Il deserto: la vera scuola di Torah e di fede – Midbar Mdaber
dal sito:
http://www.midbar.it/la_vera_scuola_di_torah_e_di_fede.html
Il deserto: la vera scuola di Torah e di fede
MIDBAR MEDABER
di Daniela Abravanel – Migdal Lago di Tiberiade (Israele)
La storia ebraica inizia nel deserto, luogo dove gli Ebrei ricevettero la Torah e si costituirono come popolo, imparando, nei quarant’anni di viaggio in questo spazio fisico, a mantenere uno stato di perfetta unione tra se stessi (le dodici tribù) e Dio. A corredo di questo articolo utilizzerò delle immagini della ricerca fotografica di Noah Fulberg sul Sinai, come sfondo ad alcune riflessioni sul significato della peregrinazione nel deserto.
Da sempre il viaggio nel deserto significa viaggio nell’interiorità, rinascita spirituale.
Andiamo al Libro della Genesi, alla prima comunicazione tra Dio e Abramo. Il primo ebreo, Avraham ha-ivrì, cioè l’uomo che aveva scelto di stare dall’altra parte, non riuscendo più a tollerare il materialismo che lo circondava, ricevette, come primo messaggio divino, l’ordine di mettersi in viaggio: Lekh Lekhà (Lekh, vai via, abbandona l’esteriorità e Lekhà, va’ dentro te stesso). Vai nella Terra che Io ti mostrerò. E il luogo da attraversare per arrivare alla Terra Promessa è il deserto, che non è solo un luogo geografico, ma uno stato di coscienza, grazie al quale Avraham può ubbidire al comando Lekh Lekhà.
È lecito chiedersi perché per giungere a tale stato di coscienza sia necessario un viaggio di tipo fisico. La risposta a questo interrogativo è che in genere, nella Torah, ogni descrizione della realtà fisica, di ogni qualità materiale, è la metafora di un qualcosa di spirituale (la bellezza degli occhi di Rachel allude alla sua elevata statura morale, la purezza dell’Acqua – che scende dall’Alto al basso – rappresenta la Torah, etc.).
Per quanto riguarda il viaggio nel deserto in particolare è fondamentale soffermarsi sul significato della parola Derekh, cammino, in due passaggi susseguentisi nel Deuteronomio (VIII 2,6):
« Ti ricorderai di tutto il cammino (derekh) lungo il quale il Signore Tuo Dio ti ha fatto camminare per quarant’anni nel deserto. »
« Osserverai i comandamenti dell’Eterno, tuo Dio, camminando per le Sue Vie (bederakhai) e avendo Timore di Lui. Perché l’Eterno il Tuo Dio ti conduce in un paese pieno di rivi d’acqua, di torrenti che si spandono nella valle e sulla montagna. »
Nella seconda parte dell’ultimo paragrafo notiamo che l’esperienza del mondo fisico (il viaggio nel deserto, tra i suoi rivi d’acqua etc.) si rivela chiaramente come uno strumento per portarci ad un secondo tipo di viaggio (a conoscere le vie, derakhai, del Signore).
Partendo dalla pista del deserto arriviamo quindi alla pista dentro di noi che ci conduce all’ascolto della parola di Dio.
La lingua ebraica ci aiuta ulteriormente a capire tale connessione. Midbar, deserto, significa anche ciò che parla, medaber. Esso è il luogo in cui la parola divina viene trasmessa al popolo, lo spazio fisico (Poh) che diviene luogo della emissione della Parola (Peh)[1].
Resta ora da capire cosa rappresenti il deserto, perché è un viaggio nel deserto del Sinai anziché sugli alti picchi dell’Himalaya a iniziare gli Ebrei alla spiritualità.
Il deserto è la terra di nessuno, il luogo in cui la presenza rassicurante degli oggetti fisici viene a mancare: nel deserto non si vede un albero, una casa, non si scorge nulla di ben definito. Funzione del deserto quindi è ridare all’immaginazione il suo massimo potenziale, ispirare il sentimento delle infinite possibilità di evoluzione, liberare dalla ripetitività del già definito, degli schemi fissi.
È quindi il deserto che ci avvicina gradualmente a Dio, che nella Torah si autodefinisce Dio della libertà. Il primo dei dieci comandamenti ci avverte subito che l’ebraismo non è una religione per schiavi: Io sono il Signore Tuo Dio che ti ha liberato dal paese d’Egitto (Egitto in ebraico è Mitzraim, luogo stretto). E il deserto è il mediatore privilegiato di questo messaggio di libertà assoluta, della costante possibilità per l’uomo di scegliere tra la vita e la morte. Di scegliere tra il passaggio in Erez Israel o l’arresa al deserto che, nel momento in cui l’uomo rinuncia alla lotta contro la morte e il male (concetti che nella Torah coincidono, essendo Dio definito come Dio della Vita) lo inghiotte, immobilizzandolo sotto il sale, la sabbia, la roccia.
E nella dialettica tra deserto e vegetazione (perfettamente espressa a Ein Gedi, nel deserto di Giuda in Israele, dove ogni giorno i primi pionieri strappavano al deserto un metro dopo l’altro di terreno arido e sabbioso da coltivare) che sono contenuti i due poli dell’esistenza umana, la scelta tra la devekut, l’attaccarsi a Dio e alla Vita, assumendo il controllo della propria esistenza, o il permettere alle forze del male di trionfare, rendendo sterile (come il deserto) ogni nostro potenziale di creazione e di rinascita.
Afferma il profeta Isaia:
« Che gioiscano deserto e terra arida,
che esulti e fiorisca la steppa,
che si ricopra di fiori,
che gioisca e gridi di allegria.
La gloria del Libano le è concessa[2].
………………………………….
allora gli occhi del cieco si apriranno
e le orecchie del sordo udiranno;
allora lo zoppo salterà come un cervo
e la bocca del muto canterà,
perché nel deserto le acque scorreranno
come torrenti nella steppa
e la terra bruciata diventerà un lago
e il paese della sete si riempirà di rivi d’acqua. »
Senza la continua vigilanza contro le forze della distruzione, il male che dovrebbe essere sottomesso ci dominerà, il deserto che dovremmo coltivare ci inghiottirà. La lotta per la vita è costante. Se tu non fai il bene – è detto a Caino – il peccato ti aspetta alla porta. Ma tu lo puoi dominare.
Così come nel deserto i nostri Padri impararono a scegliere tra la vita e la morte, anch’io non avrei potuto assimilare la Torah appresa sui libri, rendendola in questo modo parte integrante del mio vissuto interiore, senza alcuni viaggi compiuti nel deserto. Per rendere più comprensibili queste mie affermazioni vorrei riportare alcune mie esperienze provate durante una scalata semi impossibile intrapresa per un sentiero sbagliato.
Assetata e stanca, di fronte ai vertiginosi baratri, avevo ormai raggiunto la consapevolezza costante che senza la protezione divina ad ogni passo avrei potuto mettere il piede sulla roccia sbagliata, rotolando così giù come alcune pietre che avevo visto franare. Ad un certo punto scorsi però uno stambecco spiccare un salto senza esitazione tra due rocce, ed ecco allora che ebbi questa intuizione: compresi finalmente il significato della preghiera Hashem mia Roccia (Tzurì) e mio Salvatore (veGoalì). Dio può essere il tuo Salvatore quando scegli di vivere in uno stato di costante Teshuvà [3], pentimento. Questo ci permette di venire illuminati, di scegliere come l’ayal, lo stambecco tanto caro al re David, la roccia giusta, di collocarci cioè nell’adeguato stato di coscienza rispetto alla Roccia. Dopo l’insegnamento dello stambecco cominciai a provare una fede vera nel Dio che nella mia esistenza diventava l’unica mia pietra (Hashem Tzurì) che non vacillava.
Man mano che proseguivo nella scalata (che non potevo interrompere dato il timore del baratro sottostante) facevo Teshuva. Ogni volta che posavo il piede su una pietra poco rassicurante mi liberavo di ogni fantasia idolatra che mi poneva al centro del mondo. Ogni pietra un voto, di cui ne mantengo ancora stranamente molti.
Ad un certo punto la stanchezza divenne tale che persino cento grammi nel mio sacco divennero zavorra insostenibile. Iniziai allora a lasciare dietro di me oggetti e cibo per proseguire solo con una bottiglia d’acqua. Così come accadde ai nostri Padri l’acqua era divenuta l’unica necessità per la mia sopravvivenza. E come insegnano i Saggi dell’ebraismo, l’acqua rappresenta la Torah, la Fede.
Purtroppo a volte tale consapevolezza mi abbandona: invece di quarant’anni, alla scuola del deserto, ho passato solo pochi giorni.
NOTE:
1. Poh, qui e Peh, bocca, in ebraico sono scritte con le medesime lettere Pe – Hei).
2. della sua verde vegetazione.
3. Teshuva, tradotto con pentimento, deriva dal verbo lashuv, voltarsi, fare ritorno a Dio.

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