Archive pour décembre, 2010

Natale 2010: Omelia

dal sito:

http://www.perfettaletizia.it/archivio/anno-A/anno_A.htm

NATALE 2010

Omelia
(messa della notte)

E’ notte, con tutto il fascino di una notte come questa: la notte di Natale. Un senso di gioia si diffonde ovunque. Anche chi non crede sente il fascino di questa notte: è il fascino delle cose pulite e belle, il fascino della bontà. C’è un’aria vivace, una disponibilità al saluto, all’incontro. Vero, verissimo, questo, ma il Natale del Signore è in grado di dare molto, molto di più, cioè la pace sulla terra, quella
quella vera, quella che procede dalla riconciliazione con Dio.
Questa notte non ci fa dimenticare le ingiustizie, le crudeltà, ma ci fa sperare e ci rincuora.
Non possiamo non pensare che Giuseppe e Maria non ebbero alloggio nell’albergo perché l’albergatore aveva fiutato fior di guadagni dato il censimento ordinato da Cesare Augusto, e quei due palesemente poveri non gli avrebbero dato molto, e dunque meglio conservare i posti per più ricchi. Affari; business. Dopo tanti secoli le cose sono cambiate e i due, anzi i tre, fanno concludere affari. Il presepe ci vuole! Ci vogliono le luminarie di Natale! E’ un fatto della nostra cultura: verissimo questo. Ma ancora, come allora con l’albergatore, nei cuori non c’è posto per i tre. Il Natale è un affarone per negozi, ristoranti, località sciistiche, i tre fanno fare affari. Ma in tanti cuori non c’è più posto per loro, perché c’è solo posto per il vizio.
I ricchi restano lontani dai tre, non i poveri, non gli umili. Fratelli e sorelle, mettiamoci dalla parte dei pastori, diventiamo umili, veri come loro. Erano poveri, semplici, ma felici. Felici per una percezione limpida del creato, nel quale vedevano la potenza e la sapienza di Dio, nonché il suo amore per l’uomo; felici nel leggere le pagine e pagine scritte da Dio nel creato e che noi non riusciamo più a leggere come loro, e anche se andiamo scoprendo sempre nuove pagine del cosmo non vi sappiamo leggere la gloria di Dio. Mettiamoci dalla parte dei pastori, fratelli e sorelle, perché furono loro i primi invitati ad incontrare il divino Bambino.
Se vogliamo essere tra i primi mettiamoci dalla parte dei poveri e degli umili, di quelli che sono ultimi nelle valutazioni del mondo.
Invitati a vedere, e vedremo per mezzo di viva fede.
Vedremo che il Verbo, totalmente trascendente il creato, ha voluto essere nel creato come un uomo. Noi, che viviamo in mezzo a uomini che vogliamo essere uomini spaziali e che si gonfiamo d’orgoglio per aver posto il piede sulla luna e mandato sonde ad esplorare altri pianeti, vedremo con l’occhio dello spirito (Ef 1,18) illuminato dalla fede, questo: Cristo è venuto dal cielo sulla terra per portarci al cielo. I nostri lanci spaziali sono letteralmente nulla rispetto a quanto Dio ci ha promesso.
Vedremo che l’umiltà è capacità di obbedienza, infatti san Paolo ci dice che Cristo “pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo” (Fil 2,6-7).
Il Verbo si è fatto carne, si è abbassato a noi, fino a noi che siamo sulla terra. Noi sempre nel tempo rimaniamo sulla terra anche se abitiamo in una stazione orbitante, poiché proveniamo dalla terra (Gn 2,7). Niente da fare, fratelli e sorelle, le condizioni di vita che ci dà la terra le dobbiamo portare con noi, le dobbiamo allestire anche in una stazione orbitante. Ma se nel tempo rimaniamo sulla terra, nell’eternità saremo nel cielo.
Quel Bambinello ci insegna ad essere uomini. Pensiamo che lui, il creatore del cielo e della terra, ha guardato con occhi di uomo il bue, l’asinello, rimanendo pieno di conforto. Ha guardato con occhi d’amore la mamma, con senso di sicurezza Giuseppe.
Gesù ci insegna la gioia dell’incontro con le persone, come è bello lasciare che le persone si curino di noi. Amare è anche lasciare che gli altri esprimano il loro amore per noi, anzi non solo dobbiamo lasciarlo esprimere, ma anche suscitarlo annunciando loro l’amore di Cristo affinché siano in comunione con noi (1Gv 1,3). Ci sono di quelli che non accettano le espressione d’amore per un senso di austerità ascetica, ma  costoro non sanno amare se impediscono che gli altri esprimano il loro amore.
Quel Bambinello ci insegna a rimanere uomini, non ha infatti portato la sua umanità a una superumanità, ma ha vissuto la quotidianità, non dandosi una vita d’eccezione.
Gesù ha guardato le stelle, il fascino incantevole della luna. Capite, amici, noi vogliamo scalare i pianeti per essere come Dio nel cielo; bene Colui che è creatore di tutto è venuto in mezzo a noi e ci insegna a rimanere uomini se vogliamo salire nei cieli.
Gesù veramente è venuto agli albori di un’accelerazione spasmodica del progresso, e ci dice di rimanere uomini. E c’è bisogno che ce lo dica! Quanti superuomini risultano a conti fatti quello che sono, cioè meno di un uomo; quanti illusi di poter giungere a saper tutto risultano privi di sapienza, vuoti di vera scienza; quella di saper incontrare Dio che ci cerca. 
Rimaniamo uomini umani, fratelli e sorelle. Dobbiamo rifiutare tutto quello che ci disumanizza e dobbiamo attuare istintivi, rapidi, percorsi di rientro nel quotidiano quando abbiamo affrontato voli, cambi di fusi orari, velocità: dobbiamo desiderare di rimanere nella scala umana. Non essere dunque vittime del futurismo, del mito dell’uomo spaziale. Come avremmo bisogno ogni tanto di fare come Cincinnato che si era messo da parte dalle questioni di Roma per coltivare un campicello! Quanta sapienza ha la Chiesa presentandoci i pellegrinaggi, dove lunghi tratti vengono fatti a piedi. Che saggezza hanno gli scout nel loro camminare in mezzo alla natura, nel sostare nei bivacchi notturni sotto le stelle.
Il Verbo eterno della gloria dal cielo è venuto in mezzo a noi, ad insegnarci che è cosa fondamentale rimanere uomini, se si vuole incontrare lui, Uomo-Dio, Salvatore.
Capite, fratelli e sorelle, noi saliamo, saliamo nell’amore, ed è l’unica vera salita; l’infinità noi l’abbiamo nell’amare, e non nello scalare pianeti. Qualcuno dirà: “Ma quello ce l’ha coi voli spaziali?”. Io rispondo che  non sono dalla parte di chi lascia che la terra diventi deserta d’amore, di solidarietà, di soccorso verso i poveri e i malati che non hanno ospedali, e potrei continuare. Non sono dalla parte di chi innalza vessilli tecnologici nello spazio lasciando credere che si stia iniziando una illimitata scalata ai cieli astronomici, che trasformerà gli uomini in superuomini. Ha forse senso questo disegno, che non sia quello dell’antica torre di Babilonia, che fu un disegno senza senso (Gn 11,1s), cioè privo di sapienza, quella che viene da Dio.
Ma, stiamo coi pastori, partecipiamo delle loro emozioni. Nella notte videro un angelo luminoso circonfuso di luce gloriosa. Una visione formidabile che li intimorì. E’ il timore che si prova di fronte all’eccelso, al divino. Ma ecco, sono invitati a non temere: “Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia”. L’angelo scintilla felicità. Il suo Re è nato. Il Salvatore del genere umano è nato. Un solo dato l’angelo fornisce ai pastori affinché trovino il Bambino: “Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”. Non potevano sbagliare: nessun bambino in quella notte nasceva in quelle condizioni, in una stalla. Quelle indicazioni stabilivano che la soglia di povertà di tanti era al confronto qualcosa di comodo, di sicuro. Partirono i pastori con viveri, coperte. Con il loro intuito trovarono la capanna, la stalla, e vi entrarono. Vi entrarono. Riflettiamo. Quanti, fratelli e sorelle, vanno verso la capanna, ma non vi entrano. Si accontentano di esserne al corrente, si accontentano di averne un vago desiderio, si avvicinano ad essa, ma non entrano. Entrare significa entrare in relazione col Bambino, significa vederlo da vicino, considerarlo, capire perché è lì; significa ammettere i propri errori; significa smettere di illudersi di potersi nascondere da Dio. Vi ricordate come Adamo cercò di nascondersi dal Signore perché aveva paura. Ma si può avere paura di un Bambino?. Allora, entriamo nella stalla e presentiamo a quel Bambino le nostre brutture rese più evidenti dalla pace che irradia da lui, dal sorriso luminoso di lui. Entriamo nella capanna, coraggio, ne usciremo nuovi. Ecco come diventare uomini nuovi, andare da Cristo per essere trasformati in novità di vita da lui. State certi Dio non distrugge ciò che è umano. Dio non ci cambia la natura umana,  ma col Battesimo fa morire l’uomo vecchio dedito al peccato, affinché l’uomo diventi nuovo nell’amore.
Sulla capanna si mostrò un coro angelico: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama”.
Dio ci ama! Gesù è la smentita della menzogna di Satana, che ci zufola che Dio è distante, che non si cura di noi. Dio invece ci ama. “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito” (Gv 3,16).
“Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore”, disse l’angelo.
Un Salvatore, un Salvatore potente (Lc 1,69), l’unico e necessario Salvatore, poiché al di fuori di lui non c’è salvezza (At 4,11).
Magnifica è questa notte, amici! Noi che crediamo ci presentiamo in adorazione davanti al Bambino e affascinati ci lasciamo inondare dal candore verginale di Maria e dal dolce sorriso del castissimo Giuseppe. Per noi il Natale è rinnovamento del cuore, è gioia che non si può esprimere; è gioia piena di pace. Una gioia che non è euforia. Quella mangiatoia ci fa pensare; tonifica la nostra gioia, la rende profonda e ricca di impegno. Vediamo il legno della mangiatoia. Sappiamo cosa già indica quel legno. L’alfa e l’omega di Cristo sono segnati da legno. La culla e la croce furono di legno. E allora la nostra gioia si approfondisca con la gratitudine per essere stati salvati da Cristo Gesù, Salvatore. Amen. Ave Maria. Vieni, Signore Gesù.

dal sito:

http://www.custodia.org/Natale-2010-il-messaggio-del.html

Natale 2010: il messaggio del Custode di Terra Santa

Messo on line il giovedì 23/12/2010  

Pace e Bene: il saluto di san Francesco ci aiuta a gustare l’eterna novità del Natale, accompagnandoci verso la verità, allontanandoci da tutto quello che svilisce e rende ambiguo il significato di questa festa. Non rendiamo vanoquesto ennesimo ma sempre nuovo Natale. Il Natale infatti non può non metterci a disagio: è una festa che pare avere smarrito il suo senso più intimo e vero, e che quindi ci porta a interrogarci su chi è per noi quel Bambino, a vedere Dio in un bambino, a credere in un Dio che sceglie di racchiudere la sua grandezza nella piccolezza della nostra umanità.
E non è neppure, Natale, Gesù che nasce a Betlemme, dov’è nato storicamente poco più di duemila anni fa. Natale è Gesù, Figlio di Dio che anche quest’anno, come ogni giorno da quel tempo antico, per gli uomini del suo tempo, come per ognuno di noi oggi, attende che gli facciamo posto, attende di nascere nel nostro cuore. E’ impegno di conversione, il Natale. E’ accettare di rispondere alle attese di Dio.
Chiamati per fede ad attenderlo nella gloria, Natale viene a fissare la nostra attenzione sull’attesa di Dio: la sua infinita attesa che l’umanità gli trovi posto nella storia quotidiana, nella vita di tutti i giorni, nella solidarietà spicciola che ci ha chiesto Gesù stesso assicurandoci: Ecco, sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo; dicendoci anche dove incontrarne gli occhi e le mani, dove camminare insieme e da dove guardare l’orizzonte dal quale tornerà: I poveri li avete sempre con voi…
Non rendiamolo vano. La Parola di Dio ci aiuta e ci guida a conservare la speranza, nell’attesa che venga il Signore della gloria.
Il Bambino Gesù ci libera dalla paura di stare nel quotidiano scorrere della storia, dalla solitudine di chi non sa farne dono agli altri. E ci innesta in un movimento corale, dove ci scopriamo portati dall’amore e capaci, per grazia, di portare quel pezzetto di storia, unico e prezioso, che il Signore ci mette fra le mani.
Natale sia per tutti questo convertire il nostro sguardo, accorgersi che il regno avanza, è presente; che io, noi, tutti, insieme, possiamo renderlo presente. Ecco allora la necessità di guardare la creazione, guardare il mondo, guardare il Medio Oriente, questa “nostra” Terra Santa – Terra di Dio e Terra degli Uomini – “dall’alto”, con lo sguardo di Dio. Facciamo nostre, con trepidazione e audacia, con umiltà e forza, con il coraggio e la fantasia del sogno che diventa realtà se siamo in molti a sognare, le parole di papa Benedetto XVI all’inaugurazione del Sinodo dei Vescovi del Medio Oriente: “Guardare quella parte del mondo nella prospettiva di Dio significa riconoscere in essa la culla di un disegno universale di salvezza nell’amore, un mistero di comunione che si attua nella libertà e perciò chiede agli uomini una risposta”. A ciascuno la responsabilità di accettare la proposta di Colui che ci fa esistere e ci rinnova ogni giorno la sete di essere felici.
Non rendiamolo vano. Rispondiamo all’attesa di Dio, che si è fatto Bambino perché potessimo andare a lui come se fosse lui ad aver bisogno di noi. Perché il cuore della nostra attesa è nel sapere che Dio ci attende, pazientemente, da lungo tempo. Accolti dalla sua attesa, fatti nuovi dal suo perdono e dalla sua grazia, uomini della misericordia e della riconciliazione, della libertà e della giustizia, saremo allora capaci di ascoltare – fra il rumore della nostra confusa realtà – l’annuncio degli Angeli: Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e sulla terra pace agli uomini che egli ama.

Buon Natale.

Publié dans:da Gerusalemme, NATALE (QUALCOSA SUL) |on 23 décembre, 2010 |Pas de commentaires »

Omelia (23-12-2010) : Giovanni è il suo nome

dal  sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/20821.html

Omelia (23-12-2010) 
Movimento Apostolico – rito romano

Giovanni è il suo nome

Nella verità dello Spirito Santo, la Vergine Maria sa quando inizia la sua missione e quando deve finire. Con gioia la inizia, con gioia la finisce. Noi non siamo nello Spirito Santo. Ignoriamo qual è la nostra missione. Iniziamo fuori tempo. Finiamo o prima del tempo o dopo il tempo. Entriamo con tristezza e ci separiamo con dolore. Facciamo della missione una cosa nostra, non un’opera dello Spirito Santo.
Noi siamo i portatori dello Spirito Santo. Lo Spirito del Signore, portato da noi, ci conduce perché Lui ha delle opere di salvezza da compiere. Una volta che Lui ha finito le sue opere in un luogo, vuole che noi lo portiamo in altri luoghi, con la stessa gioia, sempre. Non siamo noi i missionari. Il missionario è Lui. È Lui l’Operatore della salvezza, della redenzione, della pace, della conversione, della nuova vita. È Lui, non noi. Noi siamo solo i suoi Portatori. Quando ci attacchiamo alla missione, al luogo, alle persone, è segno che ci siamo distaccati dallo Spirito Santo, ci siamo appropriati della sua missione, la facciamo come nostra. È questa la tristezza dell’andare e del lasciare.
Nulla di tutto questo nella Vergine Maria. Con gioia porta lo Spirito Santo nella casa di Zaccaria e con gioia lo porta via, dopo che tutto è stato compiuto. È questa l’umiltà della Vergine Maria: essere la Serva dello Spirito del Signore sempre. Essere la Serva di Gesù Signore sempre. È la Serva perché perennemente in ascolto, in obbedienza.
Giovanni viene alla luce. Bisogna dargli il nome. I parenti vogliono che si chiami come suo padre: Zaccaria. La madre dice che gli si deve dare il nome di Giovanni. Viene interpellato il padre, il quale non può parlare. Chiede una tavoletta e su di essa scrive: « Giovanni è il suo nome ». Così l’Angelo lo aveva chiamato. Così dovrà essere chiamato da tutti e per sempre. Questo bambino è « un dono del Signore » all’umanità, ma prima di tutto « è un dono del Signore » per il Figlio della Vergine Maria, poiché sarà lui che dovrà preparare la strada al Messia di Dio.
Ogni dono di Dio è per una salvezza più grande. Questo dono è invece perché prepari la via a Colui che è la Salvezza, perché è il Salvatore dell’uomo, il suo Redentore. La gente avverte la grandezza di questo dono. Non ha però la verità dello Spirito Santo e ne ignora il suo significato. Si chiede. Si interroga. Tutti discutono e si domandano sul futuro di questo bambino. Non hanno risposta. Custodiscono però il mistero nel loro cuore, attendendo che un giorno esso si possa svelare pienamente ai loro occhi. Quando Dio inizia un’opera, la porta sempre a compimento. Giovanni infatti non è lasciato solo a se stesso. Dio lo prende sotto una sua particolare cura. La sua mano è con il bambino per assisterlo e prepararlo alla grande missione che lo attende.
Vergine Maria, Madre della Redenzione, Angeli e Santi, fateci colmi di Spirito Santo

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 23 décembre, 2010 |Pas de commentaires »

Magnificat

Magnificat dans immagini sacre

http://www.praytherosaryapostolate.com/thevisitation.htm

Publié dans:immagini sacre |on 22 décembre, 2010 |Pas de commentaires »

Ufficio delle letture 22 dicembre 2010, prima lettura su Is 49, 8,26 commento Prof Giuseppe Barbaglio

questo è il testo della prima lettura dell’Ufficio delle Letture di questa mattina (22 dicembre 2010), si può dire che è uno dei più belli di tutta la Scrittura, io ho lasciato in rima solo la prima parte, ossia la presentazione del testo, le altre no, se volete leggerlo nella grafica originaria andate sul PDF; vi propongo il commento del Prof. Giuseppe Barbaglio (SBF Jerusalem), dal sito:

http://www.giuseppebarbaglio.it/Articoli/finesettimana161197.pdf

sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio
Verbania Pallanza, 16 novembre 1997

Isaia 49,8-26 (…io non ti dimenticherò mai)

Il testo di Isaia riguarda sempre il tema della memoria, ma sull’altro versante. E’ la memoria che Dio ha e fa del popolo. Nelle relazioni precedenti ho trattato invece della memoria che il popolo fa di Dio.
Dice il Signore:
  »Al tempo della misericordia ti ho ascoltato,
nel giorno della salvezza ti ho aiutato.
Ti ho formato e posto
come alleanza per il popolo,
per far risorgere il paese,
per farti rioccupare l’eredità devastata,
per dire ai prigionieri: Uscite,
e a quanti sono nelle tenebre: Venite fuori.
Essi pascoleranno lungo tutte le strade,
e su ogni altura troveranno pascoli.
Non soffriranno né fame né sete
e non li colpirà né l’arsura né il sole,
perché colui che ha pietà di loro li guiderà,
li condurrà alle sorgenti di acqua.
Io trasformerò i monti in strade
e le mie vie saranno elevate.
Ecco, questi vengono da lontano,
ed ecco, quelli vengono da mezzogiorno e da occidente
e quelli dalla regione di Assuan ».
Giubilate, o cieli; rallegrati, o terra,
gridate di gioia, o monti,
perché il Signore consola il suo popolo
e ha pietà dei suoi miseri.
Sion ha detto: « Il Signore mi ha abbandonato,
il Signore mi ha dimenticato ».
Si dimentica forse una donna del suo bambino,
così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?
Anche se queste donne si dimenticassero,
io invece non ti dimenticherò mai.
Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani,
le tue mura sono sempre davanti a me.
I tuoi costruttori accorrono,
i tuoi distruttori e i tuoi devastatori si allontanano da te.
Alza gli occhi intorno e guarda:
tutti costoro si radunano, vengono da te.
  »Com’è vero ch’io vivo – oracolo del Signore -
ti vestirai di tutti loro come di ornamento,
te ne ornerai come una sposa ».
Poiché le tue rovine e le tue devastazioni
e il tuo paese desolato
saranno ora troppo stretti per i tuoi abitanti,
benché siano lontani i tuoi divoratori.
Di nuovo ti diranno agli orecchi
i figli di cui fosti privata:
  »Troppo stretto è per me questo posto;
scostati, e mi accomoderò ».
 Tu penserai: « Chi mi ha generato costoro?
Io ero priva di figli e sterile;
questi chi li ha allevati?
Ecco, ero rimasta sola
e costoro dove erano? ».
 Così dice il Signore Dio:
  »Ecco, io farò cenno con la mano ai popoli,
per le nazioni isse rò il mio vessillo.
Riporteranno i tuoi figli in braccio,
le tue figlie saran portate sulle spalle.
I re saranno i tuoi tutori,
le loro principesse tue nutrici.
 Con la faccia a terra essi si prostreranno davanti a te,
baceranno la polvere dei tuoi piedi;
allora tu saprai che io sono il Signore
e che non saranno delusi quanti sperano in me ».
Si può forse strappare la preda al forte?
Oppure può un prigioniero sfuggire al tiranno?
Eppure dice il Signore:
  »Anche il prigioniero sarà strappato al forte,
la preda sfuggirà al tiranno.
Io avverserò i tuoi avversari;
io salverò i tuoi figli.
Farò mangiare le loro stesse carni ai tuoi oppressori,
 »si ubriacheranno del proprio sangue come di mosto.
Allora ogni uomo saprà
che io sono il Signore, tuo salvatore,
io il tuo redentore e il Forte di Giacobbe ».

Il libro di Isaia contiene tre blocchi di predicazione.
Dal capitolo 1 al 39 è racchiusa la predicazione del grande Isaia, che risale al settecento. Poi dal capitolo 40 al 55 si trova la predicazione del Secondo Isaia, un profeta anonimo dell’esilio, nel secolo sesto. Questo profeta anonimo, dell’esilio, la cui predicazione è stata raccolta e messa accanto alla predicazione del grande Isaia, si chiama convenzionalmente il profeta della consolazione, perché l’iniziale capitolo 40 esordisce con l’invito: « Consolate, consolate il popolo mio, dice il Signore ». Questo profeta ha ricevuto da Dio la missione di consolare il suo popolo. Prenderemo in considerazione il testo a partire dal versetto 14. Tralasciamo i versetti dall’8 al 12, che riportano un oracolo di Dio, una parola di Dio rivolta al profeta di promessa agli esuli, una parola di liberazione, un impegno di Dio a liberare gli esuli. Così pure il versetto 13 che è un canto di lode. Il profeta si rivolge ai cieli, alla terra, ai monti e dice « giubilate », partecipate alla gioia degli esuli, perché il Signore consola il suo popolo. Ricordo infine che proporre una lettura « laica », come ormai facciamo da alcuni anni, significa fare una lettura storico letteraria. Quindi si tratta non di una lettura spirituale, ma di una lettura che vale per tutti. E’ un testo poetico di grande levatura. Il grande Isaia è ritenuto uno dei massimi poeti dell’umanità. Ci troviamo di fronte ad un bellissimo testo che ci proponiamo di leggere e capire.

collocazione storica
Il testo si pone all’epoca dell’esilio. Nel 586 Gerusalemme è stata conquistata e distrutta da
Nabucodonosor e la classe dirigente è stata deportata. Il « Nabucco » di Verdi è l’epopea di questi ebrei in esilio, che hanno nostalgia di Sion. La strategia di deportare le classi dirigenti era già stata messa in atto dagli Assiri, il cui impero potente ed efficace precedette quello neobabilonese, a cui appartiene Nabucodonosor. Nel 612, Assur e poi Ninive, le grandi capitali dell’impero assiro, furono conquistate da Nabopolassar, il padre di Nabucodonosor. Gli Assiri nel 721 con Sargon II, avevano conquistato il regno del Nord. Infatti dopo Salomone e Roboamo il regno degli ebrei si divise in due. Al Sud due tribù con capitale Gerusalemme, con la dinastia davidica, e invece al Nord le altre dieci tribù, con capitale Samaria e con regnanti di diverse dinastie, prima Geroboamo e poi altri. Il regno del Nord era caduto sotto il dominio assiro nel 721 e la classe dirigente deportata in Mesopotamia. Nel 586 la stessa sorte capita al regno del Sud, con la deportazione. In Mesopotamia c’erano ebrei del regno del Nord ed ebrei del regno del Sud. Il profeta della consolazione è uno dei deportati e vive con loro. I deportati in esilio avevano perduto quello che di più caro avevano: la terra, la dinastia davidica, la città santa. Nel salmo 137 un esule esprime la sua nostalgia struggente per Gerusalemme. I deportatori gli hanno chiesto un canto di Sion, un canto che si canta nel tempio di Gerusalemme e risponde: « Come possiamo noi cantare in terra straniera un canto al Signore » e  « Se io mi dimenticassi di Gerusalemme la mia destra sia inaridita ». La nostalgia struggente di Gerusalemme è seguita dall’invettiva spaventosa: « Possa Dio prendere i tuoi pargoli (Babilonia) e sbatterli contro la roccia ». Gli esuli avevano perduto tutto e Gerusalemme era una rovina. Le mura di difesa abbattute, distrutto il tempio di Salomone. Il tempio sarà ricostruito successivamente, ma in dimensioni molto ridotte. Erode ricostruirà un grande tempio, dando splendore al tempio di Gerusalemme. Nel 70, mentre i lavori non erano ancora terminati, i romani, con Tito, distruggeranno per sempre il tempio. Rimane ancor oggi il muro del pianto. Gli esuli avevano perduto anche la speranza. Non speravano più nel proprio Dio. Il profeta riceve da Dio la missione di ricostruire la speranza.

struttura del brano
Il passo potrebbe essere definito un dialogo, anche drammatico, tra Sion e Dio.
Al versetto 14 abbiamo « Sion ha detto ».
Sion ha detto: « Il Signore mi ha abbandonato,
il Signore mi ha dimenticato ».
Dal 15 al 20 abbiamo la risposta di Dio
Si dimentica forse una donna del suo bambino,
così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?
Anche se queste donne si dimenticassero,
io invece non ti dimenticherò mai…
Il pensiero di Sion in forma di domanda (21)
Tu penserai: « Chi mi ha generato costoro?
Io ero priva di figli e sterile;
questi chi li ha allevati?
Ecco, ero rimasta sola
e costoro dove erano? ».
La risposta di Dio (22-23):
 Così dice il Signore Dio:
  »Ecco, io farò cenno con la mano ai popoli,
per le nazioni isserò il mio vessillo…
Nuovamente l’incredulità di Sion (24):
Si può forse strappare la preda al forte?
Oppure può un prigioniero sfuggire al tiranno?
Risposta di Dio (25-26):
Eppure dice il Signore:
  »Anche il prigioniero sarà strappato al forte,
la preda sfuggirà al tiranno.
Io avverserò i tuoi avversari;
io salverò i tuoi figli…
Tutte le parole di Dio sono al futuro, mentre la prima espressione di Sion è al passato. La risposta di Dio non è quella di suscitare davanti all’incredulo disperato, in questo caso la città di  Sion, una realtà. Dio si presenta a questo disperato con una promessa. E’ la promessa di Dio contro la rassegnata convinzione di Sion.

 analisi del brano
 1. le domande di Sion: rassegnazione, gioiosa incredulità e dubbi
Sion ha detto: « Il Signore mi ha abbandonato,
il Signore mi ha dimenticato ».
Una delle regole principi della poesia ebraica è il parallelismo, che può essere sinonimico (la
seconda proposizione ripete con piccoli cambiamenti la prima), antitetico (la seconda proposizione afferma il contrario della prima), sintetico (la seconda fa una sintesi dell’elemento del primo con uno nuovo). Nel nostro caso ci troviamo di fronte ad un parallelismo sinonimico: le due proposizioni sono parallele ed esprimono la stessa realtà: la dimenticanza è uguale all’abbandono. La memoria non vuol dire far venire in mente. Dimenticare è abbandonare. La realtà dimenticata è lontana, assente, non è più presente.
 Sion fa quella affermazione perché la sua situazione è di desolazione totale. Sion è un cumulo di rovine, la stragrande maggioranza dei suoi abitanti è deportata, non c’è più prospettiva. Dalla rilevazione di una situazione tragica si risale ad una affermazione teologica o religiosa: siccome siamo in una situazione di perdita assoluta ciò vuol dire che Dio ci ha dimenticati, che siamo abbandonati, che non siamo più presenti nella sua vita, nella sua azione. E’ una parola di rassegnazione teologica. Siamo rassegnati alla situazione tragica in cui siamo perché l’unico che potrebbe riportarci a vita ci ha dimenticato, non siamo più presenti a lui. La rassegnazione prende motivo dalla situazione, dalla situazione teologicamente interpretata. Non solo quindi dalla situazione oggettiva, ma dal fatto che si è assenti dalla mente di Dio e si è soli. Il secondo intervento di Sion si trova al versetto 21.
Dio va avanti con il suo progetto, e ricostruirà e ripopolerà la città di Gerusalemme. A quel punto il profeta, prevedendo questo futuro, si chiede come reagirà Sion di fronte a tutto questo. « Tu penserai »: c’è un futuro anche per Sion. Prima c’era il presente di Sion della rassegnazione, nella convinzione che Dio lo ha abbandonato. Poi la ricostruzione ad opera di Dio e la reazione di Sion di gioiosa incredulità.
 Tu penserai: « Chi mi ha generato costoro?
Io ero priva di figli e sterile;
questi chi li ha allevati?
La sterile è la donna che non può avere figli come Sion. Sion non può generare né allevare figli.
Ecco, ero rimasta sola
e costoro dove erano? ».
E’ l’incredulità di Sion di fronte al prodigio, dalla sterilità alla nuova fecondità. La domanda di Sion è: « Chi mi ha ridato i figli? ». E’ una domanda di gioiosa incredulità. Questa immagine della sterile che avrà molti figli risuona in molti testi di Isaia. Anche Paolo cita un testo di Isaia, quello della sterile che avrà tanti figli (Gal 4). Dopo la parola di rassegnazione di Sion, dopo la domanda di gioiosa incredulità, che è posta al futuro, sorge il dubbio di Sion:
Si può forse strappare la preda al forte?
Oppure può un prigioniero sfuggire al tiranno?
Le due domande sono retoriche, hanno una chiara risposta, quella dell’impossibilità. Sion, rassegnata, afferma che è umanamente impossibile la liberazione. A questa rilevazione dell’impossibilità risponde Dio che conferma la realizzazione. Abbiamo quindi il primo dialogante, Sion, che esprime anzitutto la sua rassegnazione, esprime la convinzione che è impossibile riavere la vita. Quando vedrà i suoi figli nuovi si chiede chi li ha ridati. Dalla situazione attuale, Sion, rassegnata e convinta di essere abbandonata da Dio, ha solo delle domande da fare. Il tutto è nelle mani di Dio. L’impossibilità umana e la possibilità di Dio. Dio ha di fronte l’interlocutore rassegnato che anche in presenza del prodigio, sconcertato, si domanda da dove venga.

2. Le risposte di Dio.
Mentre la parte dialogica di Sion è molto breve, perché ha solo interrogativi da porre, le risposte di Dio sono articolate e abbondanti. Le risposte di Dio sono tutte volte al futuro (i verbi sono al futuro). Dio risponde con promesse, quindi non mettendo sotto gli occhi una realtà che smentisce la rassegnazione, ma chiedendo fiducia.  « Io non ti dimenticherò » non può essere oggetto di osservazione immediata, ma solo di abbandono fiducioso alla promessa di Dio. Il vero tema del brano sarà la speranza. Attraverso questo brano il profeta vuole riaccendere la speranza degli esuli. Mette in bocca agli esuli parole di rassegnazione e di incredulità, riporta la parola di Dio che è una promessa e invita gli esuli ad affidarsi alla promessa.
Prima risposta: la promessa rassicurante
Dio risponde con un interrogativo che prende come paragone la mamma: Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Come una mamma non può dimenticarsi del figlio, del frutto delle sue viscere, così Dio. Le viscere
sono l’espressione dell’amore tenero ed emotivo della mamma. La parola « amore » tradotta a volte con misericordia, in ebraico è « rahamîm », le viscere che si commuovono. Lo stesso significato lo si trova in Paolo, Rom 12,1:  « Io vi esorto « dià tôn oiktirmôn », mediante i gesti di tenerezza materna di Dio ». E’ un primo argomento che Dio fa valere contro la rassegnazione: se ammettete che una mamma non si può dimenticare del figlio, così dovete ammettere che io non mi posso dimenticare di voi, che siete miei figli. L’elezione del popolo è anche tradotta con « voi siete i miei figli, io sono il padre ». Qui troviamo la variante della madre e la costante della figliolanza.
La seconda parte va oltre il paragone:
Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Anche se una madre sventurata si dimenticasse del figlio, non può avvenire che io mi dimentichi, afferma Dio. La parola di Dio è rassicurante. Dio è una madre che non può mai essere sventurata. La rassicurazione si basa solo sulla parola di Dio, non ci sono prove immediate. La parola rassicurante di per sé fa a pugni con la situazione presente. E’ dalla situazione sventurata
che gli ebrei hanno dedotto che Dio si è dimenticato del suo popolo. Dio risponde che il popolo non è mai assente dalla vita di Dio. Unicamente la parola di Dio è contro la percezione normale della situazione che dice tutt’altro. Dopo questa rassicurazione generale Dio insiste nell’avvalorare la propria affermazione: Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani, le tue mura sono sempre davanti a me. E’ un modo molto plastico per affermare la presenza costante del popolo davanti a Dio. Ecco che Dio presenta ciò che avverrà, addirittura al presente. Nel progetto di Dio il futuro è già presente, la liberazione è già in questa parola che assicura: I tuoi costruttori accorrono, i tuoi distruttori e i tuoi devastatori si allontanano da te. E’ la ricostruzione, che inizia con la parola rassicurante di Dio, ed anche il ripopolamento: Alza gli occhi intorno e guarda: Invita Sion a sollevare gli occhi chini sulla propria tragedia: tutti costoro si radunano, vengono da te.
Dio ha bisogno di fare un giuramento:
  »Com’è vero ch’io vivo – oracolo del Signore -
ti vestirai di tutti loro come di ornamento,
te ne ornerai come una sposa ».
Questo è il giorno del tuo sposalizio. I figli sono il vestito di sposa.
Poiché le tue rovine e le tue devastazioni
e il tuo paese desolato
saranno ora troppo stretti per i tuoi abitanti,
benché siano lontani i tuoi divoratori.
Quelli che ritorneranno da te saranno così numerosi, che avranno poco spazio a disposizione, non riusciranno quasi ad entrare. Di nuovo ti diranno agli orecchi i figli di cui fosti privata:  « Troppo stretto è per me questo posto; scostati, e mi accomoderò ». E’ la prima risposta di Dio, la sua parola rassicurante, con immagini anticipate della ricostruzione e del ripopolamento.

Secondo intervento: Dio è sovrano di tutti i popoli
Di fronte alla resistenza di Sion che si chiede chi mai ha portato questi numerosi figli Dio risponde:  Così dice il Signore Dio:  « Ecco, io farò cenno con la mano ai popoli, per le nazioni isse rò il mio vessillo. Non dimenticarsi e fare sono la stessa cosa: il ricordare non vuol dire far venire alla mente, ma fare, far venire nell’azione, far risalire alla vita. Dio qui fa valere un altro argomento, la propria sovranità universale sui popoli. Dio non ha solo un rapporto di alleanza, ma anche di sovranità. Il Dio di Israele è il Dio di tutti i popoli. Israele è diventato progressivamente monoteista. Con Mosè la religione ebraica nasce come monolatria. Viene adorato e riconosciuto un unico Dio, ma per il proprio popolo, senza escludere gli dei degli altri popoli. Con Isaia, nel settecento circa, si raggiunge la certezza che non ci sono altri dei neppure per gli altri popoli, ma che il Dio riconosciuto da Israele è l’unico Dio in assoluto e quindi è anche il Dio degli altri popoli e quindi può agire sugli altri popoli a favore di Israele. Il Dio di tutti i popoli è in funzione del Dio di Israele, perché la sovranità di Dio sugli altri popoli è una sovranità esercitata a beneficio di Israele. Basta un cenno con la mano e i popoli si mettono subito in azione. In un altro testo di Isaia si dice che Dio farà un fischio e Assor corre. A questi popoli Dio dice di riportare i suoi figli. Come Dio aveva chiamato i popoli per castigare il suo popolo, adesso chiama i popoli per la restituzione al suo popolo. Riporteranno i tuoi figli in braccio, le tue figlie saran portate sulle spalle. Dio come motivo di speranza pone due realtà: anzitutto che è il Dio del popolo, che ha scelto e che non può abbandonare mai, e secondo che è il Dio dei popoli e che quindi può intervenire sulla scena del mondo per liberare il suo popolo La tradizione del Secondo Isaia fa spesso riferimento alla sovranità universale. Se Dio fosse solo il Dio del popolo, avrebbe unicamente amore e benevolenza. Poiché i figli di Sion sono in mano ai popoli, solo in quanto Dio ha una sovranità universale può intervenire in soccorso di Sion. Il motivo della sovranità universale è presupposto dell’azione efficace di liberazione. Può liberare efficacemente gli esuli di Sion in terra straniera perché è il signore dei popoli. I re saranno i tuoi tutori, I re dei popoli difenderanno il tuo diritto le loro principesse tue nutrici. Con la faccia a terra essi si prostreranno davanti a te, baceranno la polvere dei tuoi piedi; La grande potenza neobabilonese di Nabucodonosor che si prostra davanti alla piccola città di Gerusalemme in rovina! allora tu saprai che io sono il Signore e che non saranno delusi quanti sperano in me ». E’ il tema della speranza e della delusione. Il « saprai » non indica una conoscenza teorica, abbandonata sotto l’urto della situazione drammatica. La conoscenza è una fede, è un ritorno a credere. La speranza umana trova un esaudimento in Dio. L’azione di Dio promessa è tesa a suscitare la speranza. Il « consolare il popolo mio », non vuol dire pronunciare parole di consolazione inefficaci, ma suscitare realmente una consolazione, perché Dio interviene a liberare.

Terzo intervento: Dio rende possibile ciò che è impossibile all’uomo
Di fronte all’ultimo rimasuglio di sfiducia di Sion (v. 24), all’affermata impossibilità umana c’è la possibilità di Dio: Eppure dice il Signore: « Anche il prigioniero sarà strappato al forte, (alla potenza dei babilonesi) la preda sfuggirà al tiranno. Io avverserò i tuoi avversari; io salverò i tuoi figli. Prima aveva affermato la sua signoria su tutti i popoli, che riporteranno a Gerusalemme gli esuli, adesso invece la liberazione degli esuli non può avvenire senza una lotta. La liberazione degli israeliti esuli richiede la sconfitta degli oppressori. Farò mangiare le loro stesse carni ai tuoi oppressori, si ubriacheranno del proprio sangue come di mosto. Il risvolto di violenza nei confronti degli oppressori ha solo un esiguo spazio in questo brano, che illustra l’azione positiva di Dio a favore degli esuli. In primo piano c’è l’azione liberatrice. Dio ricostruirà Sion, Dio libererà gli esuli. Questa liberazione comporterà la sconfitta degli avversari e la violenza nei loro confronti. Allora ogni uomo saprà che io sono il Signore, tuo salvatore, io il tuo redentore e il Forte di Giacobbe ». Prima c’era il « tu saprai », adesso tutti sapranno. L’universalismo di Dio sovrano di tutti i popoli diventa anche l’universalismo della conoscenza di Dio. Dio sarà conosciuto da tutti come l’unico vero Dio. Allora non solo Israele giungerà a questa conoscenza di fede, ma anche tutti i popoli. L’identità di Dio emerge dalla sua azione salvatrice, di liberazione, di redenzione. Il termine ebraico di redentore, parola che avrà molto successo nel cristianesimo, è il « goêl », figura che si riferisce ad un contesto tribale, dove ogni cosa e ogni persona della tribù non possono essere alienati. Nel caso che qualcosa le venisse sottratto, tutta la tribù è impegnata a ricuperare ciò che è stato rubato. L’azione di ricupero di una propria proprietà si chiama « redenzione », « riscatto ». L’obbligo spetta ai parenti più prossimi della persona, oppure anche a tutta la tribù. Gli abitanti di Gerusalemme appartenevano a Jahvé, sono i suoi figli. Sono stati portati via, alienati dai neobabilonesi e l’azione di Dio è il ricupero, il riscatto di quelli che erano suoi e che non hanno mai cessato di esserlo. La redenzione è il riscattare una proprietà. I gerosolimitani in esilio restano di Dio, e restando di Dio, Dio rivendicherà il suo diritto di proprietà e li riporterà a Gerusalemme. « Il Forte di Giacobbe » è un titolo molto arcaico, che risale alle tradizioni patriarcali. La memoria di Dio equivale all’intervento salvifico. Per Dio ricordarsi vuol dire intervenire in modo salvifico e liberatorio. Sion può sperare in questo Dio mnestico.

Intertestualità sull’ « Io mi ricorderò »
Questo testo si inserisce nel contesto di tutti i testi profetici (il motivo della consolazione, il motivo del Dio signore di tutti i popoli), si inserisce nel contesto generale della predicazione di Isaia, si inserisce nel contesto generale della bibbia. Intertestualità significa che un testo come quello analizzato non è stato creato dal nulla da parte dell’autore, ma è un testo intessuto di altri testi. L’intertestualità è mostrare come un testo è il sedimento di altri testi. Il motivo del Dio che si ricorda è rintracciabile in diversi luoghi biblici.

Genesi 9,14-16:
  »Quando radunerò
le nubi sulla terra
e apparirà l’arco sulle nubi
ricorderò la mia alleanza
che è tra me e voi
e tra ogni essere che vive in ogni carne
e non ci saranno più le acque
per il diluvio, per distruggere ogni carne.
L’arco sarà sulle nubi
e io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna
tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne
che è sulla terra »
Dio, dopo il diluvio, fa apparire l’arcobaleno in cielo e la sua visione gli farà ricordare l’alleanza con
il mondo, prevenendo così altri diluvi, non distruggendo più il mondo.

Esodo 2,24 e 6,5
  »Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. »
  »Sono ancora io che ho udito il lamento degli israeliti asserviti dagli egiziani e mi sono ricordato della mia alleanza ».
Il ricordarsi dell’alleanza sta a significare l’impegno a liberare il popolo di Israele. L’esodo è il frutto della memoria di Dio

Salmo 105
Dio « ricorda sempre la sua alleanza:
parola data per mille generazioni,
l’Alleanza stretta con Abramo
e il suo giuramento ad Isacco » (8-9).
Questo salmo presenta e narra la storia di Israele, nelle sue tappe fondamentali. La dinamica sottesa a questa storia del popolo è che Dio ricorda sempre la sua alleanza. I versetti sopra riportati sono preceduti al versetto 5 dall’esortazione del salmista al popolo di
ricordarsi delle meraviglie che Dio ha fatto:  « Ricordate le meraviglie che ha compiute, isuoi prodigi e i giudizi della sua bocca. » Dio si ricorda operando e il popolo è esortato a ricordare le opere di Dio in modo da essere fedele.

Salmo 106
  »Si ricordò della sua alleanza con loro,
si mosse a pietà per il suo grande amore » (45)
Il popolo è andato in rovina e Dio si è ricordato della sua alleanza e si è mosso a pietà. La memoria diventa momento di svolta nella storia del popolo da una situazione negativa a una situazione di liberazione.

Ezechiele 16,60
Ezechiele presenta la storia di Israele sotto l’immagine di una fanciulla, priva di qualità, di bellezza che Dio ha scelto e ha sposato. Dio l’ha presa sotto il suo mantello e l’ha fatta una sua sposa bellissima. Ma questa fanciulla ha tradito Dio. Israele ha origini pagane, idolatriche. Dio non abbandona la sposa traditrice e infedele:  « Io mi ricorderò dell’alleanza conclusa con te al tempo della tua giovinezza e stabilirò con te un’alleanza eterna ». Dio stabilirà un nuovo sposalizio indistruttibile. La memoria viva e creativa di Dio è capace di creare un rapporto indistruttibile con il popolo. L’ »Io mi ricorderò » si colloca in un contesto più ampio, nell’intera bibbia, in cui ricorre il motivo di Dio che si ricorda sempre della sua alleanza.

Intertestualità sul « ricordati, o Dio »
 Sempre sul piano della interstestualità abbiamo la preghiera di Israele rivolta a Dio, di chi trovandosi in situazioni come quella di Sion, conserva la speranza che si esprime nella supplica, nella preghiera « ricordati, o Dio ». « Ricordati » non è l’invito ad un Dio distratto che si è dimenticato, ma la supplica a Dio di essere fedele alla sua memoria, in modo da intervenire.

 Esodo 32,13 e Deut 9,27
 La preghiera di Mosè, dopo l’adorazione del vitello d’oro, dopo l’idolatria e la successiva ira di Dio: Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: « Perché, Signore, divamperà la tua ira contro il  tuo popolo, che tu hai fatto uscire dal paese d’Egitto con grande forza e con mano potente?  12Perché dovranno dire gli Egiziani: Con malizia li ha fatti uscire, per farli perire tra le montagne  e farli sparire dalla terra? Desisti dall’ardore della tua ira e abbandona il proposito di fare del  male al tuo popolo. 13Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per  te stesso e hai detto: Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo e tutto questo paese, di cui ho parlato, lo dar ò ai tuoi discendenti, che lo possederanno per sempre » (Esodo)  Mosè chiede a Dio di non stravolgere il significato dell’Esodo, che un’azione di vita e di liberazione non sia interpretata come un’azione di distruzione e di morte dagli Egiziani.  Mosè fa forza sulla parola di Dio, sulla sua coerenza, sulla sua fedeltà, sulla sua promessa.  Lo stesso argomento viene utilizzato in Deuternomio: Ricordati dei tuoi servi Abramo, Isacco e Giacobbe; non guardare alla caparbietà di questo popolo  e alla sua malvagità e al suo peccato, perché il paese da dove ci hai fatti uscire non dica: Poiché il Signore non era in grado di introdurli nella terra che aveva loro promessa e poiché li odiava, li ha fatti uscire di qui per farli morire nel deserto. Al contrario essi sono il tuo popolo, la tua eredità,  che tu hai fatto uscire dall’Egitto con grande potenza e con braccio teso. Anche in questo caso Mosè supplica Dio di rimanere fedele alla sua parola.

Neemia 1,8:
 E’ una preghiera di penitenza. Il popolo, tornato dall’esilio, fa penitenza per i suoi peccati. Neemia, portavoce del popolo, dice:  « Ricordati della parola che hai affidato a Mosè tuo servo: Se sarete infedeli, io vi disperderò tra i popoli; ma se tornerete a me e osserv erete i suoi comandi e li eseguirete, anche se i vostri esiliati si  trovassero all’estremità dell’orizzonte, io di là li raccoglierò e li ricondurrò al luogo che ho scelto per farvi dimorare il mio nome » .  La parola di Dio non è tanto una parola prescrittiva, ma promissoria. Nel capitolo quarto della lettera ai Romani Paolo scarta il tema del patto, perché il patto sinaitico,  l’alleanza, ha in se stessa, nella sua dinamica, una bilateralità: Dio sceglie il popolo e il popolo è  chiamato a essere fedele alla legge. Sono le clausole dell’alleanza. A Paolo il patto del Sinai non piace, perché c’è la legge e la legge è elemento particolaristico. Paolo allora risale all’alleanza con Abramo. Mentre il giudaismo interpretava l’alleanza con Abramo alla luce dell’alleanza con il Sinai,  interpretando Abramo come il primo osservante della Legge ancor prima d’essere promulgata, Paolo invece riscopre l’unilateralità dell’alleanza con Abramo. L’unilateralità è stata messa in evidenza  dalla corrente sacerdotale, mentre il deuteronomista ha scelto l’alleanza bilaterale.  L’alleanza unilaterale è la promessa. Paolo si riferisce al berit, che noi traduciamo con alleanza, nel  significato di promessa ad Abramo. Dio, con la promessa ad Abramo di una discendenza numerosa,  si impegna a benedire in Abramo tutti i popoli, tutte le tribù della terra. E’ una promessa universale. Nel capitolo 9 della lettera ai Romani, dove si tratta del tema teologico del popolo di Israele, del popolo della promessa, del popolo a cui è stata rivolta per primo la promessa, e che ha rifiutato il vangelo e che quindi si è escluso, Paolo si chiede quale fine facciano le promesse di Dio e risponde  che le promesse di Dio sono irrevocabili. La promessa di Dio al popolo di Israele resta irrevocabile. Noi cattolici, pieni di moralismo, che amiamo molto il patto bilaterale, le leggi, dobbiamo scoprire molto di più il Dio della tradizione biblica, il Dio della promessa, il Dio di Abramo, sul quale concordano cristiani, ebrei e musulmani.

Intertestualità sul non ricordo o perdono
Ultimo tema, dopo quello di Dio che si ricorda, del « ricordati, o Dio », quello di Dio che non si ricorderà dei nostri peccati. Dio si ricorda del popolo, con una memoria attiva e creativa, suscitatrice di vita, non si ricorderà dei peccati. I nostri peccati non sono davanti a lui. Noi non siamo davanti a lui delle persone che si sono compromesse una volta per sempre. Siamo sempre capaci di ribaltare, per grazia sua, tutte le nostre scelte. Non siamo prigionieri delle nostre scelte passate, dei nostri peccati. Abbiamo possibilità nuove. E’ questo il significato del non ricordarsi o del perdono.

Geremia 34, 31
Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi
conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato (Geremia)

Isaia 64, 8
Signore, non adirarti troppo,
non ricordarti per sempre dell’iniquità.
Ecco, guarda: tutti siamo tuo popolo. (Isaia)

Isaia 43, 25
 »Io, io cancello i tuoi misfatti,
per riguardo a me non ricordo più i tuoi peccati. » (Isaia)
Il perdono non vuol dire stendere un velo sul passato, ma che quel peccato che tu hai fatto non peserà più su dite per il futuro, non condizionerà più il tuo futuro. Il tuo futuro è tutto dinanzi a te come possibilità. Il perdono è essere liberati dal condizionamento del passato. L’inertestualità ci ha fatto cogliere come il brano di Isaia analizzato si inserisce nel contesto biblico, dove si ritrova il motivo di Dio che si ricorderà sempre, il motivo del « ricordati, o Dio » e il motivo di Dio che non si ricorda dei nostri peccati.

san Beda il Venerabile: Magnificat

UFFICIO DELLE LETTURE – II LETTURA DEL 22 DICEMBRE 2010

SECONDA LETTURA         

Dal «Commento su san Luca» di san Beda il Venerabile, sacerdote

(1, 46-55; CCL 120, 37-39)
Magnificat

    «E Maria disse: L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore» (Lc 1, 46). Dice: il Signore mi ha innalzato con un dono così grande e così inaudito che non è possibile esprimerlo con nessun linguaggio: a stento lo può comprendere il cuore nel profondo. Levo quindi un inno di ringraziamento con tutte le forze della mia anima e mi do, con tutto quello che vivo e sento e comprendo, alla contemplazione della grandezza senza fine di Dio, poiché il mio spirito si allieta della eterna divinità di quel medesimo Gesù, cioè del Salvatore, di cui il mio seno è reso fecondo con una concezione temporale.
    «Perché ha fatto in me cose grandi l’Onnipotente, e santo è il suo nome» (cfr. Lc 1, 49). Si ripensi all’inizio del cantico dove è detto: «L’anima mia magnifica il Signore». Davvero solo quell’anima a cui il Signore si è degnato di fare grandi cose può magnificarlo con lode degna ed esortare quanti sono partecipi della medesima promessa e del medesimo disegno di salvezza: Magnificate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome (cfr. Sal 33, 4). Chi trascurerà di magnificare, per quanto sta in lui, il Signore che ha conosciuto e di santificare il nome, «sarà considerato il minimo nel regno dei cieli» (Mt 5, 19).
    Il suo nome poi è detto santo perché con il fastigio della sua singolare potenza trascende ogni creatura ed è di gran lunga al di là di tutto quello che ha fatto.
    «Ha soccorso Israele suo servo, ricordandosi della sua misericordia» (Lc 1, 54). Assai bene dice Israele servo del Signore, cioè ubbidiente e umile, perché da lui fu accolto per essere salvato, secondo quanto dice Osea: Israele è mio servo e io l’ho amato (cfr. Os 11, 1). Colui infatti che disdegna di umiliarsi non può certo essere salvato né dire con il profeta: «Ecco, Dio è il mio aiuto, il Signore mi sostiene» (Sal 53, 6) e: Chiunque diventerà piccolo come un bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli (cfr. Mt 18, 4).
    «Come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre» (Lc 1, 55). Si intende la discendenza spirituale, non carnale, di Abramo; sono compresi, cioè, non solo i generati secondo la carne, ma anche coloro che hanno seguito le orme della sua fede, sia nella circoncisione sia nell’incirconcisione. Anche lui credette quando non era circonciso, e gli fu ascritto a giustizia. La venuta del Salvatore fu promessa ad Abramo e alla sua discendenza, cioè ai figli della promessa, ai quali è detto: «Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa» (Gal 3, 29).
    È da rilevare poi che le madri, quella del Signore e quella di Giovanni, prevengono profetando la nascita dei figli: e questo è bene perché come il peccato ebbe inizio da una donna, così da donne comincino anche i benefici, e come il mondo ebbe la morte per l’inganno di una donna, così da due donne, che a gara profetizzano, gli sia restituita la vita.

La comunità cattolica del Vicariato apostolico di Anatolia si appresta a vivere il primo Natale senza il suo vescovo, mons. Luigi Padovese,

dal sito:

http://www.toscanaoggi.it/news.php?IDNews=21371&IDCategoria=1

22/12/2010 – 13:38 – TURCHIA:

MONS. LUIGI PADOVSE

La comunità cattolica del Vicariato apostolico di Anatolia si appresta a vivere il primo Natale senza il suo vescovo, mons. Luigi Padovese, ucciso a coltellate, il 3 giugno scorso, dal suo autista Murat Altun. E lo fa celebrando anche a Iskenderun, luogo dell’omicidio, dove la parrocchia era stata chiusa ed ora riaperta dopo che i frati minori conventuali hanno deciso di restare. Spiega al Sir il padre cappuccino, Domenico Bertogli, da 25 anni in Turchia e parroco di Antiochia: “sarà un Natale diverso. Mons. Padovese era solito celebrare la messa di Mezzanotte nella grotta di san Pietro ed era un momento importante per la nostra piccola comunità. Cerchiamo ora di andare avanti, stiamo allestendo il presepe e mettendo luci colorate. Anche piccoli segni esteriori possono aiutare a vivere meglio queste feste che ci riportano a vivere nel profondo il senso di comunità e di appartenenza alla Chiesa. Ad animare le celebrazioni sarà il coro Arcobaleno di Antiochia e un gruppo di bambini reciterà passi della nascita di Gesù. La vita continua e dobbiamo andare avanti guardando a Colui che ci è padre”.
Analoghe celebrazioni sono previste a Mersin, Adana, Samsun e Iskenderun. Proprio a Iskenderun sono giunti tre frati conventuali, uno sloveno, un polacco ed un rumeno, per riaprire la chiesa. “Nei giorni scorsi abbiamo fatto un ritiro per prepararci spiritualmente al Natale. La nostra preghiera comune – conclude padre Bertogli – è che presto arrivi un nuovo vescovo, un nuovo pastore per condurre il piccolo gregge dell’Anatolia”. Sarà un Natale “molto particolare” anche per le suore “Figlie della Chiesa” a Tarso dove accolgono i pellegrini che giungono alla chiesa-museo di san Paolo, che mons. Padovese aveva più volte chiesto fosse adibito a luogo di culto permanente. “A Tarso non avremo celebrazioni natalizie – spiegano al SIR – festeggeremo a Mersin nella parrocchia dove abitualmente operiamo. Tutte le messe saranno celebrate e i bambini metteranno in scena un presepe vivente. Sarà un Natale nel ricordo di mons. Padovese. Dopo la sua morte ci circonda il silenzio. Sentiamo il bisogno di sostegno e di assistenza spirituale per continuare a dare la nostra testimonianza qui. Attendiamo il ritorno dei pellegrini, la loro presenza è per noi un bicchiere di acqua fresca. Ci danno la possibilità di testimoniare di essere una presenza che ama, rispetta e che opera per il bene e di dimostrare che si può convivere in un Paese musulmano nella fraternità e nel rispetto”.

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