Archive pour décembre, 2010

Omelia per il 13 dicembre 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/16858.html

Omelia (14-12-2009) 
Monaci Benedettini Silvestrini

Con quale autorità…

La gente umile, dal cuore semplice, si accorge immediatamente che il parlare di Cristo è diverso da quello degli scribi e dei farisei: «Rimanevano colpiti – dice l’evangelista – dal suo insegnamento, perché parlava con autorità e non come i loro scribi». Non era perciò necessario interrogare Cristo come fanno i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo, sarebbe stato sufficiente aprire mente e cuore per comprendere l’autenticità e la novità del suo messaggio. L’evangelista Marco ci riferisce ad ulteriore conferma che «il Signore operava insieme con loro (con gli apostoli) e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano». Tutta la vita di Cristo è una splendida ed inequivocabile conferma della divina autorità che egli esercita per illuminare i cuori e redimere l’uomo dal peccato. È una autorità umano divina, che menava dalla sua persona, dalle sue parole e dalle sue opere. Un saggio proverbio popolare afferma però che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Ci si turano le orecchie quando in chi parla vediamo un avversario o una persona che apertamente svela i nostri cattivi comportamenti e ci mette in crisi. Si turano orecchie, cuore e mente a chi vede insidiata la propria egemonia o compromesso il proprio potere; anche a chi, pur ammettendo la verità, non ha il coraggio di conformare la propria vita agli insegnamenti che gli vengono proposti si turano i sensi dell’anima. Ciò accade anche ai nostri giorni: esistono ancora i contestatori di mestiere, esistono ancora i sordi cronici ed inguaribili, che hanno sempre una verità diversa da proporre purché sia contraria a quella che viene proclamata. Se ciò è grave nei confronti degli uomini diventa peccaminoso nei confronti di Cristo. Egli incarna la verità, è la Verità. È la luce del mondo che illumina ogni uomo. Non dovrebbe più accadere che gli uomini, noi, preferiamo le tenebre alla Luce. Potremmo far trascorrere invano un altro Natale! 

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Sant’Isaia profeta

Sant'Isaia profeta dans immagini sacre

http://www.santiebeati.it/

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Salmo 48 (Divo Barsotti)

dal sito:

http://www.figlididio.it/salmi/48.html

Salmo 48

(Divo Barsotti)

Grande è il Signore e degno di ogni lode
nella città del nostro Dio.
Il suo monte santo, altura stupenda,
è la gioia di tutta la terra.
Il monte Sion, dimora divina,
è la città del grande Sovrano.
Dio nei suoi baluardi
è apparso fortezza inespugnabile.
 
Ecco, i re si sono alleati,
sono avanzati insieme.
Essi hanno visto:
attoniti e presi dal panico,
sono fuggiti.
Là sgomento li ha colti,
doglie come di partoriente,
simile al vento orientale
che squarcia le navi di Tarsis.
 
Come avevamo udito, così abbiamo visto
nella città del Signore degli eserciti,
nella città del nostro Dio;
Dio l’ha fondata per sempre.
Ricordiamo, Dio, la tua misericordia
dentro il tuo tempio.
Come il tuo nome, o Dio,
così la tua lode si estende
sino ai confini della terra;
è piena di giustizia la tua destra.
Gioisca il monte di Sion,
esultino le città di Giuda
a motivo dei tuoi giudizi.
 
Circondate Sion, giratele intorno,
contate le sue torri.
Osservate i suoi baluardi,
passate in rassegna le sue fortezze,
per narrare alla generazione futura:
Questo è il Signore, nostro Dio
in eterno, sempre:
egli è colui che ci guida.  
Gerusalemme

L’occasione del salmo è difficile determinarla, o almeno non sono concordi i critici, tuttavia più probabile sembra che sia un canto di allegrezza e di ringraziamento a Dio per la disfatta di Sennacherib al tempo di Isaia. Tanti versi vi sono nella Sacra Scrittura che esaltano la vittoria di Dio su un esercito sterminato che aveva già assediato la città e dovette in una notte sgombrare l’accampamento per rifuggirsene lontano donde era venuto: era stata la peste, era stata una sommossa di palazzo, che aveva richiamato immediatamente il re nella sua sede. Israele comunque non vide in questa precipitosa fuga che la vittoria stessa del suo Dio. Dio si era dimostrano veramente il più grande degli dei, il più potente, Dio veramente si era dimostrato Colui solo che salva.
Nella liberazione del popolo di Israele dall’Egitto, Dio salva soltanto il suo popolo, un popolo che ancora cerca una sua terra, un popolo ancora nomade che deve attraversare il deserto e conquistarsi un suo regno. Ora la salvezza di Dio coincide con la salvezza di una città: Israele non è più saltano un popolo in marcia, è una nazione, è un popolo che si è radicato in una terra. Israele è un popolo che si è donato delle leggi, è un popolo che ha una sua città: la salvezza ora di Dio non riguarda più solo le singole persone, non riguarda soltanto un popolo, riguarda anche le istituzioni che esso si è dato, riguarda la gloria che egli si è conquistata, riguarda la civiltà che egli ha raggiunto. Dio salva la città! Nel Salterio quanti sono i salmi che cantano Gerusalemme! È uno dei temi fondamentali di tutta la Bibbia, il tema della città, ma certo questo tema non viene mai cantato con tanto lirismo come nei Salmi: nei Salmi è tutto quanto un popolo che si sente veramente popolo di Dio, in quanto tutto e raccolto, tutto è stato fatto uno, non soltanto attraverso una legge cui tutto lo governa, ma attraverso una città che tutto lo accoglie e lo unisce. La città di Dio è la Santa Montagna! Certo Gerusalemme è costruita su di una montagna, ma questa identificazione della città con la montagna sembra voler dire qualcosa di più. Non è soltanto un’espressione, un richiamo geografico, un richiamo piuttosto alla concezione della religione primitiva che Israele ha in qualche modo assunto, anche se la rivelazione che ha ricevuto importa per Israele un progresso dell’antica concezione religiosa degli uomini. La Montagna Sacra, il punto centrale del mondo: ecco che cos’è Gerusalemme. Il luogo più alto della terra, quel luogo, come diranno poi i rabbini, dove si fermò l’arca di Noè, il luogo che non fu mai sommerso dal diluvio; quel luogo su cui può discendere Iddio parche è il più vicino al cielo, quel luogo ove gli uomini possono parlare a Dio, luogo in cui la loro parola può giungere più facilmente su nelle altezze.
Gerusalemme, vertice del mondo, centro della vita universale! Così la contempla già il salmista. Gerusalemme, montagna sacra a cui convergeranno tutti i popoli, tutte le nazioni per ricever la legge! Come la canterà Isaia. Qua non è tanto considerato questo assoggettarsi di tutte le nazioni a Israele, alla Santa Città di Gerusalemme, quanto piuttosto è cantata l’invulnerabilità di lei: sull’alta montagna, come non è giunta l’acqua del diluvio a sommergerla, così non può giungere l’offesa dei nemici. Né la marea delle acque né la marea degli uomini possono distruggere la Santa Città, ella sovrasta a tutte le insidie nemiche: « Le porte dell’Inferno non prevarranno contro di essa », per usare l’espressione che poi sarà propria dei Vangeli sinottici a proposito della Chiesa che è la nuova Gerusalemme a proposito di quella Chiesa che subentra all’antica Gerusalemme disfatta, o prossima ad esser di nuovo distrutta dall’Impero Romano.
« Grande è il Signore »: si noti, il salmista celebra la città di Gerusalemme, ma questa celebrazione ridonda immediatamente in una lode di Dio, Perchè? Perché Dio stesso non si manifesta che in essa, essa è la manifestazione visibile, più alta, più piena della potenza e della forza di Dio, dalla bellezza e della grandezza del Suo Nome, Dio non si rivela direttamente agli uomini, Dio non si manifesta immediatamente agli uomini, ma come si è rivelato nella salvezza un giorno ad Israele così ora si rivela nella costruzione della Santa Città invulnerabile ai nemici e nella bellezza della santa Città. Si parla della bellezza di Gerusalemme perchè creata da Dio, o della unità che stringe tutto il popolo nella Santa Città, perchè anche questa unità è frutto di una divina presenza. Non si può dire certo come per la Chiesa cattolica, come per questa nuova città creata da Dio, che l’unità di Israele sia la presenza stessa di Dio, ma è la presenza di Dio che fa l’unità di Israele. L’unità della Chiesa è lo Spirito Divino, anima di tutta la Chiesa, Egli unisce tutte le membra in un solo Mistico Corpo, una_ sola mistica città, dona a questa umanità nuova una unità che supera tutte le unità; l’unità della Chiesa infatti è l’unità in qualche modo di Dio, che ne è l’anima, che ne è il principio di vita. Questo non si può dire per Israele perchè lo Spirito Santo, come dirà poi Gesù nel IV Vangelo, o piuttosto come dirà S. Giovanni, non è stato ancora dato e tuttavia Dio è presente in Gerusalemme. Ed è questa presenza che attira a Dio Israele, che lo plasma in una sola compagine, che lo unisce tutto in una sola nazione, in un solo popolo, che fa di questa città una città tutta compatta come dico il salmo 121. La grandezza della città dunque dice la grandezza di Dio, la sua bellezza rivela Dio, Dio si rivela attraverso l’opera che Egli ha compiuto, in quello che Egli compie, in quello che Egli fa.
Santità, bellezza, fortezza, ecco gli attributi di Gerusalemme: la santità perchè Dio vi è presente, vi è il suo tempio; bellezza questo ergersi del monte, solitario su tutto l’universo, questa bellezza nei suoi torrioni, nelle mura che circondano il monte, questa forza che la rende invulnerabile, che rende impossibile una sua disfatta. « Monte Sion, città del grande sovrano ». Il grande sovrano non è più Sennacherib come lo chiamano gli assiri, il Gran Sovrano è Dio stesso: Gerusalemme non conosce altri re, vi è soltanto un rappresentante del Grande Monarca. In Gerusalemme vive veramente il Signore.
Dopo una celebrazione così generale di Gerusalemme, il salmista dimostra come si. è manifestata la potenza di Dio. I nemici si erano tutti coalizzati contro di lei, contro Gerusalemme. Si erano mossi contro gli estremi confini della terra, tutti per assalirla, tutti per sommergerla: è bastato che l’abbiano vista per rimanerne colpiti, per essere come infranti, spezzati nella loro volontà, costernati; per essere presi come dalle doglie di una partoriente. Dio quale uragano, come l’uragano fa con le navi sul mare, così ha sfracellato questi popoli con un solo atto della sua volontà. La poesia qui raggiunge un lirismo di una grandezza anche classica che non ha confronti, direi, se non pochi, in tutta la letteratura ebraica e in tutta la letteratura universale. L’assalto dei re si spezza, si dissipa come una nube allo splendore di Sion. La rappresentazione drammatica di questa disfatta di eserciti innumerevoli, si chiude in una immagine possente: basta che Dio si mostri, per sconfiggere i suoi nemici. « Simile al vento orientale che squarcia le navi di Tarsis »: non è una battaglia navale, è un’immagine; un vento tempestoso nel mare, e le piccole barche di allora, ma anche le navi di Tarsis potevano essere solo delle piccole navi, sballottate dalle onde, sfracellate dall’uragano! Si ripete per Israele la salvezza di Dio: Dio è presente in Israele per operare, continua la salvezza che operò agli inizi.
Come l’esperienza del cristianesimo è la presenza del mistero di Cristo (nella Messa ogni giorno tu non vivi altro che questa presenza e l’atto della Redenzione) così per Israele, la sua storia non è che l’esperienza della vittoria, la salvezza sui nemici. Ecco perchè ora la disfatta di Sennacherib ripete la disfatta del Faraone; ecco perchè si parla di navi e di mare: il richiamo del mare unisce la disfatta presente alla disfatta antica dell’esercito del Faraone sommerso nel Mar Rosso.
« Come avevamo udito, così abbiamo visto »: non è più semplice fede in un fatto passato: è un’esperienza presente di una stessa salvezza. Dio è la difesa d’Israele, Dio è la salvezza del popolo suo, « nella città del nostro Dio ».
« Come avevamo udito, così abbiamo visto ». La salvezza di Dio le rende vanto in eterno. Dopo aver contemplato la disfatta di Sennacherib ecco ora tutto il popolo riunito nel Tempio canta la lode di Dio. Dio si è manifestato potente fino all’estremità della terra, perchè tutta quanta la terra è stata sottoposta al suo Impero; nella disfatta di Sennacherib tutte le nazioni sono state sconfitte, non rimane vincitrice che Gerusalemme, non rimane vittorioso che Dio che ne ha il suo regno. Voi capite come è facile la trasposizione da un’esegesi letterale a un’esegesi spirituale ed escatologica! Tutto il popolo canta dunque la lode di Dio, e la lode di Dio e grande come il suo nome; il suo nome si e sparso su tutta la terra, il terrore ha invaso tutti i popoli, e il terrore dei popoli di fronte a Gerusalemme s’innalza al cielo come lode alla divina potenza, come lode alla forza vincitrice di Dio.
Questa è la lode: non più una liturgia che sale soltanto nel Tempio, anche la guerra, la disfatta è una liturgia perchè manifesta la divina potenza. Dopo l’introduzione alla seconda parto dell’inno, allora il salmista chiama il popolo d’Israele a contemplare la bellezza di Gerusalemme, cioè, come dicevo prima, la sua invulnerabilità: Andate intorno, guardate! I nemici non l’hanno nemmeno toccata, non vi è breccia nelle sue mura. Quello che possono faro gli uomini contro la città di Dio si esprime nell’orgoglio d’Israele che contempla la sua città, bella come prima, non toccata dalla mano del nemico. « Circondate Sion, giratele intorno, contate le sue torri. Osservate i suoi baluardi, passate in rassegna le sue fortezz… »: gli altri sono disfatti, gli altri sono tutti morti, ella ancora si eleva in alto, come prima. È la bellezza di questa Gerusalemme che rimane il canto e la lode di Dio.
Questo ci dice il salmo 48. È uno dei salmi che più facilmente possono avere una trasposizione in una esegesi spirituale. È chiaro qui, che la città non può rappresentare che la Chiesa per noi, ed è chiaro che come la Chiesa può esser sempre contemplata da noi come il miracolo della divina potenza, della bellezza divina. Dio ci manifesta nella vita della Chiesa la sua invulnerabilità. Ella si erge al di sopra delle nazioni, non combatte come Gerusalemme nelle parole di questo salmo, ma basta che gli altri la vedano per esserne disfatti; la sua stessa presenza sgomina ogni nemico. Intatta si eleva come miracolo permanente e segno di una divina presenza.
Una trasposizione, direi più fedele, si ha se noi leggiamo questo salmo in una prospettiva escatologica: la disfatta di Sennacherib è la disfatta di tutti i nemici di Dio al termine dei giorni. Il Paradiso rimane, e di fronte al paradiso la morte, la fine di ogni potenza che abbia voluto in qualche modo contrastare la vittoria del Regno! Gerusalemme sola s’innalza come monte, come vertice di tutte le montagne ed è salda e combatte non toccata da mano nemica. Piena di una divina presenza, salda perchè consacrata da questa stessa presenza, ella non è che l’amore eterno di Colui che l’ha creata, l’ha salvata ed ora la illumina tutta, ed ora la riempie della sua gloria. Come comprendiamo che la Chiesa voglia che noi preghiamo il Signore coi salmi! Come ci rendiamo conto che questi antichi inni possano avere un significato cristiano sulle nostre labbra! Dall’inizio alla fine Dio non compie che l’opera sua: l’accenna prima, la compie poi, la manifesta in ultimo, in tutta la sua grandezza a colui che ha creduto e gli è rimasto fedele.

LA NOZIONE BIBLICA DELLA LUCE

dal sito:

http://www.gregoriopalamas.it/la_nozione_biblica_della_luce.htm

LA NOZIONE BIBLICA DELLA LUCE

La Chiesa d’Oriente si è legata in modo del tutto particolare a questo tema mettendo insieme un tesoro immenso proprio riguardo al tema della luce interiore – vita illuminativa – dell’esperienza mistica.

Tradizione liturgica

La seconda settimana della Grande Quaresima porta il titolo, appunto, di settimana della Luce e, in consonanza con questo nome, la Chiesa prega il Signore di « far risplendere la santificazione ». Così il tempo di quaresima, nel suo intento ascetico, ricco in modo del tutto particolare di insegnamento liturgico, si volge decisamente verso il fine stesso della vita che è indicato proprio in termini di luce. Il testo che si legge alla domenica, tratto dalla prima lettera di san Pietro, prepara già all’iniziazione:
E fu rivelato ai profeti che non per se stessi, ma per voi, erano ministri di quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo nello Spirito Santo mandato dal cielo: cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo (1Pt 1,12).
Ma, come recita un’antica preghiera liturgica, davanti a questo mistero, gli angeli « colti dal più profondo stupore si velano il volto ».
Nel corso della liturgia si ascolta l’invocazione del celebrante: « fa’ risplendere il tuo volto su quelli che si preparano alla santa illuminazione, rischiara il loro spirito ». Questo testo rimanda ai primi tempi della Chiesa in cui il battesimo, si chiamava: « sacramento dell’illuminazione » e i nuovi venuti alla fede portavano il nome di « illuminati ».
Se un tempo eravate tenebra ora siete luce nel Signore (Ef 5, 8).
Nel Battesimo l’uomo si fa adottare dal Padre, il Figlio prende il posto dell’uomo affinché l’uomo prenda il posto del Figlio e così venga illuminato, introdotto cioè nella Luce della comunione del Padre e del Figlio, veramente « figlio della luce ». Se la prima settimana di Quaresima è consacrata al « trionfo dell’ortodossia », la seconda – detta della Luce – non fa che esplicitare l’essenza di questo trionfo e canta la grande esperienza ortodossa della Luce divina. Nelle celebrazioni si commemorano i Dottori della Chiesa che parlano di questa Luce: il più grande tra loro è il vescovo di Tessalonica, san Gregorio Palamas. Il Sinassario lo indica come « il luminoso dottore della Grande Luce ».

La dottrina di san Gregorio Palamas
Nel suo Dialogo Théophanès, san Gregorio si sofferma sulla parola di san Pietro (2Pt 1, 4) che è una parola fondamentale per la spiritualità ortodossa in quanto indica nel modo più esatto il fine ultimo di ogni vita cristiana: perché diventaste per loro mezzo partecipi della natura divina, che la Tradizione preciserà nei termini di « partecipi della Luce divina ». È uno dei testi più paradossali contenuti nelle Scritture che, quando si cerca di attenuarne la portata paradossale, piomba in inestricabili difficoltà teologiche. San Gregorio lo percepisce in modo ammirabile quando fa notare:
La natura divina deve essere definita al contempo impartecipabile, totalmente inaccessibile e, in un certo senso, partecipabile. Bisogna che si affermino le due cose contemporaneamente e che si mantenga la loro antinomia come un criterio della pietà.
Il criterio non è logico ma il frutto dell’evidenza che sgorga dal testo biblico colto nel contesto dell’esperienza ecclesiale:
Dal momento che le due affermazioni sono vere si può affermare sia una cosa che l’altra; quanto al fatto che le affermazioni si contraddicano questo è il sentire di uomini completamente privi di intelligenza.
Difatti tutte le soluzioni logiche si rivelano false: essere partecipi della natura divina in un senso immediato equivarrebbe a diventare Dio, mentre l’essenza divina è radicalmente inaccessibile: unirsi a una delle Ipostasi è impossibile poiché l’Incarnazione di Cristo rimane un caso unico; unirsi ad una potenza creata da Dio (anche quando la si chiama grazia) non è certo la comunione con Dio stesso.
La questione non è per nulla astratta e sta invece al cuore della fede: la comunione tra Dio e l’uomo è reale oppure no? La Luce in quanto comunione è, in quanto tale, alla portata dello spirito umano? L’Ortodossia afferma la semplicità assoluta di Dio – all’interno della vita stessa di Dio non c’è alcuna separazione o divisione – ma riconosce la distinzione delle Tre Persone Divine e « la differenza dei modi d’esistenza » in sé e nel mondo. Dio è presente nel mondo per mezzo delle energie divine o della grazia. Queste energie non sono una particella dell’essenza divina ma, al contempo, non sono separate da essa. Dio vi è interamente presente e sono proprio queste energie ad essere conoscibili, accessibili e comunicabili all’uomo. Esse appartengono a tutte le Tre Persone e portano il nome di Sapienza, Gloria, Vita… Sono proprio queste energie a riempire il Tempio dell’Antico Testamento, è in esse che Dio si mostrava ai Giusti, si tratta della luce increata del Tabor ed è la grazia che deifica i santi della Chiesa. Così la comunione più reale non è né sostanziale né ipostatica ma « energetica ». Quando Cristo dice: noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui (Gv 14, 23) non è l’essenza di Dio che si sposta per venire verso l’uomo ma si tratta delle Tre Persone che attraverso le energie si fanno presenti nell’uomo.
Queste precisazioni offerte dal « dottore luminoso » chiariscono il frutto infinitamente prezioso dell’Espiazione che rappresenta il grado sommo della comunione tra Dio e l’uomo di cui parla san Pietro. Questa via di elevazione costituisce la stessa essenza della vita ecclesiale che l’Ortodossia, al punto più alto della sua teologia, definisce come « théosis/divinizzazione » e, in termini mistici, indica come « illumuiazione »: Dio discende apparendo nell’interiorità dell’uomo per illuminarvi tutto il suo essere. Si tratta del medesimo contenuto indicato dalla teologia biblica della Presenza o della Luce.

L’insegnamento patristico
L’insegnamento liturgico e patristico sin dagli inizi mette in rilievo il fatto che la Luce non si da alla sola comprensione né alla semplice contemplazione ma alla vita. Qui « la ragione non trova né parole né pensieri » (san Gregorio) e resta racchiusa nell’indicibile. In merito san Gregorio, commentando il testo di Platone secondo cui « lo stupore è l’inizio della sapienza », indica il solo atteggiamento corretto: « sperimentando la luce dentro di sé, l’intelligenza rimane stupita ».
Pur non essendo né sensibile né intelligibile, nondimeno la luce penetra tutto intero l’uomo illuminandone tutte le sue facoltà, ma non si offre nella sua realtà di grazia se non allo stato mistico e alla vista interiore. Questo stato non è per nulla un’esaltazione repentina e passeggera e, pur essendo inesprimibile in quanto esperienza, rimane comunque uno stato di partecipazione abituale: « la semplicità primitiva della conoscenza cristiana » (san Serafino) al di sopra di ogni forma e di ogni concetto. La luce si erge come principio stesso dell’esistenza e, misticamente, essa è ciò che si vede e ciò attraverso cui si vede: rappresenta l’organo della comunione e la sostanza della comunione.
Per opera della luce l’uno comincia ad esistere per l’altro, o ancora come dice san Simeone, essa è « il pane, la camera nuziale, lo sposo, l’amico, il fratello, il padre ». Apparentata alle operazioni dello Spirito Santo, la luce è la venuta della parusia nell’anima che la trasforma in questa venuta. Se gli angeli sono le « seconde luci » (phosphoros-Lucifer) poiché riflettono Dio e la sostanza del mondo spirituale di cui si nutrono, « gli apostoli superano gli stessi angeli poiché illuminano le potenze celesti » (san Gregorio). La scienza mistica introduce sperimentalmente in questa grande verità: non si è « seconda luce » perché si riflette la Luce, ma la si riflette perché si è « simili » e quindi si viene come trasmutati in luce. La trasfigurazione di Cristo ha fatto sgorgare la luce increata del Tabor, infatti si tratta non della trasfigurazione del Signore ma degli apostoli: « Attraverso la trasmutazione dei loro sensi, gli apostoli passano dal regime della carne a quello dello Spirito » (san Gregorio) e, per questo, contemplano la luce eterna della divinità senza il velo della kenosis. L’illuminato è colui che « è unito alla luce e, con la luce, vede in piena coscienza tutto ciò che rimane nascosto a quanti non hanno questa grazia » (san Gregorio).
Mosè scendendo dal Sinai è obbligato a coprire con un velo il suo volto raggiante. La comunione con Dio, infatti, lo segna della sua stessa luminosità e, mutando le apparenze materiali, indica come il senso nascosto della parola – Voi siete la luce del mondo (Mt 5, 14) o Risplenda la vostra luce davanti agli uomini (Mt 5, 16) – non è per nulla allegorico:
Dio è luce e quanti sono resi da lui degni di vederlo, lo vedono come Luce; coloro che lo hanno ricevuto, lo hanno ricevuto come Luce… che illumina… e trasforma in luce coloro che illumina (san Simeone).

La preghiera di Prima dice così:
O Cristo, Luce vera, che illumina e santifica ogni uomo che viene nel mondo: la luce del Tuo volto risplenda su di noi perché nella sua luce possiamo vedere la Luce inaccessibile.
La Théotokos liturgicamente porta il nome di « Madre della Luce », e l’Apocalisse ci fa contemplare l’immagine della donna vestita di sole. E san Giovanni dice: Saremo simili a lui perché lo vedremo così come egli è (1Gv 3, 2). E in quel giorno i giusti risplenderanno come scintille (Sap 3, 7).
Se l’ateismo non è altro che sordità spirituale esso allora è anche oscurantismo ostinato per cui si comprende come non è solo una metafora il modo di dire: « l’immagine di Dio si è oscurata nell’uomo ». L’immagine velata, l’icona annerita rappresenta l’eclisse della presenza di Dio e l’allentamento dei legami della comunione con lui. Questo è l’aspetto più toccante nella parabola delle vergini sagge e delle vergini stolte. Queste vergini sono in attesa della Storia e tengono in mano le lampade « ardenti di luce ». Il commento liturgico della parabola sottolinea che non si tratta della verginità: infatti alle stolte la verginità non serve a nulla. San Giovanni Crisostomo fa notare il gioco significativo della parola greca eleos: olio, ma anche carità. Un’antica icona segue questa tradizione raffigurando le vergini che portano tra le mani il loro cuore: la luce è quindi quella della comunione. Solo la luminosità dell’essere umano, la sua apertura alla comunione è capace di forzare la porta del Banchetto e spiega il senso evangelico della violenza che esige la ricerca del Regno di Dio. Solo la luce conquista la Luce e ciò avviene in modo reciproco come dice il grande asceta San Diadoco: « il fuoco della grazia penetra nel cuore e lo trasforma in luce ».
Da parte sua, san Giovanni Crisostomo, commentando le parole del Cantico dei cantici:
Forte come la morte è l’amore, le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore (Ct 8, 6),
afferma questa verità assai sconvolgente secondo cui Dio è presente nella stessa sostanza delle cose. Si tratta dello stesso gioco reciproco delle luci. In effetti, ogni amore umano sembra essere una risposta sempre inadeguata alla chiamata di Dio. Una capacità di presenza permette comunque di rimanere nel raggio della chiamata: essere attento, infatti, dipende dall’uomo. Pur essendo un essere senza più risorse, povero e nudo, nondimeno ha sempre qualcosa da dare. Questo perché l’Altro divino è implicato nella situazione dell’uomo. Cosicché, se l’atto emana dall’uomo, la sua fonte è ben più profonda. Il dono della vita che viene da Dio diventa dono di sé attraverso un’esistenza donata agli altri. La presenza di Dio in quanto « terzo » presente in ogni comunione fa scattare il movimento verso questo dono e, alla fine, vi è lo scoccare della luce, con la venuta dell’amato.

L’ascensione dei santi
Presso i mistici l’elevazione dell’anima è indicata dall’acquietarsi di ogni movimento, persino la preghiera cessa e l’anima si ritrova a pregare « al di fuori della preghiera ». Si tratta del grande silenzio che si crea nel momento in cui la luce scende nel cuore facendone la sua dimora: è 1′illuminazione interiore che è il frutto dell’approfondimento ultimo della grazia battesimale nella sua forma di grande luce apparsa presso il Giordano. L’antica tradizione della preghiera continua fa parte della stessa esperienza. Il nome di Gesù risuona incessantemente nell’anima e l’energia della presenza che, attraverso l’invocazione del nome si radica e si trasfonde nella persona che prega, tutto l’essere umano non fa che essere trasformato in questa presenza. L’ »esicasmo » viene definito quale metodo di silenzio e di interiorizzazione e si presenta come arte e scienza della luce. I « perfetti » attingono da questo insegnamento e « vengono istruiti nelle realtà divine non solo attraverso la parola ma – misteriosamente – attraverso la luce della parola ». Si tratta dello stato carismatico vissuto sotto il segno delle Spirito Santo che viene chiamato « portatore della Luce » e ancora « donatore della Luce ». San Macario precisa: « La luce è illuminazione attraverso la potenza dello Spirito Santo ». L’azione pneumatica si esprime sempre in termini di luce. San Gregorio Palamas aggiunge che tra le diverse forme di manifestazione dell’energia divina – che è una sola e raccoglie l’azione delle Tre Persone – indubbiamente quella della luce è centrale.
Ma la regola ascetica combatte fortissimamente contro ogni tentazione di visione ottica. La luce può materializzarsi, ma l’essenziale non è in questo, ma altrove e la sua visibilità non è che una fenomenologia possibile. Essere nella luce, infatti, significa essere in comunione e vedere dal di dentro le icone degli esseri e delle cose. L’ascetica pone una costante attenzione alla purezza di cui parla il Vangelo di san Matteo:
La lucerna del corpo è l’occhio, se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce (Mt 6, 22).
Svuotarsi della propria oscurità per farsi inondare dalla luce è la grandiosa lotta che si persegue per tutta la durata della vita e che prepara l’inabitazione di Dio. In questo cammino il pane amaro di ogni istante è la morte dell’uomo vecchio che è in noi. Vista dal basso della vita quotidiana si tratta di una tensione mai allentata, mentre, dal punto di vista dell’alto, è proprio la luce della Presenza.
L’occhio, quale lucerna del corpo, scopre la Comunione dei santi nel peccato; l’anima attraversa il Calvario e si eleva a quest’altra visione che la rende nuda di ogni giudizio: « Stendi sul peccato del tuo fratello il manto del tuo amore »; « la purezza del cuore consiste nell’amore verso i fratelli che cadono ». La comunione si amplifica! È come se l’uomo « cadesse in alto » per raggiungere così il livello del cuore divino. L’anima è sempre più avvolta dalla Presenza. Nella cella segreta dell’uomo interiore risuona la voce: « Sei diventata bella avvicinandoti alla mia Luce ». Nel cammino di santità si tratta di ben altra cosa che raccogliere informazioni su Dio: « La scienza diventa Luce ». Ecco un testo sublime di san Simeone:
Spesso vedevo la Luce. Talvolta mi appariva nella mia stessa interiorità… o meglio non mi appariva che da lontano… Così Tu, Invisibile… presente in ogni cosa, Tu scomparivi e Tu mi apparivi di giorno e di notte. Lentamente tu dissipavi la tenebra che era dentro di me… Infine, avendomi fatto quello che Tu volevi, Tu ti rivelasti alla mia anima ormai lustra, venendo a me, ancora invisibile. E improvvisamente Tu apparisti come un Sole. Oh, ineffabile condiscendenza divina.
L’anima trasformata in colomba di luce sale continuamente e ogni acquisizione non è che un punto di partenza, grazia su grazia. Il tempo sprofonda nell’eternità quando Dio viene nell’anima e l’anima emigra in Dio. Nel celebre dialogo di san Serafino di Sarov con Motovilov, abbiamo l’esatta descrizione di questa esperienza. Interrogato su quello che è lo stato di coloro che vivono nello Spirito, san Serafino così risponde al suo interlocutore:
– Amico di Dio, siamo entrambi nella pienezza, dello Spirito Santo. Perché non mi guardi?
– Non posso, Padre. Dei lampi brillano nei suoi occhi, il suo volto è diventato più luminoso del sole. Mi fanno male gli occhi.
– Non avere paura, amico di Dio; anche tu sei diventato luminoso come me. Anche tu adesso sei nella pienezza dello Spirito Santo, altrimenti non avresti potuto vedermi.
– A queste parole alzai gli occhi sul suo volto ed una paura ancora più forte si impadronì di me. Provate ad immaginarvi un uomo che vi parla mentre il suo volto è come in mezzo al sole di mezzogiorno. Riuscite a vedere le labbra che si muovono e l’espressione del volto che cambia: riuscite a sentire il suono della sua voce, avvertire le sue mani che vi stringono le spalle, ma nello stesso tempo non potete scorgere né le sue mani né il suo corpo né il vostro: nient’altro che luce sfolgorante che si diffonde all’intorno, a diversi metri di distanza, rischiarando la neve che copriva il prato e che continuava a cadere su di me e sullo staretz…
In questi termini una persona santa ci mostra in una maniera che si potrebbe definire empirica il Sole, inaccessibile ma così prossimo, dell’Amore Dio e ce lo fa contemplare in mezzo ai suoi raggi che lo circondano e che sono i giusti e i santi.

Di questo amore Dante, nel suo Paradiso, racconta:
Nella profonda e chiara sussistenza
Dell’alto lume parermi tre giri
Di tre colori e d’una contenenza;
e l’uno dall’altro come iri da iri
parea reflesso,
Non era altri che
L’Amor che move il sole e l’altre stelle.

Tratto da: P. EVDOKIMOV, Il roveto che arde, Milano 2007, 56-69

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Beata Maria Vergine di Guadalupe

Beata Maria Vergine di Guadalupe dans immagini sacre

http://www.santiebeati.it/

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12 dicembre: B.M.V. di Guadalupe (mf)

dal sito:

http://www.santiebeati.it/dettaglio/81100

BEATA MARIA VERGINE DI GUADALUPE

12 dicembre – Memoria Facoltativa 

L’apparizione, il 9 dicembre 1531, della « Morenita » all’indio Juan Diego, a Guadalupe, in Messico, è un evento che ha lasciato un solco profondo nella religiosità e nella cultura messicana. L’evento guadalupano fu un caso di “inculturazione” miracolosa: meditare su questo evento significa oggi porsi alla scuola di Maria, maestra di umanita’ e di fede, annunciatrice e serva della Parola, che deve risplendere in tutto il suo fulgore, come l’immagine misteriosa sulla tilma del veggente messicano, che la Chiesa ha di recente proclamato santo.

Martirologio Romano: Beata Maria Vergine di Guadalupe in Messico, il cui materno aiuto il popolo dei fedeli implora umilmente numeroso sul colle Tepeyac vicino a Città del Messico, dove ella apparve, salutandola con fiducia come stella dell’evangelizzazione dei popoli e sostegno degli indigeni e dei poveri.

Con gli oltre venti milioni di pellegrini che lo visitano ogni anno, il santuario di Nostra Signora di Guadalupe, in Messico, e’ il più frequentato e amato di tutto il Centro e Sud America. Sono pellegrini di ogni razza e d’ogni condizione – uomini, donne, bambini, giovani e anziani – che vi giungono dalle zone limitrofe alla capitale o dai centri più lontani, a piedi o in bicicletta, dopo ore o, più spesso, giorni di cammino e di preghiera.
L’apparizione, nel XVI secolo, della “Virgen Morena” all’indio Juan Diego e’ un evento che ha lasciato un solco profondo nella religiosità e nella cultura messicana. La basilica ove attualmente si conserva l’immagine miracolosa e’ stata inaugurata nel 1976. Tre anni dopo e’ stata visitata dal papa Giovanni Paolo II, che dal balcone della facciata su cui sono scritte in caratteri d’oro le parole della Madonna a Juan Diego: “No estoy yo aqui que soy tu Madre?”, ha salutato le molte migliaia di messicani confluiti al Tepeyac; nello stesso luogo, nel 1990, ha proclamato beato il veggente Juan Diego, che e’ stato infine dichiarato santo nel 2002.
Che cosa era accaduto in quel lontano secolo XVI in Messico? Con lo sbarco degli spagnoli nelle terre del continente latino-americano aveva avuto inizio la lunga agonia di un popolo che aveva raggiunto un altissimo grado di progresso sociale e religioso. Il 13 agosto 1521 aveva segnato il tramonto di questa civiltà, quando Tenochtitlan, la superba capitale del mondo atzeco, fu saccheggiata e distrutta. L’immane tragedia che ha accompagnato la conquista del Messico da parte degli spagnoli, sancisce per un verso la completa caduta del regno degli aztechi e per l’altro l’affacciarsi di una nuova cultura e civiltà originata dalla mescolanza tra vincitori e vinti. E’ in questo contesto che, dieci anni dopo, va collocata l’apparizione della Madonna a un povero indio di nome Juan Diego, nei pressi di Città del Messico. La mattina del 9 dicembre 1531, mentre sta attraversando la collina del Tepeyac per raggiungere la citta’, l’indio e’ attratto da un canto armonioso di uccelli e dalla visione dolcissima di una Donna che lo chiama per nome con tenerezza. La Signora gli dice di essere « la Perfetta Sempre Vergine Maria, la Madre del verissimo ed unico Dio » e gli ordina di recarsi dal vescovo a riferirgli che desidera le si eriga un tempio ai piedi del colle. Juan Diego corre subito dal vescovo, ma non viene creduto.
Tornando a casa la sera, incontra nuovamente sul Tepeyac la Vergine Maria, a cui riferisce il suo insuccesso e chiede di essere esonerato dal compito affidatogli, dichiarandosene indegno. La Vergine gli ordina di tornare il giorno seguente dal vescovo, che, dopo avergli rivolto molte domande sul luogo e sulle circostanze dell’apparizione, gli chiede un segno. La Vergine promette di darglielo l’indomani. Ma il giorno seguente Juan Diego non puo’ tornare: un suo zio, Juan Bernardino, è gravemente ammalato e lui viene inviato di buon mattino a Tlatelolco a cercare un sacerdote che confessi il moribondo; giunto in vista del Tepeyac decide percio’ di cambiare strada per evitare l’incontro con la Signora. Ma la Signora è la’, davanti a lui, e gli domanda il perche’ di tanta fretta. Juan Diego si prostra ai suoi piedi e le chiede perdono per non poter compiere l’incarico affidatogli presso il vescovo, a causa della malattia mortale dello zio. La Signora lo rassicura, suo zio e’ gia’ guarito, e lo invita a salire sulla sommita’ del colle per cogliervi i fiori. Juan Diego sale e con grande meraviglia trova sulla cima del colle dei bellissimi « fiori di Castiglia »: è il 12 dicembre, il solstizio d’inverno secondo il calendario giuliano allora vigente, e né la stagione nè il luogo, una desolata pietraia, sono adatti alla crescita di fiori del genere. Juan Diego ne raccoglie un mazzo che porta alla Vergine, la quale pero’ gli ordina di presentarli al vescovo come prova della verita’ delle apparizioni. Juan Diego ubbidisce e giunto al cospetto del presule, apre il suo mantello e all’istante sulla tilma si imprime e rende manifesta alla vista di tutti l’immagine della S. Vergine. Di fronte a tale prodigio, il vescovo cade in ginocchio, e con lui tutti i presenti. La mattina dopo Juan Diego accompagna il presule al Tepeyac per indicargli il luogo in cui la Madonna ha chiesto le sia innalzato un tempio. Nel frattempo l’immagine, collocata nella cattedrale, diventa presto oggetto di una devozione popolare che si è conservata ininterrotta fino ai nostri giorni. La Dolce Signora che si manifesto’ sul Tepeyac non vi apparve come una straniera. Ella infatti si presenta come una meticcia o morenita, indossa una tunica con dei fiocchi neri all’altezza del ventre, che nella cultura india denotavano le donne incinte. E’ una Madonna dal volto nobile, di colore bruno, mani giunte, vestito roseo, bordato di fiori. Un manto azzurro mare, trapuntato di stelle dorate, copre il suo capo e le scende fino ai piedi, che poggiano sulla luna. Alle sue spalle il sole risplende sul fondo con i suoi cento raggi. L’attenzione si concentra tutta sulla straordinaria e bellissima icona guadalupana, rimasta inspiegabilmente intatta nonostante il trascorrere dei secoli: questa immagine, che non e’ una pittura, nè un disegno, nè e’ fatta da mani umane, suscita la devozione dei fedeli di ogni parte del mondo e pone non pochi interrogativi alla scienza, un po’ come succede ormai da anni col mistero della Sacra Sindone.
La scoperta piu’ sconvolgente al riguardo e’ quella fatta, con l’ausilio di sofisticate apparecchiature elettroniche, da una commissione di scienziati, che ha evidenziato la presenza di un gruppo di 13 persone riflesse nelle pupille della S. Vergine: sarebbero lo stesso Juan Diego, con il vescovo e altri ignoti personaggi, presenti quel giorno al prodigioso evento in casa del presule. Un vero rompicapo per gli studiosi, un fenomeno scientificamente inspiegabile, che rivela l’origine miracolosa dell’immagine e comunica al mondo intero un grande messaggio di speranza. Nostra Signora di Guadalupe, che appare a Juan Diego in piedi, vestita di sole, non solo gli annuncia che e’ nostra madre spirituale, ma lo invita – come invita ciascuno di noi – ad aprire il proprio cuore all’opera di Cristo che ci ama e ci salva. Meditare oggi sull’evento guadalupano, un caso di “inculturazione” miracolosa, significa porsi alla scuola di Maria, maestra di umanita’ e di fede, annunciatrice e serva della Parola, che deve risplendere in tutto il suo fulgore, come l’immagine misteriosa sulla tilma del veggente messicano, che la Chiesa ha recentemente proclamato santo. 

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Omelia (12-12-2010) : Vivere per davvero…si puo

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/21054.html

Omelia (12-12-2010) 
don Marco Pedron

Vivere per davvero…si puo

Questo vangelo ci presenta il grande dubbio del Battista. Giovanni era un uomo deciso, fermo, sicuro di sé, ma ad un certo punto si pone delle domande, mette in discussione tutto.
I passaggi drammatici della vita sono questi, quando crolla tutto. A te sembra la fine, è veramente drammatico, ma il venire meno di alcune certezze è necessario perché qualcosa di nuovo e di più vero possa nascere.
Gv Bt è prigioniero in carcere e pone a Gesù, attraverso i discepoli, la grande domanda di tutta gente che al tempo aspettava il Messia: « Sei tu che devi venire o dobbiamo aspettarne un altro? ».
Gv aveva annunciato un Gesù molto severo, giudicante: per lui il Signore avrebbe rimesso a posto tutto ciò che c’era di negativo e di male nel mondo; premiati i giusti, condannati i corrotti; un fuoco che brucia ciò che non serve e una scure che taglia ed elimina tutto ciò che al mondo è guasto. Il Battista, allora, si aspettava un Messia, un Gesù Rambo, Terminator; uno forte, potente, deciso, intransigente: « Facciamo il bene con la forza ». Allora quando Gesù arriva Gv Bt è profondamente deluso: non era come lui l’aveva annunciato e previsto. Non era come lui credeva perché Gesù non era quel giudice previsto, duro, arrabbiato e giudicante. Gesù, anzi, dice che non vuole condannare nessuno, che è venuto per tutti; dice di non essere venuto per dare spettacolo e rimettere tutto a posto ma per amare e incontrare le persone; dice di essere venuto per chiunque ne abbia bisogno o sia smarrito. Allora il Bt, che stima Gesù, non sa più cosa pensare, rimane sconcertato, smarrito da questo modo di fare. Ecco allora che gli manda dei discepoli per chiedergli: « Ma sei tu o no? », perché lui non sa più cosa credere. Gv Bt sta vivendo la sua crisi religiosa: credeva che Dio fosse in un modo e si accorge che Dio è diverso.
Einstein diceva che ci sono tre gradi di religiosità: quella fondata sulla paura; quella fondata sui sentimenti sociali e quella cosmica.
Il primo livello, potremmo dire, era quella che viveva molta gente al tempo di Giovanni Battista. È la religione del Dio giudice, severo, pronto a punire e condannare; un Dio che proibisce e che ordina. Un Dio da temere, di cui aver paura, un Dio da « tenere buono » perché gestisce e può mandare la malattia, la fame, il dolore e la morte. È la religione del bambino che ha paura di tutto, che non si sa spiegare i misteri della vita, che non sa pensare con la sua testa e si inchina ad un ordine superiore.
Alcune delle « mie vecchiette » in confessione dicono: « Sono venuta a confessarmi perché non si sa mai… ». Come a dire: « Lo faccio perché non si sa mai cosa mi possa capitare ». Altre dicono: « Ah, padre, è così e non si può far niente », che tradotto vuol dire: « Bisogna accettare tutto e non si può far niente ». In molte persone più che amore verso Dio c’è solo tanta, tanta paura di Dio.
In questo stadio religioso non c’è crescita della persona: si è in balia di Dio. Io non posso fare niente, mi « tocca » nient’altro che accettare (è accettazione o rassegnazione?). È un modo molto comodo per molti: da una parte « tengo buono » Dio con delle pratiche, offerte, sacrifici, d’altra parte lui non mi chiede niente né mi coinvolge.
Qui c’è spazio per tutto: magia, superstizione, panico, angoscia.
È il Dio dell’amore aggressivo: se sbagli ti punisco. « Convertiamoli tutti: o con le buone o con le cattive ».
Quand’ero giovane lessi un libretto, il « Dies irae », dove c’era scritto: « Allora sarà aperto il libro sul quale tutto è segnato per il giudizio del mondo ». Era terribile, angosciante. Quando andavo a catechismo un catechista mi diceva: « A Dio non ne scappa una « . Che voleva dire. « Stai attento perché ogni errore che fai Dio te lo fa pagare ». Era insopportabile sia Dio che il catechista. E che sensi di colpa quando si sbagliava!
Dio è lassù ed è da temere. Se possiamo teniamolo buono.
Quando hai paura di Dio è giunto il momento di cambiare Dio.
Poi c’è un secondo livello: è quello di Giovanni Battista. Giovanni Battista è l’uomo che dice « no » all’ingiustizia, alla falsità, all’ipocrisia che vede serpeggiare attorno.
Nasce l’idea che ci dev’essere una giustizia, che Dio non può lasciare impunite certe violenze e situazioni. Che se Dio è Dio ci deve ascoltare; che se Dio è Dio non può permettere che accadano certe cose. Che se Dio è Dio allora deve intervenire per sistemare ciò che non va e per dare una mano a chi davvero è in difficoltà, a chi davvero crede, a chi davvero si affida a Lui. Dio diventa, allora, il Dio-Provvidenza, il Dio che con-sola, con-forta, che punisce ma solo per il bene dell’uomo.
Dio vuole dall’uomo responsabilità, giustizia, fratellanza, uguaglianza. Dio si fa carità, dedizione, amore, aiuto e intervento.
Ai nostri figli facciamo vedere l’assenza dei nostri padri: mostriamo le foto dei forni crematori di Auschwitz e Dachau, incisi con le unghie da uomini che lottavano contro la morte. E diciamo: « Ma dov’erano i nostri padri? Cosa facevano le persone a quel tempo? ». Ma cosa diranno i nostri figli di noi quando mostreranno ai loro figli le foto di un pianeta dove scorreva anni fa acqua pulita e bevibile, dove si poteva girare per le strade senza mascherine antigas, dove le radiazioni del sole non distruggevano la pelle (non c’era ancora il buco d’ozono), dove c’era il verde, le foreste e gli animali, elementi che i nostri figli non vedranno mai? Cosa diremo? Potremmo prendercela con Dio? O non dovremmo guardarci allo specchio e vergognarci? O non ci rimarrà che batterci il petto e dire: « Ci dovevamo convertire prima?. Troppo tardi adesso! ».
È un Dio che ci fa indignare e che ci fa arrabbiare di fronte a certe ingiustizie, che non ci piace tanto di fronte ai bambini che muoiono di fame, al napalm lanciato dagli Americani sui civili irakeni: « Ma dove sei Dio? Come puoi permettere tutto questo ». Risposta: « Sono lì in quei bambini e in quei civili! ».
È il Dio dell’amore caritatevole: « Vengo e ti aiuto ». E’ il Dio del tutto-per-gli-altri. È un Dio che ci muove verso gli altri. Vedo il disagio e non posso starmene fermo. Dio è lassù ma ci ascolta. Ma quando Dio non ascolta più le tue richieste è giunto il momento di cambiare la tua immagine di Dio.
Ma poi viene Gesù e Giovanni Battista va in crisi. Il Dio di Giovanni entra in crisi e inizia a dubitare. Il Dio di Gesù è presente in me, in te, in ciascuno di noi. E’ il Dio della vita, della libertà, della guarigione, del cambiamento, di chi vuole la mia vita, di chi mi chiama. E’ il Dio che vive in tutte le cose perché tutti gli esseri sono immagine Sua. E’ il Dio dentro ad ogni creatura. Ogni essere è mio fratello ed ogni creatura è mia sorella. E’ il Dio che mi chiede di trasformarmi, di realizzarmi, di trasformare la mia aggressività interna in amore cosmico, universale, di diventare io stesso « tempio » vivente di Dio e « chiesa » dell’Altissimo. E’ il Dio della Luce, della consapevolezza: entro in me, vedo i miei mostri interni, i miei fantasmi, le mie paure, i miei condizionamenti e attaccamenti, ma vedo anche il Dio che mi abita e che mi ama. E’ un Dio impegnativo perché mi chiede di coinvolgermi e di lasciarmi plasmare.
E’ il Dio dell’amore universale: « Tu sei in ogni cosa ». E’ un Dio che mi fa cambiare. Dio è in me e io, cambiando, lo lascio trasparire, emergere, venire fuori.
Dio è quaggiù ed è in noi.
Allora non basta dire: « Io credo » e sentirsi a posto. « Sì, d’accordo tu credi. Ma in che cosa credi? Com’è il tuo credere? Sei ancora bambino, infantile, puerile nel tuo credere? ». Se non sono mai andato in crisi, in difficoltà nel mio credere allora credo ancora come quand’ero bambino; allora la mia fede è puerile e piena di paura.
Bisogna « uccidere Dio » per trovare Dio. Quando i ragazzi a 14-15 anni lasciano un’immagine di Dio non è terribile anzi è addirittura necessario. In realtà non lasciano Dio ma solo il Dio del bambino. Ciò che è problematico è che non trovano niente dopo, che non c’è nessun Dio « per la loro età » dove possono identificarsi. Ma guai se non « perdessero » il Dio del bambino, dell’infante!
Il tuo credere va in crisi? Bene, sano. La vita ti chiama ad approfondire, a trovare un Dio più vero, a progredire nel cammino di fede, a scoprire un’immagine meno falsata e lontana. Nella vita di fede sono chiamato a progredire, a passare dalla prima alla seconda e alla terza fase.
Gesù sapeva quant’è difficile per l’uomo mettere in discussione la propria fede, il proprio credo e dice: « Beato colui che non si scandalizza di me ». In una notte nera alcuni uomini si imbatterono in qualcosa. Non si vedeva proprio nulla. Quando non c’è la luna nella savana non c’è nessuna luce: è buio pesto. Uno disse: è grande e stabile, qui siamo al sicuro, è certamente una roccia. Un altro disse: qui c’è un ramo lungo, è certamente un albero, mi metterò a dormire qui. Un altro disse: qui c’è qualcosa di morbido, è certamente un po’ di terra umida, io mi sdraierò qui. Tutti avevano conosciuto qualcosa, una parte, ma si erano fermati lì. Non avevano capito che quello era un grande elefante, che stanco della loro presenza, mentre loro dormivano, si alzò e li schiacciò.
Dio mi scandalizza (skandalon è la trappola, l’inciampo, la molestia) perché mi deluderà: « Credevo che fosse una cosa e invece è molto di più, diverso, oltre ». Dio mi sorprenderà: « Non avrei pensato! »; scoprirò che è novità, fantasia, che si trova dove meno me l’aspetto; distruggerà le mie certezze religiose: « Credevo fosse fede e ed erano solo le mie rigidità » (un prete). Chi non è mai stato scandalizzato da Dio non conosce Dio.
E Gesù conferma tutto questo dicendo che Giovanni Battista è stato davvero grande, il più grande dei profeti, il più grande tra i nati di donna, ma il più piccolo del regno dei cieli.
E’ stato davvero grande ma non è entrato in questa terza fase, non è riuscito a percepire Dio come Padre, vicino, presente, che richiede spazio. Con Giovanni Battista si rimane alla porta di Dio, con Gesù lo si incontra.
Alla gente Gesù si rivolge per tre volte con la stessa domanda: « Che cosa siete andati a vedere? ». Erode faceva coniare sulle sue monete una canna e indossava morbide vesti. Allora Gesù chiede: « Ma cosa pensavate di vedere? Uno spettacolo? Un divo? Un bel personaggio televisivo? ». Che domanda profonda per me: « Che cosa vado a vedere in chiesa? Cosa cerco? ». Cerco consenso pubblico, approvazione di ciò che credo, tranquillità della coscienza, « morbide vesti e discorsi » o cerco verità, libertà di vedermi per quello che sono realmente, Gesù? Che cosa cerchi? Da ciò che cerchi ti dirò ciò che puoi trovare.
A Giovanni Battista attraverso i discepoli, invece dice: « Questo è quello che accade. Cosa puoi pensare? Cosa puoi capire? ». Gesù non gli dice « Sì, sono io colui che deve venire » oppure « No, non sono io ». Gesù risponde con un collage di citazioni del profeta Isaia che rimanda a quello che fa. Quello che faccio, che provoco, che succede, che accade ti può portare ad una conclusione? Perché da quello che uno fa’, provoca, innesca, si può capire e intravedere, chi è.
E’ molto semplice capire se un uomo incontra Gesù. Chi incontra Gesù cambia vita. Chi incontra Gesù non può più essere lo stesso di prima.
La ricetta di Gesù è semplice ma scientifica: luce per gli occhi e per l’anima (giornate di sole, all’aria aperta; consapevolezza, conoscenza); movimento per le gambe e per il cuore (sport, passeggiate, incontri, preghiera); contatto per la pelle (abbracci, carezze, amore, contatti e relazioni profonde); suono per le orecchie e per l’intelligenza (niente rumori, chiacchiere ma suoni di pace, di voci amiche, che ci amano, della natura).
I ciechi vedono: ma quanta meraviglia ci circonda!
Siamo immersi nella bellezza… se solo aprissimo gli occhi!: le stelle della notte, il tramonto della sera, i volti dei bambini, le lacrime di mia moglie, la luce degli occhi di chi ama, il sole nel volto di certi uomini.
Tutto questo ci fa ridere: di ben altre cose dobbiamo occuparci noi! Tutto questo non ci riempie, non ci stupisce, lo riteniamo stupido. Se questo non ci riempie nulla ci potrà riempire. Se questo non ci riempie in verità siamo molto ammalati. Se non riusciamo a stupirci, a commuoverci, a meravigliarci allora il cancro dell’anima è già molto avanzato.
Perché se guardiamo una foresta ci chiediamo quanto potremmo ricavarne dal legname; se vediamo le stelle alpine ce le portiamo a casa; se vediamo qualcosa di bello ce lo vogliamo comprare; se vediamo una bella donna la vorremmo possedere, la vorremmo tutta per noi. Guardiamo per prendere.
Guardiamo ma non la vediamo. Siamo ciechi e crediamo di vederci.
Chi incontra il Signore vede e gusta tutto, ma sa che non possiede nulla. Si abbevera di tutto ciò che vede, entra nei cuori e nei volti come la luce entra nelle nostre case: con rispetto. Ci entra e non possiede, non cambia, non sporca, non rovina. Entra ed esce senza alterare nulla.
Gli storpi camminano: ma quanto possiamo crescere nella vita!
Quanto possiamo camminare, quanto grandi e splendidi possiamo diventare! Non so dove andrò ma so che posso fare molta strada. Non so dove andrò ma so che sarà interessante.
Quanta gente sa che dovrebbe andare in una direzione, fare delle scelte, intraprendere quel determinato viaggio o cammino, ma la paura blocca le gambe e la paralisi impedisce ogni movimento. Molte persone vorrebbero sapere tutto e subito; vorrebbero soluzioni immediate, a basso prezzo; vorrebbero sapere cosa devono fare della loro vita, con i loro figli e in ogni situazione. E, invece, la vita non offre ricette o preparati da eseguire. La vita offre solo strade che se uno vuole può percorrere. Tocca alle mie gambe alzarsi e andare, camminare e lasciarsi coinvolgere. Molte persone vorrebbero fermarsi, non muoversi più, rimanere ancorati a ciò che sono e sanno. Alcune persone sono rimaste attaccate al passato; alcune si sono fermate a vent’anni fa o a qualche fatto successo tanti anni fa e non si sono più ripresi. « Ah, padre da quella volta che la fidanzata mi ha lasciato non mi sono più ripreso ». « Alzati e cammina ». « Ah, padre da quello sgarbo non sono più stato io ». « Alzati e cammina ».
Chi incontra il Signore e si lascia portare va così lontano che neppure la sua più fervida immaginazione avrebbe potuto sperare. Chi si fida di Lui si alza in piedi e parte, torna a credere alla forza delle proprie gambe e si mette in cammino, cresce, evolve e va lontano… molto lontano.
I lebbrosi: ma quanto possiamo amarci nella vita!
Quanti abbracci possiamo scambiarci, quante carezze possiamo donarci, quanti sguardi possiamo incrociare, quanta tenerezza c’è nelle nostre mani e nel nostro corpo. Due signore parlavano e dicevano: « I bambini bisogna non accarezzarli troppo altrimenti si viziano ». Un bambino (e anche le sue cellule) vive di contatto!
I sordi: ma quanto possiamo sentire nella nostra vita!
Che fiducia grande possiamo avere così che possiamo sentire ogni cosa, tutto quello che ci è successo, tutto quello che ci è capitato, così da non nasconderci più niente, così da non soffocare più niente. Chi incontra il Signore può ascoltare tutto, ogni voce interna anche la più tremenda o cruda. Chi incontra il Signore ha una tale forza, fiducia, coraggio che può sentire tutto.
E può sentire tutto l’amore del creato e tutto il bisogno delle persone e tutta la sofferenza dei nostri cuori e tutto l’odio che si racchiude nei nostri sguardi e nelle nostre parole.
Chi incontra Dio può sentire tutto e non venire distrutto.
I morti: ma quanta vita possiamo vivere!
La lieta notizia è che non siamo poveri, che possiamo vivere qualcosa che va al di là delle nostre aspettative e non in paradiso, ma qui su questa terra. Possiamo vivere, vibrare, espanderci, amare, sentirci grati ed essere felici e tutto con una tale intensità da piangere, da fremere, da mancare l’aria. Perché strisciare per terra e vivere come dei vermi se abbiamo le ali per volare?
Chi si fida di Dio vive così. Così si può! Non ti attrae? Non ti affascina? Non lo senti come puoi vivere? Così si può!

Pensiero della Settimana Peccato è dire: « Non si può »; « Ho paura »; « Non ce la faccio »; « Troppo difficile »; « Non è per me » e non provarci neppure. 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 11 décembre, 2010 |Pas de commentaires »
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