Archive pour novembre, 2010

Omelia per il 23 novembre 2010

dal sito:

http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.pax?mostra_id=16709

Commento su Luca 21,5-11

a cura dei Carmelitani 

Martedì della XXXIV settimana del Tempo Ordinario (Anno I) (24/11/2009)
Vangelo: Lc 21,5-11  

1) Preghiera

Ridesta, Signore, la volontà dei tuoi fedeli
perché, collaborando con impegno alla tua opera
di salvezza,
ottengano in misura sempre più abbondante
i doni della tua misericordia.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…

2) Lettura

Dal Vangelo secondo Luca 21,5-11
In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio e delle belle pietre e dei doni votivi che lo adornavano, Gesù disse: « Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta ».
Gli domandarono: « Maestro, quando accadrà questo e quale sarà il segno che ciò sta per compiersi? »
Rispose: « Guardate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno sotto il mio nome dicendo: ‘‘Sono io » e: ‘‘Il tempo è prossimo »; non seguiteli. Quando sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate. Devono infatti accadere prima queste cose, ma non sarà subito la fine ». Poi disse loro: « Si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno, e vi saranno di luogo in luogo terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandi dal cielo ».

3) Riflessione

- Nel vangelo di oggi inizia il discorso di Gesù, chiamato Discorso Apocalittico. E’ un lungo discorso, che sarà il tema dei vangeli dei prossimi giorni fino alla fine dell’ultima settimana dell’anno ecclesiastico. Per noi del XXI Secolo, il linguaggio apocalittico è strano e confuso. Ma per la gente povera e perseguitata delle comunità cristiane di quel tempo era la parola che tutti capivano ed il cui scopo principale era animare la fede e la speranza dei poveri e degli oppressi. Il linguaggio apocalittico è frutto della testimonianza di fede di questi poveri che, malgrado le persecuzioni, continuavano a credere che Dio stesse con loro e che continuasse ad essere il Signore della storia.
- Luca 21,5-7: Introduzione al Discorso Apocalittico. Nei giorni precedenti il Discorso Apocalittico, Gesù aveva rotto con il tempio (Lc 19,45-48), con i sacerdoti e con gli anziani (Lc 20,1-26), con i sadduccei (Lc 20,27-40), con gli scribi che sfruttavano le vedove (Lc 20,41-47) ed alla fine, come abbiamo visto nel vangelo di ieri, termina elogiando la vedova che da in elemosina tutto ciò che possedeva (Lc 21,1-4). Ora, nel vangelo di oggi, ascoltando che « mentre alcuni parlavano del tempio e delle belle pietre e dei doni votivi che lo adornavano, Gesù disse: « Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta ». Nell’ascoltare questo commento di Gesù, i discepoli domandarono: « Maestro, quando accadrà questo e quale sarà il segno che ciò sta per compiersi? » Loro chiedono più informazione. Il Discorso Apocalittico che segue è la risposta di Gesù a questa domanda dei discepoli sul quando e sul come avviene la distruzione del Tempio. Il vangelo di Marco informa quanto segue sul contesto in cui Gesù pronuncia questo discorso. Dice che Gesù era uscito dalla città ed era seduto sul Monte degli Olivi (Mc 13,2-4). Lì, dallo alto del monte aveva una visione maestosa sul tempio. Marco informa inoltre che c’erano solo quattro discepoli ad ascoltare l’ultimo discorso. All’inizio della sua predicazione, tre anni prima, lì a Galilea, le moltitudini seguivano Gesù per ascoltare le sue parole. Ora, nell’ultimo discorso, ci sono appena quattro uditori: Pietro, Giacomo, Giovanni ed Andrea (Mc 13,3). Efficienza e buon risultato non sempre sono misurati dalla quantità!
- Luca 21,8: Obiettivo del discorso: « Guardate di non lasciarvi ingannare! » I discepoli avevano chiesto: « Maestro, quando accadrà questo e quale sarà il segno che ciò sta per compiersi? » Gesù comincia la sua risposta con un’avvertenza: « Guardate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno sotto il mio nome dicendo: ‘‘Sono io » e: ‘‘Il tempo è prossimo »; non seguiteli ». In epoca di mutamenti e di confusione compaiono sempre persone che vogliono trarre vantaggi dalla situazione ingannando gli altri. Ciò avviene oggi e successe anche negli anni 80, epoca in cui Luca scrive il suo vangelo. Dinanzi ai disastri ed alle guerre di quegli anni, dinanzi alla distruzione di Gerusalemme dell’anno 70 ed alla persecuzione dei cristiani da parte dell’impero romano, molti pensavano che la fine dei tempi stesse per avvenire. C’era gente che diceva: « Dio non controlla più i fatti! Siamo perduti! » Per questo, la preoccupazione principale dei discorsi apocalittici è sempre la stessa: aiutare le comunità a discernere meglio i segni dei tempi per non essere ingannati dalle conversazioni della gente sulla fine del mondo: « Guardate di non lasciarvi ingannare! ». Poi viene il discorso che offre segni per aiutarli a discernere e, così, aumenta in loro la speranza.
- Luca 21,9-11: Segni per aiutarli a leggere i fatti. Dopo questa breve introduzione, inizia il discorso propriamente detto: « Quando sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate. Devono infatti accadere prima queste cose, ma non sarà subito la fine ». Poi disse loro: « Si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno, e vi saranno di luogo in luogo terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandi dal cielo ». Per capire bene queste parole, bisogna ricordare quanto segue. Gesù vive e parla nell’anno 33. I lettori di Luca vivono e ascoltano nell’anno 85. Ora, nei cinquanta anni tra l’anno 33 e l’anno 85, la maggioranza delle cose menzionate da Gesù erano già avvenute e da tutti conosciute. Per esempio, in diverse parti del mondo c’erano guerre, spuntavano falsi profeti, c’erano malattie e pesti e, in Asia Minore, i terremoti erano frequenti. D’accordo con lo stile ben apocalittico, il discorso enumera tutti questi avvenimenti, uno dopo l’altro, quali segni o tappe del progetto di Dio nella storia del Popolo di Dio, dall’epoca di Gesù fino ai nostri tempi:
1º segnale: i falsi messia (Lc 21,8);
2º segnale: guerra e rivoluzioni (Lc 21,9);
3º segnale: nazioni che lottano contro altre nazioni, un regno contro un altro regno (Lc 21,10);
4º segnale: terremoti in diversi luoghi (Lc 21,11);
5º segnale: fame, peste e segni nel cielo (Lc 21,11);
Fin qui, il vangelo di oggi. Quello di domani ci presenta un altro segnale: la persecuzione delle comunità cristiane (Lc 21,12). Il vangelo di dopo domani due segnali: la distruzione di Gerusalemme e l’inizio della disintegrazione della creazione. Così, per mezzo di questi segnali del Discorso Apocalittico, le comunità degli anni ottanta, epoca in cui Luca scrive il suo vangelo, potevano calcolare a che altezza si trovava l’esecuzione del piano di Dio, e scoprire che la storia non era scappata dalla mano di Dio. Tutto avveniva secondo quanto previsto ed annunciato da Gesù nel Discorso Apocalittico.

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Mosé : God gives the law and covenants to his people – Rembrant

Mosé : God gives the law and covenants to his people - Rembrant dans immagini sacre 17%20REMBRANDT%20MOSES%20ZERSCHMETTERT%20DIE%20GESETZES

http://www.artbible.net/1T/Exo1901_Law_covenants/index_7.htm

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Il passaggio di Cristo nella regione della morte ha trasformato il morire di tutti (Gianfranco Ravasi)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2010/084q04a1.html

L’OSSERVATORE ROMANO (12-13 aprile 2010)

Il passaggio di Cristo nella regione della morte ha trasformato il morire di tutti

Quando arriva il giorno dell’incontro

di Gianfranco Ravasi

« Fratello, se vieni a visitare la mia tomba, non devi piangere. Non è giusto addolorarsi per l’unione con Dio. Dopo la mia morte non cercare la mia tomba sulla terra:  la mia tomba è nel cuore di coloro che amano ». Più di una volta ho sostato anch’io a Konya, in Turchia, sotto la grandiosa cupola verde ove è collocato il cenotafio di Gialal ed-Din Rumi, il grande poeta mistico musulmano del XIII secolo. Accanto si leggono appunto le parole che ho citato e che egli aveva dettato per la sua epigrafe. Esse ci svelano una delle tante coincidenze spirituali tra le grandi religioni nella loro anima autentica. Un’antica preghiera musulmana invoca:  « Dio mio, concedimi di morire nel desiderio di incontrarti. Concedimi di prepararmi al giorno dell’Incontro ».
La morte, dunque, non come estuario che sfocia sul nulla, ma come l’Incontro per eccellenza con Dio nella casa del suo regno. Come dice Rumi, la nostra vera tomba non è nel sepolcro, ma nel cuore di coloro che amano, cioè quelli che hanno amore e fede dentro di sé, e quindi custodiscono una scintilla o un germe di eternità. E l’eternità è l’orizzonte a cui siamo destinati dopo la morte. Certo, ben diversi sono i sentimenti dominanti ai nostri giorni. Li esprimeva suggestivamente il cantautore Francesco Guccini nella sua Canzone di notte n.2:  « Ognuno vive dentro ai suoi egoismi / vestiti di sofismi, / e ognuno costruisce il suo sistema / di piccoli rancori irrazionali, / di cosmi personali / scordando che poi infine tutti avremo / due metri di terreno ». Già Cristo aveva considerato questa visione minimalista della vita nella parabola del ricco insensato che accumula senza posa per piombare in una morte sulla quale echeggia una voce terribile:  « Quello che hai preparato di chi sarà? » (Luca, 12, 20).
Sulla scia della celebrazione pasquale che si distende in questi giorni, riproponiamo un tema che è nel cuore di ogni creatura, nonostante lo sforzo di esorcizzarlo, quello del morire, ma lo faremo da un’angolatura teologica, anzi cristologica. Se stiamo ai Vangeli, Gesù incontra direttamente tre cadaveri:  quelli della figlia di Giairo (Marco, 5, 35-43), del figlio di una vedova del villaggio galilaico di Nain (Luca, 7, 11-17) e dell’amico Lazzaro (Giovanni, 11). Davanti alla morte anche Cristo soffre, la percepisce come un dramma; lui stesso, sentendola incombere su di sé, è travolto dall’angustia. Annota Marco:  nel Getsemani, Gesù « cominciò a sentire paura e angoscia. Disse a Pietro, Giovanni e Giacomo:  La mia anima è triste fino alla morte » (14, 33-34). E la sua implorazione è quella di ogni uomo che supplica di essere liberato dallo spettro della fine:  « Abba’, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! »; e l’evangelista ricorda:  « pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora » (14, 35-36).
Quando, alla fine, la morte gli piomba addosso, essa ha i contorni di una vera e propria tragedia. La sofferenza fisica lo attanaglia brutalmente, gli amici lo lasciano solo e, su tutto, incombe il silenzio del Padre:  « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ». Anzi, per Marco e Matteo, quella di Gesù è quasi una brutta morte:  « Gesù, lanciando un forte grido, spirò… Gesù gridò di nuovo a gran voce ed emise lo spirito » (Marco, 15, 37; Matteo, 27, 50). Cristo rivela, in questo momento estremo, l’Incarnazione nella sua verità più lacerante:  il Figlio di Dio, morendo, diventa veramente nostro fratello, perché la carta d’identità fondamentale di ogni figlio di Adamo reca sempre la data della morte, assente nella carta d’identità di Dio.
Eppure, anche in quell’istante e nei successivi, quando è un cadavere nelle mani ora crudeli dei soldati, ora pietose degli amici, Gesù non cessa di essere il Figlio di Dio. Ecco, allora, la radicale lettura cristiana della morte. Già appariva in quei tre incontri che sfociavano non su una risurrezione definitiva:  la figlia di Giairo, il figlio della vedova e Lazzaro hanno, infatti, dovuto successivamente morire. Tuttavia, Cristo, facendo rivivere costoro temporaneamente, illustrava in maniera reale ed efficace il destino ultimo dell’umanità, la risurrezione, ossia la vita per sempre in Dio, il Vivente. La stessa redazione evangelica di quei miracoli di risurrezione tiene in filigrana quella di Cristo così da trasformarli in « segni » pasquali (esplicito è, al riguardo, Giovanni con la vicenda di Lazzaro). Questa luce avvolge in pienezza il morire di Cristo. Infatti, l’evangelista Luca all’abbandono del Padre, descritto da Matteo e Marco, sostituisce l’abbandono di Gesù al Padre:  « Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito! Detto questo, spirò » (23, 46). E Giovanni, come è noto, presenta la morte in croce non più come il nadir dell’umanità di Gesù, bensì come lo zenit epifanico della sua divinità:  « Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono » (8, 28) e non c’è bisogno di ricordare che « Io Sono » è l’autodefinizione divina del Sinai (Esodo, 3, 14).
Da un lato, Cristo col peso reale della sua umanità non minimizza né elide lo scandalo del morire, la sua dimensione di oscurità, il suo bagliore cupo di dolore. D’altro lato, però, la sua divinità, attraversando la regione tenebrosa della morte, la irradia con la luce della sua eternità. Il Venerdì Santo della crocifissione e il Sabato Santo della sepoltura, segni decisivi dell’Incarnazione, si aprono alla Domenica di Pasqua, che è – per usare una famosa frase del profeta Zaccaria – « un unico giorno, non avrà più né dì né notte, ma verso sera risplenderà di nuovo la luce » (14, 7), evidente metafora dell’eternità. Come scriveva suggestivamente in Resistenza e resa, il diario della sua « passione » nel lager nazista, Dietrich Bonhoeffer, « venire a capo del morire non significa ancora venire a capo della morte (…) Non è dall’ars moriendi, ma è dalla risurrezione di Cristo che può spirare nel mondo presente un nuovo vento purificatore ».
Un vento che san Paolo ha sentito soffiare così fortemente da farlo diventare non solo l’asse della sua cristologia, fin dal suo primo scritto che professa la « morte per noi » del Figlio di Dio (1 Tessalonicesi, 5, 10), ma anche dell’antropologia cristiana. Infatti, il passaggio reale di Cristo nella regione della morte trasforma il morire di tutti:  egli « è morto per tutti, perché quelli che vivono (…) vivano per colui che è morto e risorto per loro » (2 Corinzi, 5, 15). In questa prospettiva la morte di Gesù è la liberazione della nostra prima e seconda morte, per usare il linguaggio dell’Apocalisse. Infatti, da un lato, « se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più (…) Egli morì una volta per tutte, ora vive e vive per Dio » (Romani, 6, 8-10). Egli, dunque, feconda il grembo della morte con la sua divina « rugiada luminosa », volendo ricorrere a un’immagine isaiana (26, 19) e ci fa risorgere non a vita transitoria ma alla vita eterna di Dio.
D’altro lato, però, egli ci libera anche dalla « seconda morte, lo stagno di fuoco » (Apocalisse, 20, 14), ossia dalla morte spirituale del peccato:  « Cristo morì per i nostri peccati (…) Voi consideratevi morti al peccato, e viventi per Dio, in Cristo Gesù » (1 Corinzi, 15, 3; Romani, 6, 11). Oltre alla risurrezione dalla morte fisica, Cristo ci dona la giustificazione che libera dalla morte spirituale. Potente e fin audace è la frase della Seconda Lettera ai Corinzi:  « Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio » (5, 21). Proprio per questo duplice effetto, l’evento pasquale – come si diceva – è capitale sia nella cristologia sia nell’antropologia cristiana. Paolo è, al riguardo, esplicito nella sua celebre asserzione:  « Se Cristo non è risorto, vuota è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede » (1 Corinzi, 15, 14). Naturalmente la riflessione teologica paolina è molto più complessa, ma il cuore del suo pensiero batte proprio nella morte-risurrezione di Cristo come principio e sorgente della nostra morte-risurrezione integrale (fisica e morale) e il battesimo ne è l’efficace rappresentazione « sacramentale ».
Un’ultima nota attorno al tema della morte di Cristo. Quell’evento è certamente un’umiliazione estrema per un Dio. San Paolo, nel celebre inno incastonato nella Lettera ai Filippesi, parla di una « kenosi » (ekènosen), un termine che indica uno svuotamento:  « pur essendo nella condizione di Dio…, svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo…, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce » (2, 6-8). Ora, questa scelta di solidarietà nei confronti dell’umanità è espressione di amore. È così che nel Nuovo Testamento la croce di Cristo diventa un segno d’amore. Chi non ricorda l’emozionante avvio del racconto della passione di Gesù secondo Giovanni:  « Sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine » (13, 1)?
Anzi, in quella donazione suprema si può intravedere l’amore del Padre:  « Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna » (3, 16). È un atto di amore libero e genuino, come osserva Paolo:  « A stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi » (Romani, 5, 7-8). A questo punto scatta una lezione per il fedele, è la via dell’imitazione da seguire.
Il filosofo danese dell’Ottocento Soeren Kierkegaard, nel suo Esercizio del cristianesimo, scriveva:  « Che differenza c’è tra un ammiratore e un imitatore? L’imitatore è, ossia vuole essere chi egli ammira; l’ammiratore, invece, loda l’altro ma rimane personalmente fuori ». Ebbene, san Giovanni, nella sua Prima Lettera, di fronte alla morte di Cristo per amore (il « dare la vita per la persona che si ama », come aveva detto lo stesso Gesù) ci invita non tanto all’ammirazione ma all’imitazione:  « In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che Cristo ha dato la sua vita per noi. Allora, anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli » (3, 16).

Secondo viaggio missionario – Paolo a Tessalonica

dal sito:

http://www.christusrex.org/www1/ofm/pope2/greece/GPgr03.html

Secondo viaggio missionario – Paolo a Tessalonica

di Alfio Marcello Buscemi

dal libro: San Paolo. Vita opera messaggio
(SBF Analecta 43), 2a edizione, Gerusalemme 1997

Seguendo la Via Egnatia verso Sud-Ovest, Paolo e Sila attraversarono Anfipoli e Apollonia e, dopo aver percorso circa 150 km, giunsero a Tessalonica, attuale Saloniki (Salonicco). Città fiorente dell’attuale Grecia, fu nell’antichità un centro rinomato e uno dei porti più importanti del Mar Egeo. Fondata da Cassandro, generale e cognato di Alessandro Magno, nel 315 a. C. sull’antico villaggio di Therma, ebbe il nome di Tessalonica in onore della moglie di questo generale, divenuto re della Macedonia alla morte di Alessandro. Dopo la battaglia di Pidna nel 168 a. C., i Romani divisero la Macedonia in 4 distretti e costituirono Tessalonica capoluogo del secondo distretto. Più tardi verso il 42 a. C., dopo la battaglia di Filippi, Antonio e Ottaviano la resero città libera e sede dell’amministrazione romana di tutta la Macedonia. Era retta da un consiglio di 6 magistrati, chiamati « politarchi », come risulta da parecchie iscrizioni e da At 17,6.8. La popolazione era mista, come in tutte le città elleniste, e non mancavano i giudei, che anzi erano numerosi ed avevano una sinagoga (At 17,1).

Seguendo il suo solito metodo missionario (cfr At 13,5; 13,14.46-47; 14.1) – predicare la salvezza prima ai giudei e poi ai gentili – Paolo, appena riuscì a sistemarsi in città trovando anche lavoro (cfr 1Tess.2,9), si diresse subito verso la sinagoga della città per annunciare ai giudei che Gesù è il Cristo sofferente e glorioso, promesso dalle Scritture (At 17,3). Anzi, per tre sabati di seguito riuscì ad attirare l’attenzione dei suoi uditori su quell’argomento e a discutere con loro su passi messianici dell’AT, che preannunciavano non tanto un Messia glorioso e trionfante – così come la tradizione giudaica comune l’attendeva e lo presentava -, ma un Messia che doveva patire e risorgere da morte (At 17,2-3). Il risultato fu il solito: l’assemblea si divise in due parti: una parte, comprendente alcuni giudei, un buon numero di greci e molte donne dell’aristocrazia tessalonicese, si lasciò convincere, si convertirono ed aderirono alla fede di Paolo e Sila; l’altra parte invece, composta soprattutto da giudei, spinta da un senso di invidia e di gelosia per il successo dei due missionari, non solo non accettò la predicazione di Paolo, ma si mise a tramare contro i due missionari.

Non sappiamo quando durò il soggiorno di Paolo e Sila a Tessalonica, ma non dovette durare meno di tre mesi. Fu un periodo di intenso lavoro manuale ed apostolico, che i due missionari dovettero svolgere in maniera capillare, lenta, estenuante, con sacrificio e dedizione, tanto che Paolo potrà scrivere ai Tessalonicesi: « Voi ricordate, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica. Lavorando notte e giorno per non essere di aggravio a nessuno di voi, predicammo in mezzo a voi il Vangelo di Dio. Voi siete testimoni, e lo è Dio stesso, di come ci siamo comportati santamente, giustamente, irreprensibilmente in mezzo a voi che credete. Come pure sapete che, come fa un padre verso i suoi figli, ciascuno di voi abbiamo esortato, incoraggiato e scongiurato a camminare in maniera degna del Dio che vi chiama nel suo regno e nella sua gloria » (1Tess 2,9-12). Il suo lavoro dovette essere pesante e duro, non solo da un punto di vista fisico e materiale, ma soprattutto per le continue lotte ed insidie che i giudei gli tendevano continuamente, come dice lo stesso Paolo: « annunziammo fra voi il Vangelo di Dio in mezzo a molte lotte » (1Tess 2,2) e a molte persecuzioni (1Tess 2,14-16). Ma non fu una fatica vana (1Tess 2,1): i Tessalonicesi corrisposero con fervore, intelligenza e sapienza di Spirito, ricevendo la predicazione di Paolo « non come parola di uomini, ma come è veramente, quale Parola di Dio » (1Tess 2,13), che opera continuamente nel cuore di chi crede e li guida alla santificazione (1Tess 4,7) per mezzo dello Spirito (1Tess 5,19). Anzi, ricevettero la Parola del Signore con tanta « gioia di Spirito Santo pur in mezzo a grande tribolazione, così da divenire modello a tutti i credenti che sono nella Macedonia (Filippi e Berea) e nell’Acaia (Atene e Corinto) » (1Tess 1,6-8). E i frutti più belli di questa missione l’apostolo li ebbe in Giasone, che molto probabilmente li ospitò per tutto il tempo della missione, procurava loro il lavoro e per loro rischiò la vita nel momento in cui i giudei li ricercavano per condurli dinanzi ai « politarchi  » (At 17, 5-7); in Aristarco, che gli fu compagno durante il « terzo viaggio missionario » (At 19,29; 20,4) e anche in quello da Cesarea a Roma (At 27,2), condividendo la sua prigionia (Col 4,10); in Secondo, altro compagno di Paolo durante il terzo viaggio missionario (At 20, 4).

Il successo della predicazione paolina a Tessalonica fu grandissimo, ma esasperò in maniera feroce l’animo dei giudei, che per invidia prezzolarono alcuni facinorosi di piazza – quei « subrostrani » di cui parla Cicerone – la cui attività principale era quella di turbare la quiete pubblica. Con il loro aiuto provocarono un tumulto in città e andarono a cercare Paolo e Sila a casa di Giasone, ma quando vi arrivarono i due missionari erano fuggiti altrove. Sentitisi beffati, i giudei afferrarono Giasone e altri fratelli e li condussero dinanzi ai « politarchi », accusandoli di aver dato ospitalità a dei sediziosi che mettevano a soqquadro tutto il mondo e andavano predicando dottrine contrarie alle istituzioni romane, « dicendo che c’è un altro re, Gesù » (At 17,6-7). Ancora una volta i giudei cercarono di procurare dei guai a Paolo con delle accuse false, ma certamente efficaci presso le autorità greco-romane. Comunque, i « politarchi » sembra che non siano caduti nel tranello. Infatti, anche se sotto cauzione, i « politarchi » lasciarono andare liberi sia Giasone che i fratelli. Così, Paolo, per salvare l’amico che sicuramente avrebbe subito un’ispezione per verificare l’attendibilità dell’accusa, dovette lasciare la città e insieme a Sila rifugiarsi a Berea.

Omelia per il 22 novembre 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/8726.html

Omelia (27-11-2006) 
Monaci Benedettini Silvestrini

La vedova e i suoi due spiccioli

Il luogo del tesoro dove si depositavano le offerte per il Tempio era collocato nell’atrio delle donne. Il denaro che vi si gettava era espressione della riconoscenza verso il Signore per i tanti suoi benefici, e rientrava in quella decima che era per ogni pio israelita, un soave legame con il Signore. Ma come in tutte le cose umane il male si annida facilmente. Quell’atto così sacro era diventato per molti sfoggio della propria personalità. L’evangelista annota: « Gesù, alzati gli occhi, vide i ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro. Vide pure una povera vedova che stava gettando due spiccioli ». In modo solenne Gesù segnala ai suoi discepoli il « più » dato dalla vedova, che dona tutto quanto possiede, indicando in ciò il modello del suo discepolo che mette tutto quanto ha ed è a disposizione di Dio. Il denaro, insieme al consumismo che su di esso si basa, è giunto a costituire per molti il surrogato dell’autentica religione. Tutto è immolato sul suo altare: lavoro, salute, principi morali, famiglia, amici, alfine di apparire, avere potere e godersi la vita. A Dio non si deve né tanto né poco né nulla: Tutto ciò che siamo e abbiamo è dono gratuito del suo amore per noi. « Noi siamo opera delle sue mani ». L’unica cosa da fare è corrispondere liberamente a questo suo amore. Questa donna fa con semplicità ciò che è impossibile a tutti, perché ama come è amata. Ella è una dei quei poveri nello spirito, a cui appartiene il Regno dei cieli 

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Santa Cecilia

Santa Cecilia dans immagini sacre

http://www.santiebeati.it/

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22 NOVEMBRE – SANTA CECILIA, VERGINE E MARTIRE

dal sito:

http://www.unavoce-ve.it/pg-22nov.htm

L’anno liturgico

di dom Prosper Guéranger

22 NOVEMBRE – SANTA CECILIA, VERGINE E MARTIRE

Nobile romana.

La festa di santa Cecilia, vergine e martire, è la più popolare fra le feste che si succedono al declinare dell’anno liturgico. Cecilia appartenne ad una delle più illustri famiglie di Roma e nel secolo III fu una delle più grandi benefattrici della Chiesa, per la sua generosità e per il dono che alla Chiesa fece del suo palazzo in Trastevere. Meritò certamente per questo di essere sepolta con onore nel cimitero di san Callisto presso la cripta destinata alla sepoltura dei Papi. Ma ciò che maggiormente contribuì a farla amare dappertutto è il fatto che sul suo ricordo è nato un grazioso racconto, che ha ispirato pittori, musici, poeti e la stessa Liturgia.
Cecilia sarebbe stata costretta a sposare un giovane pagano: Valeriano. Durante il festino nuziale, rallegrata dalle melodie della musica, Cecilia nel suo cuore si univa agli Angeli per cantare le lodi di Dio, al quale si era consacrata. Condannata ad essere bruciata nelle terme del suo palazzo, il fuoco non la toccò e, inviato un carnefice, perché le troncasse la testa, tentò tre volte, facendole tre gravi ferite al collo, ma la lasciò ancora semiviva e l’agonia durò quattro giorni. Fu deposta nella tomba vestita della veste di broccato d’oro, che indossava nel giorno del martirio, il suo palazzo fu trasformato in basilica.

Il culto.

I fedeli non dimenticarono la giovane martire e sappiamo che già nel secolo V essi solevano raccogliersi al titolo di santa Cecilia. Nel secolo VI Cecilia era forse la santa più venerata di Roma e nel secolo nono Papa Pasquale restaurò la sua chiesa. Spiacente di non possedere reliquie della santa, il Papa vide una notte in sogno una giovane bellissima, che gli disse essere il suo corpo molto vicino alla chiesa restaurata. Fatti degli scavi si ritrovò il corpo vestito di broccato e fu collocato in un sarcofago di marmo sotto l’altare della chiesa.
Nel 1559 il cardinale Sfondrati, modificando l’altare, ritrovò il sarcofago e lo fece aprire. I presenti videro un corpo coperto di un leggero velo, che ne lasciava intravvedere le forme e sul quale scintillavano i resti della veste di broccato. Emozione e gioia a Roma furono immense, ma non si osò, per un senso di rispetto, sollevare il velo per rendersi conto delle condizioni della salma venerata. Lo scultore Maderno riprodusse nel marmo, idealizzandola, la positura della santa che evoca l’idea della verginità e del martirio. Da quella data, come canta un inno,  » il corpo riposa sotto il marmo silenzioso, mentre in cielo, sul suo trono, l’anima di Cecilia canta la sua gioia e accoglie con benevolenza i nostri voti ».
E i nostri voti la Chiesa rivolge a santa Cecilia, ricordando il suo nome ogni giorno nel Canone della Messa e cantandolo nelle Litanie dei Santi, in occasione delle suppliche solenni. I musici di ogni regione del mondo la venerano quale patrona, la Francia innalzò in Albi una luminosa cattedrale e nel 1866, Dom Guéranger pose sotto la protezione della santa, modello di verginità cristiana e di puro amore, il primo convento dei Benedettini della Congregazione di san Pietro di Solesmes.

Gli insegnamenti della santa.

La scarsità di notizie storiche non deve sminuire l’amore che dobbiamo serbare per i santi ai quali la Chiesa ha sempre reso un culto, ottenendo costante protezione e grazie importanti nel corso della storia.
« La Chiesa onora in santa Cecilia, diceva Dom Guéranger, tre caratteristiche, che, riunite insieme, la distinguono nella meravigliosa coorte dei santi in cielo e ne fa derivare grazie ed esempi. Le caratteristiche sono la verginità, lo zelo apostolico e il sovrumano coraggio con il quale sfidò la morte e i supplizi e di qui il triplice insegnamento che ci dà questa sola storia cristiana ».

La verginità.

« Nel nostro tempo, ciecamente asservito al culto della sensualità, occorre resistere con le forti lezioni della nostra fede al travolgimento cui a stento riescono a sottrarsi i figli della promessa. Dopo la caduta dell’impero romano si videro forse costumi, famiglia e società correre pericolo così grave?
Letteratura, arti, lusso, già da tempo presentano il godimento fisico come unico scopo dell’uomo e ormai nella società troviamo molti che vivono col solo intento di soddisfare i sensi. Sventurato il giorno in cui la società, per essere salvata, crederà di poter contare sulle energie dei suoi membri! L’impero romano fece l’esperienza, tentò più volte di respingere l’invasione, ma per l’infrollimento dei suoi figli, ricadde su se stesso e non si sollevò più.
Soprattutto è minacciata la famiglia. È tempo che essa pensi alla sua difesa contro il riconoscimento legale e l’incoraggiamento del divorzio, e si difenderà in un modo solo: riformando se stessa, rigenerandosi con la legge di Dio e ritornando dignitosa e cristiana. Torni in onore il matrimonio con le sue caste esigenze, cessi di essere un gioco o una speculazione, paternità e maternità siano serio dovere e non calcolo e, con la famiglia, riprenderanno dignità e vigore la città e lo Stato.
Però, se gli uomini non sapranno apprezzare l’elemento superiore, senza del quale la natura umana è soltanto rovina, cioè la continenza, il matrimonio non potrà di nuovo nobilitarsi. Non tutti sono tenuti ad abbracciarlo nella sua nozione assoluta, ma tutti devono onorarlo, se non vogliono trovarsi in balia del senso mostruoso come dice l’Apostolo (Rm 1,28). La continenza rivela all’uomo il segreto della sua dignità, che tempra l’anima a tutte le rinunce, che risana il cuore ed eleva tutto il suo essere. La continenza è il culmine della bellezza morale dell’individuo e, nello stesso tempo, la grande forza della società umana. Il mondo antico, avendone soffocato il sentimento, andò in dissoluzione e solo il Figlio della Vergine, comparso sulla terra, rinnovando e affermando questo principio salvatore, diede all’umanità nuove energie.
I figli della Chiesa, degni di questo nome, gustano questa dottrina e non ne restano stupiti, perché le parole del Salvatore e degli Apostoli loro hanno rivelato, e la storia della fede che professano in ogni sua pagina presenta loro in atto, la feconda virtù della continenza. che tutti gli stati della vita cristiana devono professare, ciascuno nella sua misura. Per essi santa Cecilia è solo un esempio di più, ma così fulgido da meritare la venerazione di tutti i tempi nella storia del cristianesimo. Quanta virtù ha ispirato Cecilia, quanto coraggio ha saputo infondere e quante debolezze ha prevenute o riparate! Tanta potenza di moralizzazione pose Dio nei suoi santi che influisce non solo attraverso la diretta imitazione delle loro virtù, ma ancora per le induzioni che ciascun fedele può trarne per il suo caso particolare ».

Lo zelo apostolico.

« Il secondo carattere che si deve studiare nella vita di santa Cecilia è l’ardore dello zelo del quale resta ammirabile esempio e anche sotto questo aspetto possiamo raccogliere utili insegnamenti. Caratteristica dell’epoca nostra è l’insensibilità al male del quale non ci sentiamo personalmente responsabili, i cui risultati non ci toccano. Si è daccordo che tutto precipita, si nota il totale sfacelo e non si pensa neppure a tendere la mano al vicino, per strapparlo al naufragio. Dove saremmo, se il cuore dei primi cristiani fosse stato gelido come il nostro e non fosse stato conquiso dall’immensa pietà e dall’inesauribile amore, che loro vietò di non avere più speranza per il mondo in cui Dio li aveva collocati, perché fossero sale della terra? (Mt 5,13). Tutti allora sentivano la responsabilità del dono ricevuto. Liberi o schiavi, persone note o sconosciute, tutti erano oggetto di una dedizione senza limiti da parte di questi cuori pieni della carità di Cristo. Leggendo gli Atti degli Apostoli e le Epistole si vedrà con quale pienezza si sviluppava l’apostolato dei primi tempi e come l’ardore dello zelo durasse a lungo senza affievolirsi, tanto che i pagani dicevano: « Vedete come si amano! ». Come avrebbero potuto non amarsi, se in ordine alla fede si sentivano figli gli uni degli altri?
Quanta tenerezza materna provava Cecilia per i fratelli, per il fatto di essere cristiana! Il nome di Cecilia, e con il suo molti altri, ci testimoniano che il cristianesimo conquistò il mondo, strappandolo al giogo della depravazione pagana, con questi atti di devozione agli altri che, compiuti in mille luoghi nello stesso tempo, produssero un completo rinnovamento. Imitiamo almeno in parte questi esempi cui tutto dobbiamo e vediamo di sciupare meno tempo ed eloquenza a gemere su mali già troppo noti. È meglio che ciascuno si metta all’opera e conquisti uno almeno dei suoi fratelli e il numero dei fedeli avrà già superato quello degli increduli. Lo zelo non è morto, lo sappiamo, opera anzi in molti e dà gioia e conforto alla Chiesa con i suoi frutti; ma perché deve dormire cosi profondamente in tanti cuori che Dio per lo zelo aveva preparati? ». 

Il coraggio.

« Basterebbe davvero a caratterizzare l’epoca il generale torpore causato dalla mollezza dei costumi; conviene aggiungere ancora un altro sentimento, che ha la stessa sorgente e basterebbe, se dovesse durare a lungo, a rendere incurabile il decadimento di una nazione. Tale sentimento è la paura che ormai si è estesa a tutti. Paura di perdere i propri beni o i propri posti, paura di rinunciare al proprio lusso o alle proprie comodità, paura infine di perdere la vita! Non occorre dire che nulla snerva di più e maggiormente danneggia il mondo di questa umiliante preoccupazione, ma soprattutto occorre dire che non è affatto cristiana. Dimentichiamo di essere soltanto pellegrini sulla terra e abbiamo spenta nel cuore la speranza dei beni futuri! Cecilia ci insegna a disfarci della paura. Quando Cecilia era viva, la vita era meno sicura di oggi e a ragione si poteva avere paura e tuttavia si era tranquilli e spesso i potenti tremavano davanti alle loro vittime.
Solo Dio sa ciò che ci attende; ma se la paura non è sostituita da un sentimento più degno dell’uomo e del cristiano, la crisi politica divorerà presto la vita dei singoli e perciò, qualsiasi cosa avvenga, è giunta l’ora di ricominciare la nostra storia. Non sarà vano l’insegnamento, se arriveremo a comprendere che con la paura i primi cristiani ci avrebbero traditi, perché la parola di vita non sarebbe giunta fino a noi, con la paura a nostra volta tradiremmo le future generazioni, che da noi attendono di ricevere il deposito ricevuto dai nostri padri » (Dom Guéranger, u. s.).

Lode allo sposo delle vergini.  

« Quale nobile falange ti segue, o Signore, Sposo delle vergini! Le anime di elezione sono tua conquista e dalle loro pure labbra sale a te la lode squisita dei loro cuori ferventi. Non è possibile contarle attraverso i secoli, perché ogni generazione ne accresce il numero, da quelle che consacrano, per amore a te, la loro vita ai poveri, ai malati, ai lebbrosi, e a tutte le miserie morali, a quelle che, per amore tuo, rinunciano alle gioie della famiglia e si consacrano alle scuole cristiane, alle istituzioni benefiche o si mortificano nei chiostri.
Ecco, prime, le vergini particolarmente benemerite, perché sigillarono col sangue il loro amore sui roghi o nelle arene: Blandina, Barbara, Agata, Lucia, Agnese… e Cecilia, che in nome di tutte fece omaggio della loro fortezza e consacrò la gloria della loro virtù, a te, o Gesù, seminator casti consilii (Prima Antifona del secondo Notturno della festa), divino seminatore di casti propositi, che solo, mieti simili spighe, che solo, leghi tali manipoli! ».

Preghiera alla patrona dei musici.

« Una similitudine frequente nei Padri della Chiesa fa dell’anima nostra una sinfonia, un’orchestra, Symphonialis anima. Appena la grazia l’afferra, come il soffio che sotto le dita dell’artista fa vibrare l’organo, si commuove e vibra all’unisono coi pensieri e sentimenti del Salvatore. Ecco il magnifico concerto delle anime pure, che Dio può ascoltare con compiacenza, senza che lo turbi la stonatura delle note false del peccato, né la cacofonia urtante delle bestemmie e dei tradimenti!
Degnati, o Cecilia, ricambiare il nostro omaggio, ottenendoci la costante armonia della nostra volontà con le nostre aspirazioni alla virtù e le nostre possibilità di fare il bene! Degnati convincerci che lo stato di grazia, vita normale del cristiano, non è sola astensione dal male, né avara e fredda osservanza dei comandamenti, ma un’attività piena di gioia e di entusiasmo, che sa dare alla carità e allo zelo tutte le possibilità » (Card. Grente, Oeuvres Oratoires, VIII, p. 17-20).

Preghiera per la Chiesa.

« Aggiungiamo ancora una preghiera per la santa Chiesa di cui fosti umile figlia, prima di esserne speranza e sostegno. Nella notte fitta del secolo presente, lo Sposo tarda ad apparire e nel solenne e misterioso silenzio permette alla vergine di abbandonarsi al sonno fino a quando si farà sentire l’annuncio del suo arrivo (Mt 25,5). Onoriamo il tuo riposo sulla porpora della tua vittoria, o Cecilia!
Sappiamo che non ci dimentichi, perché nel Cantico, lo Sposo dice: Dormo, ma il mio cuore vigila (Ct 5,2).
È vicina l’ora in cui lo Sposo apparirà, chiamando tutti i suoi sotto l’insegna della sua Croce e presto risuonerà il grido: Ecco lo Sposo, uscitegli incontro! (Mt 25,6). Dirai allora, o Cecilia, ai cristiani, come al fedele drappello, che, nell’opera della lotta si è stretto attorno a te: Soldati di Cristo, rigettate le opere delle tenebre, vestite le armi della luce (Atti di santa Cecilia).
La Chiesa, che pronunzia tutti i giorni il tuo nome con amore e con fede durante i santi Misteri, attende con certezza il tuo soccorso, o Cecilia! Sa che l’aiuto non le mancherà. Tu prepara la sua vittoria, elevando i cuori cristiani verso le sole realtà troppo spesso dimenticate. Quando gli uomini ripenseranno alla eternità del nostro destino, sarà assicurata salvezza e pace ai popoli.
Sii sempre, o Cecilia, le delizie dello Sposo! Saziati dell’armonia suprema di cui è sorgente. Veglierai su di noi dalla gloria del cielo e, quando giungerà la nostra ultima ora, assistici, te ne supplichiamo, per i meriti del tuo eroico martirio, assistici sul letto di morte, ricevi l’anima nostra nelle tue braccia, portala al soggiorno immortale, dove ci sarà dato comprendere, vedendo la felicità che ti circonda, il prezzo della verginità, dell’apostolato e del martirio » (Dom Guéranger, Histoire de sainte Cécile, 1849, Conclusione). 

da: dom Prosper Guéranger, L’anno liturgico. – II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959, p. 1302-1308 

Publié dans:SANTI, Santi - biografia |on 21 novembre, 2010 |Pas de commentaires »
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