PASSAGGI DI VITA, PASSAGGI DI FEDE – L’IOCNA DI MOSÉ (Bruno Forte)

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PASSAGGI DI VITA, PASSAGGI DI FEDE

L’ICONA DI MOSÉ

Bruno Forte

Per introdurre la riflessione sulle « transizioni » della vita e il cammino della fede scelgo l’icona biblica di Mosè, il « salvato dalle acque ». Il perché è presto detto: secondo la tradizione ebraicocristiana Mosè è la figura dell’uomo davanti a Dio  in tutti i passaggi della vita e della fede. È attingendo a questa convinzione che Gregorio di Nissa ha scritto uno dei testi più importanti della spiritualità cristiana, la Vita di Mosè, dove il « Salvato dalle acque » è presentato come esempio del cammino che tutti dovremmo percorrere per piacere a Dio, vivendo la nostra esistenza di battezzati – anche noi salvati dalle acque! – come un cammino pasquale, un continuo esodo dalla schiavitù del nostro Egitto alla libertà della terra della promessa di Dio. Mosè – secondo Gregorio – è colui che ha conosciuto sul monte la « tenebra luminosa » dell’esperienza mistica del divino (II, 163), perché è stato « l’ardente innamorato della bellezza » (II, 231), che non ha mai cessato di avanzare verso la
visione di Dio: « Vedere Dio significa non saziarsi mai di desiderarlo… né il progredire del desiderio del bene è impedito da alcuna sazietà » (II, 239). Proprio in questa continua crescita Mosè si offre come un modello, che ci insegna a sperimentare come lui ha fatto « l’impronta della bellezza che ci è stata mostrata » (11,319) nei vari passaggi della vita e della fede. In sintonia con la tradizione ebraica, e il capitolo settimo degli Atti degli Apostoli (7,20-43) a scandire la vita di Mosè in tre tappe, ciascuna di 40 anni: al v. 23 si dice che « quando furono compiuti 40 anni sali nel suo cuore l’idea di visitare i fratelli, i figli d’Israele »; al v. 30 si afferma che « compiuti altri 40 anni, gli apparve nel deserto del Sinai un angelo in fiamma di fuoco ». Nel libro del Deuteronomio è lo stesso Mosè morente a dire: « Io oggi ho 120 anni » (31,2: cf. 34,7). Dunque, secondo questa preziosa testimonianza biblica, la vita di Mosè dura tre volte 40 anni – 40 alla scuola del Faraone, 40 nella terra di Madian, 40 nel deserto. Quaranta – quattro, numero del mondo definito dai quattro punti cardinali, moltiplicato 10, numero indicativo della perfezione – è una cifra
densamente simbolica: tre tappe di 40 anni vogliono dire che ognuna di esse  ha un significato di valore universale. In esse ogni creatura umana potrà riconoscere i propri decisivi passaggi della vita e della fede e rileggere la propria esistenza davanti a Dio. Cosi, si intravede la convinzione che Mosè siamo noi, tutti e ciascuno chiamati a camminare alla presenza dell’Eterno. La prima tappa della vita di Mosè scandisce il tempo dell’utopia, ovvero della dolce incoscienza, in cui colui che è stato salvato dalle acque dalla Figlia del Faraone e istruito in maniera raffinata (cf. Es 2 e At 7), vive in un mondo ovattato. E l’età dei sogni e delle grandi illusioni: è la stagione di una conoscenza filtrata, piuttosto astratta della vita e degli uomini (cf. At 7,20-22). Fra gli agi e i piaceri tutto sembra bello, possibile, facile: è un’età nella quale il confine tra la realtà ed il sogno è difficile da marcare, fino al punto che la realtà sembra talvolta nient’altro che un’appendice dell’immaginazione. 
Cosi, Mosè incomincia a sognare di cambiare il mondo. Egli sa, perché la madre-nutrice glielo ha confidato, che è un figlio di Israele, e da giovane brillante, ricco e felice qual è, concepisce il sogno di essere il liberatore della sua gente. Nella dolce incoscienza di questa fase, egli cerca più la propria gloria che la libertà di un popolo, di cui non ha di fatto alcuna conoscenza. Mosè esce cosi dalla casa del Faraone per andare in mezzo ai figli d’Israele. Lo spettacolo, cui assiste per caso, di un egiziano che sta percuotendo un ebreo, lo indigna a tal punto da indurlo ad uccidere il violento, per poi pentirsene subito, tanto da nasconderne il  corpo, quasi a voler cancellare l’atto compiuto. Quando, però, il giorno seguente un ebreo colpisce in sua presenza un altro ebreo e Mosè vuole intervenire per ricordare la fratellanza che li unisce, lo raggiunge una frase inattesa, tagliente: « Vuoi uccidere me come hai ucciso l’Egiziano? ». I  suoi fratelli cominciano a rifiutarlo: divenuto terribilmente scomodo, Mosè prova il dolore profondo di sentirsi estraneo agli altri, a se stesso, a
Dio. Il sognatore, il giovane vissuto nell’incoscienza, scopre tutta la pesantezza della realtà. Inizia il tempo del disincanto. E questo il secondo grande passaggio della vita di Mosè, la stagione dello scacco: l’illusione cede il posto alla delusione. Osserva lapidariamente il racconto degli Atti: « Egli pensava che i suoi connazionali avrebbero capito che Dio dava loro salvezza per mezzo suo, ma essi non compresero » (At 7,25). In questo « ma » c’è tutta l’amarezza di una frustrazione, la crisi del sogno della sua scelta di vita (cf. vv. 27-29). Lui, il coraggioso che aveva rinunciato ai  privilegi uscendo dalla casa del Faraone, ha paura e fugge: « Fuggi via Mosè e andò ad abitare nella terra di Madian, dove ebbe due figli » (v. 29).  Nella terra d’esilio si va tuttavia progressivamente accomodando: pensa di aver fatto abbastanza, abbandona i sogni della giovinezza,  ritiene di aver ormai diritto  ad una vita tranquilla, senza sorprese o pericoli. E il tempo della rassegnazione, in cui Mosè sembra diventato incapace di sognare: lo scacco diventa rinuncia e l’esilio da esterno si fa interiore. Mosè si arrende alla realtà e, per far finta che tutto vada bene, si stordisce, inseguendo il denaro, il successo, il potere. Eppure, i 40 anni di Madian sono anche un tempo di bilanci, di maturazione, di solitudine con Dio nel deserto, come non manca di osservare Gregorio di Nissa. Nel disincanto,  si prepara la missione degli anni della maturità. E la terza tappa, il tempo della fede e dell’amore più grande, che comincia con un passaggio radicale, segnato dall’irruzione di Dio nella sua vita: « Passati quarant’anni, gli apparve nel deserto del monte Sinai un angelo, in mezzo alla fiamma di un roveto ardente » (At 7,30). Apparentemente
all’improvviso, in realtà come frutto di una maturazione lenta e profonda, Mosè scopre l’iniziativa di Dio e capisce che – anche se lui non volesse essere interessato a Dio – Dio è interessato a Lui. Si collocano qui i grandi eventi che faranno di Mosè l’anticipazione del Messia e di ogni battezzato in Cristo, quegli eventi che sono veri e propri « passaggi di fede »,  eloquenti per il cammino di ogni cuore che si apra all’azione misteriosa dell’Eterno. 
Il primo passaggio è l’esperienza del « roveto ardente » (At 7,30-31; Es 3,1-15; cf. Es 6,2-13 e 6,28-7,7). Ciò che risalta anzitutto nel racconto è la meraviglia di Mosè: egli  sta pascolando il gregge nell’area del monte Sinai ed ecco che improvvisamente vede un arbusto che arde senza consumarsi. « Si avvicinò per guardare… »: è importante questa annotazione, perché ci dice che Mosè, sebbene ne abbia viste tante, continua ad essere in grado di meravigliarsi. A 80 anni egli è capace ancora di stupirsi, di aprirsi al nuovo! E l’uomo alla radice, il cercatore del Mistero: dove c’è meraviglia, c’è apertura alla novità di Dio, alla Sua impossibile possibilità! Solo dove non c’è meraviglia, non c’è più vita, non c’è più sorpresa. Mosè non ha cessato di essere un pellegrino, un cercatore; nonostante
si sia adattato all’esilio, il suo cuore ha continuato a desiderare segretamente la patria, una bellezza non ancora incontrata. E a questo punto che arriva la chiamata di Dio: « Mosè! Mosè! ». Dio chiama per nome. Nessuno è anonimo davanti a Lui: ognuno è un « tu » assolutamente unico, singolare, oggetto di un amore infinito. Mosè si sente amato personalmente da Dio. Non è l’esperienza di voler catturare Dio per sé: al contrario, l’ammonimento è chiaro, « Non avvicinarti, togliti i sandali… » (Es 3,4-6). E un
lasciarsi afferrare da Dio, perché è Dio solo che può fare del deserto terra santa! Dio ti trova dove sei e Ti cambia il cuore e la vita, cambiando il mondo intorno a te, si che lo vedi con occhi completamente nuovi. Il Dio che ti chiama non  è qualcosa di cui ti puoi impossessare: tu devi restare davanti a Lui nello stupore dell’ascolto e dell’attesa; devi lasciare che Lui sia Altro da te e che faccia Lui… Devi aprirti alla Sua impossibile possibilità, non  alla possibilità calcolata che vorresti imporgli. Il Dio che chiama non è una proiezione di te, del tuo desiderio o delle tue paure, ma è il Dio dei padri, il Dio trascendente, che si dà a conoscere come Colui che è per te: « Sono io che ti mando ». Non è più lui, Mosè, il protagonista, che decide e pretende di cambiare il mondo: è Dio che lo manda. « Va’ dal Faraone ». Come se nulla fosse stato, come se non avesse mai conosciuto lo scacco, Mosè accetta il nuovo  inizio. Dio rende possibile l’impossibile: il Suo nome è una promessa, « Io sono Colui che sono », « Io sarò con Te », il Dio fedele (Es 3,14). Mosè non ha chiesto
la definizione dell’essenza divina: ciò che ha chiesto è che Dio si impegni per lui e il suo popolo. Il Nome santo e benedetto è allora una garanzia, fondata nella realtà del Dio fedele, in base alla quale Mosè può iniziare la sua avventura. Mosè parte, perché si è lasciato sovvertire da Dio: fino a quando non si è conosciuto questo capovolgimento, questo passaggio della fede, che da protagonista ti fa servo obbediente dell’Altissimo, non si è conosciuto Dio. Dio è il Dio che ti sconvolge, che chiede tutto ed a cui si deve dare tutto. È a questo punto che Mosè sperimenta il passaggio più duro, che è appunto la prova
della fede: è l’ora del passaggio del Mar Rosso (Es 14,5-15,20: cf. 1 Cor 10,1-2; Eb 11,29). Da una parte c’è il mare con i suoi flutti, dall’altra il Faraone con i suoi  cavalli e i suoi carri. La logica umana imporrebbe un calcolo, una scelta orientata al compromesso. Mosè ha paura: umanamente l’alternativa è fra la morte nel mare o la resa al Faraone (cf. Es 14,10-14).  La scelta si impone: o fidarsi di Dio o calcolare secondo la logica degli uomini. È il passaggio chiave dell’atto di fede: « L’amore di sé fino alla dimenticanza di Dio, o l’amore di Dio fino alla dimenticanza di sé ». Mosè non esita a coinvolgere il popolo, a incoraggiarlo: « Non abbiate paura. Siate forti e vedrete la salvezza  del Signore » (v. 13). Resta però solo davanti a Dio, con un peso enorme, perché abbandonarsi a Dio può sembrare ora una rinuncia ad agire. Nella solitudine grida al suo Dio, tanto che l’Altissimo gli chiede: « Perché gridi verso di me? » (V. 14). Eppure, continua a testimoniare al popolo la fiducia nella fedeltà dell’Eterno: « Il Signore combatterà per voi » (v.14). Mosè è ormai un vero capo, perché sa che quello che può permettersi nel contatto diretto con Dio e cerca di mediarlo con saggezza ai suoi: non bisogna mai scaricare le proprie croci sulle spalle di chi è più debole! Mosè comprende  che c’è un’altra possibilità: credere in Dio nonostante tutto,
nonostante l’apparente sconfitta di Dio. È cosi che Mosè giunge all’atto più importante della sua vita: si fida di Dio, crede contro ogni evidenza. Vivendo l’oscurità del salto della fede, obbedisce al Signore gli dice: « Ordina agli Israeliti di riprendere il cammino. Tu intanto alza il bastone, stendi la mano sul mare e dividilo, perché gli Israeliti entrino nel mare all’asciutto » (vv. 15s). È a questo punto che le acque del mare si aprono, il popolo passa incolume, gli Egiziani che lo inseguono vengono travolti. Il simbolismo è tragico e
durissimo: le acque della vita per gli uni sono le acque della morte per gli altri. Mosè, il condottiero della fede che passa attraverso il mare, è il salvato dalle acque insieme al suo popolo. È allora che conosce il trionfo della fede: nella notte, fidandosi ciecamente, senza vedere, si compie il passaggio verso la libertà, ed esplode dal cuore il cantico della riconoscenza, il cantico dei salvati nel mare (cf. Es 15). Da allora in poi Mosè sarà quel che è stato in quella notte al Mar Rosso: l’uomo dell’intercessione e della responsabilità (cf. Es  17), l’uomo della Parola  (cf. Es 19,3), colui che soffre per amore del suo popolo e  per amore del suo Dio, in un continuo esodo vissuto nella speranza verso la terra promessa.
A 120 anni si conclude la vita di Mosè: secondo il racconto del Deuteronomio Mosè muore solo, in obbedienza a Dio, senza entrare nella terra della promessa. « Il Signore disse a Mosè: Sali su questo monte degli Abarim, sul monte Nebo, che è nel paese di Moab, di fronte a Gerico, e mira il paese di Canaan, che io dò in possesso agli Israeliti. Tu  morirai sul monte sul quale stai per salire » (Dt 32,49s). È commovente quest’andare a morire solo, in obbedienza a Dio: « Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, nel paese di Moab, secondo l’ordine del Signore » (Dt 34,5). Nella solitudine, nel freddo del monte, Mosé vive l’ultimo passaggio, che è al tempo stesso passaggio di vita e passaggio di fede: il bacio di Dio lo raggiunge come un bacio mortale, che succhia la sua anima in cielo, come spiega una tradizione rabbinica; un Altro lo accoglierà, lo riscalderà. E mentre gli farà contemplare
da lontano la terra promessa, gli darà quella vera di cui essa è simbolo. La morte di Mosè – come quella del cristiano, salvato dalle acque e perciò custode della speranza del Risorto – non è semplice tramonto, ma aurora di vita: « dies natalis », giorno della nascita, e non giorno della fine, passaggio ultimo dove l’Altro divino ti chiama e ti accoglie nel compimento della Pasqua eterna. È cosi che Mosè interpella la vita di tutti i salvati nelle acque del battesimo, redenti dalla Pasqua di Gesù, sfidando a verificare sui suoi passaggi di vita e di fede i nostri: dove siamo nel cammino della vita? E dove nel pellegrinaggio della fede? Qual  è la tappa in cui ci riconosciamo? Abbiamo veramente superato il tempo dell’utopia, che per l’umanità di cui siamo parte è stato il tempo delle ideologie e dei sogni della modernità emancipata? Abbiamo superato il disincanto o siamo ancora in esso, compagni di strada delle inquietudini delle donne e degli uomini della nostra epoca? Siamo entrati fino in fondo nella notte della fede? Abbiamo attraversato con Gesù, il nuovo Mosè, il nostro Mar Rosso? Ci siamo incamminati decisamente con Lui verso la terra della  promessa di Dio? Vi stiamo conducendo con fedeltà e speranza coloro che ci sono stati affidati? Sono le domande a cui ogni credente ed ogni testimone ed educatore alla fede non può né deve sottrarsi. Con umiltà e fiducia chiediamo al Signore, che ha liberato il Suo popolo e sempre di nuovo lo guida a libertà, di liberare sempre più profondamente anche noi, accompagnandoci nei passaggi di vita e di fede cui siamo chiamati e rendendoci capaci di accompagnare altri nella verità, immersi nell’oceano del Suo amore. Lo facciamo ispirandoci alle parole di Gregorio di Nissa: « Rendici, Signore, come Mosè ardenti
amanti della bellezza, che, accogliendo quanto via via ci appare immagine del Desiderato, bramino di saziarsi del Modello originario, volendo anzi  con richiesta temeraria, che supera i limiti del desiderio, godere della bellezza non attraverso specchi e messi, ma faccia a faccia… Come a Mosè, dona anche a noi di sapere che si vede veramente il Tuo Volto quando vedendolo non si cessa mai di desiderare di vederlo…  » .
(XLI Convegno Nazionale dei Direttori UCI, Vasto 18 Giugno 2007)

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