Filemone 9b-10.12-17

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Filemone 9b-10.12-17

Carissimo, 9 io Paolo, vecchio, e ora anche prigioniero per Cristo Gesù, 10 ti prego per il mio figlio, che ho generato in catene. 12 Te l’ho rimandato, lui, il mio cuore. 13 Avrei voluto trattenerlo presso di me perché mi servisse in vece tua nelle catene che porto per il vangelo.
14 Ma non ho voluto far nulla senza il tuo parere, perché il bene che farai non sapesse di costrizione, ma fosse spontaneo.
15 Forse per questo è stato separato da te per un momento perché tu lo riavessi per sempre; 16 non più però come schiavo, ma molto di più che schiavo, come un fratello carissimo in primo luogo a me, ma quanto più a te, sia come uomo, sia come fratello nel Signore.
17 Se dunque tu mi consideri come amico, accoglilo come me stesso.
 
COMMENTO

Filemone 9b-10.12-17

La liberazione degli schiavi
La lettera a Filemone, malgrado la sua brevità, è un documento molto significativo, in quanto rivela tutta la profondità dell’animo di Paolo. Essa è forse la sua lettera meglio riuscita dal punto di vista letterario, in quanto è composta in una prosa ritmica, ricca di parallelismi e di antitesi. Anche dal punto di vista del contenuto la sua importanza è notevole, perché mostra come il cristianesimo primitivo ha affrontato il difficile e complesso problema della schiavitù.

La schiavitù nel mondo antico
La schiavitù era largamente diffusa nel mondo greco-romano; le conquiste di Alessandro Magno in particolare le avevano dato un notevole impulso, facendo di essa un elemento portante di tutta la vita sociale.
Lo schiavo che desiderava ottenere la libertà doveva versare al padrone una somma di denaro precedentemente pattuita. Non tutti però erano in grado di raccogliere la cifra richiesta. Di conseguenza era frequente il caso di schiavi che tentavano di riacquistare la libertà fuggendo dai loro padroni. Davanti ad essi le vie aperte non erano molte. La soluzione migliore era l’espatrio, ma per questo si richiedevano mezzi non facilmente reperibili. Un’altra possibilità era quella di restare in una grande città, vivendo di espedienti e di furti: ma c’era sempre il pericolo di essere scoperti e denunziati. A volte uno schiavo poteva trovare difesa da parte di qualche persona influente.

Il caso di Onesimo
La lettera che porta il nome di Filemone è un biglietto che Paolo ha inviato a questo personaggio per raccomandargli un suo schiavo, Onesimo. Nel NT il nome di Onesimo, che significa in greco “colui che è utile”, riappare soltanto nella lettera ai Colossesi, dove designa un cristiano nativo di Colossi, una piccola città della Frigia non molto distante da Efeso, inviato alla comunità della sua città come accompagnatore di un certo Tichico (Col 4,9). Sebbene per molti studiosi questa lettera non sia paolina, la notizia è ritenuta generalmente come degna di fede.
Filemone, padrone di Onesimo, non è noto se non in base ai dati forniti dalla lettera stessa. Egli era un cristiano di condizione benestante: infatti poteva permettersi di avere uno o più schiavi, e soprattutto era in possesso di una casa sufficientemente grande da accogliere la comunità locale (v. 2). Il biglietto non dice quale fosse il suo luogo di residenza. Ma se Colossi era la patria non solo di Onesimo, ma anche di Archippo, membro in vista della comunità domestica di Filemone (v. 2; cfr. Col 4,17), si può senz’altro concludere che anche Filemone abitava in questa città e la comunità che si radunava nella sua casa era appunto quella di Colossi.
Con tutta probabilità Filemone era diventato cristiano per opera di Paolo (v. 19). Siccome non risulta che questi abbia fondato personalmente la comunità di Colossi (cfr. Col 1,7-8: 4,12-13), il loro incontro deve aver avuto luogo ad Efeso, dove Paolo soggiornò a lungo durante il suo terzo viaggio. Filemone era molto legato all’apostolo, che lo chiama suo «collaboratore» (v. 1) e lo loda per la sua fede e la sua carità verso gli altri cristiani (vv. 4-7). La lettera di Paolo è indirizzata, oltre che a lui, anche ad Appia, che probabilmente era sua moglie, ad Archippo, «compagno d’armi», cioè collaboratore di Paolo, e a tutta la comunità che si raduna appunto nella casa di Filemone.
Onesimo aveva incontrato Paolo quando questi, ormai vecchio (presbytês) (v. 9), era detenuto in carcere (vv. 1.9.13). L’incontro con l’apostolo fu per lui l’occasione di ascoltare la parola di Dio e di convertirsi al cristianesimo (v. 10). Dopo averlo battezzato Paolo, lo rimanda al suo padrone (v. 12) con una lettera di raccomandazione. Non si sa perché Onesimo si sia allontanato da Filemone. In nessuna parte della lettera infatti si dice che egli sia fuggito; non essendo ancora cristiano, è impensabile che sia stata la comunità di Colossi a inviarlo da Paolo per assisterlo in carcere; d’altronde è impossibile che vi sia giunto casualmente, in quanto Paolo accenna a una grave colpa da lui commessa nei confronti del suo padrone (vv. 11.18). L’ipotesi della fuga resta quindi la più probabile. Ugualmente probabile è che abbia chiesto aiuto a Paolo, forse sapendo che questi era un influente amico di Filemone.
Quando incontra Onesimo e scrive la lettera a Filemone, Paolo si trova in carcere. Probabilmente si tratta di una prigionia che ha avuto luogo quando egli si trovava a Efeso, durante quello che, secondo gli Atti, è il suo terzo viaggio missionario. Di essa non si sa nulla, ma dallo studio della lettera ai Filippesi risulta che con ogni probabilità egli ha sperimentato il carcere anche in questa città. Si può quindi supporre che i fatti a cui allude la lettera siano avvenuti in questa circostanza, e che quindi essa sia stata composta a Efeso verso la metà degli anni cinquanta.
L’intervento di Paolo è un gesto pastorale, con il quale l’apostolo vuole educare la comunità a una prassi autenticamente cristiana, animata dalla fede e dall’amore (vv. 6.9). Il suo messaggio va quindi al di là della situazione concreta in cui è stato formulato, mettendo la chiesa di tutti i tempi davanti alle esigenze più autentiche del vangelo.

Linee interpretative
Paolo è ritornato a diverse riprese sul problema della schiavitù. A proposito dei carismi della comunità, egli afferma: «E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, giudei o greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito» (1Cor 12,13). Facendo leva sul ritorno imminente del Signore, egli esorta gli schiavi a rimanere nella situazione in cui si trovavano al momento della loro chiamata (1Cor 7,21-23). Nella lettera ai Galati Paolo afferma: «Non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è uomo né donna, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Nella lettera a Filemone Paolo sviluppa la stessa intuizione. Rimandando Onesimo dal suo padrone Filemone, egli riconosce il fatto della schiavitù, e nega che l’adesione a Cristo comporti per se stessa un cambiamento sociale. Al tempo stesso però fa comprendere che la schiavitù è ormai superata nel quadro dei nuovi rapporti di fraternità introdotti da Cristo.
Questa posizione, per quanto chiara da un punto di vista dottrinale, non è esente da contraddizioni: è difficile infatti, passando dalla teoria alla pratica, spiegare come possano due individui essere veramente fratelli, pur rimanendo intatto tra loro il rapporto padrone-schiavo. La difficoltà oggettiva del problema affrontato da Paolo deve essere tenuta presente per comprendere l’ambiguità che traspare dal suo discorso. Egli infatti, pur facendo uso di tutte le armi della convinzione e dell’autorità per influire su Filemone, non dice chiaramente che cosa si aspetta da lui: da una parte lascia intuire il suo desiderio di poter avere con sé Onesimo nella sua prigionia (vv. 13-14); dall’altra afferma che Onesimo è stato separato da Filemone per un momento, affinché egli lo riavesse per sempre «non più come schiavo… ma come un fratello carissimo» (vv. 15-16). In realtà è impossibile dire se Paolo, esprimendo la fiducia che Filemone avrebbe fatto più di quanto gli chiedeva (v. 21), pensava veramente alla manumissione di Onesimo o se questa era completamente al di fuori dei suoi pensieri.
Per Paolo dunque la salvezza si attua esclusivamente mediante una vera e profonda conversione a Cristo. Questa però non può restare un puro sentimento interiore, ma deve dare origine ad atteggiamenti concreti di fraternità e di amore, che trovano il loro ambito naturale nella comunità: qui tutte le barriere sono praticamente superate e si attua in Cristo una vera uguaglianza tra tutti. Paolo non ha saputo, o non ha potuto, ricavare da queste premesse conclusioni più ampie, capaci di incidere in profondità nella vita sociale. E neppure si può dire che ci siano riusciti i cristiani dopo di lui. A Paolo resta tuttavia il merito di aver colto la contraddizione tra schiavitù e fraternità, aprendo la strada a coloro che, in un’epoca ormai molto lontana dalla sua, sapranno cogliere le vere implicazioni sociali del suo messaggio.

Publié dans : Lettera a Filemone |le 2 mars, 2011 |Pas de Commentaires »

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