie non credente viene resa santa dal marito credente” (7, 14). Qui ancora leggiamo: “Mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno” (9, 22). E’ qui il motto “Se Cristo non è risorto, vuota è allora la nostra predicazione” (15, 14). Nel vasto mondo di questa lettera vi è come un culmine, che è il nostro inno alla carità. Esso sgorga dal cuore di Paolo in risposta alla diatriba di quella rissosa comunità, lacerata dalla contesa tra i portatori dei carismi di maggiore richiamo: il dono delle lingue, quello delle guarigioni, quello dei miracoli, quello della conoscenza, quello della profezia. Di fronte a tale contesa Paolo dice: “desiderate i carismi più grandi” e subito aggiunge che il più grande è l’amore, “la via più sublime” (12, 31).

1 Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.
Che cos’è questa “carità” di cui parla, dopo aver detto “vi mostrerò la via più sublime”? E’ un dono, è una via, ma è anche molto di più: è l’amore, è Dio. Il Dio di Gesù Cristo che un’altra “lettera” del Nuovo Testamento, la Prima di Giovanni, qualifica come “amore”: “Dio è amore: chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (4, 16).
Dobbiamo dunque dire “carità”, o dobbiamo dire “amore”? La parola dei testi originali greci è la stessa: “agape”. Noi useremo ambedue le parole italiane, ma diciamo subito che per sentire la forza piena di questo inno, il trasporto con cui esso erompe dal cuore di Paolo, è utile provare a leggerlo mettendo la parola “amore” dove la traduzione della CEI mette “carità”. Perchè nella cultura nostra “carità” e “amore” non sono la stessa cosa.
“Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli”: cioè ogni linguaggio, anche quelli sconosciuti agli umani. Mi viene in mente Tolkien, l’autore de Il Signore degli anelli, che fa parlare stregoni e orchetti, hobbit e nani, elfi e kent, uomini selvaggi e troll e ha la bellissima espressione: “Tutte le stirpi dotate di parola”. Ecco dunque, in linguaggio d’oggi, “le lingue degli uomini e degli angeli”.

2 E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla.
La carità vale più della profezia, più della conoscenza e più della fede, addirittura più dei miracoli. Qui per certo occorre sostare. Per capire bene. La fede non è al di sopra di tutto? No, ci dice Paolo, al di sopra c’è la carità, cioè l’amore, cioè Dio. E se anche la fede fosse clamorosamente grande, da operare segni straordinari, non eguaglierebbe comunque l’amore. Perché la fede mi porta a Dio, mi congiunge al Signore; l’amore invece è Dio: ecco perché è più in alto. Ed ecco perché è meglio leggere “amore” dove è scritto “carità”. Ma possiamo usare la stessa parola per dire Dio (Dio è amore) e per dire il dono che ci viene da Dio (Dio ci dona il suo amore) e per dire infine che quel dono siamo chiamati a trasmetterlo ai fratelli (amare gli altri come Dio li ha amati)? Possiamo: questa è la meraviglia cristiana! C’è come un’attrazione, una calamita che ci destina, ci chiama, ci attrae verso Dio per questa via “sublime”: egli che è amore viene a noi con il suo amore e ci insegna ad amare. Purchè noi accettiamo di aprirgli il cuore, di fargli spazio. Di obbedire all’amore. L’amore obbedisce all’amore. 3 E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova.
E’ forse il versetto più importante per noi, la chiave a noi dedicata per permetterci di entrare in questo grande testo cristiano. Una chiave dedicata a noi uomini e donne dell’inizio del terzo millennio, che siamo sensibilissimi all’amore e sensibili alla carità ma tendiamo a ridurla alla beneficienza. Attenzione dunque: la carità non è la Caritas! Non la possiamo ridurre al solo soccorso del bisognoso. Qui più che mai diviene chiaro che non basta tradurre “carità”, ma bisogna arrivare a tradurre “amore”. Ecco come il papa nell’enciclica “Deus Caritas est” segnala questo punto decisivo: “San Paolo, nel suo inno alla carità (cfr 1Cor 13) ci insegna che la carità è sempre più che semplice attività: ‘Se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova’. Questo inno deve essere la Magna Carta dell’intero servizio ecclesiale; in esso sono riassunte tutte le riflessioni che nel corso di questa Lettera enciclica, ho svolto sull’amore” (34). Chiediamoci – proviamo a chiederci – che cosa mancherebbe, che cosa potrebbe mancare in una donazione di tutte le proprie sostanze e addirittura della propria vita fatta senza “la carità”. Ci riesce difficile intenderlo, ed è naturale perché si sta parlando indirettamente di Dio e Dio è pur sempre di suo inconoscibile, nonostante la conoscenza “per speculum” che ce ne ha fornita il Cristo. Qui – come in altri passi dell’inno – avvertiamo che Paolo ci parla per paradossi, per iperboli. Per dirci qualcosa che propriamente non si può dire. Per un tentativo di comprensione ascoltiamo ancora il papa: “L’azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende percepibile l’amore per l’uomo, un amore che si nutre dell’incontro con Cristo. L’intima partecipazione personale al bisogno e alla sofferenza dell’altro diventa così un partecipargli me stesso: perché il dono non umilii l’altro, devo dargli non soltanto qualcosa di mio ma me stesso, devo essere presente nel dono come persona” (ivi).

4 La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, 5 non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6 non gode dell`ingiustizia, ma si compiace della verità. Nella seconda parte dell’inno Paolo con linguaggio discorsivo e quasi narrativo – non definitorio: Dio non può essere definito – ci indica 15 note o caratteristiche dell’amore: è come una cascata di attributi di crescente intensità, a indicare qualcosa che supera ogni immaginazione – appunto perché è Dio, in definitiva, al centro dell’inno e non semplicemente un carisma o una virtù. Osserva il cardinale Martini (nel volume L’Utopia alla prova di una comunità, Piemme 1998, p. 129) che sette delle note sono positive e otto negative e anche le positive “richiedono un patire più che un agire”. Forse – ipotizza Martini – Paolo vuole segnalarci che “amare non significa fare qualcosa per gli altri, come si pensa abitualmente, ma piuttosto sopportare gli altri come sono” (ivi). “Sopportare” dice, ma io direi accettare, accogliere: un poco come fanno i genitori con i figli, che non li sopportano ma li accolgono. Torneremo su questa pietra di paragone dell’amore oblativo che è quello materno-paterno. Il modello in questa elencazione è la figura di Gesù che tutto sopporta – per amore – fino alla croce. E a sua volta il comportamento di Cristo rinvia al Padre “ricco di misericordia”. La carità è paziente come l’amore dei genitori che si alzano anche dieci volte la notte per il bambino che piange; è benigna la carità: cioè benevola e benefica secondo l’insegnamento di Cristo che passa beneficando quanti incontra – dunque fa festa se viene ritirata una scomunica; non è invidiosa la carità: per esempio non dice al papa da sinistra “ma quante concessioni stai facendo ai tradizionalisti” – ovvero, da destra: “stai sopportando troppo gli abusi dei novatori”; non si vanta: qui faccio un esempio in positivo: gli italiani hanno molto operato durante l’occupazione nazista per salvare gli ebrei; mi sono occupato a lungo della materia e non ho mai trovato uno dei salvatori che abbia menato vanto del gesto compiuto; non si gonfia: si gonfia invece chi giudica gli altri cristiani con commiserazione: “voi di sinistra” non siete a difesa della vita, “voi di destra” non volete l’accoglienza dello straniero; e chi è di centro si gonfia magari due volte: “ma che cristiani siete voi di sinistra e voi di destra, che dimenticate questo e quello? Noi di centro invece…”; non manca di rispetto: possiamo dire che non siamo d’accordo con il papà di Eluana senza mancargli di rispetto come fa per esempio chi lo definisce “assassino”; non cerca il suo interesse: perché cerca l’interesse di Cristo e di tutti in Cristo, evitando ogni movimento teso a occupare i primi posti nella vita della comunità;
non si adira come chi dice “ha esagerato e ora gliela facciamo pagare”, parole che vengono lanciate a chi si azzarda a uscire dal coro, in ogni direzione; non tiene conto del male ricevuto: il comportamento di “misericordia” del papa verso i vescovi lefebvriani, due dei quali l’avevano persino accusato di eresia; non gode dell`ingiustizia: quando vediamo un ladruncolo che viene ucciso per “eccesso di difesa” – ecco quella è un’ingiustizia – di essa non possiamo compiacerci;
ma si compiace della verità: anche quando non coincide con la nostra opinione, perché Dio è verità e chi dice la verità parla a nome di tutti (avesse anche a toccare argomenti spinosi, come il comportamento dei cattolici in tangentopoli o quello dei preti pedofili).

7 Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
Tutto copre: anche la mancanza di documenti dell’immigrato clandestino, come certamente faranno i medici cristiani nonostante la norma che è stata introdotta con il pacchetto sicurezza e che li autorizza alla delazione. Tutto crede: anche le giustificazioni di comportamenti apparentemente ingiustificabili, proprio come fanno i genitori con i figli, tanto che la loro testimonianza non vale in tribunale. Tutto spera: anche il risveglio di Eluana, per la quale proprio oggi è stato interrotto il sostentamento nutrizionale. Tutto sopporta: nella 2Timoteo 2, 10 Paolo dice “tutto sopporto per amore degli eletti” – pensate a una donna abbandonata dal marito che non sparla di lui con i figli: che cioè sopporta il tradimento per non trasmettere veleno ai figli che ama.
Queste quattro assolutizzazioni o “totalità” ci dicono quanto sia esigente l’amore cristiano. Ecco una considerazione di papa Benedetto che ci ha proposto il 26 novembre scorso, in una delle catechesi dedicate all’Anno paolino, con riferimento al nostro inno: “L’amore cristiano è quanto mai esigente poiché sgorga dall’amore totale di Cristo per noi: quell’amore che ci reclama, ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, sino a tormentarci, poiché costringe ciascuno a non vivere più per se stesso, chiuso nel proprio egoismo, ma per ‘Colui che è morto e risorto per noi’ (cfr 2 Cor 5,15). L’amore di Cristo ci fa essere in Lui quella creatura nuova (cfr 2 Cor 5,17) che entra a far parte del suo Corpo mistico che è la Chiesa”. Attualizzo per chi è padre o madre: essere cristiani vuol dire tendere ad avere con ogni persona che incontriamo la stessa “benevolenza” che abbiamo verso i nostri figli.

8 La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. 9 La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. 10 Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà.
Poiché l’amore è divino, anzi è Dio stesso, esso non avrà mai fine: non può finire e resterà quando ogni altra realtà sarà finita. Cioè avrà raggiunto il suo fine. Cioè sarà ricapitolata in Dio. Insomma, alla fine ci sarà solo l’amore. Dio sarà tutto in tutti e tutto sarà in Dio. Cioè tutto sarà amore.
Io qui vedrei un argomento per la salvezza finale d’ogni creatura. Ma lasciamo questo ai teologi.
L’intenzione di Paolo è di indurre i litigiosi cristiani di Corinto a mirare in alto, lasciando le dispute su che cosa valga di più, la profezia o le lingue. Egli dice: badate che tutto questo per cui vi combattete finirà e intanto nella vostra diatriba sacrificate l’amore, che mai finirà! Potremmo applicare il richiamo di Paolo alla grande disputa che divide oggi i cristiani: se privilegiare la solidarietà sociale, la pace, l’accoglienza degli stranieri; o la difesa della famiglia, della vita e della libertà educativa. Paolo ci direbbe: tutto questo finisce, cercate piuttosto l’amore che “non avrà mai fine”. Non è lo stare a sinistra o a destra che fa la differenza, ma il fatto che vi si stia o non vi si stia in nome dell’amore, cioè per amare. Gli schieramenti politici sono modalità per prendersi cura della costruzione della società, ragionevolmente tutte valide, purché perseguite nell’amore! E c’è una riprova per sapere se lo si fa con amore o no: non ci muove l’amore se il richiamo ai valori cristiani lo svolgiamo per prevalere sui cristiani di altri schieramenti invece che per convincere della loro bontà chi cristiano non è.

11 Quand`ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l`ho abbandonato. 12 Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch`io sono conosciuto.
Qui Paolo ci invita a guardare alla nostra vita cristiana come a una crescita nell’avvicinamento al Signore, fino a quando lo vedremo “faccia a faccia”. E ci incoraggia anche, a non perderci d’animo di fronte alle difficoltà che incontriamo nella politica, nelle professioni, nell’educazione dei figli, nella partecipazione alla vita della Chiesa, perché in un certo senso l’amore non può essere sconfitto, essendo eterno. Esso “vince sempre anche se al momento questo non appare: ciò che si è fatto con amore e per amore non avrà mai fine, anche se in questo mondo non viene riconosciuto” (Carlo Maria Martini, l.c., p. 131). Potremmo applicare questo spunto sull’amore che non va mai perduto, che capitalizza in Dio, alla fatica e anche ai fallimenti di noi genitori: quanto avremo dato ai figli in denaro e case e libri e fatica e libertà e severità, tutto finirà, ma resterà solo l’amore che gli avremo trasmesso; e quello resterà oltre ogni fallimento nostro e oltre ogni ribellione loro. Lo possiamo applicare – questo spunto dell’amore che non si perde – anche alle persone che amano senza essere riamate, o che continuano ad amare chi non è più sulla terra: il loro amore non va perduto.

13 Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!
E’ come se Paolo dai tumultuosi e petulanti cristiani di Corinto sentisse venire l’obiezione che anche la fede e la speranza non si perdono e durano. Ed ecco la sua risposta: quando saremo in Dio cesseranno anche la fede e la speranza, ma sempre resterà l’amore e dunque esso è più grande. Perché viene da Dio, perché è Dio. E perché Dio è all’inizio e alla fine, alfa e omega.
In conclusione di nuovo ci affidiamo all’insegnamento del papa e in particolare a queste parole dell’enciclica Deus caritas est che dovremmo memorizzare: “L’amore è la luce – in fondo l’unica – che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire. L’amore è possibile, e noi siamo in grado di praticarlo perché creati ad immagine e somiglianza di Dio. Vivere l’amore e in questo modo far entrare la luce di Dio nel mondo, ecco ciò a cui vorrei invitare con la presente enciclica” (n. 39). Ogni uomo è capace di amore, anche il non credente. E l’amore è frequente e lo Spirito lo suscita dove vuole. A noi il compito di accompagnare quel soffio, di accoglierlo in noi, di risvegliarne la percezione nei nostri contemporanei e di affidarci con fiducia alla sua pedagogia. “L’amore cresce attraverso l’amore” dice ancora Benedetto nella sua enciclica (n. 18) fino alla pienezza finale in Dio.
 

Publié dans:Lettera ai Corinti - prima |on 22 mars, 2011 |Pas de commentaires »
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