Archive pour janvier, 2011

Mat-04,18-First disciples

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Publié dans:immagini sacre |on 22 janvier, 2011 |Pas de commentaires »

Omelia (23-01-2011) – commento alle letture

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/21447.html

Omelia (23-01-2011) 

Omelie.org – autori vari

COMMENTO ALLE LETTURE
a cura di don Nazzareno Marconi

PRIMA LETTURA
Il nostro testo si trova nella seconda parte della raccolta profetica di Isaia e introduce la predizione della nascita del figlio del re, apportatore di pace e gioia in contrasto con le tenebre dell’occupazione nemica della Palestina settentrionale. Questo oracolo si colloca probabilmente nel tempo in cui Tiglat Pilesar III occupò le regioni settentrionali della regione, nell’anno 732. La prima parte del testo descrive l’umiliazione della terra occupata, la seconda parte descrive la gioia della liberazione.
Agli abitanti di questa terra occupata dall’Assiria e perciò sottoposta all’umiliazione viene assicurata la gioia e la gloria della liberazione.
Al contrasto tra umiliazione e glorificazione succede qui il contrasto tra tenebre e luce. Le tenebre sono simbolo di infelicità, di oppressione, di schiavitù e di morte, la luce è simbolo dei valori opposti che significano la salvezza.
La gioia della liberazione viene espressa con due immagini, l’immagine agricola della mietitura che viene compiuta con allegrezza e l’immagine bellica della divisione del bottino dopo la vittoria.
L’ultima frase descrive ancora la liberazione attraverso l’eliminazione dei segni della schiavitù: il giogo, la sbarra, il bastone dell’aguzzino. Tutto l’evento della libertà ricuperata è chiaramente presentato come un dono di Dio e non come un’opera delle forze umane.

SECONDA LETTURA
La prima parte della lettera prima ai Corinzi tratta delle divisioni presenti nella comunità; il nostro brano sta all’inizio di questa parte della lettera ed espone i fatti. Paolo è informato delle querele e dei dissensi che dividono i fedeli; essi si sono raggruppati in partiti attorno a dei nomi, i più insigni e venerati dalla chiesa primitiva, le rivalità dei gruppi diventano sorgente di lotte e di questioni interminabili. Responsabili di queste agitazioni e divisioni non sono le persone dei capi della chiesa, a cui ciascun gruppo appella, ma unicamente coloro che scelgono i nomi illustri per alimentare le divisioni. Le pretese di questi gruppi implicano una assurdità che Paolo rinfaccia loro quasi con violenza, e cioè che il Cristo sia diviso. Cristo è diventato capo della chiesa con la sua morte e risurrezione redentrice ed è con il sacramento del battesimo che ogni fedele si unisce a Cristo nel suo mistero e viene incorporato alla sua chiesa. Il battesimo ha valore non per la persona che lo amministra ma in virtù della persona di Cristo da cui trae efficacia e al quale congiunge. Ne consegue l’unità tra tutti coloro che sono stati battezzati, i quali formano la stessa unica comunità credente: la chiesa.

VANGELO
Il brano di vangelo di questa domenica torna all’evangelista che ci sta accompagnando in quest’anno liturgico: Matteo. Almeno due particolari di questo testo sono propri del modo in cui Matteo scrive il suo Vangelo e meritano attenzione.
Il primo è il frequente riferimento all’Antico Testamento, in questo caso ad un profeta, per spiegare il valore dei gesti e delle parole compiuti da Gesù. E non si tratta solo di spiegare gesti miracolosi o straordinari. Qui, ad esempio, è un semplice cambio di residenza: da Nazareth a Cafarnao. Quando Matteo cita l’AT, che cosa vuole dirci? Questo leggere la vita di Gesù alla luce delle parole dell’AT non era certo una invenzione di Matteo. Gesù stesso ci viene presentato dai vangeli come il Maestro che insegna ai suoi discepoli: « A leggere in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui « (Lc 24). E Matteo, un maestro della nuova comunità cristiana, si riconosce (secondo gli esegeti) nella immagine dello « Scriba del regno dei cieli che trae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche » (Mt 13,52). Con questa immagine verrebbe definito l’Antico Testamento come un « tesoro di sapienza » antica che parla di Cristo. Allo stesso modo i ricordi dei discepoli su Gesù conservati nel Nuovo Testamento, sarebbero « un tesoro di sapienza nuova ». Matteo vuol indicare l’unità di questa duplice testimonianza su Gesù, invitandoci perciò a leggere non solo il Vangelo: ciò che Gesù ha detto e fatto, ma l’intera Parola di Dio.
Matteo ci insegna che letto con gli occhi della fede, l’Antico Testamento appare come una grande e ricca profezia su Gesù, attenta alle cose grandi come alle piccole, perché nulla nella Sua vita era casuale. Anche i più piccoli particolari come un trasloco, erano pieni di significato perché in essi Gesù compiva in pienezza il piano di salvezza del Padre, iniziato nell’Antico Testamento e portato a compimento nel Nuovo.
Ascoltare solo il Vangelo per comprendere il mistero della vita e delle parole di Gesù, è come sentire la musica « in mono ». Molto meglio « lo stereo »! Con il canale dell’Antico Testamento e quello del Nuovo da sentire insieme.
Accanto alle citazioni dell’Antico Testamento, per aiutarci a conoscere meglio Gesù, Matteo impiega anche immagini simboliche che riassumono ed unificano intere sezioni del vangelo e della vita di Gesù. E’ come se attraverso queste immagini ci fosse dato un titolo sintetico, che ci aiuta a leggere il tema centrale di tutta una parte di Vangelo. Il nostro brano, che apre una lunga sezione nella quale Gesù annuncia la venuta del Regno di Dio, ci propone l’immagine della luce che si accende nel buio e guida un popolo nel suo difficile cammino.
Sarà un’immagine che ritornerà nei vangeli delle prossime domeniche ritmando il nostro cammino, anche noi saremo inviatati a diventare un popolo che cammina seguendo una luce.
E’ quello che era avvenuto al tempo dell’Esodo degli Ebrei dall’Egitto, quando nel buio della notte nel deserto, dove nulla può indicare la strada della salvezza, compariva una colonna luminosa che guidava il popolo verso la giusta direzione.
Facendo attenzione ai prossimi vangeli, noteremo che l’immagine della luce ritorna con frequenza. Dopo le Beatitudini, che sono la grande luce che indica la strada del Regno di Dio, i discepoli, portatori e primi destinatari di questo annuncio, saranno definiti la « Luce del mondo » (Mt 5,12). Il cuore adatto ad accogliere gli insegnamenti di Gesù sarà quello di chi ha « un occhio capace di accogliere la luce e farla entrare nel cuore » (Mt 6,22). Ciò che Gesù ha insegnato ai discepoli in privato « nelle tenebre », andrà poi proclamato ovunque ed a tutti: « nella luce » (Mt 10,27).
Se ci lasciamo guidare da questo simbolo, scopriamo, come colorandolo con l’evidenziatore, un pezzo di vangelo molto ampio, ma unitario. E’ una grande sezione di Vangelo che si apre con un riferimento al Battista in carcere (Mt 4,12) e si chiude subito prima di un nuovo riferimento a lui (Mt 11,2ss). Si apre con la vocazione dei primi discepoli e si chiude con l’invio in missione dei Dodici (Mt 10).
Ecco svelato il mistero, questa luce nelle tenebre è la luce dell’insegnamento delle Beatitudini, il cuore del vangelo di Gesù, che Giovanni ha annunciato, che i discepoli ricevono da Gesù, e che dovranno portare in tutto il mondo.
Le domeniche che ci attendono saranno un costante invito ad aprire gli occhi che la mentalità del nostro mondo ci tiene chiusi, per vedere la vera luce. Le parole del vangelo sembrano a volte oscure, perché sono difficili da vivere, è perché ci chiedono di vincere il nostro egoismo, perché privilegiano i valori spirituali rispetto a quelli materiali… Gesù ci dice che solo seguendo il vangelo potremo allontanarci da un mondo che piomba sempre più nelle tenebre per venire alla luce. 

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Omelia (23-01-2011) : Nella « Galilea delle Genti », ovunque sia

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/21463.html

Omelia (23-01-2011)
 
don Alberto Brignoli

Nella « Galilea delle Genti », ovunque sia

Si sente spesso usare l’espressione « un porto di mare » per indicare un luogo o una situazione caotica, senza precisi punti di riferimento, dove si incontrano e si mescolano – spesso in maniera disorganica – razze, popoli, lingue, gruppi etnici e tipologie umane delle più diverse estrazioni sociali, unite solo dal fatto di appartenere all’umana natura (senza stare troppo a considerare la qualità di questa natura…).
Il mare, o meglio la riva di un mare, per quanto affascini e dia un senso di infinito ai nostri sguardi che da lì si perdono verso l’orizzonte, diviene nel nostro immaginario il luogo dell’instabilità, della provvisorietà, del continuo divenire, di popoli leggendari che arrivano dal mare e si stabiliscono sulla costa per un poco di tempo, per cercare un approdo, un momento di riposo al continuo navigare, all’eterno peregrinare da mare a mare, per « mettere giù » le basi per una vita più stabile.
Ma l’insidia delle onde e dei maremoti è sempre in agguato, il pericolo di popolazioni barbare che invadono il tuo pezzo di costa è sempre lì, a metterti sulla difensiva, a farti comprendere che tu, in quel luogo, una casa stabile sulla roccia non l’avrai mai. Non per niente, trovi sabbia: per dirti che lì tu sei di passaggio, e che quello non può essere il tuo paradiso, anche se così l’hai sognato da sempre.
Sognano un paradiso sulla riva del mare anche quei milioni di persone che da decenni, ormai, partendo dalle valli e dalla foresta retrostanti, vengono qui, su quella costa di oceano peruviano che fa da corona alla città di Lima, e dalla quale in questo momento sto scrivendo.
Sullo sfondo, montagne, prima solo accennate, poi stagliate verso un cielo quasi sempre del colore del piombo di cui le miniere del paese sono ricche; montagne di polvere divenuta prima sabbia, poi pietrificatesi in un’apparenza di stabilità, sufficiente a far credere che lì si può costruire una casa anche se non c’è acqua per vivere, anche se non c’è sufficiente luce del sole per far maturare i pochi frutti della terra, anche se non ci sono strade percorribili in tempi ragionevoli per scendere verso la città in cerca di lavoro.
Montagne di sabbia tetre e inospitali che rimangono comunque il miraggio di una vita di possibilità, tutta da inventare, tutta da costruire. Montagne su cui, in questi decenni, si è riversata una folla considerevole di persone in cerca di fortuna. Una vera e proprio « Galilea delle Genti »: pure questa, come allora, situata « sulla riva del mare ». Mare che « non ha mai dato tanto ». Mare che ti può spazzare via con l’onda anomala di uno tsunami. Mare che rende di sapore salmastro – e spesso invivibile – ogni tentativo di relazione umana.
Mare lungo il quale, però, c’è Qualcuno che cammina. Che osserva la Galilea delle Genti. E che chiama.
Chiama proprio « gente di Galilea » ad andare dietro a lui, lasciando da parte il miraggio di una barchetta e di qualche rete bucherellata, che rappresentano pur sempre una speranza di vita.
Chi chiama, però, ha da offrire molto più del mare. Chi chiama ha una luce tutta particolare, che permette a un « popolo che cammina nelle tenebre » di uscire dall’oscurità e di iniziare a camminare alla luce del sole.
Chiama in ogni momento: a volte proprio sul più bello, mentre si stanno « gettando le reti in mare », mentre si sta provando a racimolare qualcosa, a mettere a frutto le proprie conoscenze e le proprie abilità; a volte, invece, mentre si stanno « aggiustando le reti », mentre ci si sta « leccando le ferite » per un insuccesso, per un brutto colpo ricevuto e non del tutto assimilato, per un’attività – è proprio il caso di dirlo – andata buca; e chiama anche se sulla riva del mare con noi ci sono le poche sicurezze che abbiamo, due reti bucate, una barca sgangherata e un padre anziano che comunque ci vuole bene.
Chiama perché ha da offrire molto più del mare. E ce lo dimostra da subito: offre l’incontro con un’altra Galilea delle Genti, gente oppressa da infermità, da malattie fisiche e morali, gente che ha bisogno a sua volta di essere « chiamata », disincagliata dalla riva del mare da gente come loro, da pescatori.
Sì, da pescatori che questa volta non cercano pesce, ma vanno in cerca dell’Uomo, dell’Umanità.
Quanta sabbia, quanta salsedine, quanta melma, quanta poltiglia di alghe maleodoranti anche sulle rive del nostro Mediterraneo.
Quanta voglia avremmo di disincagliarci, di farla finita con una società senza riferimenti valoriali, senza scrupoli, senza rispetto per nessuno, senza riguardi, senza contegni, senza pudore, senza anima, senza Dio!
È ipocrita chiamare « terzo mondo » quello che sto guardando con i miei occhi in questi giorni. Ipocrita, perché di « terzo mondo » ne abbiamo tanto anche a casa nostra. Di Galilea delle Genti ne abbiamo molta anche nella nostra patria, ma non per via dei molti colori della pelle o per la pluralità delle lingue presenti, ma per il sapore putrido dell’immoralità e per la bassezza morale di coloro a cui abbiamo affidato le sorti del nostro Paese.
È ora di dire « Basta! ».
Ritorniamo a lasciarci illuminare da una Luce ben più gloriosa. Lasciamoci guidare da chi, in questa Galilea delle Genti, ci entra non per « divertirsi », ma per salvarla. Facciamoci spazio, nella nostra vita, a chi cammina sulla riva del mare per chiederci non di crogiolarci al sole delle nostre comodità e delle nostre ricchezze, ma di spingerci ancora una volta « al largo », dove vale ancora la pena continuare a gettare le reti. 

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DOMENICA 23 GENNAIO 2011 – II DEL TEMPO ORDINARIO

DOMENICA 23 GENNAIO 2011 – II DEL TEMPO ORDINARIO

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/ordinA/A03page.htm

MESSA DEL GIORNO

Seconda Lettura  1 Cor 1,10-13. 17
Siate tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi.
 
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi.
Vi esorto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire.
Infatti a vostro riguardo, fratelli, mi è stato segnalato dai familiari di Cloe che tra voi vi sono discordie. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: «Io sono di Paolo», «Io invece sono di Apollo», «Io invece di Cefa», «E io di Cristo».
È forse diviso il Cristo? Paolo è stato forse crocifisso per voi? O siete stati battezzati nel nome di Paolo?
Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo, non con sapienza di parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo.

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dal libro del Deuteronomio 18, 1-22

I leviti. I veri e i falsi profeti
In quei giorni Mosè parlò al popolo dicendo: «I sacerdoti leviti, tutta la tribù di Levi, non avranno parte né eredità insieme con Israele; vivranno dei sacrifici consumati dal fuoco per il Signore, e della sua eredità. Non avranno alcuna eredità tra i loro fratelli; il Signore è la loro eredità, come ha loro promesso. Questo sarà il diritto dei sacerdoti sul popolo, su quelli che offriranno come sacrificio un capo di bestiame grosso o minuto: essi daranno al sacerdote la spalla, le due mascelle e lo stomaco. Gli darai le primizie del tuo frumento, del tuo mosto e del tuo olio e le primizie della tosatura delle tue pecore; perché il Signore tuo Dio l’ha scelto fra tutte le tue tribù, affinché attenda al servizio del nome del Signore, lui e i suoi figli sempre. Se un levita, abbandonando qualunque città dove soggiorna in Israele, verrà, seguendo il suo desiderio, al luogo che il Signore avrà scelto e farà il servizio nel nome del Signore tuo Dio, come tutti i suoi fratelli leviti che stanno là davanti al Signore, egli riceverà per il suo mantenimento una parte uguale a quella degli altri, senza contare il ricavo dalla vendita della sua casa paterna.
Quando sarai entrato nel paese che il Signore tuo Dio sta per darti, non imparerai a commettere gli abomini delle nazioni che vi abitano. Non si trovi in mezzo a te chi immola, facendoli passare per il fuoco, il suo figlio o la sua figlia, né chi esercita la divinazione o il sortilegio o l’augurio o la magia; né chi faccia incantesimi, né chi consulti gli spiriti o gli indovini, né chi interroghi i morti, perché chiunque fa queste cose è in abominio al Signore; a causa di questi abomini, il Signore tuo Dio sta per scacciare quelle nazioni davanti a te. Tu sarai irreprensibile verso il Signore tuo Dio, perché le nazioni, di cui tu vai ad occupare il paese, ascoltano gli indovini e gli incantatori, ma quanto a te, non così ti ha permesso il Signore tuo Dio.
Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto. Avrai così quanto hai chiesto al Signore tuo Dio, sull’Oreb, il giorno dell’assemblea, dicendo: Che io non oda più la voce del Signore mio Dio e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia. Il Signore mi rispose: Quello che hanno detto, va bene; io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le parole, che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto. Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dei, quel profeta dovrà morire. Se tu pensi: Come riconosceremo la parola che il Signore non ha detta? Quando il profeta parlerà in nome del Signore e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l’ha detta il Signore; l’ha detta il profeta per presunzione; di lui non devi aver paura ».

Responsorio    Cfr. Dt 18, 18; Lc 20, 13; Gv 6, 14
R. Susciterò per loro un profeta e gli porrò in bocca le mie parole. * Egli dirà loro quanto io gli ho comandato.
V. Manderò il mio unico figlio: questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo!
R. Egli dirà loro quanto io gli ho comandato.

Seconda Lettura
Dalla Costituzione «Sacrosanctum Concilium» del Concilio ecumenico Vaticano II sulla sacra Liturgia (Nn. 7-8. 106)

Cristo è sempre presente nella sua Chiesa
Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e soprattutto nelle azioni liturgiche. E’ presente nel Sacrificio della Messa tanto nella persona del ministro, «Egli che, offertosi una volta sulla croce, offre ancora se stesso per il ministero dei sacerdoti», tanto, e in sommo grado, sotto le specie eucaristiche. E’ presente con la sua virtù nei sacramenti, di modo che quando uno battezza è Cristo che battezza. E’ presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura. E’ presente infine quando la Chiesa prega e canta i salmi, lui che ha promesso: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro» (Mt 18, 20).
In quest’opera così grande, con la quale viene resa a Dio una gloria perfetta e gli uomini vengono santificati, Cristo associa sempre a sé la Chiesa, sua sposa amatissima, la quale lo prega come suo Signore e per mezzo di lui rende il culto all’Eterno Padre.
Giustamente perciò la Liturgia è ritenuta come l’esercizio del sacerdozio di Gesù Cristo; in essa, per mezzo di segni sensibili, viene significata e, in modo ad essi proprio, realizzata la santificazione dell’uomo, e viene esercitato dal Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal Capo e dalle sue membra, il culto pubblico e integrale.
Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo Corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa, allo stesso titolo e allo stesso grado, ne uguaglia l’efficacia.
Nella Liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste, che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini e dove il Cristo siede alla destra di Dio quale ministro del santuario e del vero tabernacolo. Insieme con la moltitudine dei cori celesti cantiamo al Signore l’inno di gloria; ricordando con venerazione i santi, speriamo di condividere in qualche misura la loro condizione e aspettiamo, quale salvatore, il Signore nostro Gesù Cristo, fino a quando egli apparirà, nostra vita, e noi appariremo con lui nella gloria.
Secondo la tradizione apostolica, che ha origine dallo stesso giorno della risurrezione di Cristo, la Chiesa celebra il mistero pasquale ogni otto giorni, in quello che si chiama giustamente «giorno del Signore» o «domenica». In questo giorno infatti i fedeli devono riunirsi in assemblea per ascoltare la parola di Dio e partecipare all’Eucaristia, e così far memoria della passione, della risurrezione e della gloria del Signore Gesù e rendere grazie a Dio che li «ha rigenerati nella speranza viva della risurrezione di Gesù Cristo dai morti» (1 Pt 1, 3). La domenica è dunque la festa primordiale che dev’essere proposta e inculcata alla pietà dei fedeli, in modo che risulti anche giorno di gioia e di riposo dal lavoro. Non le vengano anteposte altre celebrazioni, a meno che siano di grandissima importanza, perché la domenica è il fondamento e il nucleo di tutto l’anno liturgico.

Responsorio    Sant’Agostino, Enarr. in ps. 85, 1
R. Nostro sacerdote, Cristo prega per noi; nostro capo, egli prega in noi; nostro Dio, noi lo preghiamo; * riconosciamo in lui le nostre voci, e la sua voce in noi.
V. Quando parliamo a Dio nella preghiera, non separiamo da essa il Figlio:
R. riconosciamo in lui le nostre voci, e la sua voce in noi.

« In spirito e verità »: Gesù e il sacro; Paolo di Tarso e il sacro (Rinaldo Fabris)

dal sito:

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=102

« In spirito e verità »: Gesù e il sacro; Paolo di Tarso e il sacro

sintesi della relazione di Rinaldo Fabris

Verbania Pallanza, 9 dicembre 1995

La verità è il tema dominante del IV vangelo. Non è la verità come conoscenza intellettuale della realtà, ma come fedeltà, fiducia, relazione. L’esperienza biblica del sacro rimanda ad una relazione di ascolto, ad una relazione di amore: Ascolta Israele, ama il Signore con tutto il cuore, la mente, le forze. Più che ritorni di Dio oggi ci sono i ritorni degli dei: è la tendenza umana a controllare e a identificare la realtà divina in qualcosa di manipolabile e visibile. È il vitello d’oro.

Gesù e il sacro
Gesù è un laico che si colloca nella linea profetica. Invece il falegname, il terapeuta, il maestro itinerante è stato sacralizzato.
Gesù e il tempo sacro (il sabato). Gesù prende posizione nei confronti del giorno di riposo, del sabato, la cui osservanza è al centro delle dieci parole. Il sabato era la memoria della creazione e della liberazione dall’Egitto. Gesù prende posizione contro il modo di osservare il sabato, osservanza diventata scrupolosa e ossessiva in Israele (elenco minuzioso delle azioni interdette) come modo per distinguersi dagli altri popoli.
Gesù (Marco 2,23-28) afferma che il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato, rispondendo all’accusa dei farisei. Fa così comprendere che l’ambito del sacro non è tanto un tempo definito, quanto la relazione tra Dio e l’essere umano. Perciò il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato. Tutti gli esseri umani sono signori del sabato, del sacro.
Inoltre il criterio della vera sacralità del sabato è fare il bene, salvare una vita (Marco 3,1-6), come emerge dall’episodio della guarigione di un uomo con la mano inaridita in giorno di sabato. Il sacro è nel rapporto con Dio che passa attraverso l’attenzione agli uomini.
Nell’episodio della guarigione della donna curvata in giorno di sabato (Luca,13-10-17) emerge la concezione del sabato come memoriale della liberazione. Di fronte alle critiche del capo della sinagoga Gesù sottolinea l’importanza del gesto di guarigione-liberazione in giorno di sabato. La sacralità risiede per Gesù nel gesto iniziale della creazione e nei gesti di liberazione.
Gesù e lo spazio sacro (il tempio). Gesù prende posizione nei confronti del tempio scontrandosi con i funzionari del potere sacro.
Innanzitutto Gesù entra nel tempio (Marco 11,15-19) e si mette a scacciare quelli che vendevano e comperavano, rovesciando i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombi. È un intervento contro il mercato. Il tempio era un’industria di turismo e di pratica religiosa. Gesù afferma il tempio come luogo di preghiera contro la sua trasformazione in spelonca di ladri. Il tempio può consentire l’incontro con Dio, ma non perché è uno spazio sacro.
Il tema del tempio si sviluppa lungo tutto il racconto della Passione. Gesù è accusato di avere annunciato la distruzione del tempio e la costruzione di un tempio non fatto da mano d’uomo. In Luca si parla del tempio nell’episodio di Stefano che dichiara che l’altissimo non abita in costruzioni fatte da mani d’uomo (Atti,7,48). Il Dio trascendente non può essere racchiuso in nessuna struttura umana. Stesse espressioni si trovano nel discorso all’Aeropago di Paolo. Il tempio di Gerusalemme viene assimilato ai templi pagani, al tentativo umano di controllare Dio attraverso un’immagine o uno spazio.
Gesù propone di superare la distinzione tra puro e impuro, con un nuovo criterio di sacro: passare dalle cose alle relazioni, dall’interno all’esterno (Marco7,1-23).
Segno della distinzione del popolo scelto è la dieta kashér. Il tema del cibo sarà presente anche nella chiesa primitiva, imponendo ai pagani convertiti alcuni divieti alimentari. Nell’antichità il mangiare e il bere erano una delle modalità per entrare in contatto con la divinità. Gesù sostiene che nonc’è nulla fuori dell’uomo che entrando in lui possa contaminarlo. Sono invece le cose che escono dall’uomo che possono contaminare. Il contatto con Dio non passa attraverso i cibi, ma attraverso la relazione profonda che viene dal cuore. È ciò che esce dal cuore dell’uomo che rende impuro.
La carica rivoluzionaria presente nel laico, falegname, non sacerdote, terapeuta Gesù, schiacciato dal potere religioso, è spesso non colta.
la manifestazione di Dio avviene attraverso la parola e l’azione di Gesù, azione che rende libere le persone e che si manifesta nella creazione e nell’esodo (nel Regno).
Gesù riporta il sacro alla relazione profonda del cuore. Dio è santo perché non si lascia imprigionare in nessuna struttura umana.
L’ambito privilegiato in cui si manifesta Dio il santo è la relazione giusta e positiva.
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Paolo di Tarso e il sacro
Paolo affronta il problema dell’entusiasmo, dell’esperienza estatica e dei carismi nella lettera agli Corinzi ed indica tre criteri per valutare l’esperienza del sacro.
Anzitutto la fede in Gesù Cristo (1Cor 12,1-3). La fede in Gesù è un orizzonte che consente di orientare l’esperienza dello Spirito.
Un secondo criterio riguarda l’origine, la fonte e l’orientamento dei carismi (1Cor 12,4-11). Paolo sostiene che i doni vengono da Dio e sono in funzione della costruzione della comunità. Meno importanti quelli più « spettacolari ». Lo Spirito dà ad ognuno una qualità per la manifestazione e la crescita della comunità. Ognuno ha un dono dello Spirito per l’utilità comune.
Terzo criterio è il significato cristologico e ecclesiale dei carismi (1Cor12,12-27). Non c’è nessuna gerarchia in funzione dell’esperienza privilegiata di qualcuno. Anzi i carismi meno appariscenti sono quelli che vanno maggiormente curati. I carismi più importanti sono quelli della parola annunciata, condivisa e insegnata.
E il carisma per eccellenza è l’agape. Paolo chiama amore quello che Gesù formulava con altro linguaggio, l’interesse per l’essere umano, per la vita, per la libertà, per la dignità. Quale rapporto tra questa energia che dà sapore e senso alla vita e la realtà che chiamiamo Dio? Qui è il sacro.
L’amore è il supercarisma, che dà senso a tutti i doni. Perché l’amore sia forza vitale deve trovare le vie della relazione. Anche i doni più alti, senza agape, sono nulla. L’amore non è un fatto emotivo, ma una realtà che si vive nelle relazioni.
L’unica realtà che si può collegare con Dio è l’amore.
Paolo rappresenta il cuore dell’esperienza religiosa nell’amore, che è il vero sacro. Nella pienezza vedremo faccia a faccia, …come anch’io sono conosciuto. È un essere avvolti nella realtà di Dio, un essere conosciuti, non un possedere.
Per vivere l’esperienza dello Spirito nella comunità che si riunisce nella preghiera bisogna assegnare un ruolo privilegiato al carisma della parola profetica(1Cor 14,1-5). La profezia per Paolo è la capacità di comunicare partendo da un’esperienza di fede. La profezia edifica.
Inoltre è centrale la costruzione e la intensificazione dei rapporti comunitari (1Cor 14,6-25). Le esperienze carismatiche che non comunicano sono segni confusi.
Infine tutto per Paolo deve essere fatto per l’edificazione (1Cor14,26-40), cioè per far crescere la comunità, dando la possibilità a tutti di esprimersi come corpo vivo di Cristo.
Si può dire in conclusione che l’esperienza dello Spirito fa parte della dimensione originale profonda della fede cristiana. Solo attraverso il dono dello Spirito si può riconoscere che Gesù è il Signore.
Nella storia della chiesa lo Spirito è stato identificato spesso con l’istituzione, con il privilegio del carisma di governo rispetto a quello della carità. In questi anni la morale è stata proposta come norme, divieti e principi piuttosto che come relazioni da potenziare.
La via di collegamento tra lo Spirito e la comunità è la relazione
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IL DIALOGO NELLA BIBBIA

dal sito:

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/04-05/06-Dialogo_nella_Bibbia.html

IL DIALOGO NELLA BIBBIA
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Oggi si parla molto di dialogo. Ma cosa ci dice la Bibbia a riguardo di questa parola, divenuta molto di moda? Il termine è di origine greca e la parola diàlogos è del tutto assente. Esiste invece il verbo, dialégomai, che compare tredici volte con diverso valore… Gesù usa abitualmente la forma dell’asserzione autoritativa: “in verità (amen) vi dico” (rafforzata nel quarto Vangelo: “In verità, in verità vi dico”). Quando poi si confronta con i farisei e i dottori della legge, più che una discussione nasce regolarmente un diverbio. Sicché non si vede proprio come si possa presentare Gesù come l’antesignano del “dialogo” nel senso moderno del termine.

Dialogo e fede
Verso la metà del nostro secolo la parola “dialogo” nella mentalità comune diventa emergente e quasi mitica: il termine viene caricato di sentimenti, di attese, di problematiche che la portano molto lontano dalla sua valenza primitiva. Il fenomeno concerne soprattutto il discorso religioso nel mondo cattolico…
A sentire certi pronunciamenti sembra che si sia identificato nel “dialogo” l’intera fede cristiana, sicché il “dialogare” sarebbe già per se stesso obbedire alla missione fondamentale di predicare il Vangelo; in realtà il credente deve avere il nous di Cristo; cioè la sua mentalità, la sua visione di Dio e dell’universo, la sua capacità di cogliere il senso di ogni cosa entro il disegno del Padre. “Credere” vuol dire guardare la realtà con gli occhi del Risorto…
Chi è investito di questa luce superiore è in grado di contemplare il disegno che è stato pensato e voluto per questo ordine di provvidenza. Chi invece ne è privo, non cogliendo il disegno unificante di Dio, non può esaurire l’intelligibilità di nessun esistente, perché ogni esistente in concreto è “vero” solo in quanto è inserito nella “unitotalità” del progetto di Dio ed è finalizzato ad esso.
Senza dubbio, possiamo dialogare su molte cose, ma su ciò che davvero conta e importa nella nostra vita, il cristiano non può svendere la sua fede. Per esempio, non sul significato dell’universo, non sull’uomo che ha come sua indole propria di essere immagine di Cristo, non sul matrimonio che è annuncio e figura del mistero sponsale che connette la creazione al Creatore, non sull’amore, sulla giustizia, sulla bellezza, e sul fondamento ultimo di questi valori.
Ascoltare su questi temi i discorsi di coloro che ignorano Cristo e la sua causalità esemplare e finale nei confronti di ogni essere, è pressappoco come ascoltare i giudizi su un’esecuzione musicale di chi fosse sordo dalla nascita o le disquisizioni di chi è sempre stato cieco sul cromatismo di un maestro della pittura. Lo si può anche fare, ma soltanto per ragioni di cortesia, senza alcuna speranza che i “dialoghi” di questo genere abbiano esiti per qualche aspetto plausibili.

Abbiamo lo spirito di Dio
A questo proposito è illuminante la dottrina di San Paolo, che ha affrontato il problema nel secondo capitolo della prima lettera ai Corinzi, dove mette in opposizione il credente e il non credente. La sua risposta è chiara, e la riportiamo senza commenti: “Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose noi parliamo, non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali. L’uomo naturale (psychicòs) non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. L’uomo spirituale (pneumaticòs) invece giudica ogni cosa…”. È da notare che l’impermeabilità alla luce dello Spirito può sussistere anche in persone che sono “psichicamente” – cioè naturalmente, culturalmente, scientificamente – molto dotate.
Questo spiega come ci siano uomini intellettualmente acutissimi, illustri pensatori, ricercatori e letterati insigniti del premio Nobel, che in materia di religione, di antropologia, di etica enunciano dottrine e opinioni che sono remotissime dalla verità e dalla saggezza.
Mentre si potrà trovare molta verità e molta saggezza in persone senza istruzione e senza notorietà; persone alle quali lo Spirito di Dio si è compiaciuto di infondere un’eccezionale capacità di vedere le cose nel loro senso ultimo e nel loro valore.

La sapienza della fede
L’uomo davvero realizzato – cioè l’uomo secondo il progetto di Dio – è l’uomo “pneumatico”. Là dove c’è una volontaria ed esplicita chiusura all’azione dello Spirito spesso si determina anche un logoramento delle facoltà così dette “naturali”.
La perdita della fede molte volte dà luogo a qualche scardinamento della ragione, che diviene premessa per qualche aberrante giustificazione di comportamenti lesivi della dignità umana. In particolare, non ci si può attendere dai non credenti qualche comprensione sostanziale di quelle realtà che più direttamente attengono al cuore del “mistero nascosto dai secoli in Dio”, mistero che adesso nell’atto di fede noi conosciamo “con ogni sapienza e intelligenza”. Per esempio, non ci si può aspettare che comprendano qualcosa circa l’Incarnazione del Figlio di Dio e la redenzione del mondo attraverso il suo sacrificio; circa la vita intima di Dio come vita trinitaria; circa la Chiesa, sposa del Signore risorto e suo “corpo”, che cammina in questa nostra storia di errori e di peccati senza sviarsi e senza contaminarsi; circa la presenza del “Corpo dato” e del “Sangue sparso” sotto i segni eucaristici; circa il valore del matrimonio indissolubile e della verginità consacrata; circa la positività e anzi la preziosità del dolore.

Gioire della verità, sempre
Chi è davvero “non credente” è, in questi discorsi, in uno stato di analfabetismo quale che sia la sua forza speculativa naturale e l’ampiezza della sua erudizione. Sulla terra dell’incredulità noi siamo dunque “stranieri e pellegrini” e non dobbiamo cullarci nell’illusione che ci si possa intendere facilmente con tutti.
Ma non per questo dobbiamo sfuggire a ogni contatto e a ogni discorso che non sia tra coloro che sono “illuminati”. Si può e si deve sempre cercare di dialogare con tutti, nella speranza di trovare qualche parziale concordanza di vedute e qualche frammentario riconoscimento dei valori cristiani. Se li troveremo, non potremo che rallegrarci.
Ma sarà meglio persuadersi che non potrà essere troppo facile, né troppo frequente la convergenza sia pure parziale tra coloro che affermano e coloro che negano un disegno divino all’origine delle cose; coloro che affermano e coloro che negano una vita eterna oltre la soglia della morte; coloro che affermano e coloro che negano l’esistenza di un mondo invisibile, di là dalla scena variopinta e labile di ciò che appare; coloro che credono e coloro che non credono nel Signore Gesù, crocifisso e risorto, Figlio unico e vero del Dio vivente, Salvatore dell’universo…
Nell’ipotesi che anche nel “non credente” si possano dare spazi di luce e singole persuasioni di origine “pneumatica” – cioè dovuti all’azione insindacabile e imprevedibile dello Spirito – allora si può ancora sostenere la totale impossibilità e la totale inutilità di un “dialogo”? La consapevolezza che l’ordine attuale di provvidenza possiede una dimensione soprannaturale intrinseca e onnicomprensiva, ci induce a pensare che nessun uomo di fatto esistente sia abbandonato entro i confini della pura “naturalità”.

Gesù, la verità che salva
Ogni uomo appartiene al Signore Gesù prima ancora di essere stato raggiunto e trasformato dal suo Spirito.
Ogni uomo riproduce in sé in qualche modo il suo volto prima ancora di partecipare alla vita divina. Ogni uomo ha già dentro di sé il fondamento oggettivo di una sua immancabile tensione e vicinanza al Figlio di Dio incarnato. Inoltre la verità rivelata storicamente ha permeato e permea di sé ogni conoscenza umana e ogni cultura, anche quella che con più tenacia si vuol qualificare “profana” o “laica”, cioè dichiaratamente lontana e indipendente da ogni visione cristiana.
Il detto famoso di Benedetto Croce “Non possiamo non dirci cristiani” è ambiguo, serve alla confusione delle idee e favorisce il travisamento dell’avvenimento evangelico. Però possiede una sua verità, nel senso che oggi non è possibile per nessuno sottrarsi ai fermenti concettuali e spirituali della rivelazione. Questo è particolarmente evidente per coloro che appartengono alla nazione italiana e sono fatalmente segnati dalla sua tradizione, dal suo patrimonio letterario e artistico, dalla sua civiltà.
Infine non è da sottovalutare la libera azione illuminante che è propria dello Spirito Santo. Le intelligenze umane, anche se di solito non arrivano a percepirlo, sono spesso “pneumatizzate” quando si pongono sinceramente al servizio della verità. Tutto ciò è enunciato dal celebre aforisma caro a San Tommaso: “Ogni verità, da chiunque sia detta, proviene dallo Spirito Santo”. È un’affermazione ai nostri fini molto preziosa, perché riconosce non solo l’esistenza di un irradiamento “pneumatico” che va ben oltre l’area dell’appartenenza ecclesiale, ma anche che possiamo e dobbiamo ascoltare ogni parola di luce, una volta riconosciuta come tale, da qualsiasi bocca venga pronunciata.
Per un vero dialogo, occorre affermare anzitutto che non c’è alcuna possibilità di “dialogo” tra la fede e l’incredulità, considerate come atteggiamenti mentali e spirituali totalmente estranei e tra loro antitetici. Del resto, dall’incredulità come tale – intesa come piena negazione di ogni rapporto con Cristo – non abbiamo niente da prendere o da imparare.
Il non credente invece può farsi portavoce inconsapevole dello Spirito; nel qual caso noi ci dobbiamo porre in ascolto. Questo non vuol dire che tutto ciò che egli dice provenga dallo Spirito Santo, poiché dallo Spirito Santo proviene soltanto ciò che è vero, vale a dire, ciò che realizza il disegno del Padre e il Vangelo di Cristo. Si rende perciò necessario un atteggiamento vigile, che sappia accuratamente esaminare e vagliare.
In conclusione, tutta la riflessione sul “dialogo” va preservata da ogni faciloneria e da ogni leggerezza.
La posta in gioco è altissima e la questione è seria: ci può essere il rischio, con una spensierata apertura scambiata per generosità, di non riconoscere più Cristo come l’unico maestro di vita e l’unico salvatore dell’uomo; ma ci può essere anche il rischio, in nome di una improvvida intransigenza dottrinale, di disimparare ad amare: ad amare tutti gli uomini senza eccezione, i quali per il fatto di essere stati creati, sono chiamati ad aver parte alla gioia divina e restano sempre immagini vive dell’unico Signore dell’universo.

Card. Giacomo Biffi

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SUL SITO IMMAGINI:

1  Chi dialoga non solo deve essere profondamente convinto di quello che dice, ma deve anche sforzarsi di vivere ciò che dice. Solo così potrà provare la verità delle sue idee. (Foto di G. Viviani)
2  Il dialogo autentico rifugge dalle maschere, dai tentativi di nascondersi e di rifiutare l’incontro con l’altro. ( Foto Daniele Dal Bon)
3  Gesù si presenta all’uomo con un’esclusività totale. Lui non è una verità fra le tante, o una possibilità di realizzazione dell’uomo fra le molte che gli sono proposte, Gesù si annuncia come la verità e l’unica salvezza per l’uomo.

DIECI PAROLE PER LA MUSICA LITURGICA: “ELEGANTE”

dal sito:

http://www.zenit.org/article-25254?l=italian

DIECI PAROLE PER LA MUSICA LITURGICA: “ELEGANTE”

di Aurelio Porfiri*

ROMA, martedì, 18 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Elegante. Un giorno splendente di sole, mentre camminavo per le vie di Hong Kong, fui colpito da qualcosa che al momento mi apparve come inusuale. Non so perché, proprio quel giorno, venni distratto da quella particolare visione che forse era capitata sotto i miei occhi già altre volte. Cosa c’era di speciale in quel giorno in Hong Kong? Chiunque abbia visitato Hong Kong sa come questa città ha tutte le caratteristiche di una metropoli, grazie anche ai suoi sette milioni e mezzo di abitanti concentrati in non molto spazio. Hong Kong è un brulicare di palazzoni e grattacieli che svettano da Kowloon ai Nuovi Territori. A me piace molto Hong Kong, anche il giorno prima di cominciare questo articolo ero lì per una conferenza e quindi le immagini di questa città sono ancora fresche in me.
Ma cosa mi colpì in quell’assolato giorno di alcuni anni fa? Era un edificio, tanto per cambiare, ma questo edificio aveva qualcosa di diverso dagli altri. Sembrava non solo una meraviglia architettonica perfettamente funzionale, ma aveva qualcosa nella sua struttura che suggeriva immagini di dilettevole proporzionalità. Nella maniera in cui la facciata era organizzata non c’era solo la fredda e prevedibile geometria ma c’era una qualche ricercatezza a cui non sapevo dare un nome ma che la mia mente sentiva dover essere come familiare, nel senso platonico dell’ideale, nel ritrovare cioè qualcosa che già esiste nel mondo iperuranico delle idee. Avendo avuto qualche tempo per riflettere su questa strana sensazione che il palazzo faceva provare ai miei sensi, cercai una parola che definisse questa esperienza estetica (nel senso etimologico del termine, “io sento”). Pensai un po’ e una parola mi venne alla mente: questo edificio appariva “elegante”.
Già, elegante. Io credo che questa parola sia sottointesa in tante definizioni che si cercano di dare alla musica per la liturgia. Quando essa è ben fatta se ne apprezza il disegno, la struttura, la costruzione; insomma, l’eleganza. Io credo sia questa l’interpretazione giusta della definizione di musica per la liturgia data da san Pio X nel suo fondamentale Motu Proprio; accanto ad universalità e santità, egli pone la “bontà di forme”. Nella nostra epoca moderna sembra difficile definire univocamente la “bontà di forme” visto che siamo immersi in così tanti stili diversi e ancora più numerosi stili frutto di contaminazioni. Ma io credo che un aiuto nel dirimere questa questione viene proprio dall’uso del termine “eleganza”. Quale che sia lo stile usato, esso deve essere elegante, che significa armonicamente proporzionato e funzionale (ma non in senso solo pratico, ma soprattutto in senso estetico) allo scopo per cui si pone ad esistere. Nella sua Enciclica Musicae Sacrae Disciplina del 1955, Pio XII affermava: “Fra i molti e grandi doni dei quali Dio, in cui è armonia di perfetta concordia e somma coerenza, ha arricchito l’uomo, creato a sua “immagine e somiglianza” (cf Gn 1, 26), deve annoverarsi la musica, la quale, insieme con le altre arti liberali contribuisce al gaudio spirituale e al diletto dell’animo”.
Se la musica per la liturgia deve riflettere in qualche modo la bellezza di Dio per offrirla al godimento del fedele, non posso che fare mia la bella frase di cui sopra: “armonia di perfetta concordia e somma coerenza”; non credo ci sia definizione migliore di eleganza. La musica per la liturgia deve essere una armonia che deriva dalla perfetta concordia. Concordia che contiene il termine “corde”, cuore. Significa non semplicemente che tutti seguono un certo indirizzo di comportamento, ma che questo modo di essere della musica è perfettamente connaturato a se stessa, generando così una armonia perfetta perché derivante da una “volontà” perfetta intrinseca alla musica stessa, una volontà che va al suo stesso cuore. Tramite il lavoro dell’imperfetto compositore, la musica in un certo senso ritrova se stessa nella sua concezione più pura ed alta.
Io credo che uno degli esempi più essenziali di questo sia il mottetto Sicut Cervus di Giovanni Pierluigi da Palestrina. Quando mi capitava di parlarne con alcuni dei miei venerati Maestri, le definizioni giravano sempre intorno alla perfezione formale di questo brano. Sembra che ogni nota sia esattamente dove deve essere, sembra che in un certo senso la musica rivendichi la sua origine soprannaturale vincendo momentaneamente le imperfezioni e debolezze umane dell’artigiano che l’ha prodotta. Questa è suprema eleganza, questo equilibrio perfetto che si può ammirare ma che non si può che bramare di riprodurre. Ecco cosa ne risulta, la somma coerenza di cui parlava il Papa Pio XII. La musica deve tendere a questa estrema funzionalità, non intendendo questo termine nel suo senso più basso e volgare di uso pratico (come tanta musica per la liturgia di oggi e di ieri), ma nel senso di esaltazione delle sue caratteristiche (ecclesiale, estetica, edificante e via dicendo) che facciano in modo di renderla un esempio di suprema armonia. Certamente, non tutti i modelli possono essere altissimi come quello citato in precedenza e anch’io penso che non si debba solo trovare questi modelli nel passato. Ma cercare l’eleganza nella forma credo sia un obiettivo fondamentale di ogni composizione che ha una finalità liturgica.
E’ chiaro che l’eleganza esiste anche in tanta altra musica non liturgica: in ogni caso io penso che non ci sia buona musica liturgica se essa non è elegante. Vorrei prendere l’esempio di una forma musicale, la Fuga. I musicisti sanno che questa forma è in sostanza un meccanismo in cui le entrate delle voci e la ripartizione delle varie parti sono, in un certo senso, fortemente regolamentate. Ma un conto è il mero rispetto di una certa regola, un conto è una fuga di Bach. Questa è elegante, non solo funzionale e coerente a se stessa, ma anche creatrice di una bellezza che va oltre la regola che pure non disdegna di rispettare. Eleganza significa non urlato, significa congruente all’uso ma non in senso meccanicistico, significa emozionante nel suo senso più pieno e totale e non nel suo senso parziale ed immediato. L’eleganza si riscopre con la cura della forma, cercando di tenersi lontani dal formalismo. Ma il formalismo è solo una delle possibili eresie, l’altra è quella che Martin Mosebach definisce “l’eresia dell’informe”, titolo di un suo famoso libro abbastanza critico della riforma liturgica. Ma in effetti questa ultima eresia è ciò che ci è dato vivere.
Io non credo che il problema sia la nuova Messa, io credo che il problema sia il culto dello spontaneismo fine a se stesso. Se l’improvvisazione non è inserita in una sapienza acquisita è vuoto spontaneismo. Gli antichi greci improvvisavano le loro melodie ma si servivano di norme ben precise, nomoi, che ne delimitavano le possibilità e ne frenavano gli eccessi. Si è pensato che il culto dello spontaneismo giovanile, delle “cose fatte con il cuore”, del moderno senza radici avrebbe portato buoni frutti. In realtà i frutti non sono mai arrivati e ci si è allontanati così tanto che persino le composizioni nate per la nuova liturgia ma composte con sapienza ed eleganza fanno fatica a farsi strada nella sciatteria predominante. Torniamo all’eleganza, alla misura, alla sapienza delle proporzioni: riscopriremo le leggi segrete che fanno delle cose discordanti una perfetta e risonante armonia.
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*Aurelio Porfiri vive a Macao ed è sposato, con un figlio. E’ professore associato di musica liturgica e direzione di coro e coordinatore per l’intero programma musicale presso la University of Saint Joseph a Macao (Cina). Sempre a Macao collabora con il Polytechnic Institute, la Santa Rosa de Lima e il Fatima School; insegna inoltre allo Shanghai Conservatory of Music (Cina). Da anni scrive per varie riviste tra cui: L’Emanuele, la Nuova Alleanza, Liturgia, La Vita in Cristo e nella Chiesa. E’ socio del Centro Azione Liturgica (CAL) e dell’Associazione Professori di Liturgia (APL). Sta completando un Dottorato in Storia. Come compositore ha al suo attivo Oratori, Messe, Mottetti e canti liturgici in latino, italiano ed inglese. Ha pubblicato al momento quattro libri, l’ultimo edito dalle edizioni san Paolo intitolato “Abisso di Luce”.

Publié dans:LITURGIA - MUSICA |on 19 janvier, 2011 |Pas de commentaires »
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