Archive pour novembre, 2010

Accanto al Papa per servire l’universalità della Chiesa (Il Collegio Cardinalizio)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/interviste/2008/155q08a1.html

L’OSSERVATORE ROMANO – IL COLLEGIO CARDINALIZIO

A colloquio con l’arcivescovo Monterisi, segretario del Collegio cardinalizio  (2008)

Accanto al Papa per servire l’universalità della Chiesa

di Gianluca Biccini

Lo definiscono il « Senato del Papa » perché i suoi membri collaborano con il Pontefice nel compimento della sua missione; in realtà è il riflesso fedele dell’universalità della Chiesa. Il Collegio Cardinalizio, antichissima istituzione, svolge una funcpresentano i cinque continenti:  centotré europei, cinquanta americani (Americhe del Nord, del Centro e del Sud), venti asiatici, sedici africani e quattro dell’Oceania. Centosedici sono gli elettori; settantotto quelli che, avendo compiuto gli ottanta anni, non partecipano al Conclave per l’elezione del Papa. Il più giovane di età è l’arcivescovo di Esztergorm-Budapest, Péter Erdo, che è nato nel 1952, mentre quelli per nomina sono i cardinali creati nel secondo concistoro di Benedetto XVI il 24 novembre 2007. Il cardinale più anziano per età è il benedettino tedesco Paul Augustin Mayer di ben novantasette anni, prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Saccramenti e presidente emerito della Pontificia Commissione « Ecclesia Dei ». In quest’intervista l’arcivescovo Francesco Monterisi, segretario del Collegio cardinalizio, illustra i compiti principali di questo particolarissimo « Senato ».
Nell’opinione comune il Collegio cardinalizio assume la sua rilevanza soprattutto in occasione dell’elezione di un Pontefice. Vuole invece spiegare quali sono le sue reali funzioni e quando viene convocato?
Nelle solenni celebrazioni presiedute dal Papa, vediamo sempre che egli è circondato da un certo numero di cardinali. Generalmente sono quelli che prestano il loro servizio nella Curia Romana e quelli che in quel momento si trovano in Roma. Ma il Collegio cardinalizio nel suo insieme si riunisce quando viene convocato dal Papa nel concistoro che lui stesso presiede. Possono esservi concistori ordinari o straordinari. Nei primi vengono chiamati tutti i cardinali che si trovano a Roma per compiere alcuni atti di grande solennità, come per esempio quello di esprimere il voto per la canonizzazione di un beato. Questo concistoro è detto anche pubblico, cioè vi sono presenti prelati, sacerdoti, religiosi, autorità civili e altre persone che possono esservi invitate.
Il concistoro straordinario viene convocato quando lo suggeriscono particolari necessità o per trattare problemi di grande rilevanza per la vita della Chiesa. Giovanni Paolo ii ha convocato tre concistori straordinari nel 1991, nel 1994 e nel 2001. Benedetto XVI ha preso occasione dai due concistori, convocati per la creazione di nuovi cardinali nel 2006 e nel 2007, per consultare i porporati presenti su importanti questioni del suo ministero petrino.

Qual è l’origine del Collegio cardinalizio?

Il Collegio cardinalizio trova la sua origine nel clero della primitiva comunità cristiana di Roma. Fin dal primo secolo presbiteri e diaconi assistevano il Pontefice nel suo ministero episcopale, con particolare riferimento alla carità. Due Papi, Cleto e Clemente, sarebbero stati prima dell’elezione diaconi di san Pietro. E sarebbe stato proprio Cleto (76-79 d.C.) a fissare in venticinque il numero dei preti per il servizio della città di Roma. A ciascuno di loro affidò un territorio; si può dire che in questo modo nacquero le prime parrocchie dell’Urbe.
Successivamente Papa Fabiano (236-250), organizzando meglio il lavoro dei diaconi, divise Roma in 14 « regioni » affidando a ciascuno due di esse. Aumentando il numero dei cristiani, a tali preti e diaconi si aggiunsero altri come loro ausiliari. Si cominciò allora a parlare di « cardinali », cioè di preti e diaconi « incardinati » nelle basiliche di Roma, dove aiutavano il Papa.
Il significato del titolo « cardinale » è appunto l’essere assegnato al servizio del vescovo di Roma. Nel v secolo si aggiunsero anche i vescovi delle diocesi vicine, dette « Suburbicarie », che iniziarono a prestare un regolare e solenne servizio liturgico settimanale nella cattedrale del Papa, la basilica di San Giovanni in Laterano.
In tempi più recenti il Papa conferì il titolo di cardinale anche a vescovi di altre diocesi, assegnando comunque anche a loro una Chiesa romana come diaconia o titolo presbiterale. Il vescovo di Roma risultò così attorniato da diaconi, preti e vescovi, che daranno origine ai tre ordini in cui è suddiviso anche oggi il Collegio cardinalizio. E anche oggi a ogni cardinale vengono assegnati una diaconia, o un titolo presbiterale o una delle sei diocesi suburbicarie, che sono:  Ostia, Porto-Santa Rufina, Frascati, Sabina-Poggio Mirteto, Palestrina, Velletri-Segni.

Questo è un aspetto poco conosciuto dai non addetti ai lavori. Come si accede a ciascuno dei tre ordini?

Al momento della nomina o della creazione, come si dice ufficialmente, a ciascun cardinale è affidata una diaconia o un titolo presbiterale in Roma (attualmente di norma i secondi spettano ai pastori delle grandi arcidiocesi mentre le prime vanno ai prefetti e ai presidenti di dicasteri romani, come Congregazioni, Tribunali e Pontifici Consigli, ndr).

Come avvengono gli spostamenti all’interno dei vari gradi?

Il passaggio dall’ordine dei diaconi a quello dei presbiteri avviene per una « richiesta » o « opzione » che un cardinale può fare dopo essere stato per dieci anni nell’ordine dei diaconi. L’opzione, fatta in un concistoro, dev’essere quindi approvata dal Papa. Quanto alle diocesi suburbicarie, il Pontefice le assegna, a mano a mano che si rendono vacanti, a cardinali presbiteri residenti a Roma. In tal modo ciascun cardinale si trova inserito in uno dei tre ordini di cardinali:  vescovi, presbiteri e diaconi.
Nell’ordine gerarchico, in realtà tra i cardinali vescovi e quelli presbiteri e diaconi ci sono i cardinali patriarchi, i quali invece non hanno una diaconia o altro titolo presbiterale di Roma. Perché?
È stato Paolo vi, con il Motu proprio Ad Porpuratorum Patrum dell’11 febbraio 1965, a stabilire che i Patriarchi orientali creati cardinali mantengano la loro Sede patriarcale senza acquisire uno dei suddetti titoli. Si può dire che « non fanno parte del clero di Roma ». Ciò è stato deciso per riguardo all’antichità e alla dignità dei patriarcati d’Oriente.
Parlando di un Collegio non si può non fare riferimento a chi lo presiede. Come viene nominato il cardinale Decano e quali sono i suoi compiti ?
Il cardinale Decano è il primo dei cardinali-vescovi. Esso è eletto in una riunione dei cardinali vescovi e tale elezione deve essere poi approvata dal Papa. Il cardinale Decano, una volta eletto, aggiunge il titolo della diocesi di Ostia a quello della Chiesa suburbicaria che già aveva. Si tratta di una tradizione che risale al 1587:  per decisione di Sisto V fu stabilito che spettava al vescovo di Ostia, in quanto primo vescovo suburbicario, consacrare il Papa come vescovo, se al momento dell’elezione non lo fosse stato.
La diocesi di Ostia è stata successivamente abolita, ma il suo titolo di suburbicaria rimane ed è assegnato al cardinale Decano, come stabilisce anche il canone 350 4 dell’attuale Codice di diritto canonico.
Tra i compiti principali del cardinale Decano, attualmente Angelo Sodano, vi è quindi quello di consacrare vescovo il Romano Pontefice, qualora al momento dell’elezione non lo fosse.

Un’altra figura molto nota è il cardinale proto-diacono. Quali sono le sue funzioni?

Il primo cardinale dell’ordine dei diaconi ha, fra gli altri, il compito di annunciare al popolo l’avvenuta elezione e il nome del nuovo Pontefice. Ed è sempre il proto-diacono a imporre il pallio al nuovo Papa durante la celebrazione per l’inizio del suo ministero di vescovo di Roma e pastore universale della Chiesa.
Attualmente tale carica è ricoperta da Agostino Cacciavillan, il quale ha anche il compito di ricevere il « giuramento di fedeltà » dei nuovi vescovi ai propri impegni episcopali.

Che differenza c’è tra i Legati pontifici e gli Inviati speciali del Papa?

In qualche circostanza particolarmente significativa il Papa incarica un cardinale a rappresentarlo e in questo caso il porporato viene nominato Legato a latere, egli è un alter ego del Pontefice in quella particolare celebrazione o assemblea di persone. L’Inviato speciale invece è il cardinale a cui viene affidato dal Romano Pontefice un determinato incarico pastorale.

Dov’è la sede del Collegio cardinalizio ?

Da quest’anno su disposizione del Papa Benedetto XVI il Collegio cardinalizio ha sede nel Palazzo Apostolico Vaticano. Nella nuova sede è stato possibile riordinare anche l’Archivio e la Biblioteca del Collegio e avere i locali necessari per la segreteria del Collegio e l’ufficio del Decano.

Publié dans:c.CARDINALI, CHIESA CATTOLICA |on 21 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

buona notte e buona domenica

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Colossesi 1,12-20 – seconda lettura per la solennità di Cristo Re

dal sito:

http://proposta.dehoniani.it/txt/colossesi.html

LA LETTERA AI COLOSSESI
(Pedron Lino)

(stralcio)

IL DOMINIO DI CRISTO SUL MONDO

Osanna e inno
(1,12-20)

12ringraziando con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce.
13È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, 14per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati. 15Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; 16poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. 17Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui.
18Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. 19Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza 20e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli.

Senza soluzione di continuità, la preghiera d’intercessione passa in un invito di lode. La comunità dei credenti viene invitata a glorificare Dio con la lode, mentre le si ricorda l’azione salvifica di Dio. I vv. 12-14 sono premessi all’inno a Cristo come una specie di introito, con cui si introduce il solenne inno cantato dalla comunità.

L’autore della lettera ha preso questo inno, evidentemente noto alla comunità dell’Asia minore, come punto di partenza della sua argomentazione, per convincere la comunità che Cristo ha il dominio su tutto l’universo, che egli è il capo del suo corpo, cioè della Chiesa.

Chi appartiene a questo Signore, ha ricevuto il perdono dei peccati, e in questo modo è sottratto alla dominazione opprimente delle potenze cosmiche ed è con lui risorto a vita nuova.

v. 12. Il canto va intonato con gioia. Quale frutto dello Spirito (Gal 5,22) la gioia riempie la vita della comunità e si esprime nella esultanza, in cui Dio è ringraziato perché ha realizzato le sue promesse e ha portato a compimento la salvezza (At 2,46). Il Padre è lodato perché ha operato la salvezza e la liberazione in Cristo.

I santi, alla cui sorte partecipa la comunità cristiana, sono gli angeli. La luce indica l’ambito in cui l’azione di Dio ha collocato i suoi. Già da ora Dio, nella sua imperscrutabile misericordia, ha reso i suoi capaci di condividere coi santi l’eredità celeste e di camminare nella luce.

V. 13. Ma la partecipazione all’eredità dei santi nella luce significa che Dio ci ha liberati dal dominio della tenebra e ci ha collocati nel regno del suo diletto Figlio. Contrapponendo luce e tenebra, la professione di fede della comunità cristiana proclama che è avvenuto quello scambio di potere che ha determinato profondamente la vita dei credenti. Come un re potente può strappare popolazioni dai loro luoghi di origine e trapiantarle in altri ambienti, così Dio ha sottratto la comunità al potere delle tenebre e l’ha collocata nel regno del suo Figlio diletto. Il regno di Dio, in cui i credenti sono collocati, procura ad essi la salvezza qui e adesso. Infatti essi sono già risorti con Cristo (2,12), risuscitati con lui a nuova vita (3,1-2). L’evento in cui si è effettuato lo scambio della potestà è il battesimo.

v. 14. La redenzione è la remissione dei peccati. Paolo intende il peccato come una potenza che fa il suo ingresso nel mondo con la colpa di Adamo (Rm 5,12) e da allora esercita il suo prepotente dominio sugli uomini. Ma nella croce di Cristo il suo dominio è infranto (Rm 8,3); infatti egli è diventato peccato per noi, affinché divenissimo in lui giustizia di Dio (2Cor 5,21). La remissione dei peccati è accordata nel battesimo (At 2,38). Di conseguenza l’invito alla lode contiene un chiaro riferimento al battesimo. In tal modo si indica anche in quale senso deve essere inteso l’inno che segue. A tutte le speculazioni sulla conoscenza di mondi superiori si oppone che non c’è nulla che possa superare o completare la remissione dei peccati. Infatti il regno di Dio è la dove c’è la remissione dei peccati; e con questa tutto è realmente dato, vita e beatitudine.

v. 15. Dio è invisibile (Rm 1,20; 1Tm 1,17; At 14,17; ecc.). Ma si è manifestato nella sua immagine che è il Cristo. Quale immagine del Dio invisibile, Cristo non è nel numero delle cose create, ma fa tutt’uno con il Creatore, il quale in Cristo agisce nel mondo e col mondo.

Chiamando « primogenito di ogni creatura » il Cristo preesistente, non si afferma che egli sia stato creato per primo e che così abbia dato inizio alla serie delle cose create, ma che egli ha la preminenza su tutte le creature. Egli è il Signore del creato.

v. 16. Tutto il creato deve la sua esistenza al Cristo preesistente. Tutto è stato creato per mezzo di lui. La pienezza di ciò che si intende con « tutte le cose » è precisata con l’aggiunta: tutto ciò che è nei cieli e sulla terra. Nulla è escluso, tutto è compreso, le cose visibili e quelle invisibili. Anche le forze e le potenze cosmiche sono state create in lui. Tutto ciò che si trova nel cosmo è creato in Cristo. Perciò egli è il Signore delle forze e delle potenze. Tutto è creato per lui. In questa espressione sono compendiati gli enunciati sull’origine della creazione, ma ne è anche indicato lo scopo, che non è nient’altro che Cristo. Tutto è finalizzato a Cristo.

v. 17. Egli è pro pànton, il che significa che egli, quale Preesistente, è il Signore di tutto l’universo. Il cosmo non solo è creato in lui e per mezzo di lui, ma ha anche la sua sussistenza in lui solo. Tutto ciò che esiste ha in lui solo la sua consistenza, perché lui è il Signore, il Capo del corpo, ossia di tutto il cosmo.

v. 18. Se le parole « cioè della chiesa » si considerano una glossa, allora, in connessione con la prima strofa, il concetto di « corpo » va inteso nel senso cosmologico, come abbiamo detto nel v. precedente. La concezione del cosmo equiparabile a un corpo vivente è molto diffusa nel pensiero della filosofia greca. Con la concezione del cosmo come corpo e del capo sovrapposto ad esso si dà risposta alla ricerca degli uomini che, preoccupati e impauriti di fronte alle forze del mondo, si chiedono come il mondo possa essere ricondotto al suo retto ordine: Cristo è la testa sotto cui sta il corpo del cosmo, dalla quale è guidato e tenuto unito. Solo in lui il cosmo trova base e consistenza; in altre parole, solo in lui c’è salvezza. « Cristo è quindi la risposta alla ricerca del principio che regge il mondo e lo conduce a unità, cioè, per gli ellenisti, la risposta alla ricerca della salvezza » (Schweizer). Ma ora questa enunciazione del corpo cosmico viene sottoposta dall’autore della lettera a un’interpretazione mediante la quale il concetto di « corpo » viene determinato e storicamente inteso come « la chiesa ». Il Signore glorificato esercita, qui e adesso, un potere su tutto il mondo, come capo del suo corpo, che è la chiesa. La lettera dà al pensiero cosmologico ellenistico un orientamento nuovo, presentando la chiesa come il luogo in cui Cristo esercita presentemente il suo dominio sul cosmo. Cristo è il Signore dell’universo (2,10.19), ma il suo corpo è la chiesa. Cristo è il principio in quanto è il « primo nato dai morti », il primo risuscitato, e mediante lui si è prodotto l’evento escatologico, l’inizio del mondo nuovo e definitivo: quello della risurrezione. In quanto primo risorto dai morti, egli è il primogenito che garantisce la futura risurrezione dei morti (1Cor 15,20.23). Proprio perché Cristo è l’inizio e il primogenito, egli è il primo in tutto. A lui compete il primo posto nell’universo.

vv. 19-20. In Cristo abita la pienezza divina nella sua totalità (2,9). La comunità cristiana ha assunto il vocabolo plèroma dall’ambiente ellenistico, per parlare della pienezza di Dio, che decise di abitare nell’uno, che è Gesù Cristo. « In lui dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità » (2,9). In lui e per mezzo di lui Dio opera la riconciliazione. Con ciò si presuppone che l’unità e l’armonia del cosmo abbiano sofferto un sensibile turbamento, anzi una rottura. Fu quindi necessaria la riconciliazione che fu compiuta dall’evento di Cristo, per ristabilire l’ordine cosmico. Dio stesso per mezzo di Cristo ha compiuto quest’opera di riconciliazione. L’universo è stato rappacificato in quanto, mediante la risurrezione e l’elevazione di Cristo, cielo e terra sono stati riportati nel loro ordine stabilito dalla creazione di Dio. Ora l’universo sta nuovamente sotto il suo capo, e si è ristabilita così la pace cosmica. Questa pace, fondata da Dio mediante Cristo, ricompone in unità l’universo e mantiene salda la reintegrata creazione nella riconciliazione con Dio. Non solamente alla fine dei tempi, come è nell’aspettativa apocalittica, ma già fin d’ora la pace è entrata nell’universo e si è compiuta l’opera cosmica della redenzione (Fil 2,10-11). Quale rappacificatore del cosmo, Cristo ha assunto la sua signoria.

Poiché è il mediatore della riconciliazione, è, per ciò stesso, celebrato come mediatore della creazione, come il Signore al di sopra dell’universo, al di sopra delle forze e delle potenze. Il ragionamento di Paolo è questo: Chi appartiene a questo Signore è liberato dalla schiavitù delle potenze e dalla forza coercitiva del destino. Per Paolo Cristo è il fine di tutte le vie e di tutti i piani di Dio. Così il punto di aggancio per il rapporto della creazione con Cristo è posto nella concezione del Redentore, il quale è lo scopo di tutta la storia. La pace cosmica è stata fondata nella morte di Gesù Cristo. Il luogo in cui è avvenuta la riconciliazione è la croce di Cristo. Poiché l’evento di Cristo riguarda il mondo intero, il Crocifisso e Risorto deve essere ugualmente proclamato ad ogni popolo come il Signore (1,24-29). Chi appartiene a questo Signore è « una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove » (2Cor 5,17). Se nell’inno si pone in risalto il significato universale dell’evento di Cristo, mostrandone la dimensione cosmica e parlando della salvezza universale che abbraccia l’intero creato, con ciò non si attribuisce, in alcun modo, particolare dignità e preminenza alle potenze e dominazioni. Quando si accenna a queste potenze, ciò si fa solo per proclamare il messaggio di Cristo, che è costituito capo e signore sopra ogni cosa. Agli uomini è aggiudicata la pace conseguita per mezzo di Cristo. Questa pace però agisce nell’ambito in cui Cristo domina sovrano qui e adesso: nella chiesa, suo corpo, di cui egli è il capo.

Omelia (21-11-2010) : Il tuo profondo conosce ogni cosa

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/20606.html

Omelia (21-11-2010) 
don Marco Pedron

Il tuo profondo conosce ogni cosa

Oggi è la festa di Cristo Re, cioè di Cristo termine, signore di ogni cosa e di ogni evento. E’ una festa recente: non ha neppure cento anni. La vera festa di Cristo Re sarebbe il giorno dell’epifania, quando i Re Magi si inginocchiano davanti ad un bambino in fasce: i grandi della terra, i re, i sapienti che si inchinano di fronte ad un re, ad un bambino, a ciò che è piccolo. Come a dire: il vero re non è tanto chi comanda, chi sa, chi è potente, chi è in alto, ma il vero re è chi sa accogliere ciò che è piccolo, basso, umile e in divenire.
La festa di Cristo Re è nata negli anni ’30, quando c’erano il fascismo e il suo re Mussolini. Allora Papa Pio XI volle contrapporre al re un altro re. Lì Mussolini, qui Cristo; al re politico, il re religioso. Si era pensato a questa festa come qualcosa di pomposo, di trionfale, di glorioso, come era per tutti i re mondani. Ma nel vangelo non c’è proprio niente di glorioso, né di trionfalistico.
Il vangelo di oggi, infatti, ci propone la scena del Calvario: Gesù è in croce e molte persone sono presenti sulla scena.
C’è la gente. La gente guarda, continua a guardare e continuerà a guardare. Osservate: il popolo non dice nulla, non reagisce, non si ribella, non si indigna, non chiede spiegazioni, non si muove. Davanti ha un’ingiustizia palese; davanti ha il figlio di Dio, una delle situazioni più crudeli della storia e non dice nulla. Come se non ci fosse. E’ l’indifferenza.
A molta gente basta un po’ di pane sotto i denti, qualche divertimento, « tirare avanti » e non essere disturbati. Non si sporcano le mani su niente « perché non si sa mai! ». Non vuole essere coinvolta; non vuole avere problemi: non si espone e non prende posizione. Ma questa è già una posizione. Quando la gente dice: « Io faccio gli affari miei e non disturbo nessuno », questa è una posizione e non può giustificare, non ci può deresponsabilizzare. Non solo chi ha ucciso Gesù ne è il responsabile ma anche chi potendo fare qualcosa, anche solo alzando la sua voce, anche solo ribellandosi, anche solo opponendosi, non lo ha fatto.
Quando non mi indigno di fronte a ciò che succede allora lo accetto. Quando non prendo posizione di fronte a ciò che sta accadendo allora lo favorisco. Quando ciò che vedo non mi fa riflettere, piangere e cambiare allora favorisco il male. Quando ci sarà chiesto conto della distruzione del pianeta cosa risponderemo: « Io non ho fatto niente »?. « Quindi ti andava bene! ». Allora ne sei colpevole. Quando ci sarà chiesto conto di milioni di persone che muoiono per la voracità dell’occidente, cosa risponderemo: « Io non ho rubato a nessuno »?. Quindi ti andava bene così. Quando di fronte a ciò che accade io non ho mosso il sedere, non mi sono interrogato, non ho tradotto la mia indignazione in azione e non mi sono messo in gioco, cosa risponderemo: « Io ho avuto paura »?. « Allora hai fatto i tuoi interessi, avevi paura di perdere qualcosa ». Quando di fronte alla moda, alla linea di pensiero di tutti, alla corrente, alla banalità del vivere io la seguo, cosa risponderemo: « Ma lo facevano tutti »?. « Ma tu non hai una testa tua? ». Colpevole.
Perché la gente non fa niente non vuol dire che non sia responsabile di ciò che succede. E’ proprio per questa indifferenza, per questo stare a guardare e non intervenire che si compiono le peggiori crudeltà, che nazioni cadono sotto despoti e tiranni, che avvengono nel silenzio carneficine di uomini. E’ proprio per questo disinteressarsi che i potenti possono fare ciò che vogliono. Loro lo fanno ma la gente, non intervenendo, ne è complice.
Poi ci sono i capi del popolo. I capi sbeffeggiano Gesù, si prendono gioco di lui e lo disprezzano. I capi sono quelli che sfruttano a loro vantaggio ogni situazione. Con abili manovre politiche, con una buona comunicazione « te la girano » e ottengono sempre ciò che vogliono ottenere.
Non si capisce come sia possibile che tutti i governi parlino di riduzione delle tasse ad ogni piè sospinto (manovra che suscita appoggio nella gente) e che il 48% degli italiani spenda tutto ciò che guadagna perché è impossibile « metter via » qualcosa.
I potenti fanno i loro interessi e si prendono gioco della gente (mica glielo dicono!). Con quelli che se ne accorgono (Gesù), invece, sono feroci e li condannano alla gogna pubblica.
Poi ci sono i soldati. I soldati hanno le armi e la forza. I soldati rappresentano l’ignoranza e l’ottusità delle persone (« gli si accostavano per porgergli aceto ») che credono di essere libere, credono di essere forti, credono di essere qualcuno (hanno le armi) e, invece, non sanno che sono solo schiave di poche persone e di pochi capi.
Quante persone si ritengono libere e fortunate perché si possono permettere « certe cose » e neppure si accorgono di essere schiave del sistema e di essere delle marionette senza midollo in mano di poche lobbies che gestiscono in tutto la loro vita ma che gli fanno credere di essere libere e potenti.
Poi ci sono anche i due malfattori. Uno dei due è arrabbiato con la vita, con Dio e con tutti, come se fosse colpa degli altri la sua sorte. Ma ciò che gli accade è la conseguenza della sua vita. Tutto l’odio, la rabbia per la sua vita, lo scarica e lo getta addosso a Gesù.
Quanta gente è arrabbiata, risentita con tutti: dentro sono insoddisfatti e gettano fuori tutta la loro frustrazione per una vita che non li ha resi felici, né realizzati.
Tutti gli dicono: « Salva te stesso ». Ma la frase è ironica, sarcastica. Quello che dicono a Gesù è quello che dovrebbero dire a sé. Sono loro che si devono salvare; sono loro che devono cambiare; sono loro che non si rendono conto che proprio essi sono i condannati, gli imprigionati, i condizionati, gli schiavi. E non se ne accorgono.
Dovrebbero dire: « Non lui, ma me stesso devo salvare ». Credono di vedere uno crocifisso e invece stanno vedendo un uomo libero. Credono di essere liberi e invece sono crocefissi dalle loro paure e condizionamenti. Credono di vedere e, invece, sono ciechi. Credono di vivere e non sanno che sono morti dentro.
Ma c’è anche un malfattore che capisce e accoglie Gesù. Anche in quella situazione di impotenza totale si può fare qualcosa: dirgli di sì e accoglierlo.
Il malfattore riconosce il suo errore e chiede perdono. Tutti guardano a Gesù: « Salvi se stesso ». Solo il malfattore guarda a sé: « Noi giustamente, ma egli non ha… ».
Salvezza è guardare a sé; condanna è guardare agli altri: « Se tutti facessero, allora anch’io; io faccio come tutti ». Salvezza è riconoscere il proprio errore, la propria non-luce, la propria cecità; salvezza è aprire gli occhi.
Questo è quello che ciascuno di noi può fare: « Se finora ho vissuto così, da oggi si cambia. Oggi ti accolgo e ti faccio entrare in casa mia. Oggi ti dico di sì. Oggi cambio. Oggi inizio ».
Se finora ho vissuto nel disinteresse, oggi cambio. Se finora ho vissuto delegando, da oggi si cambia. Se finora ho incolpato gli altri della mia infelicità, da oggi si cambia. Se finora ho imprecato e bestemmiato contro Dio per ciò che accade, da oggi si cambia. Se finora ho vissuto nella paura e nella difensiva, da oggi si cambia. Questo è il paradiso: da oggi posso cambiare. Se finora è andata così, oggi posso cambiare. Non è mai troppo tardi per iniziare. Mai!
Quel « salva te stesso e anche noi » è terribile. Come a dire: « Se tiri fuori il tuo potere mi servi ».
« A cosa serve Dio? ». « A niente! ». Se pensi che Dio serva a far soldi, a dare lustro alla tua immagine di brava persona, ad essere rispettato, a risolverti i tuoi problemi di relazione, a coprire le tue insicurezze, a tappare i tuoi buchi, allora Dio non ti serve proprio a nulla. Ne rimarrai deluso. Se pensi di chiamare in causa Dio per ciò che non va nella tua vita o nel mondo; se pensi di chiamare in causa Dio di fronte a tutte le disgrazie che succedono ne rimarrai molto deluso. Perché questo Dio non ti serve.
« Stai attento a non usare Dio! ». Dio è la forza delle tue gambe: ma sta a te camminare.
Dio è l’amore del tuo cuore: ma sta a te protenderti, incontrare e abbracciare.
Dio è la voce che dalla coscienza sale alle tue labbra: ma sta a te parlare.
Dio è lo sguardo dei tuoi occhi: ma sta a te aprirli.
Non chiedere mai a Lui ciò che tocca a te.
Non delegare mai a Dio i tuoi compiti.
Dio è forza ma non fa azioni di forza. Dio è luce ma non ti spiaccica davanti la verità. Dio è potente ma non violenta nessuno. Dio è la vita ma non costringe.
Il quadro dei due malfattori è una scena molto profonda. Sono due malfattori, due uomini giustiziati giustamente (almeno secondo le leggi di quel tempo). Quello che subiscono non è ingiusto come per Gesù: sono due malfattori, hanno ucciso. Sono uomini che hanno sbagliato a vivere, che hanno fallito, che hanno mancato il bersaglio della loro vita (peccato in ebraico è mancare il bersaglio). Sanno di aver sbagliato. Ma uno dei due lo ammette e può ricevere il perdono, l’altro no.
Non si può ricevere nessun perdono se non si accetta di aver sbagliato. Nessuno ti può perdonare se tu non accetti la tua ferita o il tuo errore. Giuda era morso dal senso di colpa per ciò che aveva fatto ma non l’aveva accettato. E si è ucciso. Così chi non sa accettare il proprio errore e non si sa perdonare si uccide, non si concede nessun’altra possibilità di vita.
Come i due malfattori noi sbagliamo e falliamo in tanti modi e in tante maniere. Ogni sbaglio ci produce un senso di colpa: « Non dovevi farlo; non dovevi agire così; non dovevi essere così ». E che si fa? O ci si ostina nel non vedere o si accetta questa realtà che ci fa male.
Un uomo ha lasciato la moglie e due figli e si è rifatto una vita. Fa un sacco di cose per i suoi figli avuti dal primo matrimonio ma nel profondo si sente in colpa verso i suoi figli (e non lo vuole ammettere) perché sa di aver provocato loro molto dolore. Perdonarsi è ammettere, esprimere che è vero che ha ferito i suoi figli; è accettare di aver fatto soffrire i propri figli ma che è degno di vivere ancora.
Le donne che abortiscono hanno un tremendo senso di colpa latente: uccidere una vita è uccidere la propria vita. Stabilire che una vita non è degna di vivere è stabilire che la propria vita è indegna di vivere. E che si fa? Finché questo senso di colpa profondo non esce, non viene scoperto e ammesso, non esce alla luce nel profondo, si sentiranno con un macigno con un’onta, con una macchia indelebile.
Alcuni genitori sanno di non aver educato in maniera sana i propri figli. E si sentiranno in colpa verso di loro, sentiranno di non avergli dato l’essenziale: l’amore; o di non avergli trasmesso la fiducia della vita.
Tu te la puoi raccontare sulla tua vita dicendoti che ce l’hai messa tutta, che di più non potevi fare. Ma il tuo profondo sa se ti sei accontentato o no, se ti sei adattato o no, sa se hai avuto paura di vivere, di osare e di rischiare o no. E siccome a lui non puoi mentire, lui sente la colpa.
Tu puoi tradire tua moglie e magari lei non lo viene mai a sapere. Puoi dirti di non sentirti affatto in colpa (perché non lo senti). Ma il profondo sa ogni cosa e sa cos’abbiamo fatto. Accettare il perdono è accettare che tu hai tradito la sua fedeltà, è vederti debole, vulnerabile, fallibile. E non vorresti vedere così. Non vorresti ammettere che tu, proprio tu hai agito così. Ma finché non lo ammetterai rimarrai legato al senso di colpa nascosto e non potrai ricevere nessun perdono.
Tu puoi aver rubato sul lavoro: nessuno lo sa, ma il tuo profondo sì.
Tu puoi mentire agli altri sul tuo conto, nasconderti, far vedere solo ciò che vuoi far vedere; puoi perfino convincerti che la falsità è la verità ma il tuo profondo conosce ogni cosa.
Il nostro profondo, la nostra coscienza, il Dio in noi, conosce ogni cosa di noi. A Lui non possiamo mentire. Anche se noi ce le nascondiamo lui lo sa. Anche se noi ce le dimentichiamo lui le sa tutte. Il nostro profondo sa e conosce tutto di noi e tutte le nostre colpe. E anche se io tento di metterci una pietra sopra lui sente la colpa (il senso di colpa nascosto provoca molte malattie).
Ammettere, riconoscere, sentire il male che si è fatto ci fa altrettanto male quanto averlo fatto. Ma è l’unica strada per il perdono, per ritornare a vivere, per la salvezza.
Accettare il perdono di Dio è dirgli tutto ciò che siamo, tutto ciò che abbiamo fatto, tutto il male che abbiamo causato, piangerlo ed esprimerlo, aprirsi e lasciare che Dio si prenda cura delle nostre ferite.
Il demonio (che ci lega ai sensi di colpa) dice: « Per questo pagherai! ». Ma Dio dice: « Oggi sarai con me in paradiso. Cioè: oggi ripartiamo. Oggi cancelliamo tutto e tu torni a vivere. Sì hai sbagliato, ma adesso basta ».
La croce e soprattutto il crocifisso è il centro della nostra fede.
In ebraico « croce » è selab (s-l-b) e questa parola indica due cose: 1. l’arpione (s) nel cuore (leb); 2. l’immergersi nell’ombra (s-l) per condurre la creazione (b) verso il suo lato di luce.
La croce è l’arpione della vita che ti trafigge il cuore.
Tu vivi, sei contento, ti pare di avere tutto e di non aver bisogno di niente. Hai una casa, hai una famiglia, hai dei figli, una moglie, non hai il mutuo da pagare: di cos’hai bisogno? Ma è proprio tutto questo? Ascoltati bene: sei a posto così? E’ proprio vero che ti basta? O non è che te lo fai bastare, non è che fingi che tutto vada bene?
Allora la vita ti arpiona, ti trafigge, ti lacera il cuore, cioè ti fa male. Ma non perché voglia farti male ma perché ti vuole insegnare qualcosa di nuovo, ti vuole portare più in profondità. E se non ti lasci portare continuerai a soffrire e a ripetere la sofferenza dalla quale non impari.
Ad un certo punto inizi a diventare nervoso, irascibile, scontento. E sì che hai tutto: « Ma perché mi lamento, non mi manca niente! ». E’ proprio vero? Ne sei proprio sicuro? Hai tutto di cose, ma l’aver tutto di cose è il tutto della vita? O c’è dell’altro? La vita, allora, ti ferisce perché tu possa vedere che questo non è tutto. Se la tua vita non ha un’anima, uno spessore, un senso, a che serve tutto quello che fai? Se la tua vita non è capace di donare amore, verità, ascolto, saggezza a che ti serve vivere? Se la tua vita non è appassionata per qualcosa di grande, di vero, cosa credi che basti: appassionarsi alla squadra di calcio? Credi che il lavoro possa riempire di passione, di vita, di felicità il tuo cuore?
Ogni volta che soffri non chiederti: « Perché a me? ». Ma chiediti: « Cosa devo imparare? ». Ogni volta che soffri non dire a Dio: « Ma cosa ti ho fatto (niente!)? ». Ma: « Cosa mi vuoi insegnare? ».
Croce è lasciarsi trafiggere, ferire, perché la vita ci insegni ciò che ci deve insegnare. Perché la vita ci trafigge per guarirci e ci ferisce per salvarci.
La croce è l’arpione di Dio che ti trafigge il cuore per abbandonarti a Lui.
Vivi, sei contento, non hai grossi problemi. Ti attacchi ai tuoi soldi in banca e ai tuoi campi. Ti attacchi al tuo buon nome o a ciò che gli altri vedono dall’esterno (« una brava persona »). Ti attacchi all’illusione che a te certe cose non sono mai successe, che certi errori non li hai mai fatti, che non hai di che vergognarti poi così tanto. Ma senza accorgertene tutto questo è diventato il tuo idolo, il tuo Dio. Senza accorgertene ti sei attaccato al tuo buon nome, alla tua bella immagine, a ciò che sei e ne sei fiero.
Allora Dio ti arpiona, ti lacera il cuore perché tu possa fare solo di Dio il tuo Dio. Ecco una malattia, un incidente, un imprevisto: qualcosa che in un attimo ti spiaccica davanti che tu confidavi in te, nella tua salute, in ciò che tu ti eri costruito. Ma tutto questo non ti salva. Ed ecco la sorpresa: tutto è vano, tutto quello che hai in questi momenti non ti serve assolutamente a nulla, né aggiunge un minuto alla tua vita.
Molte persone quando hanno una malattia consistente si attaccano a Dio, ritornano a pregare, ritornano ad andare in chiesa: perché? Perché dove ti attacchi in questi momenti? A niente, solo Lui tiene. E’ che, una volta guariti, si dimenticano di tutto.
Dio è l’unico gancio che non mi lascerà cadere nel nulla. Tutto il resto non mi può tenere: né i miei soldi, né la mia bravura e neppure le persone per quanto mi amino. Dio ti ferisce perché tu possa abbandonarti solo e soltanto a Lui, perché tu possa confidare solo in chi salva.
La croce è l’immersione nell’ombra della vita per trovare luci più profonde.
Nella Genesi si racconta che la donna è tratta dalla costola di Adamo. « Costola », che non è affatto costola, è selah (s-l-ah) e vuol dire « l’altro lato ». « L’altro lato » è « l’ombra (s-l) alla sua sorgente (ah) ». La parola selah vuol dire anche « zoppo »: un lato, una gamba senza l’altro non consente di stare dritto. Adamo (che è l’umanità e non l’uomo) starà diritto solo quando avrà generato, avrà portato alla luce l’altro lato, la sua ombra.
Allora la croce è l’incontro con tutta l’ombra che c’è in ogni uomo: chi di noi può dirsi esente dall’aggressività, dall’odio, da malattie dell’anima, da nevrosi, da paure, da pensieri ossessivi o perversi, dai demoni interiori? Solo chi ingenuamente non si conosce può dire: « Tutto questo non mi riguarda ». « Non ti riguarda perché non lo vedi, non perché non ci sia. Non ti riguarda perché temi l’incontro con questo tuo lato interno e lo fuggi, fingi che non ci sia ».
La croce è l’arpione, il gancio sicuro che mi permette di scendere nei miei demoni, nel mio deserto, in ciò che mi fa paura, senza perdermi. Mi devo con-frontare con ciò che mi abita; devo af-frontare, devo mettermi di fronte ciò che sono anche se mi spaventa, anche se mi ferisce, anche se mi fa male perché è la mia verità.
La croce ti tiene saldo: « Non aver paura di conoscerti, di tirare fuori i tuoi lati oscuri, le tue ferite, le tue angosce. Esprimi e incontra tutto il mondo interiore che sta vivendo nel tuo sottosuolo. Se tu sei agganciato a me niente ti può distruggere, niente ti può annientare. Chi è ancorato in Me può affrontare ogni cosa ».
La croce è l’immersione nell’ombra per condurti verso la luce di Dio.
Nella sua croce di morte Gesù è sceso negli inferi.
Quello che sembrava un cammino verso la morte è stato invece un cammino verso la vita. Quello che sembrava un cammino verso il buio è stato un cammino verso la luce. Quello che sembrava un cammino di abbandono del Padre è stato un cammino verso il Padre.
La croce è lo scendere di ogni uomo nel buio, nella notte e nella morte. La croce è quando la tua ragione non ragiona più, cioè, quando non si può più spiegare ciò che accade, quando tu perdi il controllo della situazione, quando ti sembra di andare verso il nulla e la notte, quando ti sembra di essere risucchiato dal male o dalla fine.
Si dice che il vescovo Filippo Franceschi abbia detto: « Credevo fosse una fede forte ed era solo una buona salute ». Viene un momento in cui tutto ciò che credi, tutta la tua fede, tutte le tue sicurezze non ti garantiscono più nulla. Non conta più nulla quello che sai o la tua religione: viene un momento in cui devi fare un salto nel vuoto, fidarti che sarà così e che andrà bene. Non c’è nient’altro.
La croce è il momento dell’impotenza, quando tutte le tue ragioni umane o di fede, quando tutte le tue spiegazioni e il tuo buon senso non reggono più e tutto cade (e devono cadere!). Allora ti sembra di essere abbandonato da Dio. Allora ti senti impotente di fronte ad un destino che è ingestibile, a-razionale e incontrollabile. Allora non ti resta che fidarti di Dio.

Quando tutte le certezze sono crollate allora emerge la unica e vera certezza: Lui. Quando rimane solo il buio allora emerge la luce. Quando tu non hai più nessuna pila o candela o lanterna per illuminare il buio ma sprofondi nel buio totale allora emerge il Sole.
Ad un certo punto mi arrendo e mi devo (o mi toccherà) lasciarmi portare lì dove non voglio andare.
Ad un certo punto mi devo arrendere e fidarmi.
Ma la strada del buio sarà la strada della luce.
La via della morte sarà la via della Vita.

Pensiero della Settimana

Al termine della strada non c’è la strada, ma il traguardo.
Al termine della scalata non c’è la scalata, ma la sommità.
Al termine della notte non c’è la notte, ma l’aurora.
Al termine dell’inverno non c’è l’inverno, ma la primavera.
Al termine della morte non c’è la morte, ma la vita. 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 20 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

Domenica 21 novembre 2010 – Cristo Re dell’Universo

Domenica 21 novembre 2010 - Cristo Re dell'Universo  dans Lettera ai Colossesi

http://www.santiebeati.it/

DOMENICA 21 NOVEMBRE 2010 – XXXIV DEL TEMPO ORDINARIO

CISTO RE DELL’UNIVERSO (s)

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/ordinC/C34page.htm

MESSA DEL GIORNO

Seconda Lettura  Col 1, 12-20
Ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore.
 
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossési

Fratelli, ringraziate con gioia il Padre che vi ha resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce.
È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore, per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati.
Egli è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potenze. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vi­sta di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono.

Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose. È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli.

 UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni, apostolo 1, 4-6. 10. 12-18; 2, 26-28; 3, 5. 12. 20-21

Visione del Figlio dell’uomo nella sua potenza
Grazia a voi e pace da colui che è, che era e che viene, dai sette spiriti che stanno davanti al suo trono, e da Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra.
A colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.
Rapito in estasi, nel giorno del Signore, udii dietro di me una voce potente, come di tromba. Ora, come mi voltai per vedere chi fosse colui che mi parlava, vidi sette candelabri d’oro e in mezzo ai candelabri c’era uno simile a figlio di uomo, con un abito lungo fino ai piedi (Dn 7, 13; 10, 16) e cinto al petto con una fascia d’oro (Dn 10, 15). I capelli della testa erano candidi, simili a lana candida, come neve (Dn 7, 9). Aveva gli occhi fiammeggianti come fuoco, i piedi avevano l’aspetto del bronzo splendente (Dn 10, 6; Ez 1,7. 13), purificato nel crogiuolo. La voce era simile al fragore di grandi acque (Ez 43, 2). Nella destra teneva sette stelle, dalla bocca gli usciva una spada affilata a doppio taglio e il suo volto somigliava al sole quando splende in tutta la sua forza.
Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la destra, mi disse: Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi. Al vincitore che persevera sino alla fine nelle mie opere,
darò autorità sopra le nazioni (Ap 3, 12);
le pascolerà con bastone di ferro
e le frantumerà come vasi di terracotta (Sal 2, 9),
con la stessa autorità che a me fu data dal Padre mio e darò a lui la stella del mattino. Non cancellerò il suo nome dal libro della vita, ma lo riconoscerò davanti al Padre mio e davanti ai suoi angeli.
Il vincitore lo porrò come una colonna nel tempio del mio Dio e non ne uscirà mai più. Inciderò su di lui il nome del mio Dio e il nome della città del mio Dio, della nuova Gerusalemme che discende dal cielo, da presso il mio Dio, insieme con il mio nome nuovo.
Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. Il vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono.

Responsorio    Cfr. Mc 13, 26-27; Sal 97. 9
R. Vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà i suoi angeli. * Riunirà gli eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.
V. Giudicherà il mondo con giustizia e i popoli con rettitudine.
R. Riunirà gli eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.

Seconda Lettura
Dall’opuscolo «La preghiera» di Origène, sacerdote
(Cap. 25; PG 11, 495-499)

Venga il tuo regno
Il regno di Dio, secondo la parola del nostro Signore e Salvatore, non viene in modo da attirare l’attenzione e nessuno dirà: Eccolo qui o eccolo là; il regno di Dio è in mezzo a noi (cfr. Lc 16, 21), poiché assai vicina è la sua parola sulla nostra bocca e sul nostro cuore (cfr. Rm 10,8). Perciò, senza dubbio, colui che prega che venga il regno di Dio, prega in realtà che si sviluppi, produca i suoi frutti e giunga al suo compimento quel regno di Dio che egli ha in sé. Dio regna nell’anima dei santi ed essi obbediscono alle leggi spirituali di Dio che in lui abita. Così l’anima del santo diventa proprio come una città ben governata. Nell’anima dei giusti è presente il Padre e col Padre anche Cristo, secondo quell’affermazione: «Verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23).
Ma questo regno di Dio, che è in noi, col nostro instancabile procedere giungerà al suo compimento, quando si avvererà ciò che afferma l’Apostolo del Cristo. Quando cioè egli, dopo aver sottomesso tutti i suoi nemici, consegnerà il regno a Dio Padre, perché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1Cor 15, 24.28). Perciò preghiamo senza stancarci. Facciamolo con una disposizione interiore sublimata e come divinizzata dalla presenza del Verbo. Diciamo al nostro Padre che è in cielo: «Sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno» (Mt 6, 9-10). Ricordiamo che il regno di Dio non può accordarsi con il regno del peccato, come non vi è rapporto tra la giustizia e l’iniquità né unione tra la luce e le tenebre né intesa tra Cristo e Beliar (cfr. 2Cor 6, 14-15).
Se vogliamo quindi che Dio regni in noi, in nessun modo «regni il peccato nel nostro corpo mortale» (Rm 6, 12). Mortifichiamo le nostre «membra che appartengono alla terra» (Col 3, 5). Facciamo frutti nello Spirito, perché Dio possa dimorare in noi come in un paradiso spirituale. Regni in noi solo Dio Padre col suo Cristo. Sia in noi Cristo assiso alla destra di quella potenza spirituale che pure noi desideriamo ricevere. Rimanga finché tutti i suoi nemici, che si trovano in noi, diventino «sgabello dei suoi piedi» (Sal 98,5), e così sia allontanato da noi ogni loro dominio, potere ed influsso. Tutto ciò può avvenire in ognuno di noi. Allora, alla fine, «ultima nemica sarà distrutta la morte» (1 Cor 15, 26). Allora Cristo potrà dire anche dentro di noi: «Dov’è o morte il tuo pungiglione? Dov’è o morte la tua vittoria?» (Os 13, 14; 1 Cor 15, 55). Fin d’ora perciò il nostro «corpo corruttibile» si rivesta di santità e di «incorruttibilità; e ciò che è mortale cacci via la morte, si ricopra dell’immortalità» del Padre (1 Cor 15, 54). così regnando Dio in noi, possiamo già godere dei beni della rigenerazione e della risurrezione.

Omelia per il 20 novembre 2010: “Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui”

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/14077.html

Omelia (22-11-2008) 
Eremo San Biagio

Dalla Paola del giorno

“Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui” – Commento a Lc 20,38

Come vivere questa Parola?
Gesù proclama questa parola di vita rispondendo al quesito (notevolmente tinto d’ironia!) posto dai Sadducei. C’erano sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. E così il secondo, il terzo… fino al settimo. “Di chi sarà moglie questa donna nella risurrezione?”
Quel che Gesù risponde ha la forza di una folgore e il fragore di un tuono. Sì, perché dissipa l’opacità e le tenebre della loro concezione tutta materialista e legata a cavilli di un ragionare solo con categorie terrene. Gesù vuol dirci che gestire il sesso, come l’usare del cibo, delle bevande e di altro utile alla vita, è qualcosa di strettamente legato alla dimensione terrena dell’esistenza. Ma questa nostra esistenza, per fortuna, non è tutto. Stiamo per spalancarci su quella vita in cui saremo “come gli Angeli di Dio” “figli della risurrezione”. La morte mai più ci toccherà!

Oggi, nella mia pausa contemplativa, chiedo allo Spirito Santo di soffermarmi con gioia su questa prospettiva di libertà e di eternità. La dimensione terrena del mio vivere, con la possibilità di rispondere positivamente ai suoi bisogni, è dono di Dio. Ma guai a me, se ne sono così irretita da non vivere già, in speranza, da “figlio della risurrezione”, io che, fin d’ora, sono “figlio di Dio”
Signore, che non sei Dio dei morti ma dei vivi, dammi di vivere secondo le esigenze del tuo amore, spalancando il cuore agli orizzonti della vita che non finirà.

La voce di un grande Padre della Chiesa
Se la speranza ravviva i nostri occhi, vedremo ciò che è nascosto: il sonno della morte finirà un mattino. Bellissimo sarà il corpo, diletto tempio dello Spirito, rinnovato si muterà nella casa della beata pace. Allora squillerà la tromba sulle sorde arpe: «Svegliatevi, cantate gloria davanti allo Sposo!». Si sentirà un’eco di voci quando si apriranno i sepolcri. Tutti prenderanno le arpe per suonare il canto di lode: Gloria a lui quando umilia, gloria a lui quando risuscita.
S. Efrem il Siro 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 20 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

Paolo di Tarso emigrante e geografo (PDF, troppo complicato estrapolarlo)

http://www.aiig.it/Rivista/Numeri/2008/n06/art_moscone.pdf

2008-2009 ANNO paolino
Paolo di Tarso emigrante e geografo:
una lettura alternativa dell’Aposto lo delle Genti

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