Solo dall’ospitalità nasce nuova vita (D.Tettamanzi)

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28/05/2010

Solo dall’ospitalità nasce nuova vita (D.Tettamanzi)

di Dionigi Tettamanzi, Avvenire 28.5.10

Abramo accoglie tre stranieri e ottiene un figlio, Paolo a Malta vince i pregiudizi…

Vi è un’icona singolarmente evocativa che illustra bene anche l’etimologia del nostro vocabolo «ospite», che deriva da due radici delle lingue indoeuropee: la radice hos/host ovvero «pellegrino, forestiero» e la radice pa/pati cioè «sostenere, proteggere ». L’ospite sarebbe dunque «colui che sostiene o dà da mangiare ai pellegrini, ai forestieri». L’icona biblica che ci svela il senso profondo e insieme originale e affascinante dell’ospitalità (secondo il disegno di Dio e quindi secondo la natura e il dinamismo stessi dell’uomo) si trova nel capitolo 18 di Genesi, dove Abramo viene presentato nella sua generosità di ospite.
Nell’ora più calda del giorno Abramo vede passare tre personaggi sconosciuti, che il narratore ci fa intuire essere un «signore» e due accompagnatori. Corre loro incontro, si prostra e li accoglie con tutte le premure nella sua tenda. Dal momento che i tre acconsentono di fermarsi da lui, Abramo organizza – da efficiente capofamiglia – l’ospitalità. Alla moglie Sara dà ordini di cuocere il pane, all’armento corre egli stesso e prepara un vitello prelibato che offre agli ospiti con panna e latte fresco. Dopo aver mangiato, il personaggio – che rimane senza nome –, quasi come ricompensa dell’ospitalità ricevuta, fa questa promessa ad Abramo: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio». Quel figlio dovrà essere chiamato Isacco. Per questo il narratore annota che Sara, stando a origliare all’ingresso della tenda, essendo ormai oltre l’età di partorire, sorride («isaccheggia» dovremmo dire in italiano, coniando un neologismo per richiamare in questo sorriso il nome stesso di Isacco). A questo punto il narratore lascia cadere ogni indugio e dà il nome a quel signore con i suoi due accompagnatori: è il Signore stesso, Adonài, che conferma ad Abramo: «Perché Sara ha riso (‘isaccheggiato’) dicendo: ‘Potrò davvero partorire, mentre sono vecchia’? C’è qualche cosa d’impossibile per il Signore (Adonài)? ». Con questo stupendo quadro narrativo, l’autore del libro di Genesi porta a perfezione il tema della promessa del figlio e introduce, in antitesi, l’esito catastrofico della città inospitale di Sòdoma, ove due degli ospiti di Abramo scendono, dopo essersi fermati da lui. Dice il midrash: uno per distruggere Sòdoma, l’altro per proteggere Lot. Vorrei rilevare come la singolarità e la bellezza della pagina di Genesi stanno proprio nell’incontro, nella fusione di questi due motivi: l’ospitalità e la promessa di un figlio, l’accoglienza dell’altro e il dono che si riceve, come a dire che la «fecondità» (che possiamo intendere nel suo senso più vasto di vita e di pienezza di vita) è il frutto dell’ospitalità. I due motivi e il loro intrecciarsi – che peraltro sono presenti anche in non poche tradizioni extrabibliche – avranno una singolare eco nel seguito della rivelazione biblica, giungendo sino alla loro straordinaria interpretazione cristologica: con l’ospitalità il discepolo – e in un certo senso ogni uomo – accoglie Cristo stesso. (…) Per rimanere ancora nell’ambito delle Scritture vorrei qui ricordare, tra gli altri, il tragico naufragio dell’apostolo Paolo e dei suoi compagni di viaggio, che si concluse con un gesto di grande ospitalità da parte della gente di Malta. Così leggiamo negli Atti degli Apostoli : «Gli abitanti ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti attorno a un fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia e faceva freddo». Ma ecco un pericolo imprevisto e una reazione inaspettata: «Mentre Paolo raccoglieva un fascio di rami secchi e lo gettava sul fuoco, una vipera saltò fuori a causa del calore e lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli abitanti dicevano fra loro: ‘Certamente costui è un assassino perché, sebbene scampato dal mare, la dea della giustizia non lo ha lasciato vivere’. Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non patì alcun male. Quelli si aspettavano di vederlo gonfiare o cadere morto sul colpo ma, dopo avere molto atteso e vedendo che non gli succedeva nulla di straordinario, cambiarono parere e dicevano che egli era un dio». Il seguito del racconto ci parla ancora di un’ospitalità che viene ricambiata con l’inaspettato dono di un ‘miracolo’, la guarigione di persone malate. Il racconto si conclude con un rinnovato accenno all’ospitalità: «Ci colmarono di molti onori e, al momento della partenza, ci rifornirono del necessario». Nella cultura antica, il forestiero e l’ospite diventavano subito un prossimo che ha bisogni concreti: dargli una mano voleva dire muovere subito le mani in suo aiuto. Il viaggiatore giungeva sì da lontano, ma si trasformava subito in vicino: oggi questo ‘prodigio’ non avviene più. Nell’antichità l’ospite non solo era accolto, ma addirittura diveniva qualcosa di superiore al cittadino normale. In una società quasi priva di mezzi di comunicazione, egli era anche un messaggero di un altro mondo e aveva sempre qualcosa da insegnare. Certo vi erano, anche nell’antichità, dei casi in cui lo spostamento di gente numerosa poteva dar luogo a difficoltà e conflitti: pensiamo anche solo al racconto biblico dell’insediamento di coloro che sarebbero diventati i padri d’Israele nel territorio occupato dai Cananei. Ma, nel complesso, una certa quantità di nomadi era considerata normale in tutte le terre. Anche l’Italia, guardando alla storia degli ultimi anni, fino a poco tempo fa accoglieva gli stranieri più da visitatori che da immigranti. La diversità destava stupore e permetteva di imparare qualcosa di nuovo. Incontrare un cinese o un indiano risvegliava curiosità più che diffidenza. Era un atteggiamento comune tra la nostra gente, parte della nostra cultura, che non fu quasi per niente intaccato dal breve periodo di colonialismo italiano («Italiani, brava gente!») e da quello ancor più breve e meno condiviso del razzismo fascista. (…) È davvero strano che il nostro tempo tecnologico, tempo di viaggi interplanetari e di possibilità di comunicazione in un certo senso infinita, segni il primato delle spese legate all’immigrazione per una realtà inventata ancor prima della scrittura: il muro. Sì, il muro! Il muro, che nell’antichità era costruito per difesa, oggi è costruito per circoscrivere e impedire l’accesso di coloro che abitano vicino. Così negli Stati Uniti, alla fine delle guerre contro le tribù autoctone, si costruirono riserve per rinchiudervi gli indiani. Così, ancora, il nazismo cominciò la sua Endlösung, «soluzione finale» contro gli ebrei, richiudendoli tutti nei ghetti. E lo stalinista Ulbricht cancellò il mondo capitalista dietro al muro di Berlino. E il Sudafrica sigillò i confini dell’apartheid con una barriera elettrificata ad alta tensione. È interessante che, mentre nel mondo di internet, nei social network non esistono barriere che impediscono l’incontro e la relazione virtuale tra persone di etnie e culture differenti, nel mondo reale si costruiscono dei muri per impedire ai vicini di incontrarsi. Se con un clic un giovane italiano può stringere amicizia su Facebook con un coetaneo africano, dall’altra parte si impedisce a chi vuole guadagnarsi onestamente da vivere di potersi applicare al lavoro che sta oltre il confine, in quei Paesi dove a tante occupazioni quasi nessuno vuole applicarsi. Il vallo di Adriano e la Grande Muraglia cinese avevano il compito di difendere l’Impero Romano e il Celeste Impero da invasioni militari. Molti muri che sono stati costruiti di recente proteggono invece dalle povertà altrui: cercano di trasformare in fortezze quelle che sono state chiamate le «frontiere più disuguali del mondo ». Se per un breve periodo sembrano riuscire a tener lontano qualche immigrante illegale, col tempo irrigidiscono proprio quella disuguaglianza economica che è causa dell’immigrazione e presto porteranno la sproporzione al collasso. I muri creano separazioni non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Non solo nella geografia, ma anche nella storia. Ma soprattutto il muro non solo «chiude fuori» il forestiero e il meno fortunato, il muro «chiude dentro» il privilegiato e lo condanna all’asfissia. Proprio come l’avaro, che muore d’inedia per non consumare a vantaggio di tutti e anche a vantaggio proprio quei beni che possiede. Quanto è vero ciò che diceva Hans Magnus Enzensberger: «Quanto più un Paese costruisce barriere per ‘difendere i propri valori’, tanto meno valori avrà da difendere».

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