Archive pour décembre, 2010

Omelia (19-12-2010) : Così fu generato Gesù Cristo

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/21139.html

Omelia (19-12-2010) 

mons. Gianfranco Poma

Così fu generato Gesù Cristo

Dopo aver contemplato l’icona di Giovanni il Battista, nell’ ultima domenica dell’Avvento, leggendo il brano di Matteo 1,18-25, ci è offerta la contemplazione di una nuova icona, quella di « Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo ». Accostando questo testo, dobbiamo ricordare che i primi due capitoli del Vangelo di Matteo e di Luca, i « Vangeli dell’infanzia », non hanno come scopo di narrarci gli avvenimenti dell’infanzia di Gesù, ma di recarci il « lieto annuncio » (Vangelo) del mistero della identità di Gesù: egli è l’ « Emmanuele », il Dio che ci salva, perché il « Dio con noi » è il « Dio in noi » e quindi il « Dio per noi »; egli, innestandosi e portando a compimento la storia di Israele, è destinato a mostrare che Dio che agisce mediante il proprio Figlio come salvatore e signore, lo fa in modo conforme a quanto ha fatto nel passato per il suo popolo.
Prima di Matteo, l’apostolo Paolo, nella lettera ai Galati aveva scritto: « Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge,…perché ricevessimo l’adozione a figli » (Gal.4,4); e nella lettera ai Romani: « Questa buona notizia (questo Vangelo) riguarda il Figlio suo: secondo la carne Egli è nato dalla stirpe di Davide; secondo lo Spirito che santifica, Egli è stato costituito nella sua potenza di Figlio di Dio in virtù della sua risurrezione dai morti, Lui, Gesù Cristo, nostro Signore » (Rom.1,3-4).
Ciò che S.Paolo dice con il suo linguaggio teologico, anche Matteo e Luca annunciano con il loro linguaggio narrativo. Dobbiamo sottolineare: diversa è l’espressione letteraria ma è identico lo scopo. Anche i « Vangeli dell’infanzia »di Matteo e di Luca, ciascuno secondo la propria prospettiva, vogliono annunciarci il mistero che si attua in Gesù, nato da Maria e Figlio di Dio, che realizza in pienezza l’incontro di Dio con l’umanità, per salvarla.
La pagina del Vangelo che oggi leggiamo, Matt.1,18-25, è un brano « potente », proprio perché ci annuncia ciò che Dio ha fatto in Gesù e attraverso Lui per noi: non dobbiamo ridurlo alla pur bella narrazione di ciò che riguarda Gesù bambino, che suscita sempre in noi sentimenti di commozione.
Leggendolo nella Liturgia crediamo che il mistero proclamato si realizza in noi.
« Così fu generato Gesù Cristo »: non è l’inizio del racconto della nascita di Gesù, ma l’invito ad accogliere il lieto annuncio (il Vangelo) della venuta nella storia di una persona che è la presenza di Dio nella carne dell’uomo. Si deve risvegliare così la nostra attenzione: ciò che il Vangelo ci dice vuole mostrare che questa nascita che è « oltre la norma umana », il concepimento di una vergine, non è una credenza marginale, senza importanza per la vita cristiana, al contrario, questa generazione del Figlio di Dio da parte di Maria, si colloca nel cuore della fede cattolica, come la condizione primordiale, che rende vera l’Incarnazione. Il Vangelo di Giovanni a sua volta proclama: « Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità »: la concretezza di Dio nella carne umana e la carne umana abitata da Dio è il mistero dell’incarnazione che sta nel cuore dell’esperienza cristiana, irriducibile a una pur altissima esperienza morale.
Il Vangelo dell’infanzia, nato quando la comunità cristiana già crede in Gesù, Figlio di Davide e Figlio di Dio e in Lui vede compiersi tutta la storia di Israele, vuole annunciarci questo stesso messaggio, rivelandoci il mistero dell’identità personale di Gesù e mostrandoci come gli inizi della vita di Gesù riassumono la storia di Israele.
Accogliere il mistero di Gesù, Dio che si incarna, vivere il mistero di Gesù che trasforma la vita umana nella vita del Figlio di Dio, è il centro dell’esperienza cristiana che il Vangelo di Matteo propone attraverso l’icona di Giuseppe. Giuseppe, della stirpe di Davide, è lo sposo di Maria, è « giusto »: egli realizza pienamente ciò che la Legge chiede ad un uomo per essere fedele a Dio. Ma a lui è chiesto qualcosa di nuovo, gli è chiesto di accogliere la maternità nuova di Maria, gli è chiesto di andare oltre la Legge. A questo punto il Vangelo mostra il cammino interiore di Giuseppe, il suo passaggio dalla « giustizia » secondo la Legge, alla « giustizia » secondo la fede. Giuseppe (il suo nome rimanda al patriarca Giuseppe che accoglie « in sogno » la Parola di Dio) si mette anzitutto in atteggiamento di riflessione. Ciò che sta accadendo in Maria lo interpella: la tradizione biblica lo rimanda a tanti casi di sterilità vinti dall’intervento di Dio, ma questa lo sconcerta personalmente. Dopo la riflessione personale egli, l’uomo « giusto », si apre all’ascolto della Parola di Dio: solo Dio può rivelargli il mistero di questa maternità. « Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria »: a lui personalmente è rivolta la Parola di Dio; a lui è rivelato un mistero che diventa una missione. Il mistero è la presenza operante di Dio nella carne di Maria: « non temere di prendere con te Maria », non è solo l’invito a superare uno sconcerto psicologico, ma piuttosto a lasciarsi afferrare (« prendere con sé ») dal mistero di Dio che è dentro la carne di Maria. Il mistero è: « il bambino generato in lei viene dallo Spirito santo ». Nasce l’uomo nuovo: « ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù ». Dalla carne di Maria nasce un figlio e Giuseppe ne conosce il mistero, che esprime nel nome « Gesù » che significa Dio salva. Dare il nome significa conoscere la persona: solo la Parola di Dio può rivelare chi è questo bambino che la potenza dello Spirito ha generato in Maria, è il Dio che salva perché è il Dio che rimane per sempre con noi. La Parola di Dio ha fatto di Giuseppe in modo radicalmente nuovo l’uomo « giusto », che prende con sé Maria: diventa nuova la sua relazione sponsale con lei e diventa nuova la maternità che genera un figlio che Giuseppe conosce e dona all’umanità, perché cominci con Lui, una umanità salvata.
Un angelo del Signore ha svelato a Giuseppe, in sogno, il progetto di Dio sulla sua vita di sposo di Maria, madre di Gesù chiamato Cristo, gli ha svelato il mistero di questo bambino figlio di Davide e figlio di Dio, e gli ha affidato la missione di donarlo al mondo. « Giuseppe, svegliatosi dal sonno fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa ». Giuseppe ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica (Matt.7,21): è l’icona perfetta del « nuovo giusto » che ascolta la Parola di Dio che gli rivela il mistero dell’incarnazione del Figlio suo e la mette in pratica prendendo con sé Maria (Giov.19,27) e annunciando al mondo la nascita di una umanità nuova. 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 18 décembre, 2010 |Pas de commentaires »

SANT’AGOSTINO: DISCORSO 185 NATALE DEL SIGNORE

dal sito:

http://www.augustinus.it/italiano/discorsi/index2.htm

SANT’AGOSTINO

DISCORSO 185 NATALE DEL SIGNORE

La verità è sorta dalla terra.
1. Chiamiamo Natale del Signore il giorno in cui la Sapienza di Dio si manifestò in un bambino e il Verbo di Dio, che si esprime senza parole, emise vagiti umani. La divinità nascosta in quel bambino fu tuttavia indicata ai Magi per mezzo di una stella e fu annunziata ai pastori dalla voce degli angeli. Con questa festa che ricorre ogni anno celebriamo dunque il giorno in cui si adempì la profezia: La verità è sorta dalla terra e la giustizia si è affacciata dal cielo 1. La Verità che è nel seno del Padre è sorta dalla terra perché fosse anche nel seno di una madre. La Verità che regge il mondo intero è sorta dalla terra perché fosse sorretta da mani di donna. La Verità che alimenta incorruttibilmente la beatitudine degli angeli è sorta dalla terra perché venisse allattata da un seno di donna. La Verità che il cielo non è sufficiente a contenere è sorta dalla terra per essere adagiata in una mangiatoia. Con vantaggio di chi un Dio tanto sublime si è fatto tanto umile? Certamente con nessun vantaggio per sé, ma con grande vantaggio per noi, se crediamo. Ridestati, uomo: per te Dio si è fatto uomo. Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà 2. Per te, ripeto, Dio si è fatto uomo. Saresti morto per sempre se lui non fosse nato nel tempo. Mai saresti stato liberato dalla carne del peccato, se lui non avesse assunto una carne simile a quella del peccato 3. Ti saresti trovato per sempre in uno stato di miseria se lui non ti avesse usato misericordia. Non saresti ritornato a vivere se lui non avesse condiviso la tua morte. Saresti venuto meno se lui non fosse venuto in tuo aiuto. Ti saresti perduto se lui non fosse arrivato.
La giustizia si è affacciata dal cielo.
2. Celebriamo con gioia l’arrivo della nostra salvezza e della nostra redenzione. Celebriamo solennemente il giorno in cui il grande ed eterno Giorno venne dal grande ed eterno Giorno in questo nostro tanto breve e temporaneo giorno. Qui egli è diventato per noi giustizia, santificazione e redenzione perché, come sta scritto: Chi si vanta, si vanti nel Signore 4. Per non farci diventare superbi come i Giudei, i quali non volendo riconoscere la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio 5, dopo aver detto: La verità è sorta dalla terra, il Salmo aggiunge subito: E la giustizia si è affacciata dal cielo 6. Questo affinché l’uomo debole non se la rivendichi e non dica sue queste cose e, credendo che può giustificarsi da solo, cioè diventare giusto per merito proprio, non rifiuti la giustizia di Dio. La verità perciò è sorta dalla terra: Cristo, il quale ha detto: Io sono la verità 7, è nato da una vergine. E la giustizia si è affacciata dal cielo: chi crede in colui che è nato non si giustifica da se stesso, ma viene giustificato da Dio. La verità è sorta dalla terra: perché il Verbo si è fatto carne 8. E la giustizia si è affacciata dal cielo: perché ogni grazia eccellente e ogni dono perfetto discendono dall’alto 9. La verità è sorta dalla terra, cioè ha preso un corpo da Maria. E la giustizia si è affacciata dal cielo: perché l’uomo non può ricevere cosa alcuna, se non gli viene data dal cielo 10.
Tutto è dono.
3. Così, dunque, giustificati per virtù della fede, noi abbiamo pace con Dio per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo, per il quale abbiamo ottenuto l’accesso a questa grazia in cui siamo e ci gloriamo, nella speranza della gloria di Dio 11. Mi piace, fratelli, confrontare queste poche parole dell’Apostolo, che insieme abbiamo richiamato alla memoria, con le poche parole del Salmo di cui stavamo parlando, e trovarne la concordanza. Giustificati per virtù della fede, noi abbiamo pace in Dio, perché la giustizia e la pace si sono baciate 12 Per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo: perché la verità è sorta dalla terra. Per il quale abbiamo ottenuto l’accesso a questa grazia in cui siamo e ci gloriamo, nella speranza della gloria di Dio. Non dice: « Della gloria nostra », ma: Della gloria di Dio, perché la giustizia non è derivata da noi, ma si è affacciata dal cielo. Perciò chi si vanta si vanti non in se stesso ma nel Signore. Per questo, quando il Signore, del quale oggi celebriamo il Natale, è nato dalla Vergine, le voci angeliche annunziarono: Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà 13. Perché pace in terra se non perché la verità è sorta dalla terra, cioè Cristo è nato da un essere umano? Ed egli è la nostra pace, colui che ha unito i due in un popolo solo 14: affinché diventassimo uomini pieni di buona volontà, dolcemente legati con il vincolo dell’unità. Rallegriamoci per questa grazia, perché il nostro vanto sia la testimonianza della nostra buona coscienza 15: vantiamoci non di noi, ma del Signore. Perciò è stato detto: Tu sei il mio vanto, che rialzi la mia fronte 16. Quale dono maggiore di questo poté Dio far risplendere ai nostri occhi: che il Figlio unigenito che aveva l’ha fatto diventare figlio dell’uomo affinché viceversa il figlio dell’uomo potesse diventare figlio di Dio? Di chi il merito? Quale il motivo? Di chi la giustizia? Rifletti e non troverai altro che dono.

DOMENICA 19 DICEMBRE 2010 – IV DI AVVENTO A

DOMENICA 19 DICEMBRE 2010 – IV DI AVVENTO A

MESSA DEL GIORNO

http://www.maranatha.it/Festiv2/avvento/avvA4Page.htm

Seconda Lettura  Rm 1, 1-7
Gesù Cristo, dal seme di Davide, figlio di Dio.
 
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio – che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore; per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome, e tra queste siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo –, a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo!

http://www.bible-service.net/site/379.html

Romains 1,1-7
En ce début de lettre, Paul utilise une adresse très riche dont l’élément le plus original est l’insertion d’une profession de foi concernant le mystère de Jésus Christ. La confession se compose de deux membres parallèles, la naissance humaine et la filiation divine ; l’accent porte manifestement sur le second. Il ne s’agit pas de deux éléments désarticulés, comme si Paul traitait successivement de deux « natures » ; l’ensemble s’intègre dans la Bonne Nouvelle concernant le Fils de Dieu. Il s’est inséré dans l’histoire concrète des hommes, il est né de la race de David. La Résurrection, œuvre de puissance du Père, le manifeste pleinement dans sa condition messianique, dans sa capacité de communiquer la sainteté et la puissance de l’Esprit.
Romani 1,1-7

In questo inizio di lettera Paolo offre, con maestria, un linguaggio molto ricco1 dove l’elemento più originale è l’inserimento di una professione di fede concernente
il mistero di Gesù Cristo. La confessione si compone di due membri paralleli, la nascita umana e la filiazione divina;  l’accento porta manifestamente sul secondo. Non si tratta di due elementi disarticolati, come se Paolo trattasse successivamente di due “nature”;  l’insieme si integra nella Buona Novella concernente il Figlio di Dio. Egli Si è inserito nella storia concreta degli uomini, è nato della razza di Davide. La Risurrezione, opera della potenza del Padre, la manifesta pienamente la sua condizione messianica: nella capacità di comunicare la santità e la potenza dello Spirito.

NOTA

Trovo difficoltà a tradurre, ma il significato è giusto

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dal libro del profeta Isaia 47, 1. 3b-15

Lamento su Babilonia
Scendi e siedi sulla polvere,
vergine figlia di Babilonia.
Siedi a terra, senza trono,
figlia dei Caldei,
poiché non sarai più chiamata
delicata e voluttuosa.
«Prenderò vendetta
e nessuno interverrà»,
dice il nostro redentore
che si chiama Signore degli eserciti,
il Santo di Israele.
Siedi in silenzio e scivola nell’ombra,
figlia dei Caldei,
perché non sarai più chiamata
Signora di regni.
Ero adirato contro il mio popolo,
avevo lasciato profanare la mia eredità;
perciò lo misi in tuo potere,
ma tu non mostrasti loro pietà;
perfino sui vecchi facesti gravare
il tuo giogo pesante.
Tu pensavi: «Sempre
io sarò signora, sempre».
Non ti sei mai curata di questi avvenimenti,
non hai mai pensato quale sarebbe stata la fine.
Ora ascolta questo,
o voluttuosa che te ne stavi sicura,
che pensavi:
«Io e nessuno fuori di me!
Non resterò vedova,
non conoscerò la perdita dei figli».
Ti accadranno invece queste due cose,
d’improvviso, in un sol giorno;
perdita dei figli e vedovanza
piomberanno su di te,
nonostante la moltitudine delle tue magie,
la forza dei tuoi molti scongiuri.
Confidatevi nella tua malizia, dicevi:
«Nessuno mi vede».
La tua saggezza e il tuo sapere
ti hanno sviato.
Eppure dicevi in cuor tuo:
«Io e nessuno fuori di me».
Ti verrà addosso una sciagura
che non saprai scongiurare;
ti cadrà sopra una calamità
che non potrai evitare.
Su di te piomberà improvvisa una catastrofe
che non prevederai.
Stattene nei tuoi incantesimi
e nella moltitudine delle magie,
per cui ti sei affaticata dalla giovinezza:
forse potrai giovartene,
forse potrai far paura!
Ti sei stancata dei tuoi molti consiglieri:
si presentino e ti salvino
gli astrologi che osservano le stelle,
i quali ogni mese ti pronosticano
che cosa ti capiterà.
Ecco, essi sono come stoppia:
il fuoco li consuma;
non salveranno se stessi
dal potere delle fiamme.
Non ci sarà brace per scaldarsi,
né fuoco dinanzi al quale sedersi.
Così sono diventati per te i tuoi maghi,
con i quali ti sei affaticata fin dalla giovinezza;
ognuno se ne va per suo conto,
nessuno ti viene in aiuto.

Responsorio   Is 49, 13; 47, 4
R. Giubilate, o cieli, rallegrati, o terra; o monti, gridate di gioia: * il Signore consola il suo popolo.
V. Nostro redentore è il Dio dell’universo, il Santo d’Israele:
R. il Signore consola il suo popolo.

Seconda Lettura
Dal trattato «Contro le eresie» di sant’Ireneo, vescovo
(Lib 3, 20, 2-3; SC 34, 342-344)

L’incarnazione che ci ha redenti
Dio e tutte le opere di Dio sono gloria dell’uomo; e l’uomo è la sede in cui si raccoglie tutta la sapienza e la potenza di Dio. Come il medico dà prova della sua bravura nei malati, così anche Dio manifesta se stesso negli uomini. Perciò Paolo afferma: «Dio ha chiuso tutte le cose nelle tenebre dell’incredulità per usare a tutti misericordia» (cfr. Rm 11, 32). Non allude alle potenze spirituali, ma all’uomo che si mise di fronte a Dio in stato di disobbedienza e perdette la immortalità. In seguito però ottenne la misericordia di Dio per i meriti e il tramite del Figlio suo. Ebbe così in lui la dignità di figlio adottivo.
Se l’uomo riceverà senza vana superbia l’autentica gloria che viene da ciò che è stato creato e da colui che lo ha creato cioè da Dio, l’onnipotente, l’artefice di tutte le cose che esistono, e se resterà nell’amore di lui in rispettosa sottomissione e in continuo rendimento di grazie, riceverà ancora gloria maggiore e progredirà sempre più in questa via fino a divenire simile a colui che per salvarlo è morto.
Il Figlio stesso di Dio infatti scese «in una carne simile a quella del peccato» (Rm 8, 3) per condannare il peccato, e, dopo averlo condannato, escluderlo completamente dal genere umano. Chiamò l’uomo alla somiglianza con se stesso, lo fece imitatore di Dio, lo avviò sulla strada indicata dal Padre perché potesse vedere Dio e gli diede in dono il Padre.
Il Verbo di Dio pose la sua abitazione tra gli uomini e si fece Figlio dell’uomo, per abituare l’uomo a comprendere Dio e per abituare Dio a mettere la sua dimora nell’uomo secondo la volontà del Padre. Per questo Dio stesso ci ha dato come «segno» della nostra salvezza colui che, nato dalla Vergine, è l’Emmanuele: poiché lo stesso Signore era colui che salvava coloro che di per se stessi non avevano nessuna possibilità di salvezza.
Per questo Paolo, indicando la radicale debolezza dell’uomo, dice «So che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene» (Rm 7, 18), poiché il bene della nostra salvezza non viene da noi, ma da Dio. E ancora Paolo esclama: «Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?» (Rm 7, 24). Quindi presenta il liberatore: L’amore gratuito del Signore nostro Gesù Cristo (cfr. Rm 7, 25).
Isaia stesso aveva predetto questo: Irrobustitevi, mani fiacche e ginocchia vacillanti, coraggio, smarriti di cuore, confortatevi, non temete; ecco il nostro Dio, opera la giustizia, darà la ricompensa. Egli stesso verrà e sarà la nostra salvezza (cfr. Is 35, 4).
Questo indica che non da noi, ma da Dio, che ci aiuta, abbiamo la salvezza.

Responsorio   Cfr. Ger 31, 10; 4, 5
R. Ascoltate la parola del Signore, o popoli; annunziatela sino ai confini della terra. Dite alle isole lontane: * Viene il nostro Salvatore!
V. Proclamate nel mondo l’annunzio:
R. Viene il nostro Salvatore!

buona notte

buona notte dans immagini sacre

http://www.santiebeati.it/

La misericordia di Dio sperimentata e proclamata da san Paolo

dal sito:

http://www.collevalenza.it/Riviste/2007/Riv1007/Riv1007_05.htm

La misericordia di Dio sperimentata e proclamata da san Paolo

- »Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione,
il quale ci consola in ogni nostra tribolazione » (2Cor 1,3-4)-

3.1.5 – 1° Lettera a Timoteo 1,12-13
In 1Tim 1,12-13, Paolo ci fa interpretare moralmente la sua conversione:
« Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia chiamandomi al ministero: io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo, lontano dalla fede; così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù.
Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, a esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna » (1Tim 1,12-16)
Paolo ricorda a se stesso e a Timoteo la sua conversione, nella quale sovrabbondò veramente la grazia di Dio che, in un istante fece di un persecutore e bestemmiatore un Apostolo. Per questo Paolo sente il bisogno di ringraziare il Signore Gesù che gli apparve sulla via di Damasco: pur avendo delle attenuanti, quali l’ignoranza e la mancanza di fede, si riconosce come peccatore, anzi il primo dei peccatori, oggetto in quanto tale della misericordia di Dio.
Paolo presenta l’apostolato come un servizio o ministero talmente importante che non si può realizzare senza una speciale forza che venga da Dio: perciò egli ringrazia Cristo non solo di averlo scelto per il ministero, ma di averlo anche fortificato.
All’origine della sua conversione sta una sovrabbondanza di grazia e di amore da parte di Dio che lo rinnovò interiormente, facendo fiorire nel suo cuore il prodigio della nuova fede e della nuova carità, che non solo terminano nel Cristo, ma da lui hanno principio e alimentazione: « dove aveva abbondato il peccato, sovrabbondò la grazia » (Rm 5,20).
Paolo inserisce la sua conversione nel quadro più generico della condotta di Dio verso i peccatori che Cristo è venuto a salvare. Essendo l’Apostolo il primo e più grande dei peccatori, può ben servire da esempio per tutti gli altri ad avere fiducia nella misericordia e longanimità di Cristo per ottenere la vita eterna.
Paolo sperimenta la misericordia di Dio e la augura a tutte le comunità da lui fondate e a tutti i suoi figli: « grazia, misericordia e pace » (1Tim 1,2). Si tratta dell’amore gratuito e salvante di Dio rivelatosi e comunicato in Cristo che dà un contenuto nuovo al kaire (sta bene, sii felice), greco-pagano. L’amore che accoglie e perdona, cioè la misericordia, è di sapore biblico. La pace rimanda ancora a quella tradizione biblica che attende per il tempo finale il shalom messianico, cioè la felicità piena e duratura. Dio « nostro salvatore » si fa incontro ai credenti cristiani nei doni salvifici che la fede in Gesù fa pregustare come pegno e anticipo della speranza19.

3.1.6 – 2° Lettera ai Corinti 12, 1-10
Paolo scrivendo alla comunità di Corinto a proposito della sua chiamata permette di penetrare profondamente nella sua anima, ricordando ai Corinti, in questa lettera, « dalle molte lacrime » (2,4), la grazia straordinaria che « un uomo »20 ha ricevuto quattordici anni prima.
« Bisogna vantarsi? Ma ciò non conviene! Pur tuttavia verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo21.
Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto. « Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza ». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio delle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole e allora che sono forte » (2 Cor 12, 1-2.7-10).
Nel prosequio del racconto Paolo sottolinea come Dio abbia provveduto al rimedio ed all’antidoto al pericolo di cadere in superbia, che questa esperienza di rivelazione poteva causare: « Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia » (v.9) .
Paolo si immerge allora, immediatamente, nella preghiera, che, anche se appare semplicemente come richiesta di allontanamento della spina nella carne, mi piace considerarla come esperienza di incontro con il Signore per discernere le proprie mozioni interiori. Emerge gradualmente, così, nel profondo del suo essere attraverso questa preghiera, l’intuizione e l’ispirazione da parte del suo Dio, che lo porta a sperimentare ciò che evidenzia e rivela, in modo evidente, con la frase: « A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore perché l’allontanasse da me ed egli mi ha detto. « Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza » (2 Cor 12, 8-9).
Questa «asqene¢ia» fa certo e sicuro Paolo solo della fiducia del suo Signore, ed in questo slancio d’amore formula tutto il programma del suo apostolato. Così può guardare alle sue «debolezze» in relazione esistenziale con la forza di Dio e giungere ad una certezza operativa: « Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo…: quando sono debole è allora che sono forte » (2 Cor 12, 9b-10b) .

In Galati 6, 14 Paolo dice:
« non c’è altro vanto per me che nella croce del Signore Gesù Cristo per mezzo della quale io sono stato crocifisso al mondo e il mondo è stato crocifisso a me ».
Paolo si chiede: volete che io mi vanti? Io mi vanto della croce di Gesù che vive in me, che è croce di morte e di risurrezione, e nessuno mi dia più fastidio perché io porto le stigmate, i segni di questa presenza crocifissa e risorta di Gesù che vive in me (cfr. Gal 6,17). Anzi, io porto a compimento, a favore della Chiesa, i patimenti di Cristo, a favore di questa Chiesa, della mia Chiesa! (cfr. Col 1,24).
Questa è la mistica apostolica di Paolo. Paolo non è un visionario, quella di Paolo non è la mistica delle grazie infuse destinate a pochi. La mistica di Paolo è la mistica di un uomo contemplativo nell’azione. Paolo parla della sua esperienza mistica, di lui, di questo uomo si vanterà, di se stesso invece non si vanta, se non nelle sue debolezze. Lui si vanterà della grazia di Dio che lo ha trasfigurato e lo ha fatto tempio della sua gloria. Non può vantarsi se non nella sua infermità, perché nella su infermità, nella sua incapacità di arrivare lì dove è chiamato ad essere, la grazia di Dio sovrabbonda e lo trasfigura.
C’è l’invito forte a guardare i luoghi delle « proprie prigioni ». Contemplare « la spina nella carne », che è l’invito a morire a se stesso, accettando la propria debolezza e quella degli altri: « perché si estenda su di me la potenza di Cristo ». La propria « debolezza kenotica » permette alla potenza di Cristo di fare i miracoli dell’amore, e di un apostolato e di un annuncio di vita fecondo, trasfigurante e provocante.
È una spirale progressiva. Paolo invita, come ha fatto lui, a penetrare nella gradualità della debolezza della propria crescita umana e spirituale in ogni qui ed ora, che si attua nel trovare il « dettaglio specifico » della volontà del Padre per me, non generico, ma legato direttamente e proporzionalmente alla propria debolezza, alla propria infermità e alla forza del Cristo, che così – e solo così -, cresce fino alla piena maturità, che è la maturità del Cristo che vive in me, ed allora si diventa il buon profumo di Cristo per gli altri e per il mondo (cfr. 2 Cor 2,16).
Tre volte Paolo chiede al Signore di togliergli il pungolo nella carne. Qui Paolo è perfettamente in comunione con la preghiera di Gesù nel Getsemani. Gesù per tre volte chiede come Paolo che il Padre gli tolga quel pungolo nella carne che è la volontà del Padre, quel calice da bere. Questa volta Paolo non è accontentato come in At 16,26. Paolo è conformato totalmente alla richiesta di Gesù. È chiamato a sudare sangue per essere trovato nel Figlio dal Padre ed essere oggetto del compiacimento del Padre (cfr. Lc 22,39-46): « Ti basta la mia grazia ». Ecco la risposta del Padre nel Cristo che vive in lui.
L’evento di Damasco ha segnato per Paolo una svolta reale, ma non lo ha cambiato immediatamente, anzi ha proteso verso « una direzione opposta tutto il suo intatto temperamento fatto di intelligenza, generosità, ardore e tenerezza » (cfr. 1 Cor 4, 19-21; Fil 3, 2;1 Ts 2, 7-9 ; Gal 4,18-19). Paolo, nel suo cammino di formazione al discernimento della volontà di Dio, « di ciò che è buono, a lui gradito e perfetto » (Rom 12,2b), prende coscienza, per prima cosa, che la sua esperienza umana e cristiana deve essere permanentemente in stato di conversione, in quanto stato di perenne chiamata di Dio a trascendersi ed a trasformarsi in quel livello di perfezione, che è tipico ed originale per ciascuna persona per giungere alla « piena maturità di Cristo » ( Ef 4,13) nello stato di « uomo nuovo, creato secondo Dio, nella giustizia e nella santità vera » (Ef 4, 24). Per questo non cessa di « ringraziare con gioia il Padre, che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce; è lui, infatti, che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto » (Col 1, 12-13).
È ben evidente da tutti i racconti dell’incontro con Cristo sulla via di Damasco come la conversione sia legata indissolubilmente alla libera iniziativa di Dio, non un Dio garante del patrimonio asettico e normativo della Torah, Dio geloso e vendicatore, ma in una presenza continua di un Gesù, che dall’inizio della storia con Paolo, si presenta per quello che è: « Io sono Gesù, che tu perseguiti » ( At 26, 15b).
La chiamata è soprattutto per Paolo, allora, conversione ( = «meta¢noia» ) verso il « nou~V » di Cristo, per discernere e scegliere « e¢n Cristw~ » i sentieri e gli orizzonti di questa sequela personale ed istaurare un rapporto di amicizia, che si fonda e si radica nella risposta e costituisce la stessa logica della sequela cristica paolina al cui servizio è posta ogni esperienza di discernimento: « Non sono più io che vivo ma lui vive in me… Chi mi separerà dall’amore di Cristo… » (cfr. Gal 2, 20a; Rom 8,35 a).
Paolo, almeno secondo il racconto lucano degli Atti, è oggetto-soggetto, non solo di una « Cristofania », ma anche di una « Staurofania » (stauros=croce): Gesù gli si presenta come colui che ha nella sua Croce il suo punto di vista decisivo. Essere trovato in Lui (cfr. Fil 3,9), vivere di Lui e per Lui (cfr. Rom 14,8) significa, da subito, per Paolo penetrare nel mistero-realtà dell’essere con-crocifisso con Lui, con-sepolto con Lui, con-risuscitato con Lui (cfr. Rom 6, 3-8).

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19 Cfr. R. FABRIS, Le lettere di Paolo, Borla, Roma 1980, III, 345-346.
20 La menzione di se stesso in terza persona a proposito di questa rivelazione, può essere un indizio di umiltà ma anche un’eco dello straniamento che l’estasi gli aveva fatto sentire nei confronti della vita presente. Cfr. AA.VV., Le lettere di San Paolo, Paoline, Roma 1978, 221-222.
21 Le speculazioni rabbiniche conoscevano due, tre e perfino sette cieli: San Paolo adotta qui la cosmografia dei tre cieli: il primo, dell’atmosfera; il secondo, degli astri; il terzo, del cielo, dimora di Dio e dei beati, quindi paradiso.

DALL’ABBASSAMENTO ALL’ESALTAZIONE IL PROFILO DI UN’IDENTITÀ (anche Fil 2, 6-11)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-15549?l=italian

DALL’ABBASSAMENTO ALL’ESALTAZIONE IL PROFILO DI UN’IDENTITÀ (anche Fil 2, 6-11)

ROMA, sabato, 27 settembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito ampi stralci della relazione pronunciata dell’Arcivescovo Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, monsignor Angelo Amato, in occasione del convegno diocesano su “Il Volto di Cristo: verità, via, vita”, tenutosi a Marina di Sibari (Cosenza), nei giorni 26 e 27 settembre.
 
* * *

L’identità di Gesù è professata apertamente nelle conclusioni della preghiera liturgica: «Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo figlio, che è Dio». La celebrazione liturgica della fede trinitaria riafferma la signoria di Cristo, sull’umanità, sulla storia, sul cosmo. Gesù è il Signore. Egli è l’essenza del cristianesimo. Non si tratta di una novità, né di una tradizione sorpassata. È semplicemente l’espressione eterna della fede ecclesiale in Gesù, il Signore.
Forse è utile dare uno sguardo fugace al contenuto biblico del termine «Signore», che non è, come nel nostro linguaggio ordinario, una semplice indicazione di gentilezza — «signor Presidente» o «signor Rossi» — ma implica, invece, una indicazione precisa dello statuto umano-divino di Gesù Cristo. L’appellativo «Signore» nella Sacra Scrittura in lingua greca viene espresso da due vocaboli: despòtes e kyrios.
Il termine despòtes indica colui che detiene il potere e l’autorità sia nella sfera familiare che in quella pubblica. Il despòtes è il padrone di casa e il proprietario dei suoi servi. Questo vocabolo viene usato raramente: nella traduzione greca dell’Antico Testamento circa sessanta volte e solo dieci nel Nuovo Testamento. Due volte despòtes a diretto riferimento a Gesù. Nella seconda lettera di Pietro, quando l’apostolo parla dei falsi profeti e dei falsi maestri, «che introdurranno eresie perniciose, rinnegando il Signore (despòtes) che li ha riscattati e attirandosi una pronta rovina» (2 Pietro, 2, 1). Una seconda volta il vocabolo appare nella lettera di Giuda, il quale mette in guardia i fedeli dalle infiltrazioni di individui empi, che rinnegano «il nostro unico padrone (despòtes) e signore (kyrios) Gesù Cristo» (Giuda, 4). Come si vede, il contesto è quello delle eresie cristologiche, e sembra che sia la lettera di Giuda la fonte del richiamo di san Pietro. Nei due casi, despòtes indicherebbe l’altissima sovranità di Gesù, il Signore, che non merita di essere contestato o rinnegato dai suoi fedeli, da lui sommamente beneficati e salvati. Per questo, bisogna evitare i traviamenti dottrinali dei cattivi maestri.
Il secondo vocabolo, kyrios, indica il signore che ha ed esercita un’autorità legittima e può disporre di sé e degli altri. Tale voce fu anche usata dagli imperatori romani (cfr. Atti degli apostoli, 25, 26). Di per sé il titolo non implicava l’affermazione della divinità dell’imperatore, che, tuttavia, esigeva onori divini. Per questo i cristiani si ribellavano a questa concezione. Nella traduzione greca dell’Antico Testamento, kyrios è frequentissimo — è attestato circa novemila volte — e nella maggior parte dei casi traduce il nome ebraico di Dio. Kyrios esprime l’elezione del popolo da parte di Dio e la sua liberazione dalla schiavitù egiziana. Il popolo è sua proprietà e Dio, oltre che creatore del mondo, è anche il legittimo Signore di Israele. Anche nel Nuovo Testamento kyrios è una voce che si trova spessissimo. Essa è presente in settecentodiciotto passi, la maggior parte dei quali in Luca (duecentodieci) e in Paolo (duecentosettantacinque).
Si possono ridurre a tre i significati di kyrios. Anzitutto c’è un uso profano, a indicare, ad esempio, il padrone, il proprietario di uno schiavo, il datore di lavoro, il marito. Un secondo uso riferisce kyrios a Dio, soprattutto nei richiami all’Antico Testamento. Dio è il signore, il creatore del mondo, il dominatore dell’universo e della storia. Un terzo uso, quello più frequente, fa riferimento a Gesù Cristo, sia al Gesù prepasquale sia al Cristo risorto e glorioso. In questo titolo è contenuto il riconoscimento della sua divinità e della sua signoria. Ad esempio, Gesù, in quanto kyrios del sabato (Matteo, 12, 8), dispone del giorno sacro a Dio. L’apostolo Paolo fa riferimento all’autorità delle parole di Gesù per risolvere definitivamente alcune questioni sorte nella comunità dei fedeli di Corinto: «Agli sposati poi ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito» (1 Corinzi, 7, 10). Ancora Paolo ricorda la tradizione concernente l’eucaristia, istituita dal Signore Gesù: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane (…)» (1 Corinzi, 11, 23). Importantissima è la formula liturgica prepaolina «Signore Gesù Cristo — Kyrios Iesoùs Christòs» (Filippesi, 2, 11). Si tratta verosimilmente della confessione di fede più antica della chiesa, che in tal modo celebra e supplica il Signore risorto, sottomettendosi a lui. È una invocazione che rivela una cristologia completa, tanto più stupefacente quanto più si consideri il fatto che, essendo una invocazione liturgica prepaolina, essa è presente pochissimi anni dopo la risurrezione di Gesù.
Rileggiamola così come ce la tramanda san Paolo, che, indirizzandosi ai cristiani di Filippi nella Macedonia greca, li esorta ad avere gli stessi sentimenti di umiltà che furono in Cristo Gesù:

«il quale, pur essendo
di natura divina,
non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso, assumendo
la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana,
umiliò se stesso facendosi
obbediente fino alla morte
e alla morte di croce.
Per questo Dio l’ha esaltato
e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni
altro nome;
perché nel nome
di Gesù ogni
ginocchio si pieghi
nei cieli,
sulla terra
e sotto terra;
e ogni lingua
proclami
che Gesù Cristo
è il Signore,
a gloria
di Dio Padre»
(Filippesi, 2, 6-11).

Si tratta della prima testimonianza esplicita della cosiddetta cristologia sviluppata o a quattro stadi, quella cristologia, cioè, che parla apertamente della preesistenza divina del Figlio, della sua incarnazione, della sua passione e morte e, infine, della sua risurrezione e glorificazione. Qui, la visione completa della realtà divina e umana di Gesù Cristo la si ha, anzi la si celebra liturgicamente, con un lessico inequivocabile, subito dopo la risurrezione.
La confessione cristologica della prima comunità cristiana è quindi chiara e completa sin dall’inizio e non è affatto frutto della sua tardiva riflessione credente. Pertanto, la cristologia sviluppata di san Giovanni, alla fine del primo secolo, non è altro che una tematizzazione articolata — condotta secondo il genere biografico «vangelo» — dell’inno liturgico prepaolino.
Insomma, l’affermazione «ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre» (Filippesi, 2, 11) è la prima e piena professione di fede cristologica della comunità cristiana. L’invocazione «Gesù Signore» esprime l’identità cristiana nel suo nucleo più intimo ed essenziale, è il suo Dna. Gesù è il Signore, un nome che è al di sopra di ogni altro nome (Filippesi, 2, 9). Egli è il Signore dei vivi e dei morti (Romani, 14, 9). È il principe dei re della terra (Apocalisse, 1, 5). Egli è il Signore dei signori e il Re dei re (Apocalisse, 17, 14; 19, 16). Gesù, cioè, riceve gli stessi titoli di Dio, «beato e unico Sovrano, il Re dei regnanti e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità, che abita una luce inaccessibile; che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può vedere» (1 Timoteo, 6, 15-16). La confessione dell’apostolo Tommaso nel quarto Vangelo — «mio Signore e mio Dio» (Giovanni, 20, 28) — continuò a risuonare completa e chiara anche sulla bocca e nei cuori dei fedeli della prima ora.
L’apostolo Paolo è solito cominciare e terminare le sue lettere con il richiamo al Signore Gesù Cristo. Si veda, ad esempio, il saluto iniziale della lettera ai Romani e delle due lettere ai Corinzi: «Grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo» (Romani 1,7; 1 Corinzi, 1, 3; 2 Corinzi, 1, 2). Il richiamo al Signore Gesù Cristo si ha anche negli incipit delle lettere ai Galati (1, 3), ai Filippesi (1, 2), ai Tessalonicesi (1 Tessalonicesi, 1, 1; 2 Tessalonicesi, 1, 1-2), a Timoteo (1 Timoteo, 1, 1; 2 Timoteo, 1, 1), a Filemone (3). Nella seconda lettera ai Tessalonicesi l’apostolo lo ripete con insistenza nei primi due versetti: «Paolo, Silvano e Timoteo alla chiesa dei Tessalonicesi che è in Dio Padre nostro e nel Signore Gesù Cristo: grazia a voi e pace da Dio Padre e dal Signore Gesù Cristo» (2 Tessalonicesi, 1-1). Lo stesso si dica per i saluti finali: «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con voi» (1 Tessalonicesi, 5, 28).
I primi cristiani proclamavano apertamente la fede nel Signore Gesù Cristo, il quale ha autorità sulla Chiesa, la fa crescere e conferisce autorità ai suoi pastori (cfr. 1 Tessalonicesi, 3, 22; 2 Corinzi, 10, 8; 13, 10). Egli è il Signore che dona la pace, la misericordia, l’intelligenza delle cose (2 Tessalonicesi, 3, 16; 2 Timoteo, 2, 7-16). Inoltre, la formula paolina «nel Signore» equivale a «nel Signore Gesù Cristo». È in lui che il cristiano vive, cammina, lavora, serve, muore, viene salvato. La vita cristiana è sostenuta dall’ancoraggio al Signore Gesù Cristo, alla sua presenza e alla sua opera salvifica. E la parusia, il giorno del Signore (1 Corinzi, 1, 8; 5, 5), non sarà altro che l’incontro col Signore Gesù, giudice e salvatore (2 Tessalonicesi, 1, 9; 2, 8; Filippesi, 3, 20): «Il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi, noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore» (1 Tessalonicesi, 4, 16-17).
Il titolo «Signore», attribuito a Gesù, indica in modo chiaro la sua divinità, che è quindi dato scritturistico fontale e non frutto di decisioni conciliari tardive. È Gesù il Signore, il Figlio divino del Padre celeste, il Verbo incarnato per la salvezza dell’umanità. È lui la parola definitiva del Padre, il maestro unico, il rivelatore universale.

[L'OSSERVATORE ROMANO - Edizione quotidiana - del 28 settembre 2008]

Ferie di Avvento dal 17 al 24: 17 dicembre : Mt 1,1-17: « Maria, dalla quale è nato Gesù »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php

Ferie di Avvento dal 17 al 24: 17 dicembre : Mt 1,1-17
Meditazione del giorno

Concilio Vaticano II
Constituzione dogmatica sulla Chiesa, « Lumen Gentium », 55

« Maria, dalla quale è nato Gesù  »

        I libri del Vecchio e Nuovo Testamento e la veneranda tradizione mostrano in modo sempre più chiaro la funzione della madre del Salvatore nella economia della salvezza e la propongono per così dire alla nostra contemplazione. I libri del Vecchio Testamento descrivono la storia della salvezza, nella quale lentamente viene preparandosi la venuta di Cristo nel mondo. Questi documenti primitivi, come sono letti nella Chiesa e sono capiti alla luce dell’ulteriore e piena rivelazione, passo passo mettono sempre più chiaramente in luce la figura di una donna: la madre del Redentore. Sotto questa luce essa viene già profeticamente adombrata nella promessa, fatta ai progenitori caduti in peccato, circa la vittoria sul serpente (Gen 3,15). Parimenti, è lei, la Vergine, che concepirà e partorirà un Figlio, il cui nome sarà Emanuele (Is 7, 14; Mi 5,2). Essa primeggia tra quegli umili e quei poveri del Signore che con fiducia attendono e ricevono da lui la salvezza. E infine con lei, la figlia di Sion per eccellenza, dopo la lunga attesa della promessa, si compiono i tempi e si instaura la nuova « economia », quando il Figlio di Dio assunse da lei la natura umana per liberare l’uomo dal peccato coi misteri della sua carne.

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