Archive pour décembre, 2010

29 dicembre: Re Davide (mf)

29 dicembre: Re Davide (mf) dans immagini sacre

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I Salmi: Gli Ebrei trovano nei salmi l’invocazione adatta alla circostanza

dal sito:

http://www.messaggerocappuccino.com/La_rivista_MC/_I_numeri_del_2009/MC_n_1__2009_/Caro_-_MC_1_2009.pdf

PAROLA E SANDALI PER STRADA

La consolazione di ogni giorno

Gli Ebrei trovano nei salmi l’invocazione adatta alla circostanza

di Luciano Caro
rabbino di Ferrara

Cantati da tutti
Il libro dei Salmi (in ebraico Tehillim) è una raccolta di 150 componimenti poetici, inserita al primo posto nella terza parte (Ketuvim o Agiografi) della Bibbia ebraica. In queste poesie, attribuite a Davide, l’autore esprime una varietà di sentimenti che vanno dalla riconoscenza al dolore, dalla speranza alla richiesta di aiuto. L’espressione di sentimenti nei confronti di Dio è designata spesso nel testo biblico con il termine tefillà, tradotto generalmente come preghiera. Nell’ambito del santuario di Gerusalemme, i salmi erano talvolta cantati in pubblico, in coro e accompagnati da strumenti musicali in occasione di festività o di eventi pubblici o privati. Intonati dai leviti, ma anche dai fedeli che si recavano in pellegrinaggio al santuario, finirono per diventare veri e propri canti popolari. Il termine « salmi » deriva dal titolo greco del libro, Psalmoi, che significa canti accompagnati da strumenti musicali a corde. Non c’è dubbio che alcuni salmi facevano parte del cerimoniale liturgico del santuario, ma erano anche cantati dai pellegrini e dai contadini avviati verso la città di Gerusalemme per recarvi in offerta le primizie. Le idee contenute in queste composizioni si rifanno a quelle espresse d a i profeti e ribadiscono pertanto il concetto dell’unicità di Dio, della sua bontà e della sua giustizia. Nonostante le varie ipotesi formulate in proposito, è molto difficile riconoscere in ogni salmo l’occasione per la quale è stato composto. Gli accenni del testo sono spesso tenui e incerti come accade nella poesia, e inoltre i sentimenti dell’animo umano che così gran parte hanno nel libro sono sostanzialmente sempre gli stessi, indipendentemente dalle circostanze o dal tempo in cui sono stati espressi. La tradizione sostiene che Davide compose i suoi salmi ispirato da Dio, quando, a mezzanotte, la sua arpa collocata sopra il giaciglio, suonava sollecitata dal vento del nord. Le corde dell’arpa provenivano dall’ariete immolato da Abramo al posto del figlio Isacco. Sognare i salmi è considerato segno di comunione con Dio e, nei testi classici, è frequente l’esortazione a leggerli allorché si debbono affrontare momenti particolari, soprattutto sofferenza, malattia o crisi spirituali. Il libro dei salmi è il più usato nella liturgia comunitaria e anche nella preghiera privata, ad esempio in occasione di un viaggio, di una malattia, di una morte.

Manuale di consultazione di Dio
I Maestri affermano che la recitazione dei salmi è una forma di preghiera e di studio della legge divina, la Torà. Ricordiamo anche che esistono confraternite che si riuniscono appositamente per recitare ogni giorno un certo numero di salmi. La tradizione ebraica ha identificato salmi da mettere in relazione con situazioni specifiche. Così, ad esempio, c’è un salmo in corrispondenza a ogni singolo brano della Torà. Di fatto, i salmi occupano un posto di rilievo nella liturgia quotidiana. Ne diamo una breve e incompleta panoramica. La preghiera del mattino è introdotta dai Pesukè Dezimrà (versetti di lode). Si tratta di un certo numero di salmi tra i quali gli ultimi sei capitoli del libro. Sono introdotti dal salmo 145: « Beati coloro che abitano nella Tua dimora ». Il Talmud invita a recitarlo 3 volte al giorno per assicurarsi la beatitudine eterna. Per questo motivo è stato inserito due volte nella preghiera del mattino e una in quella pomeridiana. Il salmo è acrostico alfabetico, ma manca il verso iniziante con la lettera Nun. Sempre nella preghiera del mattino, è inserito il salmo 67 sostituito di sabato col 19. Esistono salmi relativi a ogni giorno della settimana e a ogni ricorrenza. Così la domenica si legge il salmo 24 che inizia con l’espressione: All’Eterno appartiene la terra e quanto la riempie ». Si vuole sottolineare il fatto che con la creazione, iniziata il 1° giorno, viene proclamata la sovranità di Dio sull’universo. Il lunedì, quando Dio ha separato le varie parti del creato, leggiamo il salmo 48: « Grande è l’Eterno e degno di alta lode ». Al martedì, giorno in cui Dio ha preparato il mondo alla venuta dell’uomo, è collegato il salmo 82: « Dio presiede il raduno dei giusti ». Al mercoledì, in cui Dio ha creato il sole e la luna e chiederà conto a coloro che adorano questi astri, è assegnato i l salmo 94: « Dio delle rivendicazioni ». Al giovedì, in cui sono stati creati vari tipi di uccelli e di pesci, è stato riservato il salmo 81 : « Giubilate all’Eterno che è la nostra forza ». Il venerdì, in cui è stata completata l’opera della creazione, si legge il salmo 93: « L’Eterno regna ed è rivestito di maestà ». E finalmente il sabato preghiamo il salmo 92, che preconizza l’avvento del tempo in cui « cesseranno le guerre ». Al venerdì sera, poco prima del tramonto, come introduzione alla preghiera serale, si recita in sinagoga la Kabalath Shabbath (accoglienza del sabato). Consiste nella lettura di sei salmi uno per ogni giorno lavorativo: 95, 96, 97, 98, 99 e finalmente il 29, che fa parte delle composizioni inneggianti alla creazione, con invito alle forze della natura di lodare Dio. Queste forze non sono indipendenti, ma acquisiscono potenza dal Kol Hashem (voce dell’Eterno). La locuzione compare nel salmo sette volte, ulteriore elemento che rimanda alla creazione. Il salmo 29 è intonato anche allorché si riporta nell’Arca il rotolo della Torà dopo la lettura sabbatica poiché la Torà è espressione della potenza divina. Segue poi il canto Lechà Dodì (« Vieni, o sposo »), notissimo inno composto dal cabalista Alkabez (secolo XVI). Il sabato vi è descritto come una sposa accolta dallo sposo. Il cerimoniale risale all’ambiente dei mistici di Safed, che usavano al tramonto del venerdì recarsi nei campi, vestiti di bianco, per accogliere il sabato. Segue la lettura del salmo 92, intitolato, come si è visto, proprio al sabato.

Una lode misurata
Infine, un cenno all’Hallel (lode). Con questo termine si designa un gruppo di salmi (113-118) entrati a far parte della liturgia dei giorni festivi e del primo giorno del mese. Contengono lodi a Dio e il ricordo della liberazione dall’Egitto nonché la speranza e la fiducia nella salvezza concessa da Dio. Sono recitati in forma abbreviata negli ultimi sei giorni di Pesach (la Pasqua ebraica) in relazione al fatto che la nostra gioia non può essere completa poiché, in occasione della miracolosa traversata del Mar Rosso, l’esercito egiziano fu sommerso dalle acque. A proposito dei salmi, giustamente Siegfried Bernfeld ha scritto: « Tradotti in quasi tutte le lingue, questi canti da due millenni sono stati di conforto e sollievo a milioni e milioni di uomini, sono stati letti con fervore e con devozione da singoli e da gruppi di uomini. In tutte le circostanze, in ogni momento della vita spirituale, si trovò in questa raccolta la parola che sembrava scritta apposta per quella circostanza e per quel momento ».

DAVIDE (Re Davide, mf 29 dicembre)

dal sito:

http://www.diesselombardia.it/imgdb/Davide1.pdf


DAVIDE (Re Davide, mf 29 dicembre)

Ebraismo / Alle radici della nostra storia

Davide Rondoni 

Nell’Antico Testamento la figura del re incorpora il popolo e fa con esso un tutt’uno. L’esempio del secondo re d’Israele. La sua missione per la grandezza del popolo, la sua grande umanità alle prese con la storia e la miseria umana. Gesù chiamava sé « Figlio di Davide », perché quello era stato il re più grande e amato da Dio. M’è capitato di imbattermi nella figura di Davide re lavorando intorno a una nuova versione poetica dei salmi che l’editore Marietti mi commissionò lo scorso anno (Poesia dell’uomo e di Dio). Sapevo già che a Davide si attribuisce la composizione di molti salmi e che, al di là della ancora viva discussione filologica, la sua figura « doppia » di re e poeta è centrale nella storia del popolo ebraico. Ma oltre a ciò, e a quel che qualunque povero cristiano sa dalle letture domenicali della messa e da qualche rudimento appreso qua e là, sapevo ben poco. Sapevo che Dante lo pone in Paradiso al centro della pupilla dell’aquila dei beati che guarda la luce di Dio, secondo la leggenda che l’aquila sia l’unico essere che può fissare il sole e ricordavo che l’autore della Divina Commedia, secondo esegeti autorevoli, vedeva sé come un nuovo Davide poeta. Del resto, nei testi danteschi non mancano riferimenti alla figura di Davide: mentre danza «più e men che re» (Purg. II), «re e umile salmista». Ho poi scoperto che Boccaccio regalò a Petrarca i salmi commentati da Agostino e che il poeta del Canzoniere (e di alcuni Psalmi Poenitentiales) voleva che quel libro gli stesse «di giorno sempre tra le mani e di notte e nell’ora della morte sotto il capo». Lo stesso Nietzsche diceva che nulla in tutta la storia letteraria era pareggiabile a quella poesia di ebrei. Sull’opera e sulla figura di Davide ha lavorato e lavora un’infinita schiera di poeti, pittori, romanzieri e musicisti.

Amore e peccato
Ma la poesia, anche quella potente di Dante, adombra solo e introduce la realtà. Davide re e poeta compare sull’orizzonte umano e storico della Bibbia come un gigante di umanità. Non a caso, per commentare cosa sia il peccato, sant’Ambrogio, autore di una splendida Apologia prophetae Davide, accosterà la riflessione intorno a san Pietro e al momento in cui Gesù gli chiede se lo ama alla contrizione di Davide omicida e « usa » Davide e le sue storie (anche le sue colpe) come figure e interpretazione del mistero dell’Incarnazione, contro le eresie a lui coeve degli ariani. Le parole del suo salmo 50, Miserere mei, sono entrate non solo nel Purgatorio dantesco, ma nel sentimento di pietà per sé che ogni cristiano è educato a scoprire dalla liturgia. Il numero 50, informano gli esegeti, è posto a quel salmo perché è il numero del perdono: è il numero che compare nella parabola evangelica dei due debitori e sono gli anni che separano l’uno dall’altro i giubilei di misericordia. Su Davide, come su ogni grande, sono fiorite leggende e interpretazioni varie e fantasiose: che fosse una reincarnazione di Orfeo, il semidio dell’antichità; che non fosse un uomo soltanto, ma una serie di re (Davide sarebbe l’equivalente di Zar); che avesse trecento figli; addirittura, Paolo Flores d’Arcais, partecipando a un recente convegno sulla figura di Davide, non gli ha negato un anodino omaggio laico.

Scelto da Dio
La Bibbia narra di questo giovinetto dai capelli rossi e chiari, ultimo figlio, che viene individuato dal profeta Samuele. Davide ha 14 anni e nel segreto dei campi assolati di Betlemme viene unto re dal profeta. Siamo vent’anni circa prima del 1000 a.C. Tale scelta resta un mistero. Di certo, ha notato un acuto romanziere biografo di Davide, il giovane poeta pecoraio deve aver maturato in quei lunghi giorni e notti passati nelle deserte campagne con il gregge il suo rapporto così potente con il Dio le cui dita creano il cielo e fissano gli astri, con il Dio «pastore». Ma a corte egli viene invitato perché con la sua poesia possa sollevare l’animo del re Saul, reso greve dall’infedeltà a Dio e tormentato da uno spirito maligno. Il figlio del re, Gionata, ha infatti sentito parlare della bravura di questo giovane poeta che inventa i propri strumenti. A corte diverrà anche guerriero. Dà prova di coraggio e di avere Dio dalla sua parte. Il celebre episodio dello scontro vinto con Golia rappresenta l’entrata nel novero degli eroi del popolo e della corte. Per dieci anni Davide è al servizio del re come soldato. La figlia di Saul, Micol, se ne innamora e il re concede le nozze. Intanto il popolo inizia a prediligere Davide e mormora che egli ha ucciso più di diecimila filistei, mentre Saul « solo » mille. Questo e altro fan sorgere in Saul l’ombra dell’invidia. Egli è poi affranto dal presentimento della fine, preannunciatagli dal profeta Samuele. Dopo le nozze, secondo un piano segreto di Saul, Davide dovrebbe morire. Ma il piano è sventato dall’amore di Micol. Davide è però costretto all’esilio e si separa dall’amato Gionata.

Il tempo dell’esilio
Il tempo dell’esilio sarà costellato da battaglie, tradimenti, negromanti, da nuovi e numerosi figli, da segreti appostamenti per far comprendere a Saul che egli non lo odia, tanto da risparmiarlo per ben due volte. I due libri di Samuele, nell’Antico Testamento, raccontano questo periodo avvincente. Intanto Saul vive il suo amaro declino, abbandonato via via dal «suo» profeta, da Dio e dal popolo. Davide, dopo aver passati alcuni anni in esilio e dopo aver pianto la morte del suo re Saul, suicida al termine di una battaglia perduta, e di Gionata, può essere Re. Egli ha con sé l’Arca dell’Alleanza, che porta infine a Gerusalemme, la città che stabilisce come capitale. È allora che si situa uno degli episodi più significativi. Egli avanza «danzando con tutte le sue forze» dinanzi all’Arca, svestito e lieto. La prima moglie, Micol, ne ha disappunto e lo rimprovera di far brutta figura. Ma egli risponde che ha danzato per Dio e non si cura del giudizio dei benpensanti come lei, ma di quello del suo popolo, che ama il Signore. Il re e poeta che danza rimarrà per sempre nell’iconografia. La sua gratitudine a Dio si esplicita nelle grandi parole dei Salmi e in quelle che pronuncia entrato in Gerusalemme: «Chi sono io, o Signore, e cos’è la mia casa, perché
tu mi abbia esaltato fino a questo punto? Eppure tutto ciò è sembrato ancor poco agli occhi tuoi, o Signore Dio; tu hai voluto estendere le tue promesse anche alla casa del tuo servo fin nel lontano futuro Che potrà ancora dirti Davide? Tu stesso, Signore, hai scelto il tuo servo. Per mantener fede alla tua parola e assecondare il tuo cuore, hai compiuto quest’opera grande e l’hai svelata al tuo servo. Perché tu sei grande, Signore Dio E quale nazione vi è mai sulla terra uguale al tuo popolo Israele? Ci fu mai un popolo che un dio sia andato a riscattare per farne il proprio popolo, per creargli un nome, operando in suo favore? Tu infatti hai stabilito quale popolo per te Israele, in eterno». Chi pronuncia queste parole è lo stesso uomo che ha composto il magnifico salmo 8. Rientrato dunque re in Gerusalemme, Davide fa chiamare l’ultimo discendente di Saul, lo storpio e disgraziato Merib-Baal, unico figlio di Gionata rimasto in vita, e lo ospiterà sempre alla sua mensa. Nonostante lotte e odii, resta in Davide il senso dell’appartenenza a un popolo, alla sua storia concreta. Da allora Davide, pur crescendo in potere e prestigio, vedrà la sua vita e il suo regno turbato in ciò e da ciò che ha più caro: i figli e l’amore.

Una storia umana
Davide, uomo di grande amore, per un peccato d’amore comprenderà la durezza della lontananza da Dio: è la nota storia dell’omicidio di cui si macchia per poter possedere la bella Betsabea. Il figlio da lei concepito allora morirà. Dio manderà una pestilenza. In quell’occasione, infatti, Dio aveva prospettato tre ipotesi di punizione: la fame per tre anni, la caduta in mano nemica o la peste per tre giorni. Davide decide che è meglio cadere nelle mani del Signore che in quelle degli uomini, perché Lui è grande in misericordia. Il suo primogenito, Amnon, compirà violenza su una sorella. Egli sarà superbo. L’altro figlio prediletto, Assalonne, muoverà in guerra contro di lui. È una storia di astuti consiglieri, di passioni non frenate, di voltafaccia per il potere: una storia umana, di fango e di sangue. Uno dei vertici drammatici della vita di Davide è l’uccisione di Assalonne da parte di un suo luogotenente. Il re, pur se in guerra contro il figlio, non avrebbe voluto e aveva chiesto che fosse risparmiato. Quando gli viene riferita la notizia, egli piange Assalonne con straziata tenerezza. I suoi fedeli non capiscono, e lo rimproverano. Ancora una volta il re è troppo umano. Alla fine della vita, Davide sente il freddo del tempo e dei dolori patiti. Non riesce più a scaldarsi. I suoi uomini cercano per tutto il regno una vergine che, dormendogli accanto, lo possa scaldare. Con lei, Abisag, il vecchio re non ha rapporti. E questa immagine del re anziano che ha bisogno di calore è entrata nella storia, oltre che come figura di valore teologico, anche come emblema del potere che non basta a far sentire a un uomo il calore della vita. Davide fece ancora in tempo a vedere la rivolta di un altro suo figlio, lo splendido Adonia, che egli non volle mai mortificare, nonostante aspirasse evidentemente a un regno che non gli spettava. E a vedere nuovo spargimento di sangue. Il suo, gli era stato predetto, non sarebbe stato un regno di pace. Infine, proprio su consiglio di Betsabea, indicherà nel figlio avuto con lei il nuovo re: Salomone. E con lui venne un periodo di pace in Israele. Nel 970 a.C., secondo il detto tradizionale, Davide si addormenta con i suoi padri, dopo aver regnato su Israele per quarant’anni. Di lui ha scritto uno storico evangelico, Samuel Amsler: «Davide si alza in uno dei punti di fuga delle prospettive veterotestamentarie, là dove si congiungono e si compiono la missione di Israele e l’opera di salvezza di Yahve. È là che Davide sorge oggi ancora dalla testimonianza dell’Antico Testamento per indicare alla Chiesa il ruolo unico e decisivo di un certo Gesù».  

Il tempio di Dio  
Luigi Giussani  

Il tempio di Dio 
«Ricordati, Signore, di Davide, di tutte le sue prove, quando giurò al Signore, al Potente di Giacobbe fece voto: »Non entrerò sotto il tetto 
della mia casa, non mi stenderò nel mio giaciglio, non concederò sonno ai miei occhi né riposo alle mie palpebre, finché non trovi una sede 
per il Signore, una dimora per il Potente di Giacobbe »». 
È l’intendimento di Davide, quello di creare il tempio del Signore: «Non mi darò più pace fino a quando non avrò costruito la casa del  Signore», non posso vivere io in una casa di legno duro o di bel legno quando il tempio di Dio è fatto di frasche. Questa, descritta nel salmo  131, è una povertà dello spirito; ma dovunque leggiamo un documento di povertà dello spirito, ci sentiamo dentro aleggiare e respirare la  letizia. Un salmo così può essere detto soltanto nella letizia. 
(Luigi Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli 1994, pp. 222-223)    

 Davide e il perdono 
 Se ottenne il perdono Pietro, per aver pianto una sola volta, quanto più lo ottenne Davide che ogni notte lavava di pianto il suo letto. Se dunque Gesù ebbe pietà di colui che si pentì e pianse, se guardò Pietro ed egli pianse, quanto più rimase sotto lo sguardo del Signore colui che pianse a lungo! Pietro negò e non pianse, poiché il Signore non lo  aveva guardato; negò ancora e non pianse, poiché il Signore non lo aveva guardato; negò per la terza volta, Gesù lo guardò e subito pianse, e pianse amaramente. Perciò Davide, che non cessava di piangere, diceva: «I miei occhi sono sempre rivolti al  Signore»; egli, che sempre era sotto lo sguardo di Cristo, diceva: «I miei occhi sono discesi in torrenti di lacrime».
 (Sant’Ambrogio, Apologia di Davide, 6,25)  

 Davide e il peccato  
Mi sono determinato a scrivere un’apologia in difesa di Davide non perché egli abbia bisogno di questo favore, ma perché molti si chiedono come mai un così grande profeta non sia riuscito ad evitare il peccato di adulterio e di omicidio… Possiamo anche intendere che il peccato ha addirittura in sé un’utilità… Lo stesso  apostolo Paolo avverte che Dio, nostro Signore, si preoccupò che anche nei santi il loro  animo di uomini non si inorgoglisse per la sublimità delle verità rivelate loro e per una costante riuscita delle loro opere… Dio permise che si insinuasse anche in loro la colpa, così che capissero anch’essi d’aver bisogno dell’aiuto divino per salvarsi. Infatti Paolo confessa che la debolezza umana fu per lui di vantaggio; rispose Dio, mentre l’Apostolo lo pregava di allontanare da sé gli stimoli della carne: «Ti basta la mia grazia: la mia forza infatti si realizza nella tua debolezza». Giustamente si gloria, dunque, delle proprie debolezze: sapeva infatti che per eccessiva fiducia in sé moltissimi, anche santi, irrimediabilmente erano periti.
 (Sant’Ambrogio, Apologia di Davide, 2,8)

Davide e i moralisti
Troviamo scritto nel Libro dei Re che Davide, mentre passeggiava in casa sua, vide la moglie di Uria che faceva il bagno, se ne innamorò immediatamente e comandò che gli fosse portata. Poi diede ordine che il marito della donna, che non aveva nessuna colpa (così almeno ce lo presenta la Scrittura), fosse opposto ai più feroci guerrieri perché venisse sopraffatto dalla forza dei nemici. Questi sono i fatti, nessuno lo nega: ma come possono essere giustificati? Ben a proposito ci ammonisce la lettura dei Vangeli che, anche quando il peccato è evidente, la sentenza del giudice deve essere improntata ad uno spirito di comprensione e soprattutto ognuno deve ricordarsi della propria condizione e di ciò che egli stesso meriterebbe. Spesso, infatti, nel giudicare è più grave la colpa che si compie emettendo il giudizio, che non quella di chi è stato giudicato. Chiunque si accinge a giudicare un altro, deve giudicare, sempre, prima se stesso e non condannare nell’altro peccati minori, quando egli ne abbia commessi di più gravi! Chi sei dunque tu che ti permetti di giudicare Davide, uomo giusto?
(Sant’Ambrogio, Seconda Apologia di Davide, 2,5)

Da  Tracce N. 2 > febbraio 1999

Omelia per il 28 dicembre 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/11392.html

Omelia (28-12-2007) 
a cura dei Carmelitani

1) Preghiera
Signore nostro Dio, che oggi nei santi Innocenti sei stato glorificato non a parole, ma col sangue, concedi anche a noi di esprimere nella vita la fede che professiamo con le labbra.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.

2) Lettura del Vangelo
Dal Vangelo secondo Matteo 2,13-18
I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: « Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo ».
Giuseppe destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: « Dall’Egitto ho chiamato il mio figlio ».
Erode, accortosi che i Magi si erano presi gioco di lui, s’infuriò e mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù, corrispondenti al tempo su cui era stato informato dai Magi.
Allora si adempì quel che era stato detto per mezzo del profeta Geremia: « Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande; Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più ».

3) Riflessione
• Il Vangelo di Matteo, redatto attorno agli anni 80 e 90, si preoccupa di mostrare che in Gesù si compiono le profezie. Molte volte viene detto: « Tutto ciò avvenne affinché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore…. » (cf. Mt 1,22; 2,17.23; 4,14; 5,17; ecc.). Questo perché i destinatari del Vangelo di Matteo sono le comunità dei giudei convertiti che vivevano una profonda crisi di fede e di identità. Dopo la distruzione di Gerusalemme nell’anno 70, i farisei erano l’unico gruppo del giudaismo sopravissuto. Negli anni 80, quando cominciarono a riorganizzarsi, crebbe l’opposizione tra giudei farisei e giudei cristiani. Questi finirono per essere scomunicati dalla sinagoga e separati dal popolo delle promesse. La scomunica rese ancora più acuto il problema dell’identità. Non potevano più frequentare le loro sinagoghe. E furono assaliti dal dubbio: Sarà che ci sismo sbagliati? Chi è il vero popolo di Dio? Gesù è veramente il Messia?
• E’ per questo gruppo sofferto che Matteo scrive il suo vangelo, come Vangelo di consolazione per aiutarli a superare il trauma della rottura, come Vangelo di rivelazione per mostrare che Gesù è il vero Messia, il nuovo Mosè in cui si compiono le promesse, come Vangelo della nuova pratica per insegnare il cammino di come raggiungere la nuova giustizia, più grande della giustizia dei farisei (Mt 5,20).
• Nel vangelo di oggi appare questa preoccupazione di Matteo. Lui consola le comunità perseguitate mostrando che anche Gesù fu perseguitato. Rivela che Gesù è il Messia, infatti per ben due volte insiste nel dire che le profezie si compieranno in lui; e suggerisce inoltre che Gesù è il nuovo Messia, poiché, come Mosè, anche lui è perseguitato e deve fuggire. Indica un nuovo cammino, suggerendo che devono fare come i magi che seppero evitare la vigilanza di Erode e ritornarono alla loro dimora, prendendo un altro cammino.

4) Per un confronto personale
• Erode dette l’ordine di uccidere i bambini di Betlemme. L’Erode di oggi continua ad uccidere milioni di bambini. Muoiono di fame, di denutrizione, di malattia, a causa dell’aborto. Oggi chi è Erode?
• Matteo aiuta a superare la crisi di fede e di identità. Oggi, molti vivono una crisi profonda di fede e di identità. Il Vangelo, come può aiutare a superare questa crisi di fede?

5) Preghiera finale
Il nostro aiuto è nel nome del Signore
che ha fatto cielo e terra. (Sal 123) 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 27 décembre, 2010 |Pas de commentaires »

Santi Innocenti martiri

Santi Innocenti martiri dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 27 décembre, 2010 |Pas de commentaires »

28 dicembre : Santi Innocenti Martiri

dal sito:

http://www.santiebeati.it/dettaglio/22150

Santi Innocenti Martiri

28 dicembre
 
sec. I

Gli innocenti che rendono testimonianza a Cristo non con le Parole, ma con il sangue, ci ricordano che il martirio è dono gratuito del Signore. Le vittime immolate dalla ferocia di Erode appartengono, insieme a santo Stefano e all’evangelista Giovanni, al corteo del re messiniaco e ricordano l’eminente dignità dei bambini nella Chiesa. (Mess. Rom.)

Patronato: Bambini
Emblema: Palma

Martirologio Romano: Festa dei santi Innocenti martiri, i bambini che a Betlemme di Giuda furono uccisi dall’empio re Erode, perché insieme ad essi morisse il bambino Gesù che i Magi avevano adorato, onorati come martiri fin dai primi secoli e primizia di tutti coloro che avrebbero versato il loro sangue per Dio e per l’Agnello.
La Chiesa onora come martiri questo coro di fanciulli (« infantes » o « innocentes »), vittime ignare del sospettoso e sanguinario re Erode, strappati dalle braccia materne in tenerissima età per scrivere col loro sangue la prima pagina dell’albo d’oro dei martiri cristiani e meritare la gloria eterna secondo la promessa di Gesù:  » Colui che avrà perduto la sua vita per causa mia la ritroverà ». Per essi la liturgia ripete oggi le parole del poeta Prudenzio: « Salute, o fiori dei martiri, che sulle soglie del mattino siete stati diverti dal persecutore di Gesù, come un turbine furioso tronca le rose appena sbocciate. Voi foste le prime vittime, il tenero gregge immolato, e sullo stesso altare avete ricevuto la palma e la corona ».
L’episodio è narrato soltanto dall’evangelista Matteo, che si indirizzava principalmente a lettori ebrei e pertanto intendeva dimostrare la messianicità di Gesù, nel quale si erano avverate le antiche profezie: « Allora Erode, vedendosi deluso dai magi, s’irritò grandemente e mandò ad uccidere tutti i bambini che erano in Betlem e in tutti i suoi dintorni, dai due anni in giù, secondo il tempo che aveva rilevato dai magi. Allora si adempì ciò che era stato annunciato dal profeta Geremia, quando disse: Un grido in Rama si udì, pianto e grave lamento: Rachele piange i suoi figli, né ha voluto essere consolata, perché non sono più ».
L’origine di questa festa è molto antica. Compare già nel calendario cartaginese del IV secolo e cent’anni più tardi a Roma nel Sacramentario Leoniano. Oggi, con la nuova riforma liturgica, la celebrazione ha un carattere gioioso e non più di lutto com’era agli inizi, e ciò in sintonia con le simpatiche consuetudini medioevali che celebravano in questa ricorrenza la festa dei « pueri » di coro e di servizio all’altare. Tra le curiose manifestazioni ricordiamo quella di far scendere i canonici dai loro stalli al canto del versetto « Deposuit potentes de sede et exaltavit humiles ».
Da questo momento i fanciulli, rivestiti delle insegne dei canonici, dirigevano tutto l’uffìcio del giorno. La nuova liturgia, pur non volendo accentuare il carattere folcloristico che questo giorno ha avuto nel corso della storia, ha voluto mantenere questa celebrazione, elevata al grado di festa da S. Pio V, vicinissima alla festività natalizia, collocando le innocenti vittime tra i « comites Christi », per circondare la culla di Gesù Bambino dello stuolo grazioso di piccoli fanciulli, rivestiti delle candide vesti dell’innocenza, piccola avanguardia dell’esercito di martiri che testimonieranno col sangue la loro appartenenza a Cristo.

Autore: Piero Bargellini 

ATTI DEGLI APOSTOLI 21,1-25,12: LA PASSIONE DI PAOLO

dal sito:

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/04-05/01-Passione_di_Paolo.html

ATTI DEGLI APOSTOLI 21,1-25,12

LA PASSIONE DI PAOLO

Usiamo la parola Passione  per aiutare a leggere l’intera sezione. Luca, nei primi 16 versetti, pone in evidenza come nel discepolo si rifletta la passione di Gesù.
Nel Vangelo vi sono tre solenni annunci della Passione di Gesù, e qui Luca ne presenta tre che annunziano quella di Paolo.
Il primo l’abbiamo già letto nel discorso di addio agli anziani di Efeso: «Lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che catene e tribolazioni mi attendono» (20,23).
Durante il viaggio tra Mileto e Cesarea evidenziamo la sosta a Tiro. Qui i cristiani che li accolsero erano già stati avvisati dallo Spirito Santo e perciò dicono a Paolo “di non salire a Gerusalemme”. È logico che Paolo non accetti. “Allora ci accompagnarono verso la nave e, giunti sulla spiaggia ci inginocchiammo e pregammo”. Luca usa il noi perché è presente. “Giunti a Cesarea ci restammo sette giorni, nella casa di Filippo, uno dei sette” (6,5).
Ma ecco che dopo alcuni giorni giunse dalla Giudea un profeta di nome Agabo. Questi prese la cintura di Paolo, si legò mani e piedi e disse: «Così dice lo Spirito Santo: in questo modo i Giudei in Gerusalemme legheranno l’uomo a cui appartiene questa cintura». Luca continua: «Noi e quelli del luogo pregammo Paolo di non salire a Gerusalemme, ma non riuscimmo a dissuaderlo. Allora dicemmo: “Sia fatta la volontà di Dio”. Vennero con noi anche alcuni discepoli di Cesarea».

L’incontro con i cristiani (21,17-25)
Al loro arrivo a Gerusalemme “i cristiani li accolsero festosamente”. È facile pensare che si tratta di giudeo-cristiani ellenisti. Non così il giorno dopo quando Paolo si recò da Giacomo. Riuscì a raccontare un po’ “quello che Dio aveva fatto tra i pagani per mezzo suo”.
Un po’. Infatti, l’impressione che dà il testo è che questo non interessava a Giacomo, a lui interessavano solo i giudeo-cristiani: «Essi hanno sentito dire di te che vai insegnando a tutti i Giudei, sparsi tra i pagani, di abbandonare Mosè, dicendo di non fare circoncidere più i loro figli e di non seguire più le usanze tradizionali. Che facciamo?». Ascoltando Giacomo dire: “Che facciamo?”, pare di vedere una Chiesa chiusa nella fedeltà alla Legge di Mosè e a quelle tradizioni che, secondo Gesù, impediscono il vero culto a Dio (Mc 7,7).
Giacomo invita Paolo a sottomettersi a quei riti di purificazione che ogni buon ebreo deve fare quando dal mondo pagano giunge a Gerusalemme. Paolo con la sua predicazione si era davvero immerso in quel mondo, ma l’aveva santificato con l’annuncio del Vangelo. Comunque, seguendo il suo principio: “farsi ebreo con gli ebrei” (1 Cor 9,21) si sottomise alla purificazione pur sapendo che la si può ottenere solo in Cristo. Ancor più, si sente ricordare da Giacomo la lettera che “lui”, non il Concilio, ha inviato ai pagani di “astenersi dalle carni offerte agli idoli, dal mangiare sangue, ecc…”. Paolo deve aver costatato con tristezza che i giudeo-cristiani non conoscono ancora la libertà che si ha in Cristo e non sanno che Dio ha reso puro ogni cibo, anche se debbono aver sentito Pietro parlare di quello che gli è capitato a Ioppe e a Cesarea.

Paolo arrestato nel Tempio (21,26-40)
Paolo stava concludendo la sua purificazione quando lo videro alcuni giudei della provincia romana dell’Asia. Lo arrestarono e si misero a urlare: «Aiuto! Uomini di Israele. Questo è l’uomo che, ovunque, va insegnando a tutti una dottrina contraria alla Legge e a questo luogo, e ora lo ha profanato introducendo dei pagani». Lo trascinarono fuori e tentavano di ucciderlo quando il comandante della coorte accorse con i soldati, lo liberò dalla folla e lo arrestò. Egli cercò di avere informazioni dalla folla, ma chi diceva una cosa e chi un’altra, mentre il popolo urlava: “A morte, a morte!”. Nel caso di Gesù dicevano: “In croce, in croce!”.
I soldati lo portarono via, ma quando stava per entrare nella fortezza, Paolo disse al comandante: «Permettimi di rivolgere la parola al popolo». Glielo permise.

Il discorso di Paolo (22,1-21)
Quando la gente udì che parlava in ebraico fece silenzio e Paolo disse: «Fratelli e padri, ascoltate la mia difesa: Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma educato in questa città ai piedi di Gamaliele nelle più rigide norme della Legge». Gamaliele era un uomo zelante e di grande spiritualità. La tradizione rabbinica dice: “Quando egli morì, la gloria della Legge cessò e la purità e l’astinenza morirono”. Perciò Paolo può dire: «Educato da un così grande maestro ero pieno di zelo per Dio, come lo siete tutti voi oggi. Per questo ho perseguitato fino alla morte coloro che seguono questa Via». Si tratta della via della salvezza insegnata da Gesù, ma egli in coscienza sentiva che doveva perseguitarla e lo faceva con accanimento come «lo può dimostrare il sommo sacerdote e tutti gli anziani. Da loro ho ricevuto lettere per i nostri fratelli in Damasco con l’intenzione di condurre a Gerusalemme i prigionieri che fossi riuscito a fare. Ma mentre mi stavo avvicinando a Damasco una grande luce rifulse dal cielo attorno a me. Caddi a terra e udii una voce che mi diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Risposi: “Chi sei, Signore?”. Mi disse: “Io sono Gesù il Nazareno che tu perseguiti”». Continuò a raccontare la sua chiamata così come l’abbiamo letta in 9,1-18. Ma è interessante annotare come qui, per attirare l’attenzione, qualifica Anania: «Uomo devoto osservante della Legge e di buona reputazione presso tutti i Giudei colà residenti». Ebbene lui mi battezzò e mi disse: «Il Dio dei nostri padri (significativo per gli uditori) ti ha condotto per mano a conoscere la sua volontà e a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua bocca perché gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito». È un testo molto importante. Esso esprime che la testimonianza che dovrà dare a Gesù tra i pagani è secondo la volontà del Dio dei Padri. Perciò non c’è nessuna rottura con la storia. Per dirla in altre parole: Gesù è la pienezza della Legge, il suo vero compimento. Chi lo rifiuta è in rottura con Dio, non cammina più con Dio nella storia.
Con questo Paolo ha spiegato il suo cambiamento da osservante giudeo a cristiano, ma ha ancora una grande esperienza da raccontare. «Quando tornai a Gerusalemme e stavo pregando nel Tempio, entrai in estasi e vidi il Signore che mi diceva: “Affrettati, lascia Gerusalemme perché non accetteranno la tua testimonianza”. E io risposi: “Ma essi sanno che ero solito imprigionare quelli che credono in te e che ho approvato coloro che versavano il sangue di Stefano”. Ma il Signore mi disse: “Va’ perché io ti mando tra i pagani”». A questo punto la folla alzò la voce e urlando disse: “Togli di mezzo costui, non deve vivere”. È risuonato come per Gesù il “Crocifiggilo, Crocifiggilo”.

Cittadino romano (22,24-29)
Il comandante lo fece riportare nella fortezza per salvarlo dalla folla, ma comandò che fosse interrogato a colpi di flagello. Voleva capire perché la folla urlava tanto. «Ma Paolo disse al centurione che gli stava accanto: “Avete il diritto di flagellare un cittadino romano?”».
Ci si chiede: “Perché Paolo solo ora fa valere la sua cittadinanza romana?”. Ma forse è Luca che ha preferito trattare a parte questo tema. Lo evidenzia solo ora per fare meglio risaltare un dato decisivo che segna una svolta nella vicenda processuale di Paolo al punto da farlo giungere in modo impensato a Roma (23,11).
Ora Paolo è sicuro. Nessuno potrà incatenarlo e flagellarlo se prima non è stato giudicato e dichiarato colpevole. È quello che cerca di fare il tribuno convocando i sommi sacerdoti e tutto il Sinedrio.

Paolo di fronte al Sinedrio (23,1-11)
L’inizio di questa scena ricorda subito Gesù di fronte al Sinedrio. Appena Paolo si trovò davanti al Sinedrio disse: «Fratelli, io ho vissuto la mia vita in perfetta rettitudine davanti a Dio fino ad oggi». Sentendo questo il sommo sacerdote ordinò di percuoterlo sulla bocca. Gesù davanti al Sinedrio fu schiaffeggiato (Gv 18,22). Paolo continua a difendere la sua innocenza dicendo: «Fratelli, io sono un fariseo, figlio di farisei e oggi sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti» (v. 6). Queste parole furono una bomba. Paolo lo sapeva che sarebbe stato così (v. 5).
Tra gli uditori, infatti, c’erano molti sadducei e farisei. I primi sostengono che non c’è risurrezione, né angeli, né spiriti. I farisei invece sostengono il contrario. Le parole di Paolo suscitarono una tale disputa che rese impossibile la prosecuzione del processo, tanto più che i farisei dichiaravano Paolo innocente. Allora il tribuno comandò ai soldati di scendere e di ricondurre Paolo nella fortezza. La conclusione è che la notte seguente gli si presentò il Signore e gli disse: «Coraggio, come hai testimoniato per me a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma». Ma perché questo avvenga ci vorrà ancora molto tempo.

Complotto contro Paolo (22,12-34)
L’avventura continua: l’odio dei Giudei era arrivato a un punto tale che alcuni «giurarono solennemente di non toccare né cibo né bevanda fino a che non avessero ucciso Paolo». Si presentarono ai capi dei sacerdoti e dissero: «Voi dovete dire al comandante che ve lo riporti qui col pretesto di esaminare meglio il caso. Noi siamo pronti a ucciderlo prima che arrivi qui». Ma il figlio della sorella di Paolo riuscì a sapere dell’agguato e andò da Paolo e Paolo lo mandò dal centurione che, informatosi bene, fece preparare duecento soldati e settanta cavalieri e di notte fece condurre Paolo fino a Cesarea dal governatore Felice. Con una lettera informò il governatore della situazione e comunicò agli accusatori che deponessero contro Paolo davanti al governatore Felice a Cesarea.
Il processo davanti a Felice (24,1-22)
Continua a realizzarsi quanto Gesù ha vissuto e annunciato ai suoi discepoli: «Vi perseguiteranno e vi porteranno nelle loro sinagoghe e prigioni, Vi trascineranno davanti a re e governatori a causa del mio nome. Avrete allora occasione per dare testimonianza di me» (Lc 21,12s). Paolo si trova ora davanti a un governatore dopo essere stato presentato davanti al Sinedrio come Gesù.
L’accusa è composta dal sommo sacerdote e dagli anziani che ora si servono di un avvocato chiamato Tertullo, il quale comincia a parlare lodando il governatore come uomo di pace per poi accusare Paolo come un sedizioso. Dice infatti: «Abbiamo scoperto che quest’uomo è una peste che fomenta continui dissensi tra i giudei che sono nel mondo. Egli è il capo della setta dei Nazorei e ha tentato di profanare il Tempio. Per questo l’abbiamo arrestato».
Paolo non ha un avvocato, ma sa difendersi: «Sono solo dodici giorni che mi sono recato a Gerusalemme per il culto e nessuno mi ha trovato nel Tempio a discutere con qualcuno. È vero che è secondo la “Via”, che loro chiamano setta, che io adoro il Dio dei miei antenati… Dopo molti anni di assenza sono venuto a offrire sacrifici e mentre ero impegnato nei riti di purificazione alcuni Giudei della provincia di Asia mi incontrarono. Sono loro i testimoni oculari che dovrebbero comparire davanti a te. Questi invece non hanno alcun motivo per farlo a meno che si tratti di ciò che gridai davanti a loro: “È a motivo della risurrezione dai morti che vengo giudicato davanti a voi”».
Il governatore Felice capì quello che Lisia gli aveva scritto: «L’ho condotto davanti al Sinedrio e mi sono accorto che le accuse riguardavano questioni della loro Legge e che non c’erano imputazioni meritevoli di morte o di prigione. Lo mando da te solo per salvarlo da un complotto contro di lui». Anche il governatore ora ha le stesse convinzioni. Interrompe la seduta e la aggiorna alla venuta del comandante Lisia, mai avvenuta.

Conoscere la Via (24,23-27)
Ora Paolo è veramente più libero. Il governatore infatti diede ordine al centurione che Paolo venisse custodito e che la sua prigionia risultasse mitigata senza impedire ai suoi di prestargli servizio. E forse è dalla conoscenza delle persone che frequentavano Paolo, che lui e la sua convivente Drusilla incominciarono a frequentarlo, sperando di avere da lui del denaro.
Ma Paolo conosceva la loro vita dissoluta (Drusilla infatti era stata rubata a suo marito per mezzo di un mago) e ne approfittò per approfondire con loro la “Via” cioè la dottrina della fede cristiana. Qualcosa già conoscevano e l’approfondimento dovette procedere bene fino a quando Paolo incominciò a parlare di giustizia, di continenza e di giudizio. La conseguenza è che il governatore non discusse più con Paolo e che il suo ultimo atto di governatore nei riguardi di Paolo fu un’ingiustizia. Paolo avrebbe dovuto essere lasciato libero perché non si trovò nessun motivo di condanna contro di lui. Ma Felice lasciò Paolo in prigione per fare un piacere ai Giudei e consegnò il suo mandato nelle mani di Porcio Festo.

Paolo si appella a Cesare (25,1-12)
Con il nuovo governatore i capi dei Giudei tornarono alla carica e gli chiesero di trasferire Paolo a Gerusalemme. Questo perché avevano disposto un tranello per ucciderlo durante il trasferimento. Festo dispose che il giudizio si facesse a Cesarea. Allora i Giudei scesero a Cesarea e gli imputarono numerose e gravi colpe senza riuscire a provarle, mentre Paolo disse: «Non ho commesso alcuna colpa né contro la Legge, né contro il Tempio, né contro Cesare». Festo allora per dimostrare ai Giudei che voleva aiutarli, chiese a Paolo se voleva salire a Gerusalemme per essere processato là. Ma Paolo tirò fuori i suoi diritti di cittadinanza romana e rispose: «Mi trovo davanti al tribunale di Cesare. Nessuno ha il diritto di consegnarmi a loro. Mi appello a Cesare». E Festo a lui: «Ti sei appellato a Cesare, a Cesare andrai».
La parola di Gesù: «Devi darmi testimonianza anche a Roma» adesso può diventare realtà. Al di là di tutte le trame umane è sempre il Signore che ha l’ultima parola. E Paolo continua a sperimentare che davvero cammina con Cristo nella Storia.

Preghiamo
Signore, com’è stato bello vedere trasparire il tuo volto sul volto di Paolo. Adesso si comprende perché Paolo abbia detto ai cristiani: «Siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo». Ma questo, quando, con la nostra vita, noi sacerdoti riusciremo a dirlo ai fedeli?
Signore, insegnaci la contemplazione di te quando meditiamo il tuo Vangelo e allora, a poco a poco, riusciremo a imitarti sempre più e compiremo la volontà del Padre che vuole renderci simili a te.
Ora ti rivolgiamo questa preghiera pensando ai destinatari della nostra missione: hanno bisogno di vederci come veri modelli del gregge, sottoposti all’azione dello Spirito.
Signore Gesù, ascoltaci!
Amen!

 Mario Galizzi

RIVISTA MARIA AUSILIATRICE 2005-1

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