Archive pour mars, 2011

BERNARDETTA E LA SOFFERENZA : Rm 5,1-5

dal sito:

http://www.unitalsi.info/public/web/documenti/bernadette_6.pdf

 

BERNARDETTA E LA SOFFERENZA

Rm 5,1-5

 

1 Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo; 2 per suo mezzo abbiamo anche ottenuto, mediante la fede, di accedere a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio. 3 E non soltanto questo: noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata 4 e la virtù provata la speranza. 5 La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.

Nei capitoli precedenti della Lettera ai Romani, in particolare in Rom 3, 21-31, Paolo mostra come tutti gli uomini, presentati nella dualità di « giudei e pagani », si trovino in uno stato di ingiustizia e di peccato, descrivendo anche come avvenga il recupero della dignità di figli di Dio, detto in termini più tecnici, la nostra « giustificazione « : il passaggio, cioè, dallo stato di peccato allo stato di grazia, stato appunto di giustizia. Tutto è dovuto all’iniziativa gratuita di Dio che agisce mediante il suo figlio Gesù Cristo: Egli è « morto per i nostri peccati e risorto per la nostra giustificazione » (4, 25).

Tuttavia, la salvezza operata da Gesù rimane chiusa in se stessa, se non è accolta dal credente; per questo, ogni fedele deve partecipare a quest’opera di Dio e, in certo senso, farla propria, accogliendola con la fede: ecco perché i termini fede/credere ricorrono con insistenza nei cc. 1-4; la parola « fede » compare poi ancora due volte, in 5,1 e 5,2, e non più fino alla fine del cap. 9. Paolo, infatti, sta avviando il suo discorso sul compimento di salvezza partendo proprio dalla certezza della giustificazione presente: essa dà fondamento alla speranza della vita eterna (5,1; 8,81-34). Si afferma poi che le tribolazioni e la speranza sono strettamente legate (5,3-4; 8,35-37) e che la fiducia nella salvezza finale poggia sull’amore di Dio manifestato nella morte di Cristo (5,8; 8,35-39) e riversato dallo Spirito nel cuore dei cristiani (5,5). Quanto affermato ci fa capire che 5,1-5 costituisce la prima parte di uno sviluppo unitario di pensiero che include anche 5,6-11. a) fondamento della vita eterna (vv. 1-2)

v. 1 Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore,

v. 2 mediante il quale abbiamo anche avuto, per la fede, l’accesso a questa grazia nella quale stiamo; e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio; v. 1 Giustificati dunque per fede: è un’espressione concisa e lapidaria che ha la funzione di riassumere in modo sintetico ed incisivo il centro dell’unità 4,1-25 e soprattutto di 3,21-31. Tuttavia mentre nelle suddette divisioni il punto di arrivo è proprio l’idea di giustificazione, in 5,1 essa costituisce il punto di partenza per un ulteriore sviluppo teologico. La congiunzione « dunque » ha in questo caso una forza argomentativa e non solo conclusiva. Mentre, infatti, in 3,21-26 Cristo viene messo in relazione con l’opera di giustificazione, ora in 5,1 essa è strettamente collegata con i suoi frutti:  » abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore « ‘. L’opera di Cristo risulta alla fine da una triplice esplicitazione: « dono della pace », « accesso alla grazia nella quale si muovono i giustificati », e « vanto nella speranza della gloria di Dio ». All’azione passata di Dio (giustificati) corrisponde per il credente un presente salvifico, l’aver pace con Dio, con cui si descrive la stessa pace escatologica che in 2,10 veniva promessa per il « giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio » (2,5) per coloro che operano il bene. La pace è « la felicità perfetta » e al tempo stesso « il dono di Dio » per eccellenza, tanto che Rom 14, 7 definirà la condizione cristiana: « giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo ». Si tratta infatti, della pace con Dio, quella che Paolo al versetto successivo chiama una grazia, cioè un favore assolutamente gratuito. Il Signore Gesù Cristo, ci ha ottenuto di aver accesso, con la fede, a questa grazia nella quale siamo integrati.

In 5,1 l’apostolo vuole presentare l’intero processo salvifico che accompagna ogni credente, processo che parte dal passato (giustificati), attraversa il presente (abbiamo, abbiamo avuto, stiamo) e tende al futuro (nella speranza della gloria di Dio). L’agire di Dio è, insomma, dinamico e progressivo per condurci alla pienezza esperienziale del suo amore. v. 2 mediante il quale abbiamo anche avuto, per la fede, l’accesso a questa grazia nella quale stiamo

La fede è connessa alla giustificazione e il ruolo di Cristo è quello che regge tutta la vita cristiana: così la formula « per nostro Signore Gesù Cristo », utilizzata già all’inizio della lettera (Rom 1, 5) e richiamata alla fine del capitolo precedente (4, 25), scandirà per così dire, come un ritornello, ciascuno degli sviluppi del proseguo della lettera, ritornando anche alla fine dei cc. 5, 6, 7, 8. Cristo è la porta di comunione con il Padre. L’espressione « abbiamo accesso » è al presente per indicare che Cristo ci introduce non una volta sola, ma in continuazione in una dinamica di relazione che si rivela come relazione filiale nei confronti di Dio Padre. Si tratta di un accesso durevole e stabilizzato: possediamo stabilmente « questa grazia nella quale stiamo ». e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio: non soltanto ci troviamo in uno stato aperto al flusso della « grazia » divina, ma conduciamo un’esistenza sorretta e confortata da un « vanto » da un « gloria » straordinaria: quella di una umanità rinnovata, a tale punto avvicinata a Dio e segnata dalla grazia di Dio, da potere tendere con speranza sicura alla « gloria di Dio » che le è stata riservata. Questa affermazione è il vertice della dignità cristiana promessa da Dio.

Il dono già concesso tende per proprio dinamismo al conseguimento di una perfezione celeste, la quale è detta appunto « gloria di Dio ». Tanta verità è incarnata in esistenze concrete e suscita una speranza commisurata. Tale speranza, a sua volta, coincide con un senso insieme umile e fiducioso di celebrante sicurezza. Paolo non pretende che la speranza cristiana sia un « vanto » psicologicamente avvertito dai singoli fedeli. Egli, però, desidera proporla come un privilegio insito oggettivamente nella novità di un’esistenza segnata da Cristo, cogliendovi una definizione della dignità umana, sorta dalla grazia di Cristo e confermata dai tesori di potenza e d’amore operanti nel vangelo divino della salvezza. Va ricordato che questo « vanto », affermato in un contesto in cui si celebra la grandezza del dono di Dio, non può essere il « gonfiarsi » vano di persone che si ergono autonome al cospetto di Dio, riponendo la loro fiducia in motivi estranei alla verità di Dio. È invece, come si preciserà a conclusione della pericope, un « vantarsi in Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo » (v. 11). Si tratta, quindi, di un « vanto » tipicamente evangelico che può descriversi come un senso di sicurezza gioiosa col quale una umanità nuova, percependosi oggetto e sede dell’amore-potenza di Dio, si riconosce rivestita di ricchezza e dignità e come tale avanza nel cammino terreno della fede. Da una parte, è un « vanto » pieno d’umiltà e di gratitudine, essendo il privilegio di credenti che hanno aderito ed aderiscono tuttora alla verità del vangelo divino della misericordia, ed hanno accolto ed accolgono tuttora il dono gratuito della giustificazione divina; dall’altra parte, è un vanto pieno di sicurezza e di fiducia, essendo come il volto fiero e lieto di una speranza prodigiosa. « Ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio »: è un riconoscere e proclamare, nell’umiltà e nella fiducia, nella verità e nella piena sicurezza, nella fede e nell’entusiasmo ammirato, che si ha il privilegio e la dignità di camminare in novità di vita, tesi al possesso della « gloria di Dio », come al raggiungimento di una compiutezza verso la quale si è personalmente orientati b) Il vanto di una speranza tribolata (vv. 3-4)

v. 3 non solo, ma ci gloriamo anche nelle afflizioni, sapendo che l’afflizione produce pazienza

v. 4 la pazienza esperienza, e l’esperienza speranza. I vv. 3-4 mostrano che tanto privilegio e tanta dignità non sono dei concetti teorici, ma esprimono una realtà vissuta nella concretezza quotidiana di un cammino ancora onerato da precarietà terrena.

La « pace con Dio », « l’accesso » stabile alla « grazia » del vangelo, che diventa motivo di « vanto/gloria » e di speranza che non delude, sono vissuti nondimeno in mezzo alla « tribolazione » come in un suo ambiente terreno caratteristico. Non per questo, però, scade il « vanto » asserito precedentemente: anzi, la tribolazione stessa, per il fatto che rientra nella dinamica di un’esistenza tutta segnata dalla « grazia » e dalla verità del vangelo, si trova a rafforzare i motivi per cui ci è dato di trovare nella « speranza della gloria » un nostro « vanto » fondato e gradito a Dio.

Anzitutto viene presupposto che la tribolazione non è affatto casuale, ma è la condizione prevedibile, anzi in qualche modo necessaria, di chi porta quaggiù nella fedeltà della coerenza il segno di Cristo, di chi è chiamato dalla sua stessa identità battesimale a « partecipare alle sofferenze di Cristo ». Il cammino, dunque, della fede e della speranza, quel rispondere quotidiano al Dio che « chiama al suo regno e alla sua gloria » (1Ts 2, 12), è necessariamente un « aspettare la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo » (1Cor 1, 7) con il coraggio e la saldezza di una « perseveranza » che è come l’alimento e la riprova concreta di un’esistenza cristiana autenticamente vissuta. Ben sapendo che la tribolazione produce perseveranza, la perseveranza una virtù provata… (v. 3). L’Apostolo affronta il tema della speranza, e lo mette in evidenza contrapponendolo alla tribolazione che, apparentemente, sembrerebbe negare la stessa speranza. Paolo, invece, vede in queste tribolazioni la conferma della medesima, come mostrano sia il valore qualitativo-escatologico di « nelle tribolazioni » (può essere che con esse Paolo abbia voluto indicare la realizzazione dei beni messianici), sia l’argomentazione che Paolo fa seguire in 5,3b-4: essa, partendo da una premessa che si fonda su un sapere religioso, si muove su una stretta linearità deduttiva, descrivendo il dinamismo interno della fede: la tribolazione opera la costanza, questa una virtù provata, la virtù provata la speranza, il cui fondamento (5,5) è lo stesso amore di Dio che trova la sua espressione concreta nel dono dello Spirito, già in possesso del cristiano. L’esperienza della fede dice che l’autenticità cristiana è coerenza perseverante; dice pure che questa nasce e si sviluppa, per quanto in modo misterioso, nel terreno immancabile e provvidenziale della tribolazione. L’argomento tuttavia, procede oltre. Il « vanto » cristiano di cui si parla nel v. 3 è lo stesso « vanto » affermato nel v. 2 e, pertanto, è strettamente legato alla « speranza ». Ciò significa che se il credente ha il privilegio di vantarsi « anche nelle tribolazioni », il motivo ne è che la tribolazione (thlipsis) non soltanto l’interpella come un invito alla perseveranza e come una riprova di autenticità personale, ma è da lui vissuta come un’esperienza caratteristica della sua dignità nuova nella « grazia » di Cristo, in quella « grazia », cioè, di cui era stato detto che i « giustificati per fede » hanno ottenuto « accesso » stabile (v. 2). Il « vanto » cristiano, senso della propria dignità in Cristo, è costituzionalmente fondato sulla realtà della « grazia » e non può in alcun modo essere motivato da valori, meramente ascetici come, ad esempio, la « perseveranza » e la « virtù provata », prese in se stesse. Occorre quindi che queste, insieme con la « tribolazione » che ne è il terreno di crescita, siano comprese e vissute nella « grazia » e colte come una testimonianza sia della ricchezza della grazia medesima sia della dignità di un’esistenza misericordiosamente qualificata da Cristo. Ci vantiamo anche nelle tribolazioni: è tanto il « vanto » che nasce dalla « speranza della gloria » ed è fondato su premesse tali di « grazia » divina, da trovare perfino nelle « tribolazioni » un motivo convincente di gioiosa fiducia nelle divine promesse gloriose. La « tribolazione » è di per sé testimonianza di precarietà, di debolezza e di fragilità. Ma se viene accolta e vissuta nella grazia di Cristo, invece di indurre allo scoraggiamento, può portare un frutto inatteso, rivelatore di quanto ricca di grazia divina sia l’esistenza nuova dei credenti-giustificati. Con la tribolazione, infatti, la loro stessa speranza è rafforzata e ravvivata, e, insieme con la speranza, il vanto stesso è alimentato e confermato, divenendo sicurezza fiduciosa e fiducia gioiosa in modo ancor più convincente. Quella di Paolo sembra una affermazione che sa di follia; l’esperienza, infatti, ci dice che la tribolazione spezza le forze fino a far alzare la voce verso Dio. Ciò che l’Apostolo afferma non è comprensibile secondo una logica umana, ma soltanto alla luce del progetto di redenzione e di salvezza: « là dove è abbondato il peccato (quindi ogni genere di povertà) ha sovrabbondato la grazia »: fuori della « grazia » la tribolazione diventa solo disgrazia! Il credente non desidera la tribolazione e ne sente tutto il peso quando è presente, tuttavia non la esclude dalla propria vita, perché accetta la « logica » della grazia, mediante la quale si opera la trasformazione, allora la tribolazione dischiude la perseveranza e questa una virtù provata. Riguardo a questo ultimo termine, il greco usa il vocabolo dokimê, ma forse più che « virtù provata » è meglio tradurre con « discernimento », « valutazione ». In tal modo si afferma che nei riguardi delle tribolazioni abbiamo una diagnosi in profondità, quella che Paolo fa, per esempio, in 2Cor 12,1-11, quando colloca le tribolazioni nel quadro del mistero pasquale, costituito inscindibilmente dalla croce presente e dalla gloria futura, oggetto tipico della speranza. La pazienza permette un discernimento che la superficialità o l’istantaneità dell’accadimento non riesce a cogliere; siamo dunque rimandati ad una lettura della vita letta alla luce della fede e dello Spirito. L’insegnamento che Paolo offre in questi versetti apparteneva alla catechesi della chiesa di Antiochia che esortava i fedeli « a stare saldi nella fede, perché è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio » (At 14,22). Tale insegnamento corrisponde anche alla promessa che Gesù aveva fatto ai suoi discepoli: « voi avrete tribolazioni nel mondo, ma abbiate fiducia… » (Gv 16,33). Così, quando la tribolazione si era presentata sul loro cammino – ciò che era regolarmente avvenuto – non avevano potuto lamentarsi di non essere stati avvisati e preparati alla sua venuta. La tribolazione, la sofferenza è la normale esperienza dei credenti, ma per essi diventa opportunità di gioia: « a voi è stata concessa la grazia non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per lui » (Fil 1,29). Secondo l’Apostolo quello presente è il tempo contrassegnato dalle sofferenze, anche se esse non hanno nessun confronto con la gloria che si rivelerà in noi (cfr Rom 8,18; 2Cor 4, 17). Solo se condividiamo la logica di amore di Gesù, partecipando cioè alle sue sofferenze, prenderemo parte alla sua gloria e saremo coeredi insieme con Lui (cfr Rom 8,17). Il tema della sofferenza occupa un posto centrale nel pensiero di Paolo: nelle sue lettere ci si imbatte in una multiformità del patire che è sia fisico ed esteriore, sia psicologico ed interiore (1Ts 3, 7; Rom 8, 35; 2Cor 2, 4;1; 6, 4; 12, 10; Fil 1, 17…). Per lo più, la sofferenza, esteriore od interiore che sia, indica la tribolazione subita a motivo di Cristo e della fede, sia da parte dei credenti in genere che dall’Apostolo in prima persona (1Ts 1, 6; 3, 3.7; 2Ts 1, 4-5; 2Cor 1, 4-7; 4, 8-12; 6, 4-5; 7, 5; Fil 1, 12.20.29-30…). Questa «tribolazione», cristiana ed apostolica (ved. le drammatiche testimonianze date in 1 Cor 4, 9-13; 2 Cor 4, 8ss.; 6, 4ss.; 11, 23ss.; 12, 10 … ) è l’esperienza sofferta di una « debolezza » innegabile (2 Cor 4, 7; 11, 30; 12, 7-10) e di un disfacimento che equivale ad un morire quotidiano (2 Cor 4, 11.12.16; cf anche 1 Cor 4, 9; 2 Cor 1, 9), ma Paolo la comprende e la vive alla luce del mistero pasquale, con la fiducia sicura e lieta della speranza (Rom 8, 17.18.35-39; 2 Cor 1, 5; 4, 7-12.16-18; 6, 10; 12, 9-10; Fil 1, 19-20.27-30; 3, 10-11; 4, 13; Col 1, 24…). v. 5 Ora la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato. La speranza per Paolo non è una carta bianca sul futuro, piuttosto è simile ad un bozzetto che deve essere sviluppato, ad un disegno che deve essere colorato, il cui progetto lo possiamo vedere realizzato in Cristo, nell’agire del Padre in Lui. Dio è colui che « dà vita a ciò che è morto e chiama all’esistenza le cose che non sono » (Rom 4,17). Il credente vive una realtà germinale in cui sa cogliere la potenza operante dell’amore di Dio, poco prima presentato come giustificazione, pace, accesso alla gloria. Lo sperare, perciò, non è una illusione o una delusione, né è un provare vergogna, come esprime meglio il significato del verbo greco, bensì « un vanto » di certezza che fa tendere alla pienezza della promessa salvifica. Si tratta di sicurezza, di fiducia, di senso della propria dignità nella grazia di Cristo – componenti tutte del predetto « vanto » cristiano. Non resterà confuso chi ha portato lungo il cammino tribolato della fede la speranza di possedere la « gloria di Dio »: anzi, egli ha ragione di « vantarsi » nella speranza che lo sta indirizzando verso la perfezione gloriosa della grazia, nella quale è già stabilito. Perché l’amore di Dio è stato sparso nei nostri: Paolo fonda la nostra speranza sull’amore stesso con cui Dio ci ama, e di cui abbiamo una prova certa: è lo stesso amore di Dio che trova la sua espressione concreta nel dono dello Spirito, già in possesso del cristiano E’ probabile che qui Paolo si riferisca al momento del battesimo, come stimano alcuni commentatori. Per ricordare poi in concreto che i credenti hanno già il dono dello Spirito, quale certezza dell’amore di Dio, si mette in evidenza come la presenza dello Spirito in noi attesta non solo l’amore di Dio, ma anche il nostro presente salvifico. Infatti, mentre gli uomini erano nell’impotenza e ancor più nella empietà (v. 6 cfr 1,18), proprio allora Cristo è morto per essi, per noi (v. 6). Questa frase sintetica, ripetuta con poca differenza in 8b, vuole dire che con la sua morte Cristo ha liberato gli uomini dall’impotenza e dalla empietà, cioè dal peccato. La prova di amore di Dio è messa ulteriormente in luce con la contrapposizione all’atteggiamento dell’uomo nei confronti del suo simile (cfr v. 7). Quindi la morte di Cristo assicura che la speranza del giustificato vedrà il suo compimento. Mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato: la speranza, come la fede, ci insegna a distogliere lo sguardo da noi stessi e dai nostri meriti per fissarlo esclusivamente su Dio e sulla sua fedeltà:  » È fedele Iddio, grazie al quale voi siete stati chiamati alla comunione con suo Figlio Gesù Cristo nostro Signore » (1Cor 1,9). Ma come può Paolo affermare l’amore di Dio, che evidentemente è in Dio e non in noi, e che è stato effuso nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è stato dato? Sono le ultime parole a suggerire la risposta. Il cristiano vive « nello Spirito ». Tutto il cap. 8 avrà questo come tema: il « figlio di Dio » è per definizione colui « che è condotto/animato dallo Spirito di Dio » (Rom 8,14). Per Paolo la guida dello Spirito non è un impulso sporadico, ma un’esperienza abituale del credente, mantiene qui ed ora la vita e la forza nello spirito dei credenti e dà, con la sua presenza in loro, la garanzia di essere amati. Infatti, lo Spirito Santo è l’amore reciproco del Padre e del Figlio, colui nel quale il Padre ama il Figlio e tutti gli uomini. In questo senso, cioè in virtù del dono dello Spirito, l’amore di cui Dio ci ama, abita nel cuore di ogni cristiano. In Rom 8,14-15, passo evidentemente parallelo a Rom 5, 5, l’Apostolo spiegherà che lo Spirito Santo si unisce al nostro spirito per attestare che siamo figli di Dio, mettendoci sulle labbra la parola con la quale il Figlio si rivolge al Padre: « Abba ». Il fatto che « in Lui » noi possiamo invocare Dio come nostro Padre, testimonia che il Egli ci ama come figli, di più, ci ama come il Figlio unigenito in cui, secondo l’audace espressione di Gal 3, 28, noi formiamo « un solo essere vivente ». Quindi lo Spirito di Dio porta una testimonianza che dà il proprio consenso allo spirito personale dei cristiani: essi sono figli di Dio. Ma vi è di più: i figli di Dio sono suoi eredi, eredi della gloria appartenente a Cristo per diritto speciale, unico, della quale gloria egli fa partecipi per grazia i suoi, rendendoli perciò coeredi con lui. Coloro che sperimentano in questa vita presente la comunione con le sue sofferenze possono essere sicuri, anche nel futuro, di prendere parte alla sua gloria.

PER LA RIFLESSIONE PERSONALE E COMUNITARIA

.. »Mediante il quale abbiamo anche avuto, per la fede, l’accesso a questa grazia nella quale stiamo »: Cristo è l’accesso permanente e unico alla relazione di figliolanza con Dio, è la porta sempre spalancata su quelle braccia del Padre pronto ad accoglierci e ad avvolgerci col suo amore di madre. Siamo talmente abituati a chiamare Dio padre e a proclamarci suoi figli che spesso non siamo capaci di renderci conto della immensità del dono che ha fatto a tutti noi il Signore per mezzo del suo Figlio. Chiediamoci allora se il nostro comportamento è davvero di figli. E se ci diciamo figli, con quale atteggiamento viviamo nella casa del Padre? Siamo come il figliol prodigo della parabola che, con atteggiamento pretenzioso, rivendichiamo quello che ci spetta per chiudere ogni relazione con il Padre? O siamo come il fratello maggiore, che pur vivendo nella sua stessa casa, di fatto, viviamo in essa più da servi che da figli? E quand’anche ci rendiamo conto di aver sbagliato, siamo capaci di rientrare in noi stessi facendo memoria di quanto si sta bene a casa con il Padre e sappiamo con umiltà metterci in cammino per tornare e chiedergli perdono per restare sempre con Lui?

.. « Ben sapendo che la tribolazione produce perseveranza, la perseveranza una virtù provata? » Le tribolazioni, insieme alle persecuzioni a causa della Parola, sono quelle a causa delle quali, nella Parabola del Seminatore, la parte del seme caduta tra i sassi, non avendo radice subito resta bruciata e si secca. Ci capita mai, dunque, di essere anche noi quel terreno sassoso, capace magari di accogliere la Parola con gioia, ma poi, non avendo radice in noi stessi a causa della nostra incostanza, lasciamo che il germe di questa Parola venga seccato, da qualche tribolazione o difficoltà sopraggiunta inaspettata? Possiamo identificare quali siano di fatto nella nostra vita le tribolazioni, a livello personale, a livello sociale o comunitario, che più ci debilitano nel cammino di fede? Come reagiamo dinanzi ad esse? Lasciamo che siano la disperazione e lo scoraggiamento a prendere il sopravvento, oppure ci sforziamo, come afferma Paolo, di cogliere in esse il mistero della grazia sempre all’opera, riuscendo a trasformare questi momenti di difficoltà in occasione di crescita nella fede, per continuare a perseverare, fosse anche contro ogni speranza? Siamo consapevoli che proprio questo perseverare nell’abbandono al Padre, nonostante tutto e seppure nella incomprensione umana del suo misterioso progetto, è capace di renderci più forti nella fede, aiutandoci a leggere in profondità ogni accadimento della nostra vita? « L’amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori »: L’immagine sottostante, alla quale ci richiama il verbo « spargere, versarsi », è quella del vino che fuoriesce dagli otri (Cfr. Mt 9, 17: « Né si mette vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si rompono gli otri e il vino si versa e gli otri van perduti »). L’amore di Dio, potremmo dunque dire, è stato versato e continua ad essere versato (questo, infatti, indica il tempo del perfetto greco qui usato) dal cuore del Padre nel nostro, come si versa vino da un otre all’altro o in una brocca. Per questo siamo resi capaci di corrispondere al suo amore e di amare i nostri fratelli come Lui li ama, cosa che, altrimenti, con le sole forze umane, sarebbe impossibile. Ora, è naturale che non si può riempire un contenitore già pieno, se prima non lo si svuota. Chiediamoci allora se il contenitore del nostro cuore è pronto a ricevere tale amore o se è già occupato da altri contenuti. Domandiamoci, con franchezza, quali e quanti sono i materiali che lo ostruiscono. Ci impegniamo quotidianamente in questo svuotamento del cuore, mettendo via l’attaccamento a cose o persone, gli oggetti ingombranti come l’amor proprio, l’orgoglio, l’egoismo, l’invidia, la gelosia, tutte cose che mettono allo stretto l’amore di Dio, togliendogli lo spazio necessario perché vi possa dimorare? L’amore del Padre è per tutti e in misura sovrabbondante, questo deve essere sempre il fondamento della nostra speranza. Sta a noi, e soltanto a noi, « fare pulito » nel nostro cuore, perché esso possa crescere e ci renderemo conto che, nella misura in cui gli facciamo posto, mediante l’ascolto della sua Parola e l’esposizione alla sua grazia, il nostro cuore si dilaterà, diventando sempre più vuoto e libero da tutte quelle cose ingombranti che di fatto lo appesantiscono senza tuttavia dargli gioia, impedendogli , semmai, di amare con l’amore con cui è stato amato.

TESTI PER LA RIFLESSIONE

1. Dal « Quaderno di note intime » di S. Bernardetta Soubirous O Gesù desolato e al tempo stesso rifugio delle anime desolate, il vostro amore mi insegna che è dalle vostre pene che devo trarre tutta la forza di cui ho bisogno per sopportare le mie. Sono persuasa che il più grande abbandono in cui io possa cadere sia di non partecipare affatto al vostro. Siccome però mi avete donato la vita con la vostra morte, e mi avete liberata, con le vostre pene, da quelle che mi erano dovute, voi pure avete meritato, col vostro abbandono, che il Padre celeste non mi abbandonasse affatto, e che non fosse mai più vicino a me, con la sua misericordia, di quando io gli sia più unita per la sua desolazione. Vi scongiuro, mio Dio, per i vostri abbandoni, non di affliggermi, ma di non abbandonarmi nell’afflizione, di insegnarmi a cercarvi in essa come mio unico consolatore, di sostenervi la mia fede, di fortificarvi la mia speranza, di purificarvi il mio amore; fatemi la grazia di riconoscervi la vostra mano, e di non volervi altro consolatore che voi. Umiliatemi allora quanto vi piacerà, e consolatemi solo affinché io possa soffrire e perseverare, fino alla morte, nella sofferenza. Poiché le grazie che vi domando sono il frutto dei vostri abbandoni, fatene apparire la virtù nella mia infermità, e gloriatevi nella mia miseria, o mio Gesù, unico rifugio dell’anima mia. O Santissima Madre del mio Gesù, che avete visto e avete sentito l’estrema desolazione del vostro caro Figlio, assistetemi nel tempo della mia. Io soffro. E’ verso di voi, mio consolatore, che si elevano incessantemente i miei gemiti. E’ nel vostro cuore adorabilissimo che riverso le mie lacrime, è ad esso che confido i miei sospiri, le mie angosce, alle sue amarezze le mie amarezze. Fate, o Gesù mio, che questa unione le santifichi. Fate che aumentando il mio amore, essa le renda più dolci e più leggere. Ricordatevi spesso questa frase che vi è stata pronunciata dalla Vergine Santissima: penitenza! Penitenza! Voi dovete essere la prima a metterla in pratica. Perciò, soffrite tutto in silenzio, affinché Gesù e Maria siano glorificati. Domandate pure a Nostro Signore e alla Santissima Vergine di farvi conoscere la croce che Egli vuole che portiate quest’anno. Portatela con amore, fedeltà e generosità. Consegnatela tutte le sere a Nostro Signore, che ve la restituirà ogni mattina al vostro risveglio. Questa croce farà la vostra gloria e la vostra consolazione. 2. L’amor puro e la pura sofferenza

Una vigilia del 1° gennaio mi sono recata insieme con due compagne nella camera di suor Marie-Bernard per presentarle i nostri auguri di capodanno. Terminata la visita, lasciai uscire le altre due e dissi a Bernardetta:  » Cara sorella, mi fareste piacere se mi auguraste qualcosa per quest’anno « . Bernardetta riflettè e mi dissi:  » Vi auguro l’amor puro e la pura sofferenza « .  » Oh, no! – le dissi – Questo no! « . Ma lei mantenne l’augurio. Ebbene, di questa formula che mi faceva paura me ne sono ricordata parecchie volte durante la mia vita e mi ha dato coraggio.

(Suor Athanase Baleynaud)

3. Mio Dio, ve lo offro La violenza del dolore le causava delle crisi che non poteva contenere, ma lei le mutava in ardente preghiera. Diceva con energia:  » Mio Dio, io ve lo offro … Mio Dio, io vi amo … Sì, mio Dio, io la voglio, la vostra croce « .

(Sempè)

4. Macinata come un chicco di grano Mi ricordo ancora del suo sguardo, quando ci disse:  » Sono macinata come un chicco di grano « .

Mi sembra che aggiunse:  » Non avrei mai creduto che bisognasse soffrire tanto per morire « :

(Suor Lèontine)

5. Amore e croce Ognuno  » prenda la sua croce « , dice Gesù. Strane e uniche queste parole. Ma anche queste, come le altre parole di Gesù, hanno qualcosa di quella luce che il mondo non conosce. Sono così luminose che gli occhi spenti degli uomini, e anche dei cristiani languidi, restano abbagliati e quindi accecati.

L’amore ha spinto Gesà alla croce che da molti è ritenuta pazzia. Ma solo quella follia ha salvato l’umanità, ha plasmato i santi. I santi infatti sono uomini capaci di capire la croce. Uomini che, seguendo Gesù, l’Uomo-Dio, hanno raccolto la croce di ogni giorno come la cosa più preziosa della terra; l’hanno amata tutta la loro vita e hanno conosciuto e sperimentato che la croce è la  » chiave « , l’unica chiave che apre un tesoro, il tesoro. Apre piano piano le anime alla comunione con Dio.

La croce è il mezzo necessario per cui il divino penetra nell’umano e l’uomo partecipa con più pienezza alla vita di Dio, elevandosi dal regno di questo mondo al Regno dei Cieli. La croce … cosa tanto comune. Così fedele, che non manca, all’appuntamento di nessun giorno. Basterebbe raccoglierla per farsi santi. La croce, emblema del cristiano, che il mondo non vuole, fuggendola, di fuggire al dolore, e non sa che essa spalanca nell’anima di chi l’ha capita il regno della Luce e dell’Amore: quell’amore che il mondo tanto cerca, ma non ha.

(Chiara Lubich)

6. Nella malattia si attua la beatitudine evangelica dei poveri  » Beati i poveri nello spirito « , ci dice Gesù. Una forma permanente di povertà, sempre presente anche nei paesi più progrediti, e veramente autentica, è la malattia. La malattia porta una vera povertà e, come questa, viene senza essere chiamata. Nessuno la cerca, è un dovere combatterla, eppure c’è. Un malato può essere ricco, ma le sue ricchezze sono cose assenti da lui; gli rimane solo il metro quadrato del suo letto. L’uomo abituato a un certo lusso impara qui un distacco, uno spogliamento che, se lo vuole, possono divenire un’elevazione spirituale. Le sue opere passate, presenti e future si distaccano da lui. La beatitudine dei poveri diventa sua. Un secondo lineamento di questa povertà che la caratterizza forse meglio dell’assenza di beni, è l’insicurezza. Il malato è immerso nell’insicurezza, con gli alti e i bassi della sua malattia, l’aggravamento che incombe, il miglioramento precario, i rischi più o meno gravi sempre presenti. Il malato, ancor più dell’impiegato che rischia di perdere il posto, non è mai sicuro del domani. Una terza caratteristica consiste nella diminuzione dell’indipendenza e della dignità umana. Il malato è divenuto dipendente. Non decide più da sé, è nelle mani del medico e degli infermieri. Condizione umiliante che può trasformarsi in una vera infanzia spirituale nelle mani di Dio. Miei fratelli ammalati, portate nella Chiesa una testimonianza della povertà evangelica.

(Thomas Chifflot)

7. Soffrire con Gesù Ogni nostra croce è un frammento della Croce di Gesù. Ogni nostro sacrificio è una parte di quel supremo sacrificio. Non c’è dolore che egli non abbia patito; non c’è lacrima che non abbia versata; non c’è spina dalla quale non sia stato perforato. Ti domanda – domanda a tutti – una personale partecipazione. E’ lui che te la chiede, dopo avertene fissato il grado, il momento e l’intensità. Ogni tua piccola o grande croce è una parte della sua, fissata in maniera proporzionata alle possibilità e alle necessità che Egli solo conosce. Quando sei colpito dal dolore, quando esperimenti la trafittura delle spine, lo strazio di una ferita, l’onta di uno schiaffo, lo spasimo dei fori alle mani e ai piedi, l’umiliazione di un insulto o di una calunnia, non accusare nessuno; non incolpare i tuoi fratelli, le circostanze, gli eventi della vita. Essi non sono che strumenti: è lui, il divino Crocifisso, che ti invita a seguirlo, ad imitarlo, a continuare, in te, la grande legge della salvezza nella sofferenza. E’ lui che domanda di stenderti sul legno insanguinato della sua Croce. Ad ogni tua croce corrisponde un suo aiuto. Ad ogni tuo dolore, per quanto umanamente impossibile, una sua grazia particolare. E se ogni tua piccola croce è un frammento della sua Croce, tu la devi accettare e vivere con lui, con intensità di amore, con perfetta adesione ai suoi arcani disegni, con ferma convinzione di avere da lui la forza che ti è indispensabile.

(Novello Pederzini)

Publié dans:Lettera ai Romani, SANTI |on 26 mars, 2011 |Pas de commentaires »

Omelia (27-03-2011) (La Samaritana)

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/21994.html

Omelia (27-03-2011) 

padre Paul Devreux

Gli antichi sapevano che non bisognava costruire intorno ai pozzi d’acqua per evitare di inquinare la falda acquifera. Per questo motivo spesso il pozzo del villaggio rimaneva isolato, ed era compito delle donne e dei bambini andare a prelevarla per l’uso domestico, e lo facevano la mattina presto. Questo succede ancora oggi, in molti posti.
Questa donna che Gesù incontra all’ora di pranzo non rispetta le regole per cui sembra una che cerca l’avventura.
Noi uomini generalmente, in una situazione del genere, o cerchiamo di mantenere le distanze, o ne approfittiamo per divertirci. Gesù si comporta diversamente: cerca il dialogo con questa donna, facendosi vedere bisognoso di acqua, per riuscire ad aiutarla. Capisce che questa donna è insoddisfatta, tant’è vero che ha avuto cinque mariti, cioè molti, ora ne ha uno che non è suo marito e se è li al pozzo è segno che ne sta cercando un altro. Gesù non la giudica, cerca di capire e poi gli propone la sua acqua.
Cosa ha fatto Gesù? Ha cercato il dialogo con lei, l’ha accolta e le ha fatto capire che la conosceva bene. Non ha approfittato della sua sete per usarla. Questo è bastato perché si sentisse amata veramente, tanto poi da essere libera di tornare in paese con la voglia di condividere con tutti la sua gioia, proclamando di avere incontrato il messia; che cambiamento! Prima quando incontrava un uomo cercava di tenerselo tutto per sè, ora ha incontrato un uomo così diverso che ha voglia di condividerlo con tutti i suoi paesani. Se poi si considera che probabilmente questa donna era in rottura con i suoi paesani, soprattutto le donne, per via appunto di tutto quello che ha fatto, ci rendiamo conto che veramente qui Gesù ha operato un miracoloso cambiamento in questa donna. Potenza dell’amore autentico e gratuito, che rigenera la vita e rida dignità alle persone che l’hanno persa.
Notiamo anche una seconda cosa, e cioè il fatto che questo suo operato nutre e disseta anche Gesù, che è contento di quello che è riuscito a fare in questa donna.
Perciò concluderei dicendo che è bello sentirsi accolti, capiti e perdonati dal Signore, ma è anche bello farlo. 

DOMENICA 27 MARZO 2011 – III DI QUARESIMA A

DOMENICA 27 MARZO 2011 – III DI QUARESIMA A

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/quaresA/QuarA3Page.htm

MESSA DEL GIORNO

Seconda Lettura Rm 5, 1-2. 5-8
L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani.
Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio.
La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dal libro dell’Esodo 22, 20 – 23, 9

Leggi riguardo al forestiero e al povero (Codice dell’alleanza)
Così dice il Signore: «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto.
Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io ascolterò il suo grido, la mia collera si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani.
Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse.
Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai al tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando invocherà da me l’aiuto, io ascolterò il suo grido, perché io sono pietoso.
Non bestemmierai Dio e non maledirai il principe del tuo popolo.
Non ritarderai l’offerta di ciò che riempie il tuo granaio e di ciò che stilla dal tuo frantoio.
Il primogenito dei tuoi figli lo darai a me.
Così farai per il tuo bue e per il tuo bestiame minuto: sette giorni resterà con sua madre, l’ottavo giorno me lo darai.
Voi sarete per me uomini santi: non mangerete la carne di una bestia sbranata nella campagna, la getterete ai cani.
Non spargerai false dicerie; non presterai mano al colpevole per essere testimone in favore di un’ingiustizia. Non seguirai la maggioranza per agire male e non deporrai in processo per deviare verso la maggioranza, per falsare la giustizia.
Non favorirai nemmeno il debole nel suo processo.
Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui ad aiutarlo.
Non farai deviare il giudizio del povero, che si rivolge a te nel suo processo.
Ti terrai lontano da parola menzognera. Non far morire l’innocente e il giusto, perché io non assolvo il colpevole.
Non accetterai doni, perché il dono acceca chi ha gli occhi aperti e perverte anche le parole dei giusti.
Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri nel paese d’Egitto».

Responsorio   Sal 81, 3-4; cfr. Gc 2, 5
R. Difendete il debole e l’orfano, al misero e al povero fate giustizia. * Salvate il debole e l’indigente, liberateli dalla mano degli empi.
V. Dio ha scelto i poveri nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del regno.
R. Salvate il debole e l’indigente, liberateli dalla mano degli empi.

Seconda Lettura
Dai «Trattati su Giovanni» di sant’Agostino, vescovo
(Trattato 15, 10-12. 16-17; CCL 36, 154-156)

Arrivò una donna di Samaria ad attingere acqua
«E arrivò una donna» (Gv 4, 7): figura della Chiesa, non ancora giustificata, ma ormai sul punto di esserlo. E’ questo il tema della conversione.
Viene senza sapere, trova Gesù che inizia il discorso con lei.
Vediamo su che cosa, vediamo perché «Venne una donna di Samaria ad attingere acqua». I samaritani non appartenevano al popolo giudeo: erano infatti degli stranieri. E’ significativo il fatto che questa donna, la quale era figura della Chiesa, provenisse da un popolo straniero. La Chiesa infatti sarebbe venuta dai pagani, che, per i giudei erano stranieri.
Riconosciamoci in lei, e in lei ringraziamo Dio per noi. Ella era una figura non la verità, perché anch’essa prima rappresentò la figura per diventare in seguito verità. Infatti credette in lui, che voleva fare di lei la nostra figura. «Venne, dunque, ad attingere acqua». Era semplicemente venuta ad attingere acqua, come sogliono fare uomini e donne.
«Gesù le disse: Dammi da bere. I suoi discepoli infatti erano andati in città a far provvista di cibi. Ma la Samaritana gli disse: Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana? I Giudei infatti non mantengono buone relazioni con i Samaritani» (Gv 4, 7-9).
Vedete come erano stranieri tra di loro: i giudei non usavano neppure i recipienti dei samaritani. E siccome la donna portava con sé la brocca con cui attingere l’acqua, si meravigliò che un giudeo le domandasse da bere, cosa che i giudei non solevano mai fare. Colui però che domandava da bere, aveva sete della fede della samaritana.
Ascolta ora appunto chi è colui che domanda da bere. «Gesù le rispose: Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: Dammi da bere, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva» (Gv 4, 10).
Domanda da bere e promette di dissetare. E’ bisognoso come uno che aspetta di ricevere, e abbonda come chi è in grado di saziare. «Se tu conoscessi», dice, «il dono di Dio». Il dono di Dio è lo Spirito Santo. Ma Gesù parla alla donna in maniera ancora velata, e a poco a poco si apre una via al cuore di lei. Forse già la istruisce. Che c’è infatti di più dolce e di più affettuoso di questa esortazione: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è Colui che ti dice: Dammi da bere, forse tu stessa gliene avresti chiesto ed Egli ti avrebbe dato acqua viva»?
Quale acqua, dunque, sta per darle, se non quella di cui è scritto: «E’ in te sorgente della vita»? (Sal 35, 10).
Infatti come potranno aver sete coloro che «Si saziano dell’abbondanza della tua casa» ? (Sal 35, 9).
Prometteva una certa abbondanza e sazietà di Spirito Santo, ma quella non comprendeva ancora, e, non comprendendo, che cosa rispondeva? La donna gli dice: «Signore dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua» (Gv 4, 15). Il bisogno la costringeva alla fatica, ma la sua debolezza non vi si adattava volentieri. Oh! se avesse sentito: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò»! (Mt 11, 28). Infatti Gesù le diceva questo, perché non dovesse più faticare, ma la donna non capiva ancora.

Il Monte Sinai

Il Monte Sinai dans immagini sacre 266

http://www.corsodireligione.it/digiland/luoghisacri_12.htm

Publié dans:immagini sacre |on 25 mars, 2011 |Pas de commentaires »

ABRAMO, NOSTRO PADRE NELLA FEDE (Messaggio per la quaresima 2011: Bruno Forte; Chieti-Vasto)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-25918?l=italian

ABRAMO, NOSTRO PADRE NELLA FEDE

Messaggio per la Quaresima 2011 dell’Arcivescovo di Chieti-Vasto

ROMA, sabato, 12 marzo 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il Messaggio per la Quaresima 2011 dell’Arcivescovo di Chieti-Vasto, mons. Bruno Forte.
 
* * *
Nel messaggio per la Quaresima 2011, dedicato alla partecipazione del cristiano al mistero pasquale di Cristo, inaugurata con il battesimo, Benedetto XVI dice – a proposito del vangelo della guarigione del cieco nato – che Gesù “insieme alla vista, vuole aprire il nostro sguardo interiore, perché la nostra fede diventi sempre più profonda e possiamo riconoscere in Lui l’unico nostro Salvatore”. Questa crescita avviene in particolare mediante “l’ascolto attento di Dio”, che continua a parlare al nostro cuore con la Sua Parola di vita e così “alimenta il cammino di fede che abbiamo iniziato nel giorno del Battesimo”. Aprirsi alla fede e crescere in essa costituiscono, dunque, un dono e un impegno così importante che ho pensato di dedicarvi il messaggio per il cammino quaresimale di quest’anno, in comunione profonda con l’invito del Successore di Pietro, ponendomi alla scuola di Abramo, nostro padre nella fede (cf. Romani 4,12), insieme a Voi tutti che mi siete stati affidati.
1. Perché Abramo? Abramo è considerato il padre nella fede da ebrei, cristiani e musulmani. A Gerusalemme, sulla spianata del Tempio, sotto la cosiddetta Cupola della roccia nella moschea di Omar, c’è una roccia che secondo la tradizione è quella del monte Moria, dove Abramo andò per sacrificare Isacco, suo figlio unico, e dire così al Signore Dio di amarLo al di sopra di tutto, persino più dell’amatissimo figlio. È in questa disponibilità all’offerta incondizionata del suo bene più grande che Abramo introduce nella storia un atteggiamento nuovo: la fede. Perciò, nel libro del profeta Isaia, al capitolo 51, si dice di lui: “Guardate la rupe da cui siete stati tagliati, la gola del pozzo da cui siete stati estratti! Guardate Abramo, vostro padre…”.  Con la sua fede Abramo è la roccia, su cui appoggiamo la nostra fede, è il pozzo da cui attingiamo l’acqua del nostro essere credenti. Perciò Paolo non esita a dire nella Lettera a Galati che “figli di Abramo sono quelli che vengono dalla fede” (3,7). La fede è il dono che ci genera alla vita nuova in Dio, insieme al nostro padre Abramo. Le tappe del suo cammino per arrivare ad affidarsi totalmente al Signore sono il modello cui guardare per vivere la nostra crescita nella fede e proporre itinerari di fede a chiunque voglia aprirsi al Mistero santo che salva.
2.  Chi è Abramo? La vocazione di Abramo è narrata nel capitolo 12 del Libro della Genesi (vv. 1-9). I rabbini, maestri della fede nella tradizione ebraica, si sono chiesti chi fosse veramente Abramo quando venne chiamato da Dio e quale conoscenza avesse del Signore. Tre diverse risposte vengono date a questa domanda. Secondo alcune letture rabbiniche Abramo aveva conosciuto Dio all’età di un anno, quando cioè non si ha nessuno strumento concettuale e intellettuale per conoscere in maniera appropriata: si vuol dire così che la conoscenza di Dio fu per lui totalmente un dono. Una seconda tradizione afferma che Abramo aveva conosciuto Dio a tre anni, all’età in cui già si capisce qualcosa e si è stati abbastanza plasmati dall’ambiente familiare: la conoscenza di Dio in Abramo, dunque, sarebbe stata il frutto da una parte del dono di Dio, dall’altra di una certa sua attiva partecipazione e dell’educazione ricevuta dal suo ambiente. La terza tradizione è forse la più bella: Abramo aveva conosciuto Dio a quarantotto anni. Quarantotto sono gli anni della piena maturità della vita, la soglia prima del quarantanovesimo anno (nella simbolica biblica sette per sette è il compimento, la perfezione iniziata). Certo, questa può essere anche l’età del disincanto: quando si è giovani ci sono molti sogni, poi la vita porta spesso a fare l’esperienza della delusione, nello scontro con la realtà tante volte dura, pesante, forse proprio lì dove meno ce lo saremmo aspettato. Sarebbe in questo momento della vita, in cui può affacciarsi la tentazione di cedere all’amarezza del rimpianto, che Abramo scopre l’assoluto primato di Dio. Questa tradizione accentua da una parte il dono divino, dall’altra il fatto che ci si apre veramente al Signore quando si è conosciuto l’uomo, quando si è fatta esperienza del dolore del mondo: allora si capisce veramente il dono dall’alto, e Dio non è più per noi una consolazione umana o la proiezione dei nostri desideri. È la scelta di Dio nel tempo della maturità, nel segno della profondità degli affetti e dei dolori umani. È l’approdo di ogni vera iniziazione alla fede e al tempo stesso il punto di partenza di una crescita che avrà compimento solo nella visione beata del cielo.
3. Da dove viene Abramo? Abramo viene da una famiglia che serviva falsi dei, come testimonia il libro di Giosuè: “Nei tempi antichi i vostri padri, tra cui Terach, padre di Abramo e padre di Nacor, abitavano oltre il Fiume. Essi servivano altri dèi” (24,2). Dal punto di vista delle sue origini familiari, egli non ha nulla che lo predisponga a diventare l’eletto di Dio. La sua gente è idolatrica. La vicenda di Abramo ci fa capire che la fede non si trasmette in modo ereditario: si può arrivare alla fede da qualunque punto di partenza, ognuno pagando il proprio prezzo, vivendo il proprio amore, soffrendo la propria avventura. L’incontro con Dio è sempre frutto di grazia e di libertà! Esso, poi, può avvenire in ogni stagione della vita. Secondo il racconto di Genesi 12, la storia vera e propria della fede di Abramo comincia quando egli aveva 75 anni! Nessun presupposto è assolutamente necessario, se non l’onestà di mettersi in gioco con Dio. Abramo non è un eroe, ha anzi le paure che abbiamo tutti, in particolare quella della morte. Quando arriva in Egitto con sua moglie Sara, avanti negli anni eppure molto bella, inventa che Sara è sua sorella, perché così, se il faraone o qualche potente dell’Egitto avesse messo gli occhi su di lei, non lo avrebbe ucciso per liberarsi del concorrente scomodo (Genesi 12,10-20). Abramo, poi, desidera un figlio, che avrebbe potuto continuare a pronunciare il suo nome con amore. Per lui è questione di vita o di morte, perché non avere un figlio, nella mentalità del suo tempo, significava morire per sempre. A tal punto desidera un figlio, che si lascia convincere ad averlo dalla schiava Agar (Genesi 16, 1-6). Quando poi finalmente Sara partorirà Isacco, Abramo concentrerà su questi tutto il suo amore. Abramo, dunque, è un uomo di età avanzata, che viene da una famiglia idolatrica, pieno di paure, piuttosto passionale: tanto simile a noi, con le nostre fragilità umane, le nostre incertezze, i nostri dubbi, le nostre domande. Eppure, accetta di mettersi in gioco di fronte alla chiamata di Dio. Nell’aprirci e nell’educare alla fede non dobbiamo preoccuparci di meriti e capacità: Dio ama e chiama con assoluta gratuità, non escludendo nessuno!
4. La prima chiamata di Abramo. È a quest’uomo che arriva la chiamata da parte del Signore, che gli chiede di lasciare la sua terra e ogni sua sicurezza. Questo è certamente qualcosa che costa, ancora più quando si è avanti negli anni e si diventa più abitudinari, legati alle proprie certezze per quanto fallaci. Dio gli promette, però, qualcosa di molto bello: la pienezza della benedizione, una discendenza numerosa come le stelle del cielo, come la sabbia che è sulla riva del mare. A uno che non aveva figli una promessa del genere appare un sogno. La chiamata è troppo bella per non essere accolta. Abramo decide di obbedire alla voce di Dio, che gli promette esattamente quello che lui voleva: insegue, cioè, il suo sogno. La chiamata di Genesi 12 è la proiezione del desiderio di chi è chiamato. Se si desidera profondamente qualcosa e Dio ce la promette, può essere facile dire di sì alla volontà divina. Anche le rinunce più grandi, quando sono viste nell’ottica di vedere esaudito il desiderio del cuore, appaiono accettabili. Perciò Abramo parte e, ricco di Dio, sente di poter essere generoso con tutti, come per esempio con Lot, figlio di suo fratello, cui lascia la porzione di terra migliore (Genesi 13,9), o con gli abitanti di Sodoma, per cui intercede comportandosi da abile mercante nelle trattative con l’Altissimo (Genesi 18). Egli sa di aver ricevuto la promessa, e tutto il resto si commisura su questo.
5. Abramo e la seconda chiamata di Dio. Se tutto si fermasse qui, però, Abramo non sarebbe il nostro padre nella fede. Perché ci sia fede non basta l’entusiasmo di seguire Dio quando Lui ti promette le cose che vuoi. Occorre qualcosa d’altro, di diverso, qualcosa che cambi profondamente il tuo cuore, che lo segni per sempre e ti porti solo davanti a Dio solo a vivere l’offerta più difficile, il dolore più grande, l’amore più profondo. Questo è ciò che succede in Genesi 22 (1-18), la seconda chiamata di Abramo, che nella tradizione ebraica viene detta la ‘aqedah, il “legamento” di Isacco (che sarà legato come si lega l’animale da sacrificare). Davanti al comando di Dio Abramo tace. Il Dio che gli ha donato quanto desiderava, gli chiede ora di privarsi di Isacco. C’è da impazzire! Com’è possibile che Dio neghi le promesse di Dio? Che gli chieda di sacrificare l’unica cosa che per lui veramente conta nella vita, l’Isacco del suo cuore? La prova di Abramo è quella di credere in un Dio che sembra negare se stesso. È perciò commovente il dialogo fra Abramo e Isacco. Questi si rivolge a suo padre: “Padre mio”. Sentirsi chiamare così dal figlio amato tocca le fibre più profonde dell’anima di Abramo, che sa solo dire: “Eccomi, figlio mio!”. Riprende Isacco: “Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?” Abramo risponde: “Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio”. Nel suo bellissimo commento a questo testo Søren Kierkegaard immagina qui che Abramo faccia una preghiera segreta: “Signore del cielo è meglio che egli mi creda un mostro, piuttosto che perda la fede in Te” (Timore e tremore). Abramo capisce che se dicesse al ragazzo che Dio lo vuole far sacrificare, Isacco non potrebbe più credere in Dio. Preferisce che il figlio pensi che lui sia un mostro, piuttosto che perda la fede in Dio. Davanti alla seconda chiamata si deve essere pronti a perdere veramente tutto! 
6. Agonie della fede. Abramo ormai ama Dio fino al punto che è pronto non solo a sacrificargli l’amato del suo cuore, ma anche a essere giudicato un mostro dal figlio amato! Kierkegaard aggiunge: “Ciascuno diventa grande in rapporto alla sua attesa; uno diventa grande con l’attendere il possibile, un altro con l’attendere l’eterno, ma colui che attese l’impossibile, divenne più grande di tutti”. Abramo crede nell’impossibile possibilità di Dio, cioè che lo stesso Dio che ha dato e che ha tolto ha sempre una possibilità impossibile e di Lui bisogna fidarsi. Dio, dirà Gesù, può far nascere dei figli ad Abramo dalle pietre. Abramo si fida di Dio anche nel tempo del silenzio di Dio. Questa è la fede di Abramo: fidarsi di Dio quando Lui sembra toglierci tutto. Kierkegaard osserva: “Lasciò la sua intelligenza terrena e prese con sé la fede”. Abramo non ragiona più in termini di calcolo umano: si fida. Credere è imparare ad abbandonarsi perdutamente a Dio! Aggiunge Kierkegaard: “Dio è colui che esige amore assoluto. Abramo ama Isacco con tutta l’anima e quando Dio glielo domanda, lo ama se possibile ancora di più e solo così può farne il sacrificio”. Ami veramente Dio quando continui ad amarLo qualunque cosa Egli voglia per te. Sacrificare quello che uno non ama, è facile: offrire a Dio l’amore più grande, questo è difficile! Abramo può sacrificare Isacco solo perché lo ama infinitamente. A Dio non si offre lo scarto del cuore, ma l’amore più grande. Ognuno di noi ha un Isacco del suo cuore. Fede è capire qual è questo Isacco e metterlo sull’altare del sacrificio per amore di Colui, che solo è degno di quest’offerta. Fede è morire per nascere, lasciarsi far prigionieri dell’invisibile: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà” (Marco 8,34-35). In Genesi 22 Abramo muore ai suoi sogni, perché è pronto ad amare Dio più di tutte le consolazioni di Dio. È allora che l’Eterno può dirgli: “Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio” (Genesi 22,12).
7. Sulle orme di Abramo. Questa è la fede: credere nell’impossibile possibilità di Dio, fidarsi di Lui nonostante tutto, dargli tutto di sé. Così Abramo diventa il padre nostro nella fede, perché ha saputo credere contro ogni evidenza, sperare contro ogni speranza: egli rappresenta tutti noi, che rispondiamo al Signore, a volte caricando il sì del nostro desiderio, come avviene in Genesi 12, ma a cui avverrà prima o poi di essere chiamati – come in Genesi 22 – ad affidarci perdutamente a Dio. Nella lettera ai Romani (8,32) Paolo riprenderà la scena di Genesi 22, offrendo però una diversa lettura dei protagonisti: Abramo sarà Dio Padre e Isacco sarà Gesù; mentre l’Isacco mortale di Genesi 22 non muore, l’Isacco immortale di Romani 8,32 muore per amore nostro. Il sacrificio di Isacco è realizzato in pienezza da Gesù! Nella lotta della fede non siamo soli: Cristo è con noi. Perciò dobbiamo tenere “fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Ebrei 12,2). Ognuno può allora domandarsi: credo in Dio perché realizza i desideri del mio cuore o perché è Dio, il mio Dio, libero e sovrano su di me? Lo amo per le sue consolazioni o unicamente perché è Dio? Qual è l’Isacco del mio cuore? Quale è il bene più grande per me, ciò a cui più ho tenuto o tengo nella mia vita? Sono pronto a offrire a Dio l’Isacco del mio cuore? Accetto di vivere appoggiandomi sulla fedeltà di Dio? Sono disposto a mettermi alla scuola di testimoni credibili della fede, a cominciare dai santi? Cerco aiuto nella comunità dei credenti perché la mia fede generata dalla Parola di Dio, in essa proclamata, sia nutrita dalla grazia dei sacramenti e dalla comunione della carità fraterna?
8. Chiediamo al Signore il dono della fede. Soltanto chi è pronto a dare a Dio il proprio Isacco è pronto a credere in Lui, e questo è un dono da chiedere pregando. “Credo; aiuta la mia incredulità!”, possiamo dire col padre del ragazzo sanato da Gesù (Marco 9,24). O, se ancora non conoscessimo il Signore, potremmo far nostra l’invocazione del giovane Charles de Foucauld nel tempo precedente la sua conversione: “Signore, se esisti, fa’ che Ti conosca”. Se, infine, abbiamo il dono della fede, possiamo chiedere di crescere in esso camminando verso una fede sempre più grande, più pura, più totalmente abbandonata in Dio, pregando con queste parole di santa Teresa d’Avila:“Se ti amo, o mio Tesoro, non è per il Cielo che mi hai promesso. Se temo di offenderti, non è per l’inferno di cui sono minacciato. Quel che mi attira a te, sei tu, tu solo: è vederti inchiodato sulla croce, col corpo straziato, in agonia di morte. E il tuo amore si è talmente impadronito del mio cuore che anche se il Paradiso non esistesse, ti amerei lo stesso; se non esistesse l’inferno ti temerei ugualmente. Tu nulla hai da promettermi, nulla da darmi per provocare il mio amore: quand’anche non sperassi quel che spero, ti amerei come ti amo”. Il dono che vorrei chiedere per me e per tutti noi per questa Quaresima è di riscoprire la grazia del nostro battesimo crescendo nella fede che essa ha acceso in noi, e perciò in una consegna sempre più piena e totale di noi stessi a Dio nella sequela di Gesù, Suo Figlio e nostro Redentore.

Annunciazione del Signore

Annunciazione del Signore dans immagini sacre

http://www.santiebeati.it/

Publié dans:immagini sacre |on 24 mars, 2011 |Pas de commentaires »

25 Marzo: Annunciazione del Signore

dal sito:

http://www.diocesilucca.it/documenti/festivita/Annunciazione_del_Signore.pdf

ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE

25 marzo –

La festa

Cristiani d’Oriente e d’Occidente il 25 marzo festeggiano insieme l’annunciazione del Signore. Un particolare consente di capirne l’importanza nell’Oriente: quando la festa cade nella settimana santa i cristiani d’Occidente la celebrano dopo Pasqua mentre l’Oriente bizantino la celebra ugualmente (facendo grandi eccezioni alla liturgia) mantenendo così intatta la distanza esatta di nove mesi dal Natale, e questo per dare importanza alla festa che segna l’inizio della nostra salvezza. Questa centralità appare anche nel programma iconografico, infatti l’icona dell’annunciazione, oltre che nel registro delle grandi feste, si trova sui battenti della porta bella del santuario, al centro dell’iconostasi, suggerendo l’idea dell’ingresso di Dio nell’umanità attraverso il seno di Maria. Fin dall’inizio la festa fu celebrata in questa data perché nell’antichità era diffusa l’opinione che la creazione del mondo fosse avvenuta nell’equinozio di primavera – la notte del 20 marzo quando nessuna porzione del tempo rimane nel sole – e quella dell’uomo nel sesto giorno, cioè il 25. In base a questa convinzione apparve conveniente che l’incarnazione dell’Uomo nuovo fosse avvenuta lo stesso giorno della creazione del primo Adamo. Massimo il Confessore, nella Vita di Maria scrive: “Era il primo mese, il mese in cui Dio creò il mondo intero, per insegnarci che ora di nuovo egli rinnova il mondo invecchiato. Era il primo
giorno della settimana, cioè la domenica, nel quale ha annientato le prime tenebre e ha creato la luce primogenita, nel quale ebbe luogo la gloriosa resurrezione dalla tomba del re suo figlio e insieme la resurrezione della nostra natura”. I testi liturgici riprendono il parallelismo tra il vecchio e il nuovo Adamo e accanto a questo sviluppano anche il tema di Maria nuova Eva unita al nuovo Adamo nell’operare la salvezza. Inoltre va ricordato che la festa del 25 marzo riassumeva tutto intero il mistero della salvezza dal momento che si pensava che anche la crocifissione fosse avvenuta in questo giorno. La festa è testimoniata dal VI secolo; nei secoli precedenti probabilmente tutto il mistero dell’incarnazione veniva celebrato nel natale. A Roma la festa fu introdotta dal papa Sergio (sec VII) che era di origine siriana. Nella liturgia bizantina il clima della festa è di gioia indicibile, come si conviene a una celebrazione che esalta l’inizio della salvezza dando compimento alle attese della storia e alle promesse dei profeti. Così si esprime un tropario (composizione poetica tipica della festa e ripetuta più volte nell’ufficiatura) delle lodi: “Il mistero che è dall’eternità è oggi rivelato e il Figlio di Dio diviene Figlio dell’uomo, affinché, assumendo ciò che è inferiore possa comunicarmi ciò che è superiore. Fu ingannato Adamo un tempo, e avendo bramato divenire Dio, non lo divenne: ma Dio diviene uomo per rendere Adamo Dio. Si rallegri il creato, danzi in coro la natura, perché l’arcangelo si presenta con timore alla Vergine e le reca il saluto ‘Gioisci’ che toglie la tristezza”. Il contenuto della festa è la l’incarnazione del Verbo, centro del messaggio cristiano presente nella professione di fede di tutte le chiese. Festa cristologia, dunque, alla quale è associata la madre di Dio “terra non inseminata, roveto inconsunto, viadotto, scala, arca dell’alleanza … tutti appellativi che la celebrano come umanità santificata per la presenza del Figlio. La ricca letteratura di omelie e inni evidenziano la doppia natura umana e divina del Cristo, affermando la vera fede contro l’arianesimo. Con lo stesso scopo troviamo l’affermazione della verginità di Maria che il concilio di Efeso (431) proclama Madre di Dio. Come si vede siamo al centro delle dispute dogmatiche dei primi secoli e la liturgia è il luogo in cui è manifestata la fede della Chiesa. Le fonti della festa – quindi dei testi liturgici e dell’iconografia – vanno ricercate nel vangelo di Luca e nell’apocrifo protovangelo di Giacomo.

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