Archive pour décembre, 2010

IL PERICOLO DELLA IDOLATRIA (1COR 8,1-11,1)

dal sito:

http://www.paroledivita.it/upload/2002/articolo2_30.asp

IL PERICOLO DELLA IDOLATRIA (1COR 8,1-11,1)
 
Mosetto F.

Nelle città greche diverse occasioni – feste di singole divinità, feste di carattere cittadino (associazioni) o familiare (ad es., matrimonio) – comportavano un banchetto sacro celebrato nelle adiacenze di un tempio, nel corso del quale si consumavano carni degli animali precedentemente offerti in sacrificio (i giudei le chiamavano eidolóthyton, vittime offerte agli idoli). Anche le carni macellate messe in vendita al pubblico mercato provenivano spesso dai sacrifici. Legami familiari e convenienze sociali spingevano ad accettare l’invito a tali banchetti; così pure, nell’acquistare la carne al mercato era difficile evitare quella degli «idolotiti».
I cristiani di Corinto s’interrogavano al riguardo: quale condotta tenere? Isolarsi dalla società, chiudendosi in una specie di ghetto, per evitare ogni compromesso con la religione pagana? Oppure prendere parte ai banchetti, ai quali si era invitati da parenti e amici, senza farsi troppi scrupoli?
La risposta dell’apostolo prende le mosse da due principi di soluzione (la «scienza» e la carità), che vengono immediatamente applicati all’argomento (1Cor 8,1-13). Poi, in una lunga digressione, Paolo illustra con il suo esempio personale l’istanza di rinunciare ai propri diritti per il bene del fratello (1Cor 9,1-27), e, con quello degli israeliti al tempo dell’esodo, il rischio di ricadere nel paganesimo (1Cor 10,1-13). Infine, alla luce di quanto esposto, dà indicazioni concrete di comportamento (1Cor 10,14-33).

1. La «scienza» e la carità

Il concilio di Gerusalemme si era già occupato della questione (cf. At 15,28s), ma Paolo non si appella alla risposta data in tale circostanza, forse perché essa riguardava direttamente le Chiese della Siria composte sia da giudeo-cristiani sia da credenti di origine gentile. Egli rimanda, invece, a due criteri di condotta, riassunti nelle parole «scienza (gnosis)» e «carità (agápe)», ossia: da una parte, la conoscenza e valutazione obiettiva della realtà e del fatto in questione; dall’altra, l’amore del prossimo, cui bisogna ispirare le scelte concrete. La scienza da sola, non congiunta alla carità, porta all’orgoglio e al disprezzo del fratello («gonfia» di umana superbia). Non basta «sapere», occorre altresì avvalersi in modo costruttivo della propria «scienza». Solo chi, oltre a conoscere, ama, è a sua volta «conosciuto» nel senso biblico del termine, è cioè oggetto della benevolenza di Dio. Perché solamente la carità «edifica», ossia costruisce la comunità (cf. 1Cor 14,12) in quanto cerca l’utile degli altri (cf. 1Cor 10,23s).
Ora, Paolo applica al problema concreto tale considerazione. L’apostolo afferma che di per sé il credente può cibarsi senza alcuno scrupolo degli idolotiti. Egli infatti «sa» che Dio è uno solo e che non esistono altri dèi. La fede cristiana riconosce e confessa un unico Dio, il Padre, creatore e signore del mondo; «a lui», al suo servizio e alla sua gloria, noi siamo orientati e chiamati. Così pure, sappiamo che esiste «un solo Signore», Gesù Cristo, il mediatore della creazione e della salvezza. I numerosi «dèi e signori» dei gentili scompaiono davanti all’unico Dio: semplicemente non esistono; ma, più avanti, Paolo dirà che sono demoni, spiriti malvagi (1Cor 10,20s). Ora, se ogni realtà creata viene da Dio per mezzo del Cristo, a lui appartiene ed è a lui finalizzata, ne segue che è lecito mangiare di qualsiasi cibo (cf. 1Cor 10,23). Per quel che riguarda i nostri rapporti con Dio, la provenienza degli alimenti è irrilevante; anzi, tutto è suo dono, da ricevere con gratitudine (cf. 1Cor 10,30; Rm 14,6). Il bel distico del v. 6:

«…un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene, e noi siamo per lui,
e un solo Signore, Gesù Cristo, per il quale tutto esiste e noi esistiamo grazie a lui»
è una confessione di fede, paragonabile ad altre disseminate nell’epistolario paolino (cf. 1Ts 1,9s;

Rm 3,30; 10,9; 11,36; ecc.). È probabile che nel formularla Paolo si ispiri alla tradizione.

Ma – continua Paolo – questa «scienza» non è in tutti: la comunità infatti è composta di «forti» e di «deboli» (cf. Rm 14,1). Avvezzi fino a ieri a considerare le carni immolate agli idoli come un cibo sacro, per il quale si entra in comunione con la divinità, alcuni cristiani da poco convertiti proverebbero un vero rimorso se continuassero a cibarsene e, al vedere dei fratelli che lo fanno senza scrupolo, ne ricevono scandalo, ossia occasione di caduta, sentendosi come spinti e autorizzati a mangiare le carni sacrificate agli idoli appunto come «idolotiti». La libertà e il diritto – derivanti dalla certezza di fede di cui sopra – di consumare le carni immolate hanno un limite nel danno spirituale che ne può venire per i fratelli, la cui coscienza è «debole», nel senso che è tuttora condizionata dalle concezioni e dalle consuetudini passate.
Deve allora entrare in azione l’altro principio: la carità, che edifica. Se ci si rende conto che il proprio comportamento, per quanto buono e legittimo, è di scandalo al fratello, è meglio rinunciare alla propria libertà e al proprio diritto pur di non spingerlo ad agire contro coscienza, a commettere perciò (soggettivamente) un peccato. Altrimenti, «per la tua scienza va in rovina il debole, per il quale Cristo è morto». La morte di Cristo rivela il valore di ogni persona ed è supremo modello di subordinazione dell’io con i suoi diritti e interessi al bene dell’altro. Non tenerne conto è «peccare contro i fratelli» e, per il fatto stesso di offendere la loro coscienza, peccare contro Cristo. La conclusione s’impone: «Perciò, se un cibo (ovviamente, dal contesto, gli “idolotiti”) scandalizza il fratello, non mangerò mai più carne in eterno» (8,13). Così Paolo introduce l’ulteriore riflessione.

2. L’esempio di Paolo

In questo brano l’Apostolo conferma con il proprio esempio l’invito a rinunciare a qualcosa di legittimo in vista del bene dei fratelli. Dal momento che è un vero apostolo di Cristo (1Cor 9,1-3), come gli altri apostoli Paolo avrebbe il diritto di vivere del proprio ministero (vv. 4-14), ma vi ha rinunciato per l’evangelo, per essere realmente servo di tutti (vv. 15-23): la rinuncia è una legge della vita cristiana, che vale in primo luogo per l’apostolo (vv. 24-27).
Se qui Paolo rivendica per sé il titolo di apostolo di Cristo – contro avversari, con i quali polemizzerà più a lungo nella seconda lettera ai Corinzi (cf. anche le lettere ai Filippesi e Galati) – lo fa per dimostrare i suoi diritti. L’autenticità dell’apostolato di Paolo scaturisce dall’aver incontrato personalmente il Risorto (cf. 1Cor 15,8; Gal 1,15s; At 9) e dall’esistenza stessa della comunità di Corinto. Essa è la sua «opera nel Signore», è come un «sigillo» che certifica un documento autentico, la prova che davvero Paolo è stato inviato ad annunciare l’evangelo e lo ha di fatto annunciato.
Come gli altri apostoli (ossia missionari, inviati dalle comunità), in particolare come Pietro e i «fratelli del Signore» – tra i quali emerge Giacomo; cf. At 1,14; ecc. – anche Paolo ha il diritto di «vivere dell’evangelo» e che le comunità provvedano al sostentamento della donna che l’accompagna («donna sorella», ossia credente; meno probabile: moglie), quindi di non essere costretto a lavorare per sostentarsi. Una serie di argomenti conferma l’assunto: l’analogia con i rapporti economico-sociali ordinari (il soldato, l’operaio, il pastore); il dettato della legge mosaica (Dt 25,4), applicato a chi «semina realtà spirituali». Inoltre, il diritto religioso universale; la parola stessa del Signore (cf. Lc 10,7: uno dei rari casi nei quali san Paolo si riferisce a un detto di Gesù).
Ma Paolo, e con lui Barnaba, non si è valso di tale diritto, ha scelto di mantenersi con il proprio lavoro (cf. 1Cor 4,12; At 18,3; 20,34) e questo «per l’evangelo [...] per non recare intralcio al Vangelo di Cristo», apparendo interessato nel momento stesso in cui l’annuncia; preferirebbe morire! Nessuno gli tolga questo vanto (davanti agli uomini, specialmente gli avversari, cf. 2Cor 11,10). Perché – soggiunge – annunciare l’evangelo non costituisce un titolo di merito, bensì un dovere, un incarico che gli è stato affidato, come a un servo. La sua «paga», di conseguenza e paradossalmente, sarà di annunciare l’evangelo gratis, sì da non usare del diritto che la sua missione gli conferirebbe.
In questo modo, però, egli è «libero da tutti», non dovendo nulla a nessuno, e può farsi «servo di tutti, allo scopo di guadagnare (a Cristo) il maggior numero» di credenti. Pur non essendo «sotto la legge» (bensì sotto la grazia, cf. Gal 5), Paolo si è fatto «giudeo con i giudei», rispettando il loro attaccamento alla legge (cf. At 16,3; 18,18; 21,20ss). Si è adattato alla mentalità e al costume dei gentili (cf. At 17,22-31: adattamento alla cultura; Gal 2,12ss: comunione di mensa), difendendo la loro libertà rispetto alla legge mosaica (cf. la lettera ai Galati), fino a diventare «senza legge», come i gentili appunto che tali sono in quanto privi della legge di Mosè e pertanto ad essa non sottomessi (cf. Rm 2,12.14). L’Apostolo, tuttavia, precisa: sono tuttavia sottomesso alla legge di Cristo. La «legge di Cristo» (Gal 6,2) è la «legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù», per la quale «la giustizia della legge» divina «si compie in noi che non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo Spirito» (Rm 5,2).
Nel caso qui in discussione Paolo si è fatto «debole con i deboli» (cf. Rm 14-15). In una parola, si è fatto «tutto a tutti»: adattamento e accondiscendenza apostolica in vista della salvezza di ogni uomo, «per diventare partecipe con loro» dei benefici dell’evangelo, della salvezza promessa ai credenti.
Esiste, infatti, anche per lui il rischio del fallimento, di essere alla fine escluso dalla stessa salvezza che ha portato agli altri. È il concetto illustrato con l’esempio delle gare atletiche (proprio a Corinto si celebravano i Giochi Istmici). Prender parte a una gara non garantisce automaticamente il premio. Dicendo: «uno solo lo conquista», Paolo non intende affermare che solo pochi cristiani si salvano, ma semplicemente: come tra gara e premio non c’è connessione automatica, così tra l’essere diventati cristiani e il conseguire la salvezza. In vista di una corona che marcirà, l’atleta si sottopone a una dura disciplina. Allo stesso modo, l’apostolo esercita su se stesso un forte autocontrollo, si sottomette a ogni privazione, per non essere squalificato egli stesso nella gara che è la vita cristiana, per ottenere invece la corona incorruttibile, la vita eterna (cf. 2Tm 4,7s; 1Pt 5,4; ecc.).

3. L’esempio di Israele

Che la legge della rinuncia e dell’ascesi sia essenziale per tutti i cristiani, è insegnato nelle Scritture. Per questo Paolo porta l’esempio di Israele. Come nell’esodo tutto l’antico popolo di Dio sperimentò la salvezza e godette dei doni divini, eppure non tutti raggiunsero la terra promessa, e ciò a causa delle infedeltà alla grazia ricevuta, allo stesso modo può accadere che, nonostante il battesimo, i credenti cedano alla tentazione di ritornare alla vita pagana e così perdano la salvezza finale.
La salvezza dell’esodo e i doni divini elargiti a Israele nel deserto sono rievocati sinteticamente nel passaggio del mare (cf. Es 14) e nella nube (segno della presenza di Dio: Es 13,21; 40,36ss), nella manna e nella sorgente/pozzo di acqua (cf. Es 16; Nm 20,7ss; 21,16ss). Paolo vede in tali eventi il «tipo» della salvezza cristiana: il passaggio del mar Rosso prefigurava il battesimo («furono battezzati in Mosè»). La manna è chiamata «cibo spirituale»; lo stesso aggettivo – col quale si indica una realtà divina, nella quale è operante lo Spirito – è usato per l’acqua dalla roccia e per la pietra da cui essa scaturì. Già nell’Antico Testamento l’acqua dalla rupe era andata acquistando un significato simbolico in riferimento alla legge e alla sapienza (cf. Sal 78,25; Dt 8,3; Sap 16,20); significato qui ripreso, cui potrebbe aggiungersi un simbolismo sacramentale (cf. Gv 6). Sulla scia dell’interpretazione giudaica, la quale parlava di una fonte che accompagnò gli israeliti nel deserto, simbolo della Torà e della sapienza (cf., ad es., Targum Jonatan: Nm 21; Ant. Jud. 10,7), Paolo identifica la «roccia spirituale che li accompagnava» con il Cristo preesistente (sapienza di Dio).
Nonostante i segni della presenza di Dio e i doni ricevuti, la maggior parte dei figli di Israele perì lungo il cammino di liberazione (cf. Nm 14,16.35; cf. anche Gd 5). Essi «non furono graditi a Dio», che li respinse a causa dei loro peccati (si allude a Es 32: idolatria; Nm 11: rimpianto dell’Egitto; Nm 25: fornicazione; Nm 14; 17; 21: mormorazione e ribellione), con i quali rifiutarono praticamente la sua salvezza (cf. Sal 95 ed Eb 3,7ss).
Il rapporto tra storia biblica e vita cristiana, tra Antico e Nuovo Testamento, è espresso col termine «tipo» (v. 6, cf. v. 11): la realtà piena e definitiva è presente in anticipo, come in un abbozzo, e pertanto prefigurata da persone e avvenimenti che appartengono alla prima fase della storia della salvezza. In questo senso le vicende di Israele sono il «tipo», nel quale è prefigurata la vita della Chiesa, e servono a questa di ammonimento («per noi»). Non però solo «come esempio» edificante, bensì appunto perché il popolo di Dio dell’età escatologica («noi, per i quali è arrivata la fine dei tempi») riconosca la propria situazione e la propria vicenda nei «tipi» che la prefigurano. Questo principio ermeneutico, che i Padri utilizzarono ampiamente, è stato richiamato dal Vaticano II (Dei Verbum, 15s).
Sul rapporto tipologico tra storia biblica e realtà cristiana si fonda l’applicazione parenetica. Questa è diretta anzitutto ai «forti», che si ritengono troppo sicuri e giungono a disprezzare i «deboli» (cf. Rm 14,1ss): «Chi crede di stare, guardi di non cadere» nel peccato, in particolare nell’idolatria. Col suo proprio esempio Paolo ha insegnato loro la disciplina e l’ascesi (cf. 1Cor 9,24-27). La messa in guardia è seguita da una considerazione – accessoria rispetto alla linea dominante del pensiero – sulla fedeltà di Dio (cf. 1Cor 1,9; 1Ts 5,24) e sulla sua grazia che sostiene i credenti nelle prove.

4. Indicazioni pratiche

4.1. Fuggire l’idolatria

Dall’esempio della storia di Israele discende direttamente l’ammonimento a fuggire l’idolatria. Tale sarebbe il partecipare a un banchetto sacro pagano. Questo ritorno al culto degli idoli – ultimamente dei demoni, che si celano dietro le divinità – sarebbe un provocare la gelosia dell’unico Signore e sposo del suo popolo (cf. Dt 32,16.21; 2Cor 11,2), la sua ira e il castigo che ne segue.
Paolo si appella al buon giudizio dei suoi lettori: prendere parte a un pasto sacrificale pagano è incompatibile con l’essere cristiani. Infatti, il banchetto sacro stabilisce in ogni caso una «comunione» con la divinità. Ciò vale per il culto ebraico («Israele secondo la carne», cui corrisponde idealmente un Israele secondo lo spirito, o «Israele di Dio»: Gal 6,16): colui che si ciba della vittima sacrificata entra in comunione con Dio (rappresentato dall’altare). Ancor più ciò avviene nell’eucaristia: mangiando il pane spezzato (cf. At 2,42) e bevendo del calice sul quale è stata pronunciata la benedizione (cf. Mc 14,22ss e parr.), il credente comunica al corpo e al sangue di Cristo (cf. 1Cor 11,17-34: la «cena del Signore»). La comunione all’unico pane che è Cristo opera a sua volta l’unità dei credenti (cf. 1Cor 12,12-27: la Chiesa «corpo» del Cristo). In un certo senso lo stesso si verifica nei sacrifici offerti alle divinità pagane: anche se all’idolo non corrisponde nella realtà alcun essere divino (cf. 8,4) e benché cibarsi degli idolotiti sia per sé cosa indifferente e lecita (cf. vv. 23ss), dal momento che gli dèi delle genti sono demoni (cf. Dt 32,17; Sal 95[96],5; Is 65,11), chi partecipa al banchetto sacrificale del culto pagano entra in relazione con le potenze malvagie (non certo nel senso di vera «comunione», bensì in quanto si sottomette alla loro tirannia e al loro influsso). Dunque, «non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demoni».

4.2. Libertà e amore

Regolato il caso più serio e problematico, l’Apostolo si volge a quello più ordinario e dà alcune direttive pratiche sulla base dei principi indicati fin dall’inizio. In linea di massima, è lecito mangiare tutto ciò che è posto in vendita al mercato, oppure viene offerto da colui che invita a mensa (banchetto familiare o della corporazione) «senza indagare per motivo di coscienza» di dove provenga quella carne. Mediante la citazione di Sal 23,1 se ne ripete la ragione: tutto ciò che è nel mondo viene da Dio e a lui appartiene (cf. 8,6). L’atteggiamento fondamentale che ne consegue è duplice: rendere grazie a Dio per i suoi doni (cf. 1Tm 4,3); in tutte le azioni, non solamente il mangiare e bere, avere di mira la gloria di Dio (cf. Rm 15,6-7). In altre parole, tutta la vita del cristiano è culto spirituale (cf. Rm 12,1). La fede nell’unico Dio libera il credente da timori superstiziosi, allo stesso modo che la fede nel Signore Gesù lo emancipa dalla legge mosaica (cf. Gal 5) e, in particolare, da determinate osservanze rituali (cf. Rm 14-15).
Una volta rivendicata la libertà del cristiano, occorre tuttavia precisarne il senso e i limiti. Non sempre vale il principio (di sapore gnostico): «Tutto è lecito». Qualora l’esercizio della propria libertà recasse scandalo ai fratelli deboli, la carità – che cerca non l’interesse proprio, ma l’edificazione della comunità e il bene di ogni fratello (cf. 1Cor 13,5) – esige di rinunciarvi e di mettere al primo posto il bene spirituale del prossimo. Questa rinuncia è imposta dal rispetto della coscienza dell’altro (cf. 8,7-12). Paolo può richiamarsi all’esempio che egli stesso dà: facendosi tutto a tutti (cf. 1Cor 9,19-23), cerca di «piacere a tutti in ogni cosa», avendo di mira la loro salvezza (cf. Rm 15,1-3).
Perciò l’Apostolo conclude: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (cf. 1Cor 4,16; Fil 3,17). L’esempio di Gesù, punto di riferimento per ogni problematica riguardante le scelte morali del credente, conferisce al principio dell’agape cristiana il suo valore originale (cf. Fil 2,5ss) e innesta nel mistero pasquale una rinuncia apparentemente di poco conto.

5. Conclusione

A proposito dell’idolatria, il Catechismo della Chiesa cattolica osserva: «L’idolatria non concerne soltanto i falsi culti del paganesimo. Essa rimane una costante tentazione della fede e consiste nel divinizzare ciò che non è Dio. C’è idolatria quando l’uomo onora e riverisce una creatura al posto di Dio, si tratti degli dèi o dei demoni (per es., il satanismo), del potere, del piacere, della razza, degli antenati, dello stato, del denaro, ecc.» (n. 2113). Il rischio del compromesso insidia anche ogni cristiano. Ricordiamo la parola di Gesù: «Non potete servire a Dio e a mammona» (Mt 6,24).

Publié dans:Lettera ai Corinti - prima |on 3 décembre, 2010 |Pas de commentaires »

Omelia (03-12-2010) : Si apriranno gli occhi ai ciechi

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/20799.html

Omelia (03-12-2010) 
Monaci Benedettini Silvestrini

Si apriranno gli occhi ai ciechi

Mi sembra che la liturgia della Parola di quest’oggi metta in luce due cose, forse tra di loro contrastanti: Il rossore di Israele dinanzi agli altri popoli e il desiderio di luce nei due ciechi del vangelo. Si legge in Isaia: « D’ora in poi Giacobbe non dovrà più arrossire ». Eppure il popolo ebreo è nella verità, adora il vero Dio ed è da lui seguito e protetto. Ma quando egli si allontana dai suoi comandamenti, allora diventa schiavo dei suoi nemici. Nella loro disgrazia hanno il rossore e la vergogna non tanto perché il loro Dio è stato vinto dalle divinità dei popoli nemici, come era credenza d’allora, quanto perché i propri costumi non hanno rispettato il patto d’alleanza con il loro Dio. Quando il popolo si converte, l’intervento del Dio di Abramo cambierà le sue sorti e sarà temuto anche dai nemici. In fatto di vergogna o rispetto umano noi cattolici, credenti nel vero Dio, forse vantiamo il primato. Siamo nella verità, adoriamo il vero Dio, siamo stati redenti dal sangue del Signore: abbiamo tutti i motivi per ritenerci fortunati, senza alcun nostro merito, eppure rimaniamo timidi e vergognosi, come Pietro che rinnega il Maestro dinanzi ad una serva del sommo sacerdote, mentre, chi è nell’errore propaga, sfrontatamente le proprie menzogne. Ci manca davvero il coraggio dei martiri, che è dono dello Spirito, ma anche frutto di una profonda convinzione. Dovremmo implorare più luce per la nostra vita spirituale. Qualche volta siamo accecati dal nostro orgoglio, dalla paura di essere oggetto di scherno, dal momento che siamo discepoli di un Crocifisso, scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani. Gridiamo anche noi a Gesù come i due ciechi perché abbia pietà di noi e con fede ripetiamogli che egli può guarirci dalle nostre incoerenze, dalle nostre infedeltà. Egli ci dirà: sia fatto secondo la vostra richiesta: allora acquisteremo quella sapienza che viene dall’alto che ci farà guardare le realtà nella loro essenza; otterremo la fortezza dei martiri e dei confessori della fede, avremo l’ardente desiderio di annunciare ovunque Cristo, Salvatore del mondo. Ripeteremo sui tetti quanto lo Spirito del Signore ci avrà fatto conoscere nel segreto del cuore. L’esempio di San Francesco Saverio, di cui oggi celebriamo la memoria liturgica, ci incoraggi e ci sia di sprone nel coltivare lo spirito missionario che è proprio di ogni credente.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 3 décembre, 2010 |Pas de commentaires »

Gesù – Immagine bizantina (bizzarro, ma interessante l’articolo)

Gesù - Immagine bizantina (bizzarro, ma interessante l'articolo) dans immagini sacre byzantine-christ-c550-unusualjesus

http://www.blawg.it/?p=198

Publié dans:immagini sacre |on 2 décembre, 2010 |Pas de commentaires »

LA PREGHIERA E LA LEGGE

dal sito:

http://parrocchiadivergiate.wordpress.com/documenti/la-preghiera-e-la-legge/

LA PREGHIERA E LA LEGGE

Mercoledì 26 marzo 2003  prof. Don Pierantonio Tremolada

La preghiera e la legge

Mc12, 28-34

Allora gli si accostò uno degli scribi che li aveva uditi discutere, e, visto come aveva loro ben risposto, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua  mente e con tutta la tua forza. E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questi». Allora lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che Egli è unico e non v’è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore e con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
Meditiamo la legge del Signore e del suo rapporto con la preghiera. Lo facciamo a partire dal dialogo tra uno scriba e Gesù. Lo scriba chiede: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Il comandamento è la legge. Se fosse rivolta a noi la domanda che risponderemmo? Forse non uccidere, non rubare; a quei tempi forse avrebbero risposto di osservare il sabato. Invece Gesù dice che sono due e sono inseparabili i comandamenti importanti e sono collegati da un’unica parola, dal verbo amare. Amerai il Signore ed amerai il tuo prossimo. Così come sono, nessuno dei due comandamenti fa parte dei dieci comandamenti. E come se il Signore ne aggiungesse altri due. Noi sappiamo che i comandamenti più importanti sono tutti in negativo: «non uccidere, non rubare, non desiderare…» Gesù ne formula uno in positivo. E come se Dio dicesse che se tu volessi sapere che cosa Egli fondamentalmente più desidera, questo è che tu lo ami con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutta la tua forza. Il cuore sono gli affetti ed anche qualcosa di più; la mente è l’intelligenza; la forza  sono le energie. E poi il prossimo come te stesso. Nel discorso della montagna Gesù svilupperà meglio questo aspetto: tutto quello che desiderate che gli altri facciano a voi, fatelo voi a loro. Questo significa amare, non soltanto in negativo, ma in positivo.
Il primo insegnamento è che la sostanza di tutti i comandamenti sta nella capacità di amare Dio ed il Prossimo. Tutti i comandamenti si fondono sulla capacità di amare.
Una seconda riflessione: questa capacità di amare Dio ed il prossimo è preceduta dalla capacità di ascoltare. Gesù dice: «Ascolta Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore. Tu dunque amerai il Signore». Prima c’è questo “Ascolta”. Per arrivare ad amare Dio bisogna ascoltarlo perché è l’unico modo per conoscerlo. Non si ama una persona sconosciuta. Nella misura invece che si conosce una persona che è buona, in quella misura la si amerà. Per osservare la legge di Dio che si riassume nel comandamento dell’amore, bisogna riconoscere che questa legge viene da Dio ed è espressione del suo amore; è Dio che ci parla. Nell’A.T. quando si presenta il decalogo vengono fornite le circostanza in cui Dio l’ha donato a Mosé. Alcuni particolari ci aiutano a capire: il Signore Dio parla a Mosé dicendo che è suo desiderio stringere un patto, legarsi con i figli di Israele; è suo desiderio che ci sia un legame profondo con loro; Lui non li abbandonerà mai e chiede a loro di non abbandonarlo mai, di aver fiducia in Lui. La legge risponde a tutto questo. Proprio perché il Signore ama i figli di Israele, dà loro la legge che permette loro di sentire la parola di quel Dio che li ama.
Una concezione sbagliata della legge ci porta a rifiutarla, soprattutto oggi. Se noi avessimo solo la legge in quanto tale senza sapere il rapporto tra la legge e Dio, d’istinto, la rifiuteremmo. Quando obblighiamo qualcuno a fare una cosa, tendenzialmente lui fa il contrario. Questa riflessione è sviluppata bene da San Paolo nella lettera ai Romani. L’assoluto è Dio, non la legge. Bisogna intuire questo straordinario rapporto tra la legge che Dio ci ha dato e la sua voce; allora si che accoglieremmo la sua legge.
Attraverso la legge Dio manifesta la sua bontà per noi. Dio non ci ordina nei comandamenti per il gusto di farsi obbedire e sentirsi più grande di noi, ma perché ci ama. Non bisogna obbedire per forza ai suoi comandi, altrimenti saremmo dei servi e non degli amati.
Nel Deuteronomio si parla di due strade: la strada della benedizione e la strada della maledizione. Dio che conosce il segreto della vita ci ha dato la legge per aiutarci a camminare sulla via che porta alla vita e ci ha messo in guardia da tutto quello che ci rovinerebbe.
Certo io posso decidere di uccidere, commettere adulterio, rubare, disonorare padre e madre, ma quando faccio questo io mi distruggo. La verità è che l’amore di Dio per me fa si che Egli desidera tutto quello che mi fa il bene e non quello che mi distrugge. I comandamenti vanno intesi come un’accorata raccomandazione: “mi raccomando, non uccidere; mi raccomando, non rubare; mi raccomando, non desiderare. Questi comandi diventano per noi autorevoli se non crediamo nella sua bontà. Il tono dei comandamenti è quello della persona che ama. Si può rispondergli: “che cosa ne sai tu?” pensando di conoscere dov’è la vita e dov’è la morte. Ciò appare nella Genesi dove i nostri progenitori vollero mangiare del frutto della conoscenza del bene e del male. E’ un modo simbolico per dire che pretesero in quella circostanza di sapere loro stessi che cosa fosse il bene e che cosa il male.
Dio solo sa che cosa è la vita; Lui ce la data. La scrittura dice che l’uomo deve essere sapiente, deve lasciarsi ammaestrare. Il dono della legge fa parte di questo ammaestramento. Occorre fidarsi di Lui. Intravedere dietro quei comandamenti il volto di Dio.
Alcuni farisei del tempo di Gesù invece adoravano la legge in quanto tale, per cui il sabato doveva essere rispettato e per cui di sabato non si poteva nemmeno fare del bene alle persone.
Terza osservazione; san Paolo, nella lettera ai Romani afferma che se uno ama veramente il prossimo, non ruba, non uccide, non dirà mai falsa testimonianza, ecc… Al contrario uno potrebbe dire: “io non fatto nulla di male”; gli si potrebbe però obiettare: “ma ami veramente il prossimo? Che cosa stai facendo per lui?”. Questi comandamenti sono il minimo richiesto ai fedeli. Amare il prossimo è molto di più del minimo; è perdonare settanta volte sette il prossimo. Questo è espresso non nella forma di un comandamento, ma di una esortazione: “ama il prossimo, prega per chi ti fa del male, benedici chi ti maledice, dona a chi ti chiede” Questa è l’esortazione di Dio. Non può la perfezione dell’amore diventare una legge. Gesù afferma: «Siate perfetti come è perfetto il Padre mio».
Gesù ci ha dato l’esempio più alto dell’amore; ha amato Dio ed il prossimo. Lo scriba del brano è vicino a questo modo di vivere a cui siamo chiamati.
Per noi cristiani la legge divina, oltre al volto di Dio, lascia intravedere anche il volto di Cristo crocifisso. Il comandamento più grande è la testimonianza di Gesù: perdona chi gli fa del male e gli apre la strada per la vita eterna. L’aggettivo divino è sinonimo di perfetto nell’amore. Tutto questo è impensabile per le nostre possibilità, ma è possibile per il torrente di grazie scaturito dalla passione e morte del Signore Gesù.

SAN PAOLO NELLA REGOLA di SAN BENEDETTO

dal sito:

http://www.abbazialascala.it/default.asp?iID=LELDK&item=LMGII#LMGII

SAN PAOLO NELLA REGOLA di SAN BENEDETTO

Appunti sparsi                                                                                       

Ab. Donato Ogliari osb

Nell’intento di cogliere l’insegnamento che san Benedetto mutua dall’apostolo Paolo, nella breve panoramica che segue ci soffermeremo sull’utilizzo che il santo patriarca fa, all’interno della sua Regola, di alcune citazioni paoline, che rileggeremo alla luce del contesto immediato nel quale esse si trovano.
Per semplice convenienza ripartiremo la presente esposizione in due blocchi comprendenti rispettivamente la sfera della vita personale e di quella comunitaria, pur consci che i confini tra i due ambiti non sono nitidi e precisi, e che è perciò possibile sconfinare dal primo al secondo e viceversa.  

I. La sfera personale

1. La chiamata
“Cinti dunque i nostri fianchi con la fede e la pratica costante delle buone azioni (cf. Ef 6,14-15), procediamo per le sue vie sotto la guida del Vangelo, fino a diventare degni di vedere Colui che ci ha chiamati nel suo regno (1Ts 2,12)” (RB, Prol. 21).
Da buon pragmatico, Benedetto configura la chiamata del monaco alla luce della fede e del compimento delle buone opere, da perseguire e vivere sotto la guida del Vangelo (per ducatum evangelii). Il binomio fede–opere, che dà consistenza alla vocazione cristiana, mette in guardia il monaco da un cammino “fai-da-te”, basato sulle proprie inclinazioni o preferenze, inducendolo ad agire in conformità con il contenuto della fede che sgorga dalla rivelazione divina. La finale, di sapore escatologico, ci rammenta che la chiamata a seguire il Signore non si esaurisce quaggiù, su questa terra, ma si apre su un Regno che si espande oltre il mondo visibile, un Regno verso cui tendiamo giorno dopo giorno nell’attesa della beata speranza.

2. La conversione
a. “E ci sono concessi i giorni di questa vita appunto come dilazione (ad indutias) per la correzione dei nostri vizi; lo dice l’Apostolo: Non sai che la pazienza di Dio ti vuole condurre a penitenza? (Rm 2,4)” (RB, Prol. 36-37)
Ricorrendo a san Paolo, Benedetto non esita ad affermare che i giorni di questa vita ci sono concessi come una “dilazione”, una “proroga”, affinché possiamo emendarci dai nostri peccati. Anche più avanti, nell’explicit del 1° gradino di umiltà, dirà: “Adesso ci perdona perché è buono e attende che noi ci convertiamo a vita migliore” (RB 7,30).
Il tempo va usato bene, soprattutto nella consapevolezza che ogni giorno ci è donato perché impariamo a riconoscere la presenza di Dio nelle pieghe della vita, della storia e del cosmo, e perché, così facendo, possiamo conoscerlo sempre meglio e amarlo sempre di più.
Il primo passo in questa direzione consiste nel riconoscere e nel consegnare al Signore la nostra piccolezza e la nostra miseria. Solo in questo modo, quando cioè ci consegniamo a Lui spogli di qualsiasi autogiustificazione, il Signore ci viene incontro con la sua misericordia e ci fa sperimentare il suo amore di Padre, un amore a tutta prova, un amore paziente, che desidera il nostro bene e che – anche di fronte alle nostre infedeltà – sa attendere che noi ci rivolgiamo nuovamente a Lui(cf. Es 34,6; Sal 145,8).
Della citazione di san Paolo, che parla di diverse prerogative di Dio: la bontà, la tolleranza e la pazienza o magnanimità, Benedetto ha ritenuto solo quella della pazienza o magnanimità. È quest’ultima, infatti, che dovrebbe spingerci a ricambiare l’amore fedele di Dio con una vita improntata al Vangelo. Anche l’apostolo Pietro parla, come Paolo, della magnanimità (macrothumía) che Dio mette in campo affinché tutti “abbiano modo di pentirsi” (2Pt 3,9). Anzi, come afferma ancora l’apostolo Pietro, la magnanimità del Signore è già da considerare come salvezza (cf. 2Pt 3,15).
b. “8Destiamoci dunque una buona volta, come ci sollecita la Scrittura: È ormai tempo di svegliarsi dal sonno” (Rm 13,11). 9Aperti gli occhi alla luce irradiata da Dio, con orecchi tesi per lo stupore ascoltiamo che cosa ogni giorno grida a noi la voce di Dio ammonendoci: 10Oggi se udrete la sua voce, non indurite il vostro cuore. 11E ancora: Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti quello che lo Spirito dice alle Chiese. 12E che cosa dice? Venite, figli, ascoltatemi: v’insegnerò il timore del Signore. 13Correte finché avete la luce della vita, per non essere sopraffatti dalle tenebre della morte” (RB, Prol. 8-13).
Nella Lettera ai Romani la citazione qui utilizzata da Benedetto segue immediatamente le affermazioni dell’apostolo che “l’amore non fa alcun male al prossimo” e che “pieno compimento (pléroma) della legge è l’amore” (Rm 13,10). Con tali affermazioni Paolo voleva indicare con chiarezza che per evitare qualsiasi forma di male, l’unico mezzo efficace è l’amore. Su questo sfondo l’apostolo soggiunge che è “ormai tempo (kairón) di svegliarsi dal sonno”. Infatti, il Cristo, luce del mondo, ha ormai fatto breccia nelle tenebre del mondo e ha riempito quest’ultimo della presenza dell’amore di Dio che salva.
I credenti devono essere consapevoli della prossimità operante di questa salvezza e apportarvi il loro contributo d’amore. Questo si manifesta soprattutto nell’obbedienza al disegno d’amore che Dio ha per l’umanità, obbedienza che si declina attraverso alcuni atteggiamenti che qui il monaco è esortato a far suoi e che riguardano la vista, l’udito, lo stupore:
1.       la vista = occorre tenere ben spalancati gli occhi del cuore affinché sappiano scorgere la luce divina, ossia la presenza di Dio nella vita del mondo;
2.       l’udito = bisogna ascoltare che cosa ci dice Dio. Il fatto che Egli ci ammonisca gridando non solo pone l’accento sull’importanza di quel che vuole comunicarci, ma sembra voler rimuovere anche ogni pretesto di non aver udito bene; 
3.       lo stupore = è l’atteggiamento tipico di chi si lascia raggiungere e scuotere da ciò che ascolta e si lascia da esso affascinare e attrarre.

E che cosa ci grida Dio?
a. di rifuggire con determinazione e sollecitudine (“oggi”) la “sclerocardia”, l’indurimento del cuore (cf. Sal 94,8);
b. di affidarci a ciò che ci suggerisce lo Spirito, il quale ci insegna il “timore del Signore” (cf. Sal 33,12);
c. di correre nella luce (della vita) per non essere sopraffatti dalle tenebre (della morte) (cf. Gv 12,35). E la corsa che il monaco intraprende, ossia la sua alacre ricerca di Dio, è una corsa o un’ascesa che non si arresta mai “perché – scrive san Gregorio di Nissa – riprende da un inizio dopo l’altro, e l’inizio delle realtà che si fanno sempre più grandi non si conclude mai. Poiché il desiderio di chi ascende non si ferma mai alle realtà che sono conosciute, ma l’anima sale successivamente, spinta da un desiderio più grande, ad un altro più grande ancora, e continuamente procede verso l’infinito attraversando realtà sempre più elevate (1).

3. Umiltà
“Signore chi abiterà nella tua tenda, chi dimorerà sul tuo suo santo monte? (Sal 14,1) (…) 29coloro che, temendo il Signore, non diventano superbi per la propria buona osservanza, ma anche il bene che riconoscono in sé lo ritengono dovuto al Signore, non a proprio merito, 30e per questo magnificano il Signore che opera in loro, dicendo con il Profeta: Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria. 31Allo stesso modo l’apostolo Paolo non si attribuiva alcun merito della sua predicazione, e dichiarava: Per grazia di Dio sono quello che sono (1Cor 15,10), 32e ancora: Chi si vanta si vanti nel Signore (1Cor 1,31 e 2Cor 10,17 – cf. Ger 9,22-23)” (RB, Prol. 29,32).
Facendo leva sulle due profonde affermazioni di Paolo, Benedetto non fa altro che esortare all’umiltà. Questa attitudine interiore si fonda in primo luogo sul riconoscimento della propria creaturalità, la cui intrinseca fragilità ci impedisce di ergerci a gestori assoluti della nostra esistenza. In secondo luogo, l’umiltà deve connotare la nostra vita cristiana in quanto tale perché al fondo di ogni buona testimonianza e di ogni traguardo raggiunto c’è la grazia divina che opera in noi.
Oltre che motivo di profonda gratitudine, è molto bello e pacificante poter dire: “Per grazia di Dio sono quello che sono!”, senza aggiungere altro e senza tentare di misurare l’intensità della nostra sequela sulla base delle nostre abilità, ma semplicemente affidandoci a Lui e fidandoci di Lui!
La citazione: “Chi si vanti, si vanti nel Signore” (1Cor 1,31; cf. 2Cor 10,17-18), ripresa dal profeta Geremia e usata da Paolo a chiusura della sua argomentazione sullo stile di vita della comunità cristiana, è anch’essa un invito a non presumere di se stessi e delle proprie forze. L’unica ragione di vanto proviene dall’adesione a Dio che ci chiama, ci sceglie e ci innesta in Colui che è nostra sapienza, giustizia, santificazione e redenzione, Cristo Gesù. Val la pena rileggere le parole di Paolo:
“26Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. 27Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, 28Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, 29perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio. 30Ed è per lui che voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione, 31perché, come sta scritto: Chi si vanta si vanti nel Signore” (1Cor 1,26-31).

4. Il dono gioioso di sé
“I discepoli devono obbedire con animo lieto perché Dio ama chi dona con gioia (2Cor 9,7)” (RB 5,16).
Benché il monaco sia chiamato a fare della propria vita un dono spontaneo al Signore e ai fratelli, tuttavia tale dono deve appoggiarsi su un’intimità profonda con il Signore, dalla quale ci proviene la forza di abbracciare concretamente quanti ci stanno intorno. Per il monaco il primo e naturale confronto in questo senso si svolge all’interno del cenobio nel quale egli vive, ed è in questo preciso contesto che egli è chiamato a dare il meglio di sé in modo responsabile e gioioso, conscio che Dio ama chi dona con gioia!

5. Fedeltà al servizio
“Vigili sulla propria anima, sempre memore dell’insegnamento dell’Apostolo: Chi  presta bene il suo servizio si acquista un buon posto (1Tm 3,13)” (RB 31,8).
Questo invito, che Benedetto rivolge al cellerario del monastero, può essere considerato in senso lato come un’esortazione alla perseveranza e alla fedeltà alla propria vocazione, così come essa si declina nei compiti, nelle attività e nei servizi che ci sono richiesti nella vita di tutti i giorni. In altre parole, il servizio reso al Signore nella risposta alla sua chiamata va coniugato con l’obbedienza alla vita quotidiana, qualunque sia il suo contesto personale o comunitario, familiare, professionale, lavorativo, sociale, ecclesiale. Quello è il luogo nel quale, soprattutto, il Signore ci chiama ogni giorno a collaborare con Lui alla crescita del suo Regno sulla terra, nell’attesa di poter essere giudicati degni di partecipare al suo Regno imperituro.

II. La sfera comunitaria

1. “Una cosa sola”
“Siamo tutti una cosa sola in Cristo (Gal 3,28) e siamo tutti sottoposti ai medesimi obblighi di servizio sotto un unico Signore, perché presso Dio non c’è distinzione di persone (Rm 2,11; Ef 6,9)” (RB 2,20).
In Cristo Gesù, nella sua morte e risurrezione, siamo divenuti una cosa sola. Il battesimo ha ratificato questa unità di fondo e quella comunione che i cristiani godono con Cristo e che, in Lui, fa di essi un “cuor solo e un’anima sola”. Siamo tutti al servizio di un unico Signore e tutti siamo chiamati a testimoniarlo nello stato di vita che ci è proprio. E se il Signore non fa preferenze di persone ciò è dovuto al fatto che – ed è questa l’argomentazione principale di Paolo – tutti gli uomini sono peccatori e hanno bisogno indistintamente della salvezza che proviene da Lui. In tal senso Dio non fa distinzione, perché sa che tutti siamo bisognosi del suo perdono che salva. 

2. Singolarità e unità
“Ciascuno riceve da Dio un suo proprio dono, chi in un modo chi in un altro (1Cor 7,7)” (RB 40,1).
Il contesto nel quale Benedetto utilizza questa citazione paolina è, all’apparenza, molto banale, in quanto riguarda la misura del bere. Di primo acchito ci potrà dunque sembrare un po’ esagerato che il santo patriarca vada a scomodare l’Apostolo per un simile argomento. Eppure, ricorrendo all’autorità di Paolo, Benedetto sembra volere andare oltre il semplice caso in questione e alludere a qualcosa di molto importante e che ha la validità di una norma generale. Si tratta del riconoscimento che l’unità è una realtà al “plurale” e che dev’essere perseguita e conservata nella consapevolezza delle diversità che la compongono. Senza l’ammissione di questa pluralità una comunità, nella fattispecie la comunità monastica, potrebbe anche apparire uniforme, ma non necessariamente unita. Da buon esperto in umanità, san Benedetto sa quanto sia importante fare sintesi delle individualità facendole convergere non verso una piatta uniformità e una grigia omologazione, ma verso un’unità diversificata che contribuisca all’arricchimento umano e spirituale della comunità e alla sua edificazione. 

3. La comunità come scuola di carità
a. “Quando sopraggiunge un anziano, il giovane si alzi cedendogli il posto a sedere, e il giovane non si permetta di sedergli accanto se l’anziano non glielo comanda: in tal modo si realizzerà quello che è scritto: facendo a gara nel farvi reciprocamente onore (Rm 12,10)” (RB 63,16-17).
“Questo zelo appunto coltivino incessantemente i monaci con ferventissimo amore. “Eccone i modi: si prevengano l’un l’altro nel rendersi reciprocamente amore (Rm 12,10)” (RB 72,4).
Mentre in RB 63 il contesto nel quale Benedetto utilizza l’esortazione paolina a rendersi onore gli uni gli altri è un contesto normativo che riguarda l’ordine della comunità e le precedenze che in essa si devono rispettare in base all’ingresso in monastero o ai meriti della vita e alla decisione dell’abate (RB 63,1), in RB 72 lo sfondo è l’amore reciproco che deve soggiacere ad ogni relazione interpersonale, a qualsiasi livello. Dunque, pur non venendo meno all’onore da rendersi reciprocamente in base a un ordine di precedenza, in RB 72 Benedetto va oltre questa semplice distinzione per mettere al centro dell’attenzione lo “zelo buono” che i monaci sono chiamati a coltivare con “ferventissimo amore”. Quando tutto è sorretto dall’amore, allora verrà spontaneo gareggiare nel prevenirsi l’un l’altro, e l’onore che si farà all’altro non sarà semplicemente dettato da una normativa, ma dall’inesauribile sorgente dell’amore stesso.
b. Questo amore deve continuare ad ardere non solo nei casi in cui qualche fratello dovesse comportarsi in dissonanza con i principi della carità e della comunione, ma anche nei casi di scomunica. Parlando dei “senpectae”, cioè dei saggi fratelli anziani che intervengono con discrezione e riservatezza per sostenere il fratello che ha peccato o che è stato scomunicato, Benedetto ricorre a due citazioni paoline prese rispettivamente dalla prima e dalla seconda lettera ai Corinzi:
“Essi gli devono dare conforto perché non sia sopraffatto da un’eccessiva tristezza (2Cor 2,7): come dice ancora l’apostolo, si rafforzi la carità a suo riguardo (2Cor 2,8), e tutti preghino per lui” (RB 27,4).
L’invito a far sì che il fratello non sia sopraffatto da un’eccessiva tristezza è certamente dettato dalla carità cristiana – come Benedetto ribadisce subito dopo – ma nasce anche dalla convinzione che il cuore di un monaco è fatto per vivere nella gioia della sequela. La tristezza dovuta alle difficoltà che si incontrano sul proprio cammino non deve portare allo scoraggiamento o, peggio ancora, alla disperazione. La carta vincente, che i fratelli devono utilizzare tra di loro, è sempre quella della carità; carità che va appunto rafforzata anche nei confronti di coloro il cui cammino è segnato da lentezze o difficoltà.

4. La forza della pazienza
a. Al termine del IV gradino di umiltà, quello dell’obbedienza eroica di fronte alle cose dure e contrarianti e ai torti di ogni genere (cf. RB 7,35), Benedetto conclude dicendo:
“Costoro mettono in pratica il comandamento del Signore con la loro pazienza in mezzo alle avversità e agli insulti: percossi su una guancia, porgono l’altra, a chi porta via loro la tunica, lasciano anche il mantello, costretti a camminare per un miglio, vanno per due, e con l’apostolo Paolo sopportano i falsi fratelli e benedicono chi li insulta (cf. 2Cor 11,26)” (RB 7,42-43).
Che l’amore debba continuare ad ardere anche e soprattutto di fronte alle idiosincrasie del fratello, ci è confermato da un altro passo della Regola nel quale san Benedetto ci invita ad associarci a quelle forme propriamente “cristiche”, forme di vita, cioè, che Gesù stesso ci ha lasciato come esempio da seguire. Per il monaco, come per il credente in genere, la pazienza non è motivo di apprezzamento solamente per la sopportazione stoica di cui dà prova di fronte alle avversità, ma anche e soprattutto perché attraverso la pazienza si è introdotti alla partecipazione del mistero di Cristo: «Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza” (Rm 5,3a-4), che è Cristo stesso.

RB, Prologo 50 – cf. Rm 8,17:
b. “In tal modo, non scostandoci mai dal suo insegnamento, saremo perseveranti nel monastero fino alla morte nell’impegno di conformarci alla sua dottrina, e parteciperemo con la “pazienza” da parte nostra ai patimenti di Cristo, per diventare degni di essere partecipi anche del suo regno (cf. Rm 8,17 (2) (RB, Prol. 50).
Se la pazienza deve accompagnare la vita del credente in conformità alla vita del Signore Gesù, il monaco si fa particolarmente attento a sondare le infinite possibilità che le circostanze della vita gli offrono in tal senso. L’esistenza monastica si configura, infatti, come partecipazione al mistero pasquale di Cristo che offre quotidianamente al monaco la possibilità di contribuire alla crescita del Regno di Dio, nella consapevolezza che tale crescita è segnata dalla fecondità della croce. Lì già riluce la forza rinnovatrice della Pasqua.
——————————————————————————–

(1) Gregorio di Nissa, Omelie sul Cantico dei Cantici 8.
(2)  L’allusione più diretta è a 1Pt 4,13.

Omelia (02-12-2010) : Fede e opere

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/20798.html

Omelia (02-12-2010) 
Monaci Benedettini Silvestrini

Fede e opere

La fiducia piena nei piani meravigliosi di Dio apre il cuore e la lingua al canto di vittoria. E’ quanto ci propone Isaia nella prima lettura. Un duro contrasto contrassegna questo brano, del resto non insolito: Dinanzi alla città forte, situata sulla roccia, ci viene mostrata la devastazione di una città che sembrava intramontabile, l’orgogliosa Babilonia, rasa al suolo calpestata, dai piedi di quanti essa teneva oppressi e ridotti in povertà. Ancora una volta viene dimostrata la verità della inconsistenza delle realtà umane se non sono fondate in Dio, l’unico eterno. Ogni impero o personaggio giunto al potere tirannico nella sua prepotenza e tracotanza dava e dà l’impressione di essere eterno. Ma si sa che ogni realtà umana vive la sua parabola di ascesa e di declino. Tanto che si può esclamare con la scrittura, con animo quasi incredulo ed ammirato: Come mai anche tu sei caduto, tu che credevi di scalare il cielo? Non sarebbe inopportuno richiamare qualche vicenda dei nostri tempi a livello mondiale, come a livello nazionale o personale. L’uomo come tutte le realtà umane, dovrebbero imparare a vivere la propria caducità, precarietà e relatività. Il brano del vangelo ci richiama a esprimere la propria fede non tanto con la bocca, quanto con la vita vissuta nella fedeltà alla parola di Dio. Solo chi compie la volontà del Signore potrà raggiungere il regno di Dio. Non basta dire: « Signore, Signore » ma occorre far seguire le opere. Nelle parole del Signore ci è concesso di scoprire la causa di tanti fallimenti nella vita individuale, familiare, di gruppi ecclesiali. La casa costruita sulla sabbia, vale a dire sui soli valori umani, non ha consistenza, non riesce a superare le difficoltà che dovrà affrontare. Chi manca di fede nelle realtà dello spirito, si trova indifeso dinanzi alle tante situazioni che la società crea senza fornire, i mezzi per viverle e superarle… Che dire poi delle difficoltà della vita di coppia, del pericolo che ciascuno corre di lasciarsi dominare dall’egoismo e di pretendere di usare l’altro/a da dominatore anziché accoglierlo/la come compagno/a di vita, nella parità di diritti e di doveri? Chiediamo oggi perché possiamo essere utili gli uni per gli altri, anzi di saper portare i pesi gli uni degli altri e aiutarsi reciprocamente nella via del Signore, nella gioiosa attesa del Suo giorno. 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 2 décembre, 2010 |Pas de commentaires »
1...1415161718

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01