L’inno di sant’Ambrogio per la festa del Natale: «Non da seme virile ma per l’azione arcana dello Spirito»
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L’inno di sant’Ambrogio per la festa del Natale
«Non da seme virile ma per l’azione arcana dello Spirito»
di Inos Biffi,
da L’Osservatore Romano (25/12/08)
Nell’inno che sant’Ambrogio compone per la festa del Natale di Cristo – forse da lui stesso dalla liturgia romana introdotta in quella milanese – diventa poesia il dogma dell’incarnazione del Figlio di Dio nel grembo verginale di Maria, così come nell’inno Splendor paternae gloriae diventa poesia e canto il mistero della Trinità.
Anche in quest’inno appare la genialità santambrosiana nell’accordare e fondere ispirazione e linguaggio biblico, chiarezza didascalica e profondità teologica, allusione ed espressione, rigore dottrinale e creatività artistica, e se ne potrebbe definire il risultato come un trattato di cristologia nicena nella forma di un piccolo poema, luminoso e pieno di emozione.
D’altra parte, la materia è di quelle che Ambrogio sente più vive e più urgenti da illustrare e far assimilare alla sua Chiesa, fino a pochi anni prima infelicemente segnata dalla presenza dell’eresia ariana – che non accoglie Gesù come Figlio di Dio, eternamente generato – e ancora attraversata da eretici, che rigettavano la verità di Maria che nella verginità e perenne illibatezza concepisce e dà alla luce il Verbo fatto uomo.
Anche in questo caso, il vescovo di Milano ci offre un esempio luminoso di ortodossia, che, delineando il mistero di Cristo nei rigorosi termini niceni, lo contempla nella “duplice sostanza” di arcana verità divina e di pochezza umana, lo guarda con gioiosa meraviglia e ne fa trasparire l’incanto estetico.
Il Natale di Gesù rappresenta il compimento del disegno iniziato in Israele. Quando egli viene alla luce ed è deposto nel suo presepe si avvera la teofania di Dio, intensamente attesa dall’Antico Testamento, interprete del bisogno e del desiderio di tutta l’umanità. Passa allora sulle nostre labbra oranti l’ardente invocazione del Salmo 79, che occupa tutta la prima strofa dell’inno, e che una inavveduta critica – contro la stessa logica dell’inno e l’ottonario simbolico delle strofe – ha ritenuto inautentica e posteriormente aggiunta. È abituale in Ambrogio, che mostra di saper usare con abile maestria le regole della metrica latina, innestare nei suoi versi ampie citazioni bibliche, così annodando felicemente Bibbia e poesia.
Com’è con la prima strofa del suo inno: «Volgiti a noi, – prega la Chiesa – tu che guidi Israele, / assiso sui Cherubini, / mostrati in faccia a Efraim, ridesta / la tua potenza e vieni». Tutta una domanda appassionata e in crescente intensità si eleva a invocare l’apparizione e la venuta di Dio: «volgiti», «mostrati in faccia», «ridesta la tua potenza», «vieni»! Anzi, l’invocazione che, elevata un giorno da Israele, ora sale dalla Chiesa, diviene subito più precisa nell’indicazione del suo desiderio: è il «Redentore delle genti», il liberatore universale, implorato perché venga a rivelare il parto che conviene a Chi è Dio e da cui ogni epoca rimanga sorpresa e affascinata: «O Redentore delle genti, vieni: / rivela al mondo il parto della Vergine; / ogni età della storia stupisca: / è questo un parto che si addice a Dio». Così, mediante il magistero e l’arte del suo vescovo la comunità ambrosiana professa luminosamente la sua fede in Gesù, Figlio di Dio.
Quel parto, che di tutti i prodigi divini è il più grande e ineffabile, avviene, infatti, non per opera dell’uomo, ma per uno spirare pieno di mistero: mystico spiramine, come scrive Ambrogio, con rara finezza, quasi attingendo la penna nella luce spirituale. Altrove parlerà dello spiramen di Dio onnipotente: «Non da seme virile, / ma per l’azione arcana dello Spirito / il Verbo di Dio si è fatto carne, / fiorito a noi come frutto di un grembo». La radice è la progenie giudaica; il rampollo è Maria, il virgulto di Maria è Cristo, che come il frutto di un albero buono, fiorisce.
Una intatta verginità, per pura grazia, si ritrova, così, miracolosamente feconda: e, per il Verbo che si fa uomo in lei, Maria diviene l’aula di Dio; le sue virtù sono come insegne imperiali dispiegate a indicare la presenza del monarca nel suo palazzo: «Il verginale corpo s’inturgida, / senza che il puro chiostro si disserri, / brillano le virtù come vessilli: / Dio nel suo tempio ha fissato dimora». La vergine madre è la nuova «arca dell’alleanza», il luogo nuovo della Gloria, «l’aula regale del grembo verginale (aula regalis uteri virginalis)» o «aula celeste (aula caelestis)» – come altrove ancora Maria è chiamata dallo stesso Ambrogio.
Venuto nel mondo come «Redentore delle genti», simile a un «Gigante dotato di duplice sostanza», Gesù percorre alacremente la sua «corsa salvifica» (Giacomo Biffi): «Esca da questo talamo nuziale, / aula regia di santo pudore, / il Forte che sussiste in due nature / e sollecito compia il suo cammino». E così, il vescovo fa cantare e professare alla sua Chiesa l’altro dogma cristologico, le due nature, divina e umana di Gesù, nell’unica persona del Figlio di Dio, che «A noi viene dal Padre / e al Padre fa ritorno; / si slancia fino agli inferi / e riguadagna la sede di Dio». È il «cerchio salvifico» giovanneo: «Sono uscito dal Padre – scrive l’evangelista Giovanni – e sono venuto al mondo; ora lascio il mondo e vado al Padre» (Giovanni, 16, 28).
A sant’Ambrogio piace l’immagine del «gigante, biforme» – «uno nella doppia natura, partecipe della divinità e della corporeità» – insieme alla visione delle tappe del suo rapido itinerario di salvezza: «Dal cielo nella Vergine, dal grembo nel presepe, dal presepe al Giordano, dal Giordano alla croce, dalla croce al sepolcro e dal sepolcro al cielo».
La nostra salvezza si compie per un singolare intreccio di grandezza – l’uguaglianza con il Padre – e di umiltà – la nostra carne destinata al trionfo o la povera veste della nostra carne. Noi siamo redenti per l’infusione del vigore divino nella nostra debolezza umana, e si direbbe che Ambrogio si fermi in estasiata e commossa ammirazione di questo mistero: «Consostanziale e coeterno al Padre, / dell’umiltà della carne rivèstiti: / con il tuo indefettibile vigore / rinsalda in noi la corporea fiacchezza»: «Consostanziale e coeterno al Padre» – ripete sant’Ambrogio – ed è il tema anti-ariano che ritorna da Nicea: Gesù è «della stessa sostanza del Padre», «Dio vero da Dio vero, generato non creato».
Ora lo sguardo finale di Ambrogio è rapito dall’incanto del presepe, sentito soprattutto come una sorgente inesausta di luce: «Già il tuo presepe rifulge / e la notte spira una luce nuova; / nessuna tenebra più la contamini / e la rischiari perenne la fede». Secondo il commento di Giacomo Biffi: «Quasi a riposare dalle altezze vertiginose del mistero, il canto si conclude sul quadro incantevole, per semplicità e grazia, del presepe betlemitico, segno nei secoli dell’incredibile “umiltà di Dio”, fonte della sola luce – la fede – che può vincere la tenebra avvolgente del mondo».
Il tema e il linguaggio della luce, a cui contrastano le tenebre, ritorna nella prosa di Ambrogio, e già con gli accenti e la suggestione della poesia. Egli parla della grande luce della divinità, «non alterata da nessuna ombra di morte (quam nulla umbra mortis interpolat)», o dei «veri giorni non corrotti da alcuna caligine di notte», mentre ricorre la stessa espressione della poesia, nell’esposizione del Salmo 118, dove richiama il «chiarore di un fulgore perenne, non alterato da nessuna notte (claritas, quam nox nulla interpolat)».
Abitualmente in sant’Ambrogio la luce è il simbolo della fede incorrotta e tersa, a cui fa da contrasto la notte con le sue ombre e le sue tenebre, e sulla quale non cessa di vigilare, perché ritorni o si conservi limpida e integra nella sua Chiesa.
Il vescovo, con la sua poesia, ha così dotato la sua comunità di un inno per la celebrazione natalizia, che diventerà un’eredità preziosa e diffusa in tutta la Chiesa. «Il beato Ambrogio – scrive Cassiodoro – compose l’inno del Natale del Signore col più bel fiore della sua eloquenza».
Ma non è privo di interesse, infine, osservare l’intimo legame che nella sua visione unisce la concezione verginale del Verbo nel grembo di Maria sia con il mistero della Chiesa sia con lo stato della verginità consacrata, in cui quella concezione per opera dello Spirito si riverbera, poiché ne è la genesi e la forma.
Ambrogio parla della Chiesa «sposa per l’amore e vergine per l’illibatezza caritate uxor, integritate virgo», del «materno grembo della santa vergine Chiesa, ricca di una fecondità immacolata, per generare il popolo di Dio», motivo dell’allegrezza degli angeli. Predicando, poi, a quante hanno ricevuto «la grazia della verginità (virginitatis gratia)» e sono sposate «con il Verbo di Dio» – che a loro volta fanno gioire gli angeli – presenta come loro modello la «santa Chiesa immacolata, feconda nel parto, vergine per la castità e madre per la prole».
Chi non comprende e non stima la verginità consacrata non riesce a comprendere né il mistero di Cristo, apparso per la grazia dello Spirito, né il mistero della Chiesa con la sua “fecondità immacolata”, né alla fine lo stesso matrimonio cristiano, in cui si riflette il vincolo indissolubile di Cristo e della Chiesa, adombrati nell’unione profetica di Adamo e di Eva.
Un’ultima considerazione, per sottolineare la bellezza e quasi la nostalgia di una Chiesa, che con il proprio vescovo esalta nel canto la propria fede in Gesù Figlio di Dio. Poiché l’eresia ariana – che a Gesù concede tutto tranne di essere Figlio di Dio – è ancora un’insidia serpeggiante, risalta in tutta la sua attualità soprattutto l’antico concilio di Nicea che, assieme agli altri primi concili, ha mirabilmente fissato per la Chiesa la sua intramontabile fede cristologica.
mdeledda
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