Archive pour mars, 2011

Ma Dio non si nasconde (Bruno Forte)

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_forte5.htm

Ma Dio non si nasconde   

Oggi il teologo Bruno Forte apre il « Festival Biblico 2007″
con una riflessione sullo «zim-zum»: la tesi « cabalistica » che immagina un Divino « auto-limitato » per lasciar spazio al creato. Idea affascinante, superata però dal farsi uomo del Figlio.

Bruno Forte
(« Avvenire », 29/5/’07)

«Il Dio biblico è ritiro, e il mondo accade perché egli si ritira»: il ritirarsi di Dio è «differenziazione creatrice», « kènosi » dell’amore eterno che consente all’essere finito di venire all’esistenza e di permanere in essa nella contingenza della libertà. È questo il motivo ispiratore della dottrina « giudaico-cabalistica » dello « zim-zum » divino, secondo la quale il mondo è potuto apparire proprio perché Dio si è nascosto e contratto. Per creare l’altro come « partner » dell’alleanza, l’Eterno accetta di raccogliersi in un atto di sovrana « auto-limitazione » in modo che la creatura possa esistere « al di fuori di Lui »: lo spazio dell’abbandono di Dio diventa l’ambiente vitale dell’autonomia dell’essere creato, la condizione della sua libertà di accettazione o di rifiuto del Creatore. Dio nasconde il Suo volto perché l’interlocutore del patto non resti accecato dalla Sua luce: Dio si ritrae perché il suo « ostendersi » non bruci come fuoco la differenza fra il finito e l’eterno. L’umiltà divina è la condizione della consistenza del mondo: la determinazione di Dio ad essere il Creatore si congiunge a questa libera auto-limitazione, che consente alla creatura di esistere. L’Eterno è veramente grande nella Sua umiltà!
Questa concezione non è esente da rischi: in particolare, sembra difficile armonizzarla con una prospettiva rigidamente monoteistica, perché, se il mondo è il risultato dell’auto-limitazione di Dio, la sua consistenza appare « limitante » per l’assolutezza divina. È per questo che la dottrina dello « zim-zum » resta marginale rispetto all’ortodossia ebraica, gelosa custode della trascendenza e della forza unificante del Regno del Signore nei confronti di ognuna delle Sue creature. Per la fede cristiana, invece, la Pasqua del Figlio offre una nuova possibilità di comprensione della dottrina dell’auto-limitazione divina: in quanto è l’evento che rivela la « storia della storia », mostrando l’insondabile profondità divina del divenire umano, la morte e resurrezione di Cristo narra – nell’atto stesso del suo comunicarsi – il mistero trinitario del Dio vivente quale dimora trascendente delle Sue creature, origine e grembo santo della vita in tutte le sue forme e i suoi rapporti. Pasqua consente di scrutare non solo l’inizio del mondo in Dio, ma Dio stesso come mistero del mondo. In modo peculiare, nell’evento pasquale è la « kènosi » del Verbo, il supremo abbandono del Figlio sulla Croce, a illuminare la Sua presenza nell’atto creatore di un riflesso a prima vista paradossale: l’amore in forza del quale il Figlio eterno ha spogliato se stesso, umiliandosi fino alla morte e alla morte di Croce (cfr. Fil 2,6ss.), lascia intravedere il suo presupposto eterno nel mistero insondabile dell’umiltà divina, condizione trascendente di possibilità della chiamata all’esistenza del mondo. Il Dio trinitario « fa spazio » in se stesso alla Sua creatura: l’assoluta gratuità dell’amore, che motiva il Padre a porre l’atto creatore, lo spinge ad auto-limitarsi perché la creatura esista nella libertà.
Questa auto-limitazione dice il rispetto che il Creatore ha per l’alterità della creatura, per il suo esistere nella libertà davanti all’offerta della vita, e si congiunge al rischio del possibile rifiuto che l’essere finito può opporre all’infinito Amore. L’auto-limitazione del Padre è così al tempo stesso l’umiltà del Figlio: il prezzo dell’amore divino sarà la consegna dolorosa della Croce. In obbedienza a Dio, il Verbo entrerà nell’esilio dei senza Dio, in un mistero di « kènosi », il cui presupposto eterno è la disponibilità del Figlio a lasciarsi « consegnare » alla morte per amore della creatura chiamata alla vita. All’umiltà donante del Padre corrisponde l’umiltà accogliente del Figlio: Dio si limita donando la vita e accettando la morte. L’unità di questa vita donata e di questa morte accettata è l’evento dello Spirito: l’auto-limitazione del Padre e la dolorosa consegna del Figlio si compio no nel vincolo del Loro infinito amore, come separazione che nasce dall’infinita comunione e la rivela nel segno del contrario. In questo senso articolato, ricco della profondità abissale del mistero trinitario, va interpretata l’invocazione che Francesco rivolge al Dio vivente nelle « Lodi di Dio Altissimo »: «Tu sei trino e uno, Signore Iddio… Tu sei il bene, tutto il bene, il sommo bene… Tu sei amore, carità. Tu sei sapienza. Tu sei umiltà…».
Se dunque la relazione in cui si compie la « contrazione » divina non è semplicemente quella fra Dio e il mondo, ma più in profondità quella fra il Padre e il Figlio, allora lo « spazio » ceduto dall’Eterno non è occupato da una creatura a Lui inferiore e ipoteticamente capace di « limitarLo », ma è pervaso da un’altra Presenza divina. La consistenza del mondo non esige un contrarsi del divino che faccia « spazio » all’altro alternativo all’Unico, ma rimanda all’eterno dinamismo dell’amore umile dei Tre, per il quale ciascuno esce da sé e si dona all’altro, perdendosi per ritrovarsi nella comunione con l’altro. L’auto-limitazione divina, in quanto si svolge nel seno stesso delle relazioni trinitarie, è insomma la condizione di possibilità dell’esistenza del mondo creato come altro da Dio, pur se non separato da Lui e « fuori » di Lui. L’umiltà divina non è che l’altro nome della libertà da sé con cui ciascuna Persona divina ama l’altra e con cui il Dio trinitario crea il mondo per amore e per amore lo conserva in vita.
La categoria dell’ »ad extra », di ciò che sta « fuori » rispetto a Dio, va dunque ripensata nel suo significato più proprio: essa dice la trascendenza e la sovranità di Dio, ma non esclude in alcun modo che il mondo esista in Lui, nello « spazio » trascendente delle relazioni « intradivine » e nel dinamismo di umiltà e auto-limitazione che le caratterizza. L’esteriorità del mondo rispetto a Dio non si contrappone all’interiorità di Dio al mondo, ma la esige: la consistenza della creatura sta nel suo esistere creato (« ex-sistere »), nel suo venire da Dio, per Lui ed in Lui, dal Padre, per il Verbo, nello Spirito. L’essere creaturale è costantemente rapportato al Creatore, presente al Padre nel Figlio, recettivo in Lui del dono di Dio, congiunto nello Spirito all’Eterno ed insieme in Lui chiamato a libertà. La suprema trascendenza viene così ad identificarsi con l’immanenza suprema: «Quanto una cosa possiede l’essere, tanto occorre che Dio le sia vicino, in base al modo in cui possiede l’essere. L’essere è quanto di più intimo ci sia ad ogni cosa, e quanto di più profondo dimori in tutte… Perciò occorre che Dio sia in tutte le cose, ed « intimamente »».

Gerusalemme – il muro del pianto

Gerusalemme - il muro del pianto dans immagini varie Western_wall_jerusalem_night

http://en.wikipedia.org/wiki/File:Western_wall_jerusalem_night.

Publié dans:immagini varie |on 29 mars, 2011 |Pas de commentaires »

Il deserto: la vera scuola di Torah e di fede – Midbar Mdaber

dal sito:

http://www.midbar.it/la_vera_scuola_di_torah_e_di_fede.html

Il deserto: la vera scuola di Torah e di fede

MIDBAR MEDABER

di Daniela Abravanel – Migdal Lago di Tiberiade (Israele)

La storia ebraica inizia nel deserto, luogo dove gli Ebrei ricevettero la Torah e si costituirono come popolo, imparando, nei quarant’anni di viaggio in questo spazio fisico, a mantenere uno stato di perfetta unione tra se stessi (le dodici tribù) e Dio. A corredo di questo articolo utilizzerò delle immagini della ricerca fotografica di Noah Fulberg sul Sinai, come sfondo ad alcune riflessioni sul significato della peregrinazione nel deserto.
Da sempre il viaggio nel deserto significa viaggio nell’interiorità, rinascita spirituale.
Andiamo al Libro della Genesi, alla prima comunicazione tra Dio e Abramo. Il primo ebreo, Avraham ha-ivrì, cioè l’uomo che aveva scelto di stare dall’altra parte, non riuscendo più a tollerare il materialismo che lo circondava, ricevette, come primo messaggio divino, l’ordine di mettersi in viaggio: Lekh Lekhà (Lekh, vai via, abbandona l’esteriorità e Lekhà, va’ dentro te stesso). Vai nella Terra che Io ti mostrerò. E il luogo da attraversare per arrivare alla Terra Promessa è il deserto, che non è solo un luogo geografico, ma uno stato di coscienza, grazie al quale Avraham può ubbidire al comando Lekh Lekhà.
È lecito chiedersi perché per giungere a tale stato di coscienza sia necessario un viaggio di tipo fisico. La risposta a questo interrogativo è che in genere, nella Torah, ogni descrizione della realtà fisica, di ogni qualità materiale, è la metafora di un qualcosa di spirituale (la bellezza degli occhi di Rachel allude alla sua elevata statura morale, la purezza dell’Acqua – che scende dall’Alto al basso – rappresenta la Torah, etc.).
Per quanto riguarda il viaggio nel deserto in particolare è fondamentale soffermarsi sul significato della parola Derekh, cammino, in due passaggi susseguentisi nel Deuteronomio (VIII 2,6):
« Ti ricorderai di tutto il cammino (derekh) lungo il quale il Signore Tuo Dio ti ha fatto camminare per quarant’anni nel deserto. »
« Osserverai i comandamenti dell’Eterno, tuo Dio, camminando per le Sue Vie (bederakhai) e avendo Timore di Lui. Perché l’Eterno il Tuo Dio ti conduce in un paese pieno di rivi d’acqua, di torrenti che si spandono nella valle e sulla montagna. »
Nella seconda parte dell’ultimo paragrafo notiamo che l’esperienza del mondo fisico (il viaggio nel deserto, tra i suoi rivi d’acqua etc.) si rivela chiaramente come uno strumento per portarci ad un secondo tipo di viaggio (a conoscere le vie, derakhai, del Signore).
Partendo dalla pista del deserto arriviamo quindi alla pista dentro di noi che ci conduce all’ascolto della parola di Dio.
La lingua ebraica ci aiuta ulteriormente a capire tale connessione. Midbar, deserto, significa anche ciò che parla, medaber. Esso è il luogo in cui la parola divina viene trasmessa al popolo, lo spazio fisico (Poh) che diviene luogo della emissione della Parola (Peh)[1].
Resta ora da capire cosa rappresenti il deserto, perché è un viaggio nel deserto del Sinai anziché sugli alti picchi dell’Himalaya a iniziare gli Ebrei alla spiritualità.
Il deserto è la terra di nessuno, il luogo in cui la presenza rassicurante degli oggetti fisici viene a mancare: nel deserto non si vede un albero, una casa, non si scorge nulla di ben definito. Funzione del deserto quindi è ridare all’immaginazione il suo massimo potenziale, ispirare il sentimento delle infinite possibilità di evoluzione, liberare dalla ripetitività del già definito, degli schemi fissi.
È quindi il deserto che ci avvicina gradualmente a Dio, che nella Torah si autodefinisce Dio della libertà. Il primo dei dieci comandamenti ci avverte subito che l’ebraismo non è una religione per schiavi: Io sono il Signore Tuo Dio che ti ha liberato dal paese d’Egitto (Egitto in ebraico è Mitzraim, luogo stretto). E il deserto è il mediatore privilegiato di questo messaggio di libertà assoluta, della costante possibilità per l’uomo di scegliere tra la vita e la morte. Di scegliere tra il passaggio in Erez Israel o l’arresa al deserto che, nel momento in cui l’uomo rinuncia alla lotta contro la morte e il male (concetti che nella Torah coincidono, essendo Dio definito come Dio della Vita) lo inghiotte, immobilizzandolo sotto il sale, la sabbia, la roccia.
E nella dialettica tra deserto e vegetazione (perfettamente espressa a Ein Gedi, nel deserto di Giuda in Israele, dove ogni giorno i primi pionieri strappavano al deserto un metro dopo l’altro di terreno arido e sabbioso da coltivare) che sono contenuti i due poli dell’esistenza umana, la scelta tra la devekut, l’attaccarsi a Dio e alla Vita, assumendo il controllo della propria esistenza, o il permettere alle forze del male di trionfare, rendendo sterile (come il deserto) ogni nostro potenziale di creazione e di rinascita.

Afferma il profeta Isaia:

« Che gioiscano deserto e terra arida,
che esulti e fiorisca la steppa,
che si ricopra di fiori,
che gioisca e gridi di allegria.
La gloria del Libano le è concessa[2].
………………………………….
allora gli occhi del cieco si apriranno
e le orecchie del sordo udiranno;
allora lo zoppo salterà come un cervo
e la bocca del muto canterà,
perché nel deserto le acque scorreranno
come torrenti nella steppa
e la terra bruciata diventerà un lago
e il paese della sete si riempirà di rivi d’acqua. »

Senza la continua vigilanza contro le forze della distruzione, il male che dovrebbe essere sottomesso ci dominerà, il deserto che dovremmo coltivare ci inghiottirà. La lotta per la vita è costante. Se tu non fai il bene – è detto a Caino – il peccato ti aspetta alla porta. Ma tu lo puoi dominare.
Così come nel deserto i nostri Padri impararono a scegliere tra la vita e la morte, anch’io non avrei potuto assimilare la Torah appresa sui libri, rendendola in questo modo parte integrante del mio vissuto interiore, senza alcuni viaggi compiuti nel deserto. Per rendere più comprensibili queste mie affermazioni vorrei riportare alcune mie esperienze provate durante una scalata semi impossibile intrapresa per un sentiero sbagliato.
Assetata e stanca, di fronte ai vertiginosi baratri, avevo ormai raggiunto la consapevolezza costante che senza la protezione divina ad ogni passo avrei potuto mettere il piede sulla roccia sbagliata, rotolando così giù come alcune pietre che avevo visto franare. Ad un certo punto scorsi però uno stambecco spiccare un salto senza esitazione tra due rocce, ed ecco allora che ebbi questa intuizione: compresi finalmente il significato della preghiera Hashem mia Roccia (Tzurì) e mio Salvatore (veGoalì). Dio può essere il tuo Salvatore quando scegli di vivere in uno stato di costante Teshuvà [3], pentimento. Questo ci permette di venire illuminati, di scegliere come l’ayal, lo stambecco tanto caro al re David, la roccia giusta, di collocarci cioè nell’adeguato stato di coscienza rispetto alla Roccia. Dopo l’insegnamento dello stambecco cominciai a provare una fede vera nel Dio che nella mia esistenza diventava l’unica mia pietra (Hashem Tzurì) che non vacillava.
Man mano che proseguivo nella scalata (che non potevo interrompere dato il timore del baratro sottostante) facevo Teshuva. Ogni volta che posavo il piede su una pietra poco rassicurante mi liberavo di ogni fantasia idolatra che mi poneva al centro del mondo. Ogni pietra un voto, di cui ne mantengo ancora stranamente molti.
Ad un certo punto la stanchezza divenne tale che persino cento grammi nel mio sacco divennero zavorra insostenibile. Iniziai allora a lasciare dietro di me oggetti e cibo per proseguire solo con una bottiglia d’acqua. Così come accadde ai nostri Padri l’acqua era divenuta l’unica necessità per la mia sopravvivenza. E come insegnano i Saggi dell’ebraismo, l’acqua rappresenta la Torah, la Fede.
Purtroppo a volte tale consapevolezza mi abbandona: invece di quarant’anni, alla scuola del deserto, ho passato solo pochi giorni.

NOTE:

1. Poh, qui e Peh, bocca, in ebraico sono scritte con le medesime lettere Pe – Hei).
2. della sua verde vegetazione.
3. Teshuva, tradotto con pentimento, deriva dal verbo lashuv, voltarsi, fare ritorno a Dio.

Publié dans:EBRAISMO - STUDI |on 29 mars, 2011 |Pas de commentaires »

Shabbat, 31 maggio 2008 / 26 Iyar, 5768 – D’VAR TORAH – Bamidbar, Numeri 1,1-4,20

dal sito:

http://lnx.levchadash.info/index.php?option=com_content&task=view&id=137&Itemid=44

LA PARASHAH DELLA SETTIMANA

Bamidbar, Numeri 1,1-4,20

Shabbat, 31 maggio 2008 / 26 Iyar, 5768

Haftarah, 1Samuele 20,18-42 

D’VAR TORAH

La spiritualità del deserto

di Jonathan E. Blake

Traduzione dall’inglese di Roberto H. Tonetti 

«Nel primo giorno del secondo mese, nel secondo anno dall’uscita dalla terra d’Egitto il Signore parlò a Mosè nel deserto del Sinai, nella tenda della radunanza, dicendo così» (Num 1,1).
L’esperienza del deserto copre più di metà della Torah e dà il nome alla porzione di questa settimana nonché, in ebraico, al 4° libro: Bamidbar significa infatti ‘nel deserto’.
Non è cosa comune vivere in un deserto, anche chi tra noi vive in zone scarsamente popolate trova facilmente i conforti della civiltà. Questo testo è stato scritto a pochi chilometri dalla metropoli di New York, ma arriva in ogni luogo del pianeta che abbia una connessione a internet.
Non è comunque un caso che noi, come popolo, siamo diventati ‘maggiorenni’ nel deserto: è lì, secondo il racconto della Torah, che passammo 40 anni di peregrinazione e conquistammo il rispetto di noi stessi in quanto popolo, non più schiavo di Faraone. La Torah individua il suo nucleo legislativo-rituale nell’esperienza del deserto. Gli autori della Torah vollero suggerirci che le norme basilari della vita ebraica ebbero origine e furono adottate, ancora prima che il popolo mettesse piede nella Terra Promessa, in un’area aperta e non appartenente a nessuno: così il deserto fu una fonte di ispirazione per i nostri antenati.
Anche noi possiamo trarre della saggezza dal deserto.
Lo scorso febbraio mi recai in Israele con una delegazione della mia congregazione: viaggiammo a nord sino a Haifa e a sud sino a Eilat. Passammo una giornata a esplorare il Negev, lo stupendo deserto che occupa il 60% della superficie d’Israele ed è abitato dal 10% della popolazione. Il Negev non è un deserto di dune di sabbia come il Sahara: è più simile alla parte mediana rocciosa dell’Arizona.
Visitammo Timna, un parco archeologico di miniere di rame che risalgono alla fine del II millennio a.e.v., quando arrivarono dal sud delle spedizioni di minatori per fondere il rame destinato ai grandi templi egizi. Andammo verso nord al cratere Ramon, che è un fenomeno geologico chiamato machtesh: si tratta di una massa d’acqua delimitata che gradualmente fuoriesce da una stretta apertura; l’erosione crea così una impronta profonda nel mezzo della cima di un monte. Risalimmo il canyon della fonte idrica Ein Avedat e fummo stupiti dal panorama che si vedeva dall’alto. Scorgemmo la tomba di David Ben-Gurion nell’ampio midbar che si estende sino all’orizzonte. Ben-Gurion sognava un futuro stato ebraico che avrebbe coltivato e abitato il Negev: mise il suo denaro nel luogo dei suoi desideri andando a vivere in quel luogo selvaggio di frontiera, ancora oggi popolato solo in parte. È una terra eccezionalmente difficile, anche dal punto di vista economico, da irrigare e da abitare.
In queste esplorazioni desertiche potevamo immaginarci equipaggiati come i nostri antenati nomadi che andavano a piedi nel deserto roccioso, si accampavano nelle oasi coi cammelli carichi, cercavano l’ombra di una rupe nel caldo estivo. Nel deserto facemmo esperienza di un risveglio spirituale in assoluta sintonia con l’ambiente naturale: nel deserto udimmo due messaggi ebraici.

Stupore radicale
La quiete del midbar attirò la nostra attenzione: qui per la prima volta nei nostri viaggi in Israele avemmo difficoltà di collegamento coi nostri apparecchi cellulari; evitammo il traffico di Gerusalemme e di Tel Aviv, la folla di palazzi negozi e ristoranti, i vistosi supermercati di Eilat. Camminavamo, ciascuno secondo il suo ritmo, in uno spazio privato entro il deserto non sentendo altro che il rumore dei ciottoli sotto le suole, e il suono del nostro respiro.
Tutti provammo la sensazione di essere trasformati da quei pochi minuti di silenzio desertico: Heschel avrebbe parlato di meraviglia o di stupore radicale. « La meraviglia o lo stupore radicale è la caratteristica principale dell’attitudine dell’uomo religioso verso la storia e la natura. … Egli sa che vi sono delle leggi che regolano il corso degli eventi naturali; è consapevole delle regolarità e degli schemi degli enti. Quando osserva il mondo, dice: ‘Ecco l’opera del Signore: una meraviglia ai nostri occhi’ (Salmo 118,23) ». (Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo) Oggi non è facile formulare quel pensiero. Heschel osserva ancora che « con l’avanzare della civilizzazione declina il senso del meraviglioso ». Per lui lo stupore radicale è propedeutico a ogni consapevolezza religiosa: alle volte ci vuole un deserto per risvegliarla!

Umiltà
L’ampio vuoto del deserto ci fece sentire piccoli: non insignificanti ma piuttosto colpiti dall’enormità di quanto ci circondava. Coscienti della scarsità delle zone ancora incontaminate nel mondo e del danno che quotidianamente causiamo all’ambiente, ci sentimmo umili davanti a quell’austero paesaggio che rappresentava un quadro del mondo su cui l’uomo non aveva messo le mani.
Alan Weisman ha scritto un libro, The World Without Us [Il mondo senza di noi] (New York: Thomas Dunne Books, 2007), in cui rappresenta, tramite le scienze esatte e l’agile immaginazione, un mondo improvvisamente privo della presenza umana. Weisman indaga su « come le nostre possenti infrastrutture crollerebbero e infine svanirebbero senza la presenza dell’uomo; ciò che delle nostre cose rimarrebbe immortalato come fossili: i tubi di rame e i cavi sarebbero appiattiti in orme su rocce rossastre; le nostre costruzioni più antiche sarebbero la testimonianza architettonica più longeva; la plastica, le sculture bronzee, le onde radio e certe molecole assemblate dall’uomo potrebbero essere i nostri doni più duraturi lasciati nell’universo » (cfr. la recensione su
www.worldwithoutus.com/about_book.html). Questa visione di un midbar sollevato dalla presenza umana ci rende umili, a dir poco.
Il soggiorno nel deserto riaggiusta la nostra prospettiva: non ci sentiamo più al centro dell’universo; nel deserto arriviamo a comprendere il poeta:

Vi è un piacere nei boschi senza sentieri,
Vi è un’estasi sulle spiagge solitarie,
Vi è una società dove nessuno invade,
Presso il mare profondo, e musica nel suo fragore:
Non amo di meno l’uomo, ma di più la Natura.
(George Gordon, Lord Byron, da « Childe Harold’s Pilgrimage »)

Quando è stata l’ultima volta che vi siete raccolti nella solitudine, lontano dalla civiltà? Uscite per un po’ di tempo: lontano dai palazzi, dalle auto, dai cavi e dall’altra gente. Spegnete i cellulari per un quarto d’ora. Sedete in disparte: chissà che cosa scoprirete!

Rabbi Jonathan E. Blake è rabbino associato del Reform Temple di Westchester a Scarsdale, New York, Stati Uniti d’America. Laureatosi allo Amherst College (1995), fu ordinato allo Hebrew Union College-Jewish Institute of Religion nel 2000 e ha contribuito alle pagine web di « 10 Minutes of Torah » nel 2005-06. 

DAVAR ACHER

La parashah Bamidbar: tutti quei Numeri!

di Stephen J. Einstein

Se vi domandassi il nome del 4° libro della Torah forse rispondereste ‘Numeri’ anziché ‘Bamidbar’: mentre i titoli ebraici derivano dalla prima parola importante in ciascun libro (tralasciando le espressioni standard come Vayedaber Ado-nai el Mosheh, « Il Signore parlò a Mosè »), quelli italiani hanno derivazione tematica, da un evento-chiave descritto nel libro. Noi siamo in generale più abituati a questi titoli.
Il libro dei Numeri si apre col censimento dei figli d’Israele tribù per tribù e famiglia per famiglia: considerando la prassi comune ebraica è sorprendente che un tale censimento sia stato completato e registrato: nel corso di buona parte della nostra storia il conteggio delle persone ha destato preoccupazione. Certamente nei tempi biblici era necessario sapere quanti uomini potevano essere armati per autodifesa, ma abbiamo sempre scoraggiato una contabilità precisa.
Pensate al minyan: per eseguire un servizio di culto pubblico sono richiesti dieci Ebrei adulti: che siano maschi o donne è motivo di disaccordo tra i vari movimenti giudaici; nelle congregazioni Reform non vi è differenza rispetto al minyan. Tuttavia la prassi è di non contare direttamente gli individui. Si adopera invece un modo speciale ebraico di numerazione: « Non uno, non due, non tre etc. » Un altro metodo è scandire una parola ebraica dopo l’altra da un versetto mentre si passano in rassegna le persone: ovviamente il versetto deve avere 10 parole! Sovente usiamo il testo ebraico del Salmo 28,9: « Hoshiah et amecha uvareich et nachalatecha ureim v’naseim ad haolam » (Riscatta e benedici questo Tuo popolo; nutrilo e sostienilo per sempre).
Perché non ci piace contare direttamente? credo che ciò abbia a che fare col concetto di ‘ayin hara‘, l’occhio malvagio. La vita è di per sé pericolante e noi cerchiamo di evitare il peggio: alcuni penseranno che sia superstizione, altri, costume popolare.
Dunque quale tipo di conteggio è permesso, anzi incoraggiato, dalla nostra tradizione? Un conteggio intimo, come dice il Salmo 90,12: « Insegnaci a contare correttamente i nostri giorni, così avremo un cuore saggio. »
Rabbi Stephen J. Einstein è rabbino alla Congregazione B’nai Tzedek, Fountain Valley, California, Stati Uniti d’America.
Il libro dei Numeri è la storia di un viaggio: rispetto allo sfondo del Levitico, con la sua assenza di movimento, Numeri si occupa essenzialmente del movimento. Il viaggio come tema letterario ricorre sovente nella letteratura mondiale, dall’epica di Gilgamesh (il libro più antico a noi noto) e l’Odissea sino alle Avventure di Alice e il Mago di Oz. Il viaggio rispecchia un’esperienza reale ed è una metafora viva della vita umana: una connessione tra il mondo letterario e quello dei sogni in cui ricorrono i temi del viaggio. Il viaggio in letteratura può essere l’esperienza di un singolo o di un gruppo: nel nostro libro è entrambe le cose. È il viaggio del popolo d’Israele dal Sinai sino ai confini di Canaan, dal luogo della costituzione del patto fino al posto in cui esso dev’essere compiuto; è anche il viaggio di Mosè dal Monte Sinai al Monte Abarim: dal luogo dove vide Dio sino a quello dove morirà.
Dobbiamo leggere il racconto di Numeri immaginando ciò che viene rappresentato: una grande massa di persone (603.550 maschi adulti più i maschi giovani e gli anziani, e ancora le donne di ogni età), ossia un’intera nazione, in marcia – con un miracolo visibile, la colonna di fuoco, e una nutrizione miracolosa, la manna, che avvengono in loro presenza costantemente per un periodo di 40 anni. È la sola epoca biblica in cui il miracolo è un fatto quotidiano. C’è un’organizzazione nel viaggio, una gerarchia nella vita comunitaria (Mosè, i giudici e i sacerdoti) e dei rituali formali cronologici (Shabbat, feste e noviluni) e spaziali (sacrifici, incenso, abbigliamento, il Tabernacolo, le frange agli abiti). C’è una meta anticipata in un futuro a cui alcuni accederanno, e altri no. Il popolo è in una condizione precaria, conscio della vita in Egitto alle sue spalle e di quella promessa davanti. La loro mentalità è quella di schiavi, vi sono vari gruppi e individui tra loro che hanno interesse a posizioni di comando: stando a quanto viene narrato, essi sono profondamente impauriti.
Rispetto a questa situazione la divinità viene vista frequentemente nell’atto di parlare e agire in risposta a degli eventi umani anziché divini. I discorsi della divinità sono minori e più brevi che nei libri precedenti: il Levitico si occupa principalmente di Dio che dà le leggi al popolo, ma Numeri si concentra sulle loro prime esperienze di vita sotto quelle leggi, e sulla risposta di Dio al corso delle azioni da essi intrapreso. Rispetto all’insieme dei comandamenti del Levitico, Numeri è la narrazione di un popolo che prende coscienza del suo ordinamento costitutivo legale, e del fatto che le leggi hanno una relazione sacra con la divinità. In mezzo a tutto ciò sta Mosè. Il racconto verte sul popolo e Dio, ma si focalizza senz’altro su Mosè, la sua personalità e specialmente i suoi conflitti.

R. E. Friedman, Commentary on the Torah with a New English Translation and the Hebrew Text, Harper SanFrancisco pp. 421-22.

buona notte

buona notte dans immagini...buona notte...e hippophae_rhamnoides_589

Hippophae rhamnoides

http://www.floralimages.co.uk/index_1.htm

Publié dans:immagini...buona notte...e |on 28 mars, 2011 |Pas de commentaires »

Omelia (29-03-2011): Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/21931.html

Omelia (29-03-2011)

Ileana Mortari – rito romano

Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette

La comunità degli uomini può reggersi solo sul perdono, la misericordia, la pietà. Dove queste cose sono assenti mai vi potrà essere vera umanità. Vi regneranno disumanità, crudeltà, malvagità, vendetta, faida, volontà di morte, uccisione, sterminio. Si può anche giungere al terrorismo che è il frutto estremo della perdita della nostra verità.
Senza perdono mai vi potrà essere la pace in un cuore. Esso si chiede e si offre. Chi lo chiede deve sempre offrirlo. Se noi lo chiediamo a Dio, dobbiamo sempre offrirlo ai nostri fratelli. È questa la condizione perché il perdono di Dio si riversi nella nostra vita e vi porti la pace. Nessuno si faccia illusione: la misura del perdono del Signore è data dal nostro perdono dei fratelli. Chi non perdona i fratelli, mai potrà essere perdonato da Dio. Perché è verità questa affermazione? Perché il perdono di Dio porta la pace totale nel cuore e chi è in guerra contro i suoi fratelli, attesta di non essere nella pace. Non è nella pace perché è privo del perdono del suo Dio.
Quando non si è in una pace cosmica, universale, totale è segno che Dio non abita nel nostro cuore con la sua presenza rinnovatrice e creatrice di santità. È segno che noi viviamo con Lui un rapporto solo religioso, non di fede. È manifestazione di un male in noi che impedisce al nostro Dio di abitare con la pienezza della sua grazia e verità. Dio che è sommo ed eterno amore è sempre respinto dall’odio, dalla cattiveria, dalla malvagità del cuore ed un cuore è sempre malvagio, spietato, crudele quando non dona il perdono ai suoi fratelli, quando non si riconcilia con loro.
Tutti i nostri comportamenti cattivi e malvagi nascono da un solo falso principio: pensiamo tutti che la Parola di Dio sia senza verità. Essa è detta, ma solo come voce che risuona nell’aria, simile al cinguettio di un uccello, un latrato di cane, un miagolio di un gatto. È voce, ma senza significato; è parola, ma senza contenuto; è Vangelo, ma senza verità in esso. Questo errore ci fa’ chiedere perdono a Dio e legalizza l’uccisione dei nostri fratelli. Ci fa credere in pace con Dio mentre si è nell’odio per il mondo.
Vergine Maria, Madre della Redenzione, facci persone di vera, retta, santa fede. Liberaci dalla religione iniqua. Angeli e Santi di Dio, insegnateci la verità del perdono.

Basic Hebrew from Alef to Tav

Basic Hebrew from Alef to Tav dans immagini sacre hebrew

http://www.fmboschetto.it/religione/corso/relig1.htm

Publié dans:immagini sacre |on 28 mars, 2011 |Pas de commentaires »
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