San Paolo Migrante degli Apostoli (carro trionfale)

ho scelto, per oggi, un commento su un passo che particolarmente amo, dal sito:
http://www.giovaniemissione.it/spiritualita/luccat1.htm
I Domenica GIM : “Fare causa comune”
A tutti mi sono fatto tutto, per salvare in ogni modo qualcuno. Tutto faccio per il vangelo, affinché ne divenga compartecipe (I Cor 9, 23)
Si percepisce nell’atteggiamento di Paolo che è in gioco qualcosa di importante, di vitale. E’ come uno tutto indaffarato a predisporsi per qualcosa. Non come quando uno è agitato o nervoso, ma piuttosto come uno che è gioiosamente intento a qualcosa del quale non deve determinare il risultato ma piuttosto condividerne il frutto: faccio tutto per essere partecipe del Vangelo.
Sta accadendo qualcosa nel mondo. (il topo e gli elefanti). Dio salva. Il senso di questa salvezza è anche questo: fare esperienza di gratuità. C’è qualcosa che accade per me e per tutti, senza esclusioni. Comboni parlava del missionario che guarda all’Africa senza “interessi”. E un annuncio che ci tira fuori dalla nostra vecchia mentalità, che implica un modo assolutamente nuovo di vivere, che ti attira e ti trascina in quella direzione dove l’esperienza di gratuità è più naturale: dove vi sono persone che non possono dare o fare nulla, che non vantano diritti o qualità. Ed alle quali è promessa un’esperienza di salvezza.
Questa esperienza non è sempre così evidente. Per riconoscerla ed accoglierla è importante lasciarsi rinnovare nella mente da uno sguardo di fede ed imparare così a rileggere la realtà e la storia con quello sguardo. Per questo facciamo riferimento all’esperienza di Paolo cosi come egli la racconta agli anziani di Efeso convocati a Mileto prima dell’ultimo saluto dell’Apostolo.
Siamo in Atti 20,17 – 21 (continuando poi fino a 36). E’ un discorso di addio con il quale Paolo rilegge la propria storia come storia di salvezza e mette in luce quale è un cammino attraverso il quale impariamo a fare causa comune, ad essere là dove si diventa compartecipi del Vangelo, aperti all’esperienza della gratuità salvifica di Dio.
Paolo innanzitutto non richiama all’attenzione dei suoi compagni una dottrina particolare, ma il suo stesso comportamento, il suo modo di parlare e di agire, di relazionarsi. La salvezza passa per la tua “persona”. E’ il tuo essere profondo che viene rinnovato a reso luminoso. C’è una caratteristica fondamentale in questa luminosità: non l’eccezionalità, l’eroicità o altro, ma piuttosto la continuità nel tempo, la stabilità di atteggiamenti, la consistenza nel quotidiano: voi sapete fin dal primo giorno del mio arrivo… e per tutto il tempo che sono stato con voi come mi sono comportato”. Non si tratta di un episodio, di un gesto profetico… ma propriamente del vivere quotidiano.
Quindi Paolo fa una lettura della propria storia che evidenzia come in essa si sia realizzata la salvezza di Dio. In tal senso considera sia il passato che il presente ed il futuro. E’ importante mettersi in questa prospettiva per disporsi a riconoscere questa salvezza. Puoi avere uno sguardo sulla tua storia che è chiuso nel passato (lamenti, presunti blocchi, complessi etc…), oppure che è frammentato nel presente – vivi alla giornata. Oppure che è tutto proiettato nel futuro ed aspetti sempre qualcosa d’altro o di diverso da quello che già hai e magari non vivi pienamente.
Il desiderio e il coraggio di fare causa comune nascono necessariamente da una visione della storia, tua e del mondo, come progetto e non come frammento. C’è un’opera meraviglioso, nella tua vita e nel mondo, che sta prendendo forma nel tempo. Di questa opera tu sei una parte ineliminabile.
Paolo guarda, dunque, innanzitutto al suo passato: voi sapete come mi sono comportato all’inizio (v 18). Cosa ha fatto Paolo? Come ha servito? Come ha vissuto la sua quotidianità? Paolo dice innanzitutto una cosa semplicissima: ho servito il Signore. Non una causa, una metodologia, un’ideale, ma il Signore. Non ha servito propriamente nemmeno un certo circolo di persone. Ha servito il Signore. Qui c’è un grande valore non così evidente a prima vista. E’ che noi ci mettiamo a servizio di tante altre cose, quasi senza accorgercene. “Stupenda questa libertà di Paolo: non deve niente a nessuno, se non a Cristo; e attraverso di lui a tutti. Non deve piacere a nessuno, non deve rispondere a nessuno, se non a Cristo; e attraverso di lui a tutti. E la comunità sa benissimo che Lui è lì non per piacere, per accontentare, per rispondere alle attese, ma è li per servire Cristo2 (Martini). La situazione di uno che non sa chi dei suoi amici schierarsi in un conflitto di interessi e non pensa invece di schierarsi semplicemente dalla parte di Cristo. E’ paradossale ma nel servizio di Cristo vi è una chiamata a profonda libertà.
Quindi Paolo specifica meglio il suo atteggiamento di servizio: nell’umiltà. Ne parla meglio in Fil 2,3: Non fate nulla per ambizione o vana gloria, ma con umiltà ritenete gli altri migliori di voi. Non cercate il vostro interesse. Coltivate gli stessi sentimenti di Cristo”… oppure in Col 3,12: “Voi dunque, come eletti di Dio, rivestitevi di sentimenti di tenera compassione, di bontà, di umiltà, di tenerezza… sopportandovi a vicenda e perdonandovi” nelle lacrime. Gesù piange due volte. Con Lazzaro morto e poi su Gerusalemme: O se tu conoscessi in questo giorno quello che occorre alla tua pace (Lc 19:42). Sono lacrime che esprimono qualcosa di più del semplice affetto. Sono piuttosto espressione di una fatica e di un coinvolgimento personale perché l’altro si apra alla fede. Paolo ha sentito questa fatica. “Figlioli miei (Gal 4,19-20) per i quali soffro nuovamente le doglie del parto fino a che Cristo non sia formato in voi. Vorrei proprio essere presso di voi e parlarvi a tu per tu, poiché sono ansioso nei vostri riguardi.” Quindi desiderio di far causa comune, di essere “presso” e disponibilità a tutti ed al singolo, al rapporto “a tu per tu”, all’interessamento personalissimo. Questo atteggiamento non è banale. Può essere doloroso come il parto. Può implicare periodi lunghi: ricordate che per tre anni, tra le lacrime, ho supplicato ciascuno di voi (Atti 20, 31). Allora fare causa significa accettare queste lacrime: l’esperienza di servire senza vederne subito il frutto, senza trovare subito un’accoglienza facile e spontanea: il contadino va e piange mentre semina. Eppure semina. Sai perseverare? Sai appassionarti al bene dell’altro senza pretendere di cambiarlo subito e a modo tuo?
Tra le prove che venivano dai Giudei. Si trattava di complotti, di contraddizioni, comunque di tutte quelle situazioni in cui qualcuno ti mette i bastoni tra le ruote. E dall’interno: si tratta cioè di incomprensioni che uno incontra nel proprio ambiente. L’ostilità dei buoni. Quel clima negativo che può crearsi anche in oratorio.
Quindi il servizio di Paolo era nell’umiltà, nelle lacrime e tra le prove. Come quello del Comboni.
Paolo aggiunge ancora due caratteristiche del suo comportamento:
non mi sono mai tirato indietro a quello che poteva esservi utile. Vi è qui l’idea di sapersi esporre. Alle volte sono cose piccolissime cose (il servizio a Florida), eppure sei tentato di nasconderti, di risparmiarti, di farti gli affari tuoi. Perché devo farlo io… non cambia niente… e magari non pensi che ti stai semplicemente tirando indietro.
Ho insegnato in pubblico e nelle case. C’è una coerenza di testimonianza. Semplicità. Assenza di doppiezza. Era lo stesso dentro e fuori. Non è esattamente la stessa cosa per noi. Più sei distante da Cristo più dovrai sdoppiarti. Perché sei in un modo con gli amici e in un altro coi genitori? Perché sei in un modo qui e in un altro a scuola? L’amore di Cristo vuole sanare questa divisione per renderti capace di questo atteggiamento generoso: fare causa comune.
Paolo lo ha vissuto pienamente: “lavorando giorno e notte, per non essere di peso ad alcuno, vi abbiamo annunziato il Vangelo” (I Tes 2,9). Anche Daniele Comboni: ecco tra voi ritrovo il mio cuore per mai più perderlo (essere presso)… il giorno e la notte mi troveranno sempre pronto al vostro servizio…
Dopo aver riletto la sua storia come una storia di servizio – spesso di fatica – ma anche di frutto, di pace, di tranquillità, Paolo si ferma sul presente.
Ecco ora avvinto dallo Spirito cammino verso Gerusalemme (V 22-23) oppure
Ecco ora avvinto …. Io cammino verso Gerusalemme nello Spirito.
La libertà che Cristo ha donato a Paolo per il suo servizio è la libertà dalla paura. Non deve più fuggire la sofferenza. Questo è fondamentale per avere discernimento e sapienza del cuore. Tu scegli normalmente quello che ti piace o ti conviene, perché fuggi la sofferenza. E così sbagli. Perché quello che ti piace e ti conviene non è necessariamente quello che ti fa crescere nell’amore. Per scegliere ciò che è bene devi essere libero da queste convenienze.
Paolo cammina verso Gerusalemme come Gesù. Ha lo sguardo fermo e determinato verso il bene, verso l’amore come dono di sé.
Infine il futuro di Paolo al v 24: ecco ora non faccio alcun calcolo della mia vita… C’è un perfetto abbandono che lo rende sciolto, libero, tranquillo. Davanti a sé Paolo pone semplicemente una cosa:
completare la corsa ed il servizio. Prova a pensare alla sensazione che verrebbe dal vedere un atleta interrompere una corsa… oppure dal trovare un servizio che è stato lasciato a metà.
La tua vita esige una completezza per acquisire valore. Il coraggio di scelte per la vita. Che includono e contemplano tutta la vita. E lì la tua felicità.
Ma questo discorso non è sempre facile da farsi e da vivere.
Paolo mette in guardia contro i pericoli.
Vigilate su voi stessi e sul gregge. Su te stesso e sull’altro, ciascuno secondo una responsabilità che gli è propria.
Sapere riconoscere i lupi rapaci che vengono da fuori: avere vigilanza su quelle realtà personali, di gruppo o sociali che avviano dei processi di oppressione e di manipolazione dei più deboli. Tutto ciò che minaccia o distrugge la vita viene dal lupo rapace.
Saper riconoscere anche coloro che “da dentro” tendono a fare discepoli, a proporre se stessi piuttosto che Cristo (v 30)
Quindi Paolo ricorda ancora una volta alcuni tratti del suo stile di vita
Non ho cercato né oro né argento: la gratuità, la libertà dalla cupidigia in quello che cerchi.
Ho lavorato con le mie mani per provvedere a me e a quelli che erano con me
Vi ho insegnato a soccorrere i più deboli con il lavoro
Ho conservato la Parola del Signore: vi è più gioia nel dare che nel ricevere.
Per riflettere
“Non si può paragonare il cristianesimo con il pagare le tasse e restare con quello che ci resta – cosa devo fare di buono? Non è tanto il nostro tempo o la nostra attenzione che Dio pretende: si tratta di noi stessi. Egli, infatti, in ultima istanza non ha altro da darci che se stesso e lo può fare solo nella misura in cui la nostra volontà si ritira… Dobbiamo convincerci: non resterà niente di nostro di cui vivere…
affrontare ogni giorno – è l’idea di qualcosa di “nostro”, qualche campo sul quale Dio non può vantare alcun diritto. Egli ha diritto su tutto dal momento che è amore e deve santificarci. E non può santificarci se non ci possiede. Quando cerchiamo di tenerci una porzione di anima tutta per noi cerchiamo di mantenere una zona morta. Se non abbiamo scelto il regno di Dio, alla fine non farà alcuna differenza sapere che cosa abbiamo scelto al suo posto. Il tentatore mi dice: riguardati. Pensa a quanto ti costerà… L’importante, quello che il cielo desidera e l’inferno aborrisce, è proprio quel passo in più che ci farà perdere il controllo. Gli sbagli saranno perdonati. E’ l’accontentarsi che è fatale, è il sentirsi autorizzati a regolamentare l’esistenza di un’area in noi stessi “tutta per noi”… Per quel che ne so la battaglia contro questa tentazione va ricomunicata ogni giorno. La nostra preghiera del mattino sia quella dell’imitazione: da hodie perfecte incidere. Concedimi un inizio perfetto – oggi – poiché non ho ancora combinato niente” (Lewis, il brindisi di Berlicche”)
Fare causa comune – diventare tutto a tutti – dipende sostanzialmente dall’aver trovato la libertà interiore da se stessi… per poter, ogni giorno, passare all’altro, aprirsi, donarsi. Per amare con l’amore con cui siamo amati.
Quali segni di apertura riconosci nei tuoi atteggiamenti quotidiani?
Quali decisioni possono aiutarti ad uscire dalla “contentezza” tua – che ti rende alla fine indifferente, distratto, fatalista riguardo al destino degli altri e del mondo – per entrare nella gioia del Vangelo: la scoperta che è più bello donare che ricevere?
Testi significativi
“Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero… Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli. Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro”. (1Cor 9, 19-23)
“Lavorando, così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere!”. (At 20, 35)
“Non fate nulla per ambizione o vana gloria, ma con umiltà ritenete gli altri migliori di voi. Non cercate il vostro interesse. Coltivate gli stessi sentimenti di Cristo” (Fil 2, 3)
“Voi dunque, come eletti di Dio, rivestitevi di sentimenti di tenera compassione, di bontà, di umiltà, di tenerezza… sopportandovi a vicenda e perdonandovi” (Col 3,12)
“Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi! Vorrei essere vicino a voi…” (Gal 4, 19-20)
“ Il primo amore della mia giovinezza fu per l’infelice Nigrizia e, lasciando quanto per me v’era di più caro al mondo, venni in queste contrade… I miei pensieri e i miei passi furono sempre per voi… Io ritorno fra voi per non mai più cessare di essere vostro, e tutto al maggior vostro bene consacrato per sempre. Il giorno e la notte, il sole e la pioggia, mi troveranno egualmente e sempre pronto ai vostri spirituali bisogni: il ricco e il povero, il sano e l’infermo, il giovane e il vecchio, il padrone e il servo avranno sempre eguale accesso al mio cuore. Il vostro bene sarà il mio, e le vostre pene saranno pure le mie. Io prendo a fare causa comune con ognuno di voi, e il più felice dei miei giorni sarà quello in cui potrò dare la vita per voi”.
Daniele Comboni
dal sito:
http://www.romasette.it/modules/news/article.php?storyid=3543
In cammino con Gesù: Educare le nuove generazioni: uno sguardo sull’età apostolica nelle lettere di Paolo a Timoteo
di Andrea Lonardo
«Mi ricordo della tua fede schietta, fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te» (2 Tim 1,5): le cosiddette lettere pastorali, cioè le due lettere a Timoteo e la lettera a Tito, abitualmente indagate come documenti che permettono di cogliere lo sviluppo del ministero nella chiesa, sono anche uno specchio di come i primi genitori cristiani vivessero l’educazione delle nuove generazioni.
Le lettere a Timoteo parlano della terza generazione cristiana: Timoteo ha ricevuto la fede tramite la madre Eunìce e costei, a sua volta, da Lòide che ora è nonna di Timoteo. Il Nuovo Testamento è così testimone che, non appena si diventa cristiani, subito la fede viene trasmessa ai propri figli e nipoti. Il piccolo Timoteo non deve attendere la sua età matura, ma fin da piccolo riceve il dono di quei riferimenti e di quei valori che sono il tesoro prezioso di chi lo ha chiamato alla vita.
La seconda lettera aggiunge un particolare di questa precoce iniziazione alla fede: «Fin dall’infanzia conosci le sacre Scritture: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù» (2 Tim 3, 15). Il padre di Timoteo era pagano, la madre ebrea, ma non lo aveva circonciso. Aveva, però, evidentemente accompagnato suo figlio, fin dalla tenera età, a conoscere la rivelazione di Dio, secondo la più bella tradizione ebraica. Eunìce gli aveva fatto conoscere non solo i libri dell’Antico Testamento, ma anche quel Gesù che era la chiave per comprendere quei testi ed il loro più vero significato, poiché la salvezza promessa raggiungeva gli uomini per la fede in lui.
Se le due lettere a Timoteo aprono uno squarcio sull’educazione dei figli, specularmente non parlano astrattamente della condizione adulta, ma si rivolgono a mariti e mogli, a padri e madri, a vescovi e diaconi, a famiglie e vedove. La teologia moderna ha formalizzato nel concetto dello “stato di vita” ciò che è già evidente nella vita dei cristiani del Nuovo Testamento: se un giovane è tale perché è ancora in ricerca della propria vocazione, l’adulto si caratterizza proprio per quelle relazioni definitive che costituiscono la forma specifica del suo dono. Egli è adulto, proprio perché è marito e padre, o perché è vescovo o diacono o ancora perché ha accolto pienamente la condizione di vedovanza.
La definitività della vocazione non riguarda solo i presbiteri ed i diaconi, per i quali l’autore raccomanda di non aver fretta ad imporre le mani, e nemmeno semplicemente coloro che sono stati chiamati al matrimonio, ma addirittura è tratto essenziale di coloro che hanno subito la condizione vedovile e sono ora chiamate a sceglierla o ad uscirne risposandosi: «Onora le vedove, quelle che sono veramente vedove… Desidero che le più giovani si risposino, abbiano figli, governino la casa, per non dare all’avversario nessun motivo di biasimo» (cfr. 1 Tim 4, 3-16).
L’odierna catechesi che sceglie di parlare sempre più di famiglia, piuttosto che semplicemente di adulti, rispecchia proprio questa coscienza della centralità delle relazioni personali, delle scelte che costituiscono la condizione tipica dell’adulto. Egli non educa solo perché si rivolge ai più piccoli, ma anche e soprattutto perché vive con serena responsabilità la propria vita, proponendosi così come modello e testimone.
La prima formazione ricevuta da Timoteo non è però sufficiente. Essa non può mai essere semplicemente presupposta, proprio perché la persona è viva ed affronta situazioni sempre nuove. «Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza» (1 Tim 1, 6-7): così afferma l’autore subito dopo aver parlato dell’educazione che Timoteo ha ricevuto dalla nonna e dalla madre.
È una educazione che si deve misurare anche con la fatica della lettura e del pensiero – «Fino al mio arrivo, dèdicati alla lettura» (1 Tim 4, 13), come, d’altro canto, a Timoteo viene chiesto di farsi portatore dei libri necessari per Paolo: «Venendo, portami il mantello che ho lasciato a Troade in casa di Carpo e anche i libri, soprattutto le pergamene» (2 Tim 4, 13).
Soprattutto, la conoscenza della affidabilità della rivelazione – «So a chi ho creduto» (1 Tim 1, 12)- si è ormai tramutata nel dono che Timoteo fa di se stesso come testimone della fede: «Soffri anche tu insieme con me per il vangelo, aiutato dalla forza di Dio» (2 Tim 1, 8). Egli non è più come «coloro che stanno sempre lì ad imparare, senza riuscire mai a giungere alla conoscenza della verità» (2Tim 3, 7), ma può ormai sentirsi dire da Paolo: «Le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro volta anche altri» (2 Tim 2, 2).
Per questo una vera educazione non si rivolge semplicemente alla persona stessa, ma la apre a vivere pienamente nel mondo per poter condividere con ciascuno i doni ricevuti da Dio. Timoteo è così invitato ad avere sempre presenti tutti nel suo sguardo e nella sua preghiera – «Ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità. Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti» (1 Tim 2, 1-6). Per Timoteo, come vescovo, valgono le raccomandazioni ad essere ospitale, capace di insegnare, benevolo, non litigioso (1 Tim, 3, 2-3); infatti «è necessario che [il vescovo] goda buona reputazione presso quelli di fuori, per non cadere in discredito e in qualche laccio del diavolo»( 1 Tim 3, 7).
La critica moderna si è spesso domandato chi sia l’autore delle pastorali, poiché esse utilizzano un linguaggio differente dalle lettere sicuramente autentiche di Paolo, ma,d’altro canto, sono piene di riferimenti a fatti che possono provenire solo da un intimo conoscitore dell’apostolo. Una proposta recente del prof.Giancarlo Biguzzi ipotizza, con buona probabilità, che l’autore possa essere lo stesso Timoteo che avrebbe fuso insieme –da qui la non piena organicità della disposizione finale delle lettere- i suoi ricordi dell’apostolo, i cosiddetti personalia contenuti nelle lettere pastorali.
13 giugno 2008
dal sito:
I TESTI DI PAOLO SULL’EVENTO DI DAMASCO
Paolo «chiamato a essere apostolo»: l’incontro sulla via di Damasco
del prof. Giancarlo Biguzzi
Mettiamo a disposizione il testo della relazione tenuta dal prof. Giancarlo Biguzzi il 7 novembre 2008 in occasione dell’inaugurazione della mostra La Bibbia a Roma organizzata dall’Ufficio catechistico della Diocesi di Roma, presso il Pontificio Seminario Romano Maggiore. In quella occasione il regista ed attore Francesco Brandi ha letto i testi dell’apostolo commentati dal prof. Biguzzi.
L’Ufficio catechistico della diocesi di Roma (24/11/2008)
1. I testi di Paolo sull’evento di Damasco
a. Primo testo: 1Corinzi 9,1-18
b. Secondo testo:1Corinzi 15,1-11
c. Terzo testo: Galati 1,11-16
d. Quarto testo: Filippesi 3,2-14
e. L’evento di Damasco, sintesi
2. I Appendice: sintesi a cura dell’ufficio catechistico delle ulteriori riflessioni al termine della relazione
3. II Appendice: (è uno schema, non lo metto)
L’anno paolino sta suscitando grande interesse e grande fervore a tutti i livelli nella Chiesa Cattolica. Il motivo è che, per la concettosità dei suoi scritti e per le controversie con Lutero e i protestanti, Paolo è tra noi cattolici poco conosciuto e ora lo si vuole imparare a conoscere.
Nella sua complessa personalità c’è anche qualche elemento di disturbo e di antipatia (è accusato di “egomania”, talvolta è focoso, mordace, sarcastico), ma nella storia cristiana, dopo Gesù, senza alcun dubbio Paolo è il numero due. Questa sera propongo a voi la sua figura come esemplare. È esemplare per il fatto di essere unitaria, – non miscellanea, eterogenea, raccogliticcia. Paolo ha avuto un centro attorno al quale ha saputo disporre i valori in gerarchia, e ha avuto una sorgente inesauribile da cui attingere per le battaglie della sua vita e per la sua vorticosa corsa apostolica.
*
Joachim Jeremias, noto studioso tedesco del secolo scorso (+ 1979), in uno scritto brevissimo (= Per comprendere la teologia dell’apostolo Paolo, Brescia 1973) esprime in modo incisivo quella che è la convinzione comune, che cioè a spiegare Paolo, la sua opera e il suo pensiero, non sono né Tarso dove è nato, né Gerusalemme dove è stato educato alle Scritture, né Antiochia di Siria dove è stato coinvolto in modo decisivo nel movimento cristiano. Ma soltanto Damasco. Su tutte le componenti della personalità di Paolo (ellenismo di Tarso, giudaismo di Gerusalemme, chiesa primitiva di Antiochia di Siria), domina dunque l’evento di Damasco, solitamente detto ‘conversione’ ma che è meglio definibile come ‘vocazione’.
Siamo informati su quello che accadde a Damasco: (a) dai tre racconti lucani in At 9,1-22 (narrazione dello scrittore, 22 versetti), At 22,6-21 (autodifesa di Paolo nell’episodio dell’arresto a Gerusalemme, 18 versetti), At 26,9-18 (autodifesa di Paolo davanti al re Agrippa, 10 versetti); (b) – da testi che si trovano in lettere considerate di solito deutero-poaoline (Ef 3,1-12; 1Tm 1,12-16); (c) da brevissimi accenni dello stesso Paolo nelle sue lettere (1Cor 9,1ss; 15,8ss; Gal 1,15-16; Fil 3,12ss).
Sono evidentemente questi testi i più illuminanti perché costituiscono una testimonianza diretta, anche se sono stati scritti almeno venti anni dopo i fatti. Sono però preziosi proprio perché il tempo che è intercorso tra i fatti e lo scritto ha condotto Paolo a una comprensione sempre più profonda dell’evento damasceno.
1. I testi di Paolo sull’evento di Damasco
a. Primo testo: 1Corinzi 9,1-18
In 1Cor 8 Paolo scrive di essere pronto ad astenersi in eterno dal mangiare carne, per riguardo a qualsiasi fratello cristiano. Ma quella rinuncia alla libertà poteva essere facilmente criticata dagli avversari Corinzi che potevano obiettare: «Se non ha autorità e libertà, Paolo non è apostolo!». Paolo previene questa possibile obiezione con quattro domande retoriche (1Cor 9,1), tutte introdotte da particelle interrogative che lasciano in attesa di una riposta affermativa:
1: «Non sono forse libero, io?». Il senso della domanda è che, come ogni cristiano, Paolo è libero; in particolare, come ogni apostolo. È libero, se lo vuole, di farsi mantenere economicamente.
2: «Non sono io forse un apostolo?». Mentre Luca negli Atti degli Apostolo non dà a Paolo il titolo di “apostolo”, Paolo rivendica quel titolo con grande forza e insistenza. Qui, per dare fondamento alla sua pretesa di essere apostolo, nella terza domanda retorica, quella che segue, Paolo si richiama all’evento di Damasco:
3: «Non ho io forse visto Gesù, Signore nostro?». Nell’ultima domanda Paolo aggiunge una seconda prova della sua apostolicità, che è la sua stessa opera:
4: «E non siete voi la mia opera nel Signore?».
Nel contesto seguente poi Paolo rivendica con molti argomenti di avere i diritti dell’apostolo: (i) Ogni lavoratore (soldato, vignaiolo, pastore, aratore, trebbiatore) vive del suo lavoro; (ii) Anche la Legge mosaica chiede che il bue possa mangiare del suo lavoro (Deut 25,4), per cui a fortiori l’apostolo ha quel diritto; (iii) Il Signore stesso ha detto che chi annuncia il Vangelo, da quell’annuncio ha diritto di trarre il sostentamento.
Paolo poi fornisce i motivi per cui non si avvale di quel diritto: perché egli non vuole porre ostacoli al Vangelo, e perché annuncia il Vangelo non di sua volontà ma, come gli antichi profeti (Amos 3,8; Ger 1,6; 20,7-9), per necessità: perché non può resistere o sottrarsi all’azione di Dio in lui.
In 1Cor 9 l’episodio di Damasco è fondamento dell’apostolicità di Paolo ed è l’investitura apostolica di Paolo e la sua opera missionaria ne è la comprova. Paolo dunque pensava l’evento di Damasco più in chiave di chiamata al ministero apostolico che di conversione.
b. Secondo testo:1Corinzi 15,1-11
Il problema che Paolo discuterà sino alla fine del lungo capitolo XV della Prima lettera ai Corinzi è esposto in 15,12: «Se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste resurrezione dei morti?». Infatti come gli altri apostoli, così anche Paolo («Sia io che loro, così predichiamo», 15,11) annuncia un Vangelo incentrato su Morte-Sepoltura di Gesù e Resurrezione-Apparizioni (1Cor 15,3-3-8).
Per noi è importante il fatto che nell’elenco dei destinatari delle apparizioni del Risorto, Paolo mette anche se stesso: «… apparve (i) a Kefa- Pietro, e (ii) ai Dodici; in seguito apparve (iii) a più di 500 fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti; inoltre apparve (iv) a Giacomo, e quindi (v) a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me (= vi), come a un aborto». Anche qui l’evento di Damasco è per Paolo investitura apostolica, nonostante che egli occupi l’ultimo posto nell’elenco dei destinatari delle apparizioni, anzi nonostante sia indegno di quel titolo perché ha perseguitato la Chiesa (15, 11).
In 1Cor 15 l’evento di Damasco più che visione è apparizione (Paolo è passivo, mentre in 1Cor 9 era attivo: «Io ho visto il Signore»). La cristofania è fondamento dell’apostolicità e – elemento nuovo che si trova nei versetti seguenti – è “grazia” (v. 10a: «Per grazia di Dio sono quello che sono e la sua grazia in me non è stata vana»): è l’iniziativa gratuita e misericordiosa di Dio che da un persecutore trae un apostolo travolgente. Quella grazia lo ha lanciato in un impegno apostolico senza pari: proprio il feto abortivo, in virtù della grazia che ha ricevuto e assecondato, è colui che per il Vangelo si è affaticato più di tutti (15,10).
c. Terzo testo: Galati 1,11-16
Secondo le accuse dei suoi avversari Paolo predicherebbe la libertà per i pagani dalla Legge mosaica “per piacere agli uomini”: «È forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio? [Come è possibile pensare che] io cerchi di piacere agli uomini? Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo!» (Gal 1,10).
Nella sua replica Paolo anzitutto nega di avere facilitato e addomesticato il Vangelo («il Vangelo da me annunziato non è secondo l’uomo [= addomesticato perché piaccia all'uomo]», v. 11). Poi nega di avere ricevuto il Vangelo da uomini, e cioè dalla catechesi di qualche apostolo o di qualche comunità (v. 12a). Prima di Damasco infatti era accanito persecutore della Chiesa (vv. 13-14), e quindi di certo non era catecumeno. Dopo Damasco si è recato in Arabia senza salire a Gerusalemme per incontrare gli Apostoli (vv. 16b-17). Egli invece ha ricevuto il Vangelo “per rivelazione, – di’apokalypseos” (a Dio «è piaciuto rivelarmi il suo Figlio»). A questo scopo Dio lo ha selezionato «fin dal seno della madre» e lo ha «chiamato per grazia». Il tema della vocazione, quindi, qui è esplicito. Tutto questo in vista dell’annuncio ai pagani. In Gal 2,7-8 Paolo espliciterà il carattere particolare di questa sua missione mettendo a confronto il suo mandato ai gentili con quello di Pietro ai circoncisi.
In Gal 1 l’evento di Damasco è “apocalisse” o “rivelazione” a Paolo del Figlio, quale centro assoluto della storia salvifica (Gal 1,16a). È “apocalisse” o “rivelazione” dell’Evangelo o buona notizia che riguarda Gesù, e che Paolo ha ricevuto non dagli uomini ma direttamente da Dio (v. 12). Poi, è chiamata all’apostolato totalmente gratuita (v. 15b) e in nulla meritata. È chiamata all’apostolato dei pagani, come quella di Pietro è chiamata all’apostolato dei circoncisi (2,8). È chiamata profetica perché descritta con le parole della vocazione di Geremia (Ger 1,5: «Prima di formarti nel seno materno ti conoscevo… ti ho stabilito profeta delle nazioni»), o, ancora più, con le parole della vocazione del Servo di Adonay (Is 49,1: «Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunciato ecc.»).
d. Quarto testo: Filippesi 3,2-14
Nella serena lettera ai Filippesi che è la lettera della gioia (cf. le 15 ricorrenze di “gioia”, e “gioire”), il cap. 3 è, invece, duramente polemico contro missionari probabilmente cristiani, sostenitori della circoncisione. Nella replica contro di loro Paolo inserisce due allusioni a Damasco: nel v. 3,7 e nel v. 3,12.
La prima volta Paolo si confronta con il loro vanto: «Se qualcuno ritiene di potere confidare nella carne, io più di lui» (3,4). Paolo allora elenca prima tre motivi di vanto «nella carne» ereditati dalla nascita, e poi tre motivi di vanto conquistati personalmente: egli è
a. circonciso l’ottavo giorno
b. Israelita della tribù di Beniamino
c. Ebreo da ebrei [= fedele alla cultura, alla lingua, allo stile di vita]
a. quanto alla Legge, fariseo (= osservanza radicale della Legge),
b. quanto allo zelo, persecutore,
c. quanto alla giustizia (all’essere giusto davanti a Dio), irreprensibile.
All’inizio del v. 7 c’è un «ma» che segna la svolta del ragionamento e che introduce la prima allusione all’evento di Damasco: «… ma quello che poteva essere per me un guadagno l’ho considerato una perdita, a motivo di Cristo». Quel rovesciamento di valori è avvenuto a Damasco. La contrapposizione di guadagno e di perdita dice che a Damasco si è operato un capovolgimento di giudizio circa i privilegi storici e morali del giudaismo.
Passando a parlare del presente, Paolo conferma quella mutazione di prospettiva e la rafforza dicendo di considerare come perdita e sterco non solo i privilegi del giudaismo, ma “ogni cosa”, di fronte alla conoscenza superiore o sublime di Gesù Cristo (v. 8). Lasciando perdere ogni altro valore, ora Paolo cerca di conquistare il Cristo, di esperimentare la potenza della sua resurrezione, e la comunione alle sue sofferenze «con la speranza di giungere alla resurrezione dai morti».
Con queste parole Paolo è passato a parlare del futuro, ed è passato al secondo confronto coi suoi avversari. Sembra che dal testo di Filippesi si possa ricavare che essi si consideravano già perfetti, pienamente salvati e partecipi della resurrezione di Cristo. Paolo, servendosi dell’immagine della corsa nello stadio, dice di sé invece di essere ancora impegnato nella corsa: «Non però che io abbia già conquistato il premio o che sia oramai arrivato alla perfezione. Solo mi sforzo di correre per conquistarlo». E aggiunge il secondo riferimento a Damasco scrivendo: «…perché anch’io sono stato conquistato dal Cristo» (v. 12).
In Fil 3 Damasco per Paolo in qualche modo, se si vuole, è conversione, perché è capovolgimento di valori e di scelte morali. Per questo i Filippesi, che possono essere disorientati da un insegnamento nuovo e da modelli di vita sbagliati come quelli introdotti dagli avversari di Paolo, hanno un esempio nell’Apostolo. Egli infatti sente il bisogno di invitarli alla sua imitazione: «Fratelli, fatevi miei imitatori, e guardate a quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi» (v. 17). Il cambiamento di vita in Paolo è avvenuto a motivo del Cristo (v. 7) e a motivo della sublimità della conoscenza di Gesù Cristo (v. 8). L’espressione significa probabilmente, come in Gal 1, la rivelazione del Cristo a Paolo per apocalisse. Dunque, Damasco è conoscenza (data gratuitamente e poi lentamente assimilata) del Cristo quale valore assoluto che relativizza i privilegi di Israele e tutto. Per Paolo l’evento di Damasco significa infine essere stato afferrato e conquistato dal Cristo, per cui ora, a sua volta, egli cerca di conquistare lui e la resurrezione.
e. L’evento di Damasco, sintesi
La ricchezza spirituale e storica dell’evento di Damasco è evidente anche dal linguaggio (o dai linguaggi, al plurale) cui Paolo ricorre per parlarne. Di volta in volta Paolo utilizza il linguaggio della vocazione profetica, delle teofanie, dell’apocalisse o rivelazione escatologica, della conquista militare o della vittoria sportiva, della conversione o cambiamento nella scala dei valori.
Nei testi di Paolo l’insistenza sulla conversione morale, in ogni caso, non è così forte come nella nostra catechesi, nell’iconografia paolina, e come al 25 gennaio del nostro calendario liturgico. A Damasco Paolo non è un peccatore che ritrova i sentieri del bene: di sé stesso lui diceva infatti: «Quanto alla giustizia, quella che viene dalla Legge, [io sono] irreprensibile!» (Fil 3,6). Non è neanche una conversione da una religione a un’altra, perché Paolo considera Damasco come il momento in cui la sua fede di israelita giunge a maturazione e pienezza: si sente giudeo che fa il passo oramai necessario ad ogni giudeo. Tutt’al più, più che al cristianesimo Paolo si convertì dalla Legge mosaica al Cristo. Più che un convertito, Paolo fu un chiamato. E fu cercato da Dio più di quanto egli cercasse.
L’Apostolo scrive a distanza di circa 20-25 anni, e questo dice come anche a distanza di decenni l’incontro di Damasco fosse la sua stella polare, sia per capire sé stesso, sia per perseverare tra le difficoltà innumerevoli della sua corsa apostolica. Quello di Damasco fu l’evento che divise la vita di Paolo in due. Paolo stesso parla di quello che era prima e di quello che fu poi: dunque Damasco ha una assoluta centralità nella esistenza e nella teologia di Paolo. Davvero, dunque, la personalità di Paolo, il suo pensiero, le sue lettere, la sua travolgente corsa apostolica per tutta la mezzaluna mediterranea (voleva andare in Spagna, Rom 15,24.28)… si spiegano non a partire dal luogo di nascita, né dagli studi fatti alla scuola di un grande maestro del giudaismo, né dalla catechesi ricevuta dalle fervorose comunità delle origini, ma dall’incontro con Gesù Risorto. Un solo giorno ha segnato, illuminato e determinato tutta una esistenza.
Sempre di nuovo Paolo tornava all’evento di Damasco come alla segreta sorgente del suo apostolato e della sua perseveranza in mezzo alle difficoltà apostoliche e personali, egli che scrive: «battaglie all’esterno, timori al di dentro»! (2Cor 7,5). Si richiama a Damasco quando lo criticano a Corinto e in Galazia, quando a Filippi qualcuno è subentrato a rovinare il suo lavoro apostolico, e quando qualcuno si vanta di titoli umani e di grandezze non vere. E soprattutto si richiama a Damasco quando gli vogliono negare il titolo di apostolo. Damasco è la sua risorsa inesauribile per superare scoraggiamenti, incomprensioni, ostilità, debolezze ecc. e per rilanciare sé stesso nell’annuncio evangelico, nella fondazione di Chiese là dove il vangelo non era stato ancora annunciato (Rom 15,20), per lanciarsi alla conquista perfino dell’estremo occidente della Spagna…
Il pudore con cui Paolo custodiva questo suo personalissimo segreto, il riserbo e la discrezione con cui ne parlava quando era costretto a farlo, non precludono a noi la possibilità di gettare lo sguardo su quell’evento spirituale che ha lasciato un segno profondo nella storia cristiana e delle religioni. Ed è allora difficile non sentirci invitati a tornare anche noi, sempre di nuovo, con il pensiero e con la preghiera, alla nostra vocazione, qualunque essa sia, come alla sorgente della forza e della luce di cui abbiamo bisogno nella battaglia della vita e del servizio al Vangelo. La nostra chiamata diventa allora anche per noi sorgente di giovinezza e di generosità, si conferma come baricentro della nostra vita, e come il punto di Archimede poggiando sul quale possiamo sollevare almeno il piccolo mondo in cui ci troviamo a vivere.
2. I Appendice: sintesi a cura dell’ufficio catechistico delle ulteriori riflessioni al termine della relazione
Il prof. Biguzzi si è poi soffermato su quella che ha chiamato la “geografia apostolica di Paolo”. Paolo si è recato subito, dopo l’incontro con il Cristo risorto, in Arabia. Il riferimento va, forse, ad Is 60, ai versetti nei quali il profeta parla dei nabatei, di coloro che abitavano i territori circostanti Petra. Essi sono citati dal passo di Isaia prima delle navi di Tarsis, in un contesto nel quale si fa riferimento a Madian, a Efa ed a Kedar. Paolo si potrebbe essere recato in quelle regioni per annunciarvi il vangelo, in obbedienza all’antica profezia.
Ma, una volta incontrate con ogni probabilità in Arabia le prime difficoltà, si rivolse verso occidente, inviato da Antiochia come secondo rispetto a Barnaba, che deteneva la suprema responsabilità della missione. L’evangelista Luca, negli Atti, improvvisamente però inverte i due nomi e parla di Paolo e dei “suoi accompagnatori”. Evidentemente la leadership era passata da Barnaba a Paolo (At 13,13). In questo primo viaggio apostolico, comunque, Paolo visitò ed evangelizzò quello che si potrebbe chiamare l’ “occidente minore”, cioè centri di secondaria importanza, alcuni addirittura insignificanti.
È a partire dal secondo viaggio apostolico che Paolo si rivolse alle metropoli, alle capitali della provincia. Egli sceglieva alcune città e tutto lascia ritenere che, in esse, egli abbia attuato quella che si può ben chiamare una strategia “della primizia”: sceglieva cioè alcune persone capaci, a loro volta, di continuare l’evangelizzazione in altre città e regioni. Proprio con il titolo di “primizia”, rispettivamente dell’Asia e dell’Acaia, vengono salutati Epeneto (Rm 16,5) e la famiglia di Stefana (1Cor 16,15). Piantata la primizia, Paolo poteva essere certo che sarebbe arrivato anche il resto del raccolto.
È nota, a questo riguardo, la vicenda di Colosse, Gerapoli e Laodicea, che Paolo non visitò mai, pur scrivendo delle lettere a quelle comunità. In quelle città si era, però, recato Epafra, che aveva ricevuto il vangelo da Paolo stesso. Similmente si può fare riferimento alle “case” di Ninfa o di Filemone (Col 4,15 e Flm 2), evidentemente luoghi di incontro della comunità e di annunzio del Cristo. Viene in mente il riferimento al vangelo di Marco, dove l’evangelista parla del contadino che può andare tranquillamente a dormire, perché, conoscendo bene il proprio mestiere, sa che il seme crescerà e porterà frutto.
Paolo arriverà a scrivere di “aver finito”, avendo evangelizzato “a cerchio” da Gerusalemme fino all’Illirico (l’odierna Albania), non trovando così più spazio apostolico (Rm 15,19); egli aveva cioè piantato ovunque la primizia ed il vangelo poteva ormai compiere la sua corsa anche nei luoghi circostanti.
L’apostolo si pose in mente, allora, di raggiungere la Spagna; la penisola iberica è nominata due volte nella finale della lettera ai Romani (Rm 15,24 e 15,28). Non sappiamo se vi sia giunto (un recente convegno si è svolto in Spagna, precisamente a Tarragona, per cercare, ovviamente, di dimostrare che l’obiettivo era stato raggiunto).
Da Roma Paolo si aspettava probabilmente degli aiuti in denaro ed un traduttore per portare a compimento con efficacia la predicazione del vangelo fino all’estremo occidente. Si potrebbe ricordare qui un’antica espressione che recita: “gli altri vagavano, egli progrediva”! Viene spontanea la domanda: se avesse raggiunto la Spagna cosa avrebbe fatto poi? Forse, si può ipotizzare sulla linea del suo comportamento precedente, che si sarebbe recato ad evangelizzare l’Africa del nord.
Tutta questa fatica di evangelizzazione l’apostolo la sintetizza con l’espressione di Rm 15,16: “essere liturgo del Cristo fra le genti”. Egli sapeva di adempiere il “servizio sacro”, portando l’annunzio cristiano, perché “le genti potessero diventare un’offerta gradita a Dio”.
Il prof. Biguzzi ha ancora paragonato la centralità del rapporto con Cristo nella vita di Paolo all’espressione che Francesco d’Assisi utilizzerà per descrivere la propria fede: essa è pubblica, ma, al contempo, è custodita con grande pudore: “Secretum meum mihi”. Paolo torna sempre ad attingere a quella fonte, quando ha un problema. Più volte accenna, come si è visto, all’incontro sulla via di Damasco ma senza mai descriverlo compiutamente.
Riprendendo, allora, in estrema sintesi l’itinerario percorso nella sua relazione il prof. Biguzzi è tornato all’affermazione iniziale: Paolo ha una personalità complessa, ma non raccogliticcia. Egli ha piuttosto un centro che gli è servito per mettere in un ordine gerarchico tutti gli altri valori. L’incontro di Damasco – Paolo vi ritornerà fisicamente dopo l’Arabia, ma vi ritorna continuamente nello spirito – è veramente la chiave per comprendere la sua vita.
dal sito:
http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/11706.html
Omelia (28-01-2008)
a cura dei Carmelitani
1) Preghiera
Dio onnipotente ed eterno,
guida i nostri atti secondo la tua volontà,
perché nel nome del tuo diletto Figlio
portiamo frutti generosi di opere buone.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…
2) Lettura del Vangelo
Dal Vangelo secondo Marco 3,22-30
In quel tempo, gli scribi, che erano discesi da Gerusalemme, dicevano: « Costui è posseduto da Beelzebul e scaccia i demoni per mezzo del principe dei demoni ».
Ma egli, chiamatili, diceva loro in parabole: « Come può satana scacciare satana? Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non può reggersi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non può reggersi. Alla stessa maniera, se satana si ribella contro se stesso ed è diviso, non può resistere, ma sta per finire. Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire le sue cose se prima non avrà legato quell’uomo forte; allora ne saccheggerà la casa. In verità vi dico: tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo, non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna ». Poiché dicevano: « È posseduto da uno spirito immondo ».
3) Riflessione
• Il conflitto cresce. C’è una sequenza progressiva nel vangelo di Marco. Nella misura in cui la Buona Novella si afferma e la gente l’accetta, nella stessa misura cresce anche la resistenza da parte delle autorità religiose. Il conflitto comincia a crescere e a segnare tutte le comunità. Per esempio, i parenti di Gesù pensavano che fosse diventato pazzo (Mc 3,20-21), e gli scribi che erano venuti da Gerusalemme pensavano che fosse indemoniato (Mc 3,22).
• Conflitto con le autorità. Gli scribi calunniano Gesù. Dicono che è posseduto dal demonio e che scaccia i demoni con l’aiuto di Belzebù, il principe dei demoni. Loro erano venuti da Gerusalemme, da oltre 120 chilometri di distanza, per vigilare il comportamento di Gesù. Volevano difendere la Tradizione contro le novità che Gesù insegnava alla gente (Mc 7,1). Pensavano che il suo insegnamento andava contro la buona dottrina. La risposta di Gesù aveva tre parti:
- Prima parte: il paragone della famiglia divisa. Gesù si serve del paragone della famiglia divisa e del regno diviso per denunciare l’assurdità della calunnia. Dire che Gesù scaccia i demoni con l’aiuto del principe dei demoni è negare l’evidenza. E’ come dire che l’acqua è secca, e che il sole è oscurità. I dottori di Gerusalemme calunniavano, perché non sapevano spiegare i benefici compiuti da Gesù a favore della gente. Avevano paura di perdere la leadership.
- Seconda parte: il paragone dell’uomo forte. Gesù paragona il demonio ad un uomo forte. Nessuno, a meno che non sia una persona forte, potrà togliere la casa ad un uomo forte, rubargliela. Gesù è il più forte di tutti. Per questo riesce ad entrare in casa e a dominare l’uomo forte. Riesce a scacciare i demoni. Gesù conquista l’uomo forte e gli ruba la casa, cioè, libera le persone che erano nel potere del male. Il profeta Isaia aveva già usato lo stesso paragone per descrivere la venuta del Messia (Is 49,24-25). Luca aggiunge che l’espulsione del demonio è un segno evidente della venuta del Regno (Lc 11,20).
- Terza parte: il peccato contro lo Spirito Santo. Tutti i peccati sono perdonati, meno il peccato contro lo Spirito Santo. Cos’è il peccato contro lo Spirito Santo? E’ dire: « Lo spirito che spinge Gesù a scacciare il demonio, viene proprio dal demonio! » Chi parla così diventa incapace di ricevere il perdono. Perché? Chi si tappa gli occhi può indovinare? Non può! Chi ha la bocca chiusa può mangiare? Non può! Chi non chiude l’ombrello della calunnia può ricevere la pioggia del perdono? Non può? Il perdono passerebbe accanto e non lo raggiungerebbe. Non è che Dio non vuole perdonare. Dio vuole perdonare sempre. Ma è il peccatore che rifiuta di ricevere il perdono!
4) Per un confronto personale
• Le autorità religiose si rinchiudono in se stesse e negano l’evidenza. E’ successo anche con me che mi sono chiuso in me stesso dinanzi all’evidenza dei fatti?
• La calunnia è l’arma dei deboli. Hai avuto esperienza su questo punto?
5) Preghiera finale
Tutti i confini della terra hanno veduto
la salvezza del nostro Dio.
Acclami al Signore tutta la terra,
gridate, esultate con canti di gioia. (Sal 97)