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DAVIDE (Re Davide, mf 29 dicembre)
Ebraismo / Alle radici della nostra storia
Davide Rondoni
Nell’Antico Testamento la figura del re incorpora il popolo e fa con esso un tutt’uno. L’esempio del secondo re d’Israele. La sua missione per la grandezza del popolo, la sua grande umanità alle prese con la storia e la miseria umana. Gesù chiamava sé « Figlio di Davide », perché quello era stato il re più grande e amato da Dio. M’è capitato di imbattermi nella figura di Davide re lavorando intorno a una nuova versione poetica dei salmi che l’editore Marietti mi commissionò lo scorso anno (Poesia dell’uomo e di Dio). Sapevo già che a Davide si attribuisce la composizione di molti salmi e che, al di là della ancora viva discussione filologica, la sua figura « doppia » di re e poeta è centrale nella storia del popolo ebraico. Ma oltre a ciò, e a quel che qualunque povero cristiano sa dalle letture domenicali della messa e da qualche rudimento appreso qua e là, sapevo ben poco. Sapevo che Dante lo pone in Paradiso al centro della pupilla dell’aquila dei beati che guarda la luce di Dio, secondo la leggenda che l’aquila sia l’unico essere che può fissare il sole e ricordavo che l’autore della Divina Commedia, secondo esegeti autorevoli, vedeva sé come un nuovo Davide poeta. Del resto, nei testi danteschi non mancano riferimenti alla figura di Davide: mentre danza «più e men che re» (Purg. II), «re e umile salmista». Ho poi scoperto che Boccaccio regalò a Petrarca i salmi commentati da Agostino e che il poeta del Canzoniere (e di alcuni Psalmi Poenitentiales) voleva che quel libro gli stesse «di giorno sempre tra le mani e di notte e nell’ora della morte sotto il capo». Lo stesso Nietzsche diceva che nulla in tutta la storia letteraria era pareggiabile a quella poesia di ebrei. Sull’opera e sulla figura di Davide ha lavorato e lavora un’infinita schiera di poeti, pittori, romanzieri e musicisti.
Amore e peccato
Ma la poesia, anche quella potente di Dante, adombra solo e introduce la realtà. Davide re e poeta compare sull’orizzonte umano e storico della Bibbia come un gigante di umanità. Non a caso, per commentare cosa sia il peccato, sant’Ambrogio, autore di una splendida Apologia prophetae Davide, accosterà la riflessione intorno a san Pietro e al momento in cui Gesù gli chiede se lo ama alla contrizione di Davide omicida e « usa » Davide e le sue storie (anche le sue colpe) come figure e interpretazione del mistero dell’Incarnazione, contro le eresie a lui coeve degli ariani. Le parole del suo salmo 50, Miserere mei, sono entrate non solo nel Purgatorio dantesco, ma nel sentimento di pietà per sé che ogni cristiano è educato a scoprire dalla liturgia. Il numero 50, informano gli esegeti, è posto a quel salmo perché è il numero del perdono: è il numero che compare nella parabola evangelica dei due debitori e sono gli anni che separano l’uno dall’altro i giubilei di misericordia. Su Davide, come su ogni grande, sono fiorite leggende e interpretazioni varie e fantasiose: che fosse una reincarnazione di Orfeo, il semidio dell’antichità; che non fosse un uomo soltanto, ma una serie di re (Davide sarebbe l’equivalente di Zar); che avesse trecento figli; addirittura, Paolo Flores d’Arcais, partecipando a un recente convegno sulla figura di Davide, non gli ha negato un anodino omaggio laico.
Scelto da Dio
La Bibbia narra di questo giovinetto dai capelli rossi e chiari, ultimo figlio, che viene individuato dal profeta Samuele. Davide ha 14 anni e nel segreto dei campi assolati di Betlemme viene unto re dal profeta. Siamo vent’anni circa prima del 1000 a.C. Tale scelta resta un mistero. Di certo, ha notato un acuto romanziere biografo di Davide, il giovane poeta pecoraio deve aver maturato in quei lunghi giorni e notti passati nelle deserte campagne con il gregge il suo rapporto così potente con il Dio le cui dita creano il cielo e fissano gli astri, con il Dio «pastore». Ma a corte egli viene invitato perché con la sua poesia possa sollevare l’animo del re Saul, reso greve dall’infedeltà a Dio e tormentato da uno spirito maligno. Il figlio del re, Gionata, ha infatti sentito parlare della bravura di questo giovane poeta che inventa i propri strumenti. A corte diverrà anche guerriero. Dà prova di coraggio e di avere Dio dalla sua parte. Il celebre episodio dello scontro vinto con Golia rappresenta l’entrata nel novero degli eroi del popolo e della corte. Per dieci anni Davide è al servizio del re come soldato. La figlia di Saul, Micol, se ne innamora e il re concede le nozze. Intanto il popolo inizia a prediligere Davide e mormora che egli ha ucciso più di diecimila filistei, mentre Saul « solo » mille. Questo e altro fan sorgere in Saul l’ombra dell’invidia. Egli è poi affranto dal presentimento della fine, preannunciatagli dal profeta Samuele. Dopo le nozze, secondo un piano segreto di Saul, Davide dovrebbe morire. Ma il piano è sventato dall’amore di Micol. Davide è però costretto all’esilio e si separa dall’amato Gionata.
Il tempo dell’esilio
Il tempo dell’esilio sarà costellato da battaglie, tradimenti, negromanti, da nuovi e numerosi figli, da segreti appostamenti per far comprendere a Saul che egli non lo odia, tanto da risparmiarlo per ben due volte. I due libri di Samuele, nell’Antico Testamento, raccontano questo periodo avvincente. Intanto Saul vive il suo amaro declino, abbandonato via via dal «suo» profeta, da Dio e dal popolo. Davide, dopo aver passati alcuni anni in esilio e dopo aver pianto la morte del suo re Saul, suicida al termine di una battaglia perduta, e di Gionata, può essere Re. Egli ha con sé l’Arca dell’Alleanza, che porta infine a Gerusalemme, la città che stabilisce come capitale. È allora che si situa uno degli episodi più significativi. Egli avanza «danzando con tutte le sue forze» dinanzi all’Arca, svestito e lieto. La prima moglie, Micol, ne ha disappunto e lo rimprovera di far brutta figura. Ma egli risponde che ha danzato per Dio e non si cura del giudizio dei benpensanti come lei, ma di quello del suo popolo, che ama il Signore. Il re e poeta che danza rimarrà per sempre nell’iconografia. La sua gratitudine a Dio si esplicita nelle grandi parole dei Salmi e in quelle che pronuncia entrato in Gerusalemme: «Chi sono io, o Signore, e cos’è la mia casa, perché
tu mi abbia esaltato fino a questo punto? Eppure tutto ciò è sembrato ancor poco agli occhi tuoi, o Signore Dio; tu hai voluto estendere le tue promesse anche alla casa del tuo servo fin nel lontano futuro Che potrà ancora dirti Davide? Tu stesso, Signore, hai scelto il tuo servo. Per mantener fede alla tua parola e assecondare il tuo cuore, hai compiuto quest’opera grande e l’hai svelata al tuo servo. Perché tu sei grande, Signore Dio E quale nazione vi è mai sulla terra uguale al tuo popolo Israele? Ci fu mai un popolo che un dio sia andato a riscattare per farne il proprio popolo, per creargli un nome, operando in suo favore? Tu infatti hai stabilito quale popolo per te Israele, in eterno». Chi pronuncia queste parole è lo stesso uomo che ha composto il magnifico salmo 8. Rientrato dunque re in Gerusalemme, Davide fa chiamare l’ultimo discendente di Saul, lo storpio e disgraziato Merib-Baal, unico figlio di Gionata rimasto in vita, e lo ospiterà sempre alla sua mensa. Nonostante lotte e odii, resta in Davide il senso dell’appartenenza a un popolo, alla sua storia concreta. Da allora Davide, pur crescendo in potere e prestigio, vedrà la sua vita e il suo regno turbato in ciò e da ciò che ha più caro: i figli e l’amore.
Una storia umana
Davide, uomo di grande amore, per un peccato d’amore comprenderà la durezza della lontananza da Dio: è la nota storia dell’omicidio di cui si macchia per poter possedere la bella Betsabea. Il figlio da lei concepito allora morirà. Dio manderà una pestilenza. In quell’occasione, infatti, Dio aveva prospettato tre ipotesi di punizione: la fame per tre anni, la caduta in mano nemica o la peste per tre giorni. Davide decide che è meglio cadere nelle mani del Signore che in quelle degli uomini, perché Lui è grande in misericordia. Il suo primogenito, Amnon, compirà violenza su una sorella. Egli sarà superbo. L’altro figlio prediletto, Assalonne, muoverà in guerra contro di lui. È una storia di astuti consiglieri, di passioni non frenate, di voltafaccia per il potere: una storia umana, di fango e di sangue. Uno dei vertici drammatici della vita di Davide è l’uccisione di Assalonne da parte di un suo luogotenente. Il re, pur se in guerra contro il figlio, non avrebbe voluto e aveva chiesto che fosse risparmiato. Quando gli viene riferita la notizia, egli piange Assalonne con straziata tenerezza. I suoi fedeli non capiscono, e lo rimproverano. Ancora una volta il re è troppo umano. Alla fine della vita, Davide sente il freddo del tempo e dei dolori patiti. Non riesce più a scaldarsi. I suoi uomini cercano per tutto il regno una vergine che, dormendogli accanto, lo possa scaldare. Con lei, Abisag, il vecchio re non ha rapporti. E questa immagine del re anziano che ha bisogno di calore è entrata nella storia, oltre che come figura di valore teologico, anche come emblema del potere che non basta a far sentire a un uomo il calore della vita. Davide fece ancora in tempo a vedere la rivolta di un altro suo figlio, lo splendido Adonia, che egli non volle mai mortificare, nonostante aspirasse evidentemente a un regno che non gli spettava. E a vedere nuovo spargimento di sangue. Il suo, gli era stato predetto, non sarebbe stato un regno di pace. Infine, proprio su consiglio di Betsabea, indicherà nel figlio avuto con lei il nuovo re: Salomone. E con lui venne un periodo di pace in Israele. Nel 970 a.C., secondo il detto tradizionale, Davide si addormenta con i suoi padri, dopo aver regnato su Israele per quarant’anni. Di lui ha scritto uno storico evangelico, Samuel Amsler: «Davide si alza in uno dei punti di fuga delle prospettive veterotestamentarie, là dove si congiungono e si compiono la missione di Israele e l’opera di salvezza di Yahve. È là che Davide sorge oggi ancora dalla testimonianza dell’Antico Testamento per indicare alla Chiesa il ruolo unico e decisivo di un certo Gesù».
Il tempio di Dio
Luigi Giussani
Il tempio di Dio
«Ricordati, Signore, di Davide, di tutte le sue prove, quando giurò al Signore, al Potente di Giacobbe fece voto: »Non entrerò sotto il tetto
della mia casa, non mi stenderò nel mio giaciglio, non concederò sonno ai miei occhi né riposo alle mie palpebre, finché non trovi una sede
per il Signore, una dimora per il Potente di Giacobbe »».
È l’intendimento di Davide, quello di creare il tempio del Signore: «Non mi darò più pace fino a quando non avrò costruito la casa del Signore», non posso vivere io in una casa di legno duro o di bel legno quando il tempio di Dio è fatto di frasche. Questa, descritta nel salmo 131, è una povertà dello spirito; ma dovunque leggiamo un documento di povertà dello spirito, ci sentiamo dentro aleggiare e respirare la letizia. Un salmo così può essere detto soltanto nella letizia.
(Luigi Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli 1994, pp. 222-223)
Davide e il perdono
Se ottenne il perdono Pietro, per aver pianto una sola volta, quanto più lo ottenne Davide che ogni notte lavava di pianto il suo letto. Se dunque Gesù ebbe pietà di colui che si pentì e pianse, se guardò Pietro ed egli pianse, quanto più rimase sotto lo sguardo del Signore colui che pianse a lungo! Pietro negò e non pianse, poiché il Signore non lo aveva guardato; negò ancora e non pianse, poiché il Signore non lo aveva guardato; negò per la terza volta, Gesù lo guardò e subito pianse, e pianse amaramente. Perciò Davide, che non cessava di piangere, diceva: «I miei occhi sono sempre rivolti al Signore»; egli, che sempre era sotto lo sguardo di Cristo, diceva: «I miei occhi sono discesi in torrenti di lacrime».
(Sant’Ambrogio, Apologia di Davide, 6,25)
Davide e il peccato
Mi sono determinato a scrivere un’apologia in difesa di Davide non perché egli abbia bisogno di questo favore, ma perché molti si chiedono come mai un così grande profeta non sia riuscito ad evitare il peccato di adulterio e di omicidio… Possiamo anche intendere che il peccato ha addirittura in sé un’utilità… Lo stesso apostolo Paolo avverte che Dio, nostro Signore, si preoccupò che anche nei santi il loro animo di uomini non si inorgoglisse per la sublimità delle verità rivelate loro e per una costante riuscita delle loro opere… Dio permise che si insinuasse anche in loro la colpa, così che capissero anch’essi d’aver bisogno dell’aiuto divino per salvarsi. Infatti Paolo confessa che la debolezza umana fu per lui di vantaggio; rispose Dio, mentre l’Apostolo lo pregava di allontanare da sé gli stimoli della carne: «Ti basta la mia grazia: la mia forza infatti si realizza nella tua debolezza». Giustamente si gloria, dunque, delle proprie debolezze: sapeva infatti che per eccessiva fiducia in sé moltissimi, anche santi, irrimediabilmente erano periti.
(Sant’Ambrogio, Apologia di Davide, 2,8)
Davide e i moralisti
Troviamo scritto nel Libro dei Re che Davide, mentre passeggiava in casa sua, vide la moglie di Uria che faceva il bagno, se ne innamorò immediatamente e comandò che gli fosse portata. Poi diede ordine che il marito della donna, che non aveva nessuna colpa (così almeno ce lo presenta la Scrittura), fosse opposto ai più feroci guerrieri perché venisse sopraffatto dalla forza dei nemici. Questi sono i fatti, nessuno lo nega: ma come possono essere giustificati? Ben a proposito ci ammonisce la lettura dei Vangeli che, anche quando il peccato è evidente, la sentenza del giudice deve essere improntata ad uno spirito di comprensione e soprattutto ognuno deve ricordarsi della propria condizione e di ciò che egli stesso meriterebbe. Spesso, infatti, nel giudicare è più grave la colpa che si compie emettendo il giudizio, che non quella di chi è stato giudicato. Chiunque si accinge a giudicare un altro, deve giudicare, sempre, prima se stesso e non condannare nell’altro peccati minori, quando egli ne abbia commessi di più gravi! Chi sei dunque tu che ti permetti di giudicare Davide, uomo giusto?
(Sant’Ambrogio, Seconda Apologia di Davide, 2,5)
Da Tracce N. 2 > febbraio 1999