Archive pour novembre, 2010

Isaiah the prophet, events and portraits

Isaiah the prophet, events and portraits  dans immagini sacre 18%20TIEPOLO%20THE%20PROPHET%20ISAIAH

http://www.artbible.net/1T/Isa0000_Portrait_misc/index_4.htm

Publié dans:immagini sacre |on 24 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

Il Profeta Isaia: l’incontro con la grandezza (per l’inizio del Tempo di Avvento)

per l’Avvento il Profeta Isaia, dal sito:

http://www.apostoline.it/riflessioni/profeti/ISAIA.htm

I PROFETI

ISAIA:  l’incontro con la grandezza

di LUIGI VARI, biblista 

Il profeta Isaia, certamente il più famoso tra i profeti, quello che abbiamo più occasione di ascoltare la domenica a Messa, è certamente difficile da presentare. Isaia è complesso, non si legge tutto d’un fiato, ha bisogno di tempo e di studio. Il libro che noi chiamiamo « Isaia » è specchio della complessa attività di questo personaggio e del grande movimento che da esso si è originato. Il libro di Isaia infatti è più una biblioteca che un libro, in quanto contiene tre libri almeno, che gli studiosi chiamano rispettivamente ISAIA, DEUTEROISAIA (secondo Isaia) e TRITOISAIA (terzo Isaia). Questo significa che nel nome di Isaia si è sviluppato un movimento che ha superato la sua vita.
Pensare che quest’uomo abbia influito tanto nell’esperienza del suo popolo da essere diventato uno a cui rifarsi, come un caposcuola, ci rende curiosi e ci spinge ad un incontro umile con un personaggio che deve essere stato straordinario.

Con gli occhi di Dio

Isaia inizia il suo ministero nel 740 e deve averlo esercitato per almeno 40 anni, quando erano re Acaz e poi Ezechia. Anche lui, come tutti, vive la storia del suo tempo e cerca di leggerla con gli occhi di Dio. Vuole che a guidare le scelte del popolo siano criteri profondi, quali quelli della fedeltà all’alleanza, ed inevitabilmente si trova di fronte ad altri modi di lettura che sembrano essere più intelligenti, ma che portano il popolo alla rovina.
Quello che colpisce in Isaia è l’intensità dell’esperienza di Dio, visto in tutta la sua grandezza: « io vidi il Signore seduto su un trono molto elevato, la sua gloria riempiva il tempio » (Is 6,1), la grandezza di Dio spaventa il profeta: « io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono ed in mezzo ad un popolo dalle labbra impure io abito » (6,5). La grandezza, però, non è lontananza, Dio è il Santo, ma è il Santo che si preoccupa del suo popolo: « chi manderò e chi andrà per noi? » e che cerca qualcuno che abbia il coraggio di essere sua presenza fra la gente. La grandezza di Dio prima spaventa e poi coinvolge il profeta che accetta: « Eccomi, Signore, manda me ».
Ogni incontro con Dio è incontro con la grandezza: mai fine a se stessa, ma che ci raggiunge e si impegna con la nostra debolezza per sollevarci.
Il profeta è chiamato a lasciarsi coinvolgere da questa grandezza  e dunque a condividere con Dio l’amore per il suo popolo, a farsi carico delle difficoltà che il popolo vive e a difenderlo dalle minacce. Il profeta è grande della grandezza di Dio quando diventa presenza che solleva, capacità di farsi carico e di condividere, di essere presente quando Dio ha bisogno di entrare nella storia dell’uomo.

Liberarsi dalla paura

Isaia inizia il suo cammino di profeta e scopre che il popolo è segnato dallo scoraggiamento, paralizzato dalla paura. Cerca allora di dare coraggio e si rivolge al re Acaz: « Veglia e stà calmo, il tuo cuore non deve indebolirsi a causa di questi due resti di tizzoni fumanti » (7,4). L’immagine di « tizzone fumante » dice la morte, la debolezza mortale. Dio incoraggia il suo popolo, lo libera dalla paura, invitandolo a guardare con occhio attento il motivo della paura e a rendersi conto che è, per molti versi, ingiustificata. Non è facile, però, liberarsi dalla paura. Si tratta di fare scelte segnate dalla fede,si tratta di avere il coraggio di accantonare i calcoli che ci rendono sicuri. È il dramma di sempre: quanto ci si può fondare su Dio per le scelte che riguardano la nostra vita? Il re è invitato da Isaia a correggere la propria politica e a fidarsi di Dio. Che cosa deve fare un re? Capita spesso di dover notare una sorta di sorriso compassionevole di fronte alla parola di Dio, un sorriso di sufficienza che tende a relegare Dio nella schiera degli ingenui che non faranno mai storia;  capita quando si nega alla Parola di illuminare le nostre scelte, quando non si riconosce la possibilità che il punto di vista di Dio possa essere quello giusto anche se contrasta con il nostro giudizio spesso reso debole dalla paura. E quando questo capita, quando neghiamo a Dio la concretezza noi neghiamo la sua grandezza, per cui il profeta afferma: « se voi non vi terrete fermi (se non vi fidate del giudizio di Dio), voi non sarete tenuti fermi » (7,9: lettura della CEI: se voi non crederete non sussisterete), l’alternativa è fra l’essere fondati e l’essere sbattuti da ogni vento.
Acaz si trova davanti a questo dilemma, ma Dio non lo lascia solo; lo invita chiedere un segno: « Il Signore parlò ancora ad Acaz in questi termini: »Domanda un segno per te al Signore tuo Dio, domandalo negli abissi o sulla sommità del cielo » . Acaz rispose: « Io non lo domanderò e non metterò il Signore alla prova » (Is 7,10-12).
Il segno non è necessariamente un miracolo, è qualcosa di verificabile nel tempo. Acaz viene invitato a scegliere, ma senza rinunciare alla possibile verifica; qui scatta il dramma: il re non vuole nessun segno! La paura che rende il re incapace di decidere per il bene viene scelta come stato di vita, come situazione permanente.
A questo punto la storia sembrerebbe chiusa alla speranza, il rifiuto sembra condannare l’uomo alla paura perpetua; la paura, la paralisi diventano incapacità di fare il bene.

L’Emmanuele: il segno della fedeltà di Dio

Isaia, profeta, scopre allora che LA STORIA È DI DIO, che l’uomo è di Dio: « Ascoltami dunque, casa di Davide, è troppo poco per voi affaticare gli uomini, che voi volete affaticare anche il mio Dio? Il Signore vi darà lui stesso un segno, ecco: la Vergine concepirà e partorirà un figlio che chiamerà Emmanuele » (7,10-14).
L’Emmanuele è, nella lettura dei Vangeli (Mt 1,23) e della tradizione cristiana, lo stesso Cristo che viene così ad essere il segno della fedeltà di Dio, della speranza, della liberazione dalla paura per l’uomo che cammina ogni giorno aggredito da tanti tipi di tenebra.
Cristo è la luce che orienta il cammino: »il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce: su coloro che abitavano in terre tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia (…) poiché un bimbo è nato per noi, ci è stato dato un figlio (…) consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace ».
Isaia è molto più ricco di quanto non appaia da queste poche righe; ma io penso che in questa parte di profezia che abbiamo incontrato ci siano elementi di grande riflessione per l’attualità della nostra vita. Le domande del re e le sue paure sono spesso anche le nostre, come è nostra a volte la paura, una paura dalla quale ci lasciamo sedurre. Isaia indica la fedeltà di Dio, la speranza, la fiducia come strada di uscita dalla paura e ci invita a verificare vivendo la verità di Dio e delle sue parole; verità che per noi è Cristo.
C’è una poesia di Brecht che forse può dare un’idea non solo della tristezza di un cuore senza speranza, ma anche di come sia necessario e grande l’annuncio dell’Emmanuele e della gioia che lo accompagna.

« Non vi fate sedurre/ non esiste ritorno/ il giorno sta alle porte,/ già è qui vento di notte./Altro mattino non verrà.// Non vi lasciate illudere/ che è poco, la vita,/ bevetela a gran sorsi/ non vi sarà bastata/ quando dovrete perderla.// Non vi date conforto:/ vi resta poco tempo./ Chi è disfatto marcisca./ La vita è la più grande:/ nulla sarà più vostro.// Non vi fate sedurre/ da schiavitù e da piaghe:/ che cosa vi può ancora spaventare?/ Morire con tutte le bestie./ E non c’è niente dopo ».

(B. Brecht, Poesie e Canzoni, R. Leiser e F Fortini, 1961 Torino).

Con questa poesia concludiamo il nostro incontro con il profeta Isaia lasciando alle sue parole, soprattutto quelle sull’Emmanuele, il compito di dissipare l’angoscia o la tristezza che da questa lettura potrebbe nascere nel nostro cuore.

(da « Se vuoi »)

Il Tempo di Avvento – Attendere Cristo: svegliarsi

dal sito:

http://www.sanpietroapostolopirri.it/tempo_avvento_09.html

Il Tempo di Avvento
 
Attendere Cristo: svegliarsi

 La parola Avvento che indica le quattro settimane con cui la Chiesa si prepara al Natale, deriva dal verbo latino ad-venio, cioè venire, anzi, venire verso… È Dio che ci viene incontro e che si fa bambino per incontrarci sul nostro stesso terreno. È lui che ci viene a cercare nei nostri deserti, nelle nostre vite… Ma chiede a noi di incamminarci verso di Lui, di non lasciarci andare, di non lasciarci cadere le braccia.
Facciamo dunque memoria della venuta di Cristo nella storia, ma ricordiamo anche la sua venuta futura, che attendiamo nella speranza. Egli tornerà per regnare per sempre. La nostra attesa deve essere vigilante al pari della sposa che attende lo Sposo. Solo Dio può dare risposta ai desideri più profondi del cuore.
Tre grandi figure nelle quattro domeniche ci aiuteranno ad entrare nel clima di attesa luminosa e paziente: il profeta Isaia, che sette secoli prima previde la nascita del Salvatore, il profeta Giovanni il Battista, intrepido assertore della verità e della giustizia e la Madre di Gesù, Maria, che ci condurrà nel cuore dell’Avvento a riconoscere suo figlio nell’umiltà di Betlemme. Per vivere bene questo tempo dobbiamo meditare più attentamente la Parola di Dio. Più si conosce, più si ama.
Questo tempo dell’attesa inizia con un invito forte: «Risollevatevi e alzate il capo…». Cioè guarda in avanti, sii sveglio, la «liberazione è vicina». Dio viene. Troppo comodo vivere la vigilanza cristiana stando alla finestra e guardando la storia. Dobbiamo essere nei flutti del fiume. L’Avvento è tempo di risveglio e di scelta. L’umiltà dell’Incarnazione diventa perno della coscienza che si fa certa che Dio ha vinto il mondo. Risorge la speranza di un futuro migliore.

La storia

Nel tempo in cui incomincia a determinarsi l’esigenza di un periodo di preparazione alle feste della manifestazione del Signore, la Chiesa aveva già fissato le modalità di preparazione alle feste pasquali. Nel IV secolo il tempo pasquale e quaresimale avevano già assunto una configurazione vicinissima a quella attuale.
L’origine del tempo di Avvento è più tardiva, infatti viene individuata tra il IV e il VI secolo. La prima celebrazione del Natale a Roma è del 336, ed è proprio verso la fine del IV secolo che si riscontra in Gallia e in Spagna un periodo di preparazione alla festa del Natale.
Per quanto la prima festa di Natale sia stata celebrata a Roma, qui si verifica un tempo di preparazione solo a partire dal VI secolo. Senz’altro non desta meraviglia il fatto che l’Avvento nasca con una configurazione simile alla quaresima, infatti la celebrazione del Natale fin dalle origini venne concepita come la celebrazione della risurrezione di Cristo nel giorno in cui si fa memoria della sua nascita. Nel 380 il concilio di Saragozza impose la partecipazione continua dei fedeli agli incontri comunitari compresi tra il 17 dicembre e il 6 gennaio.
In seguito verranno dedicate sei settimane di preparazione alle celebrazioni natalizie. In questo periodo, come in quaresima, alcuni giorni vengono caratterizzati dal digiuno. Tale arco di tempo fu chiamato « quaresima di s. Martino », poiché il digiuno iniziava l’11 novembre. Di ciò è testimone s. Gregorio di Tours, intorno al VI secolo.

Il significato teologico

La teologia dell’Avvento ruota attorno a due prospettive principali. Da una parte con il termine « adventus » (= venuta, arrivo) si è inteso indicare l’anniversario della prima venuta del Signore; d’altra parte designa la seconda venuta alla fine dei tempi.
Il Tempo di Avvento ha quindi una doppia caratteristica: è tempo di preparazione alla solennità del Natale, in cui si ricorda la prima venuta del Figlio di Dio fra gli uomini, e contemporaneamente è il tempo in cui, attraverso tale ricordo, lo spirito viene guidato all’attesa della seconda venuta del Cristo alla fine dei tempi.

L’attuale celebrazione

Il Tempo di Avvento comincia dai primi Vespri della domenica che capita il 30 novembre o è la più vicina a questa data, e termina prima dei primi Vespri di Natale. E’ caratterizzato da un duplice itinerario – domenicale e feriale – scandito dalla proclamazione della parola di Dio.

1. Le domeniche

Le letture del Vangelo hanno nelle singole domeniche una loro caratteristica propria: si riferiscono alla venuta del Signore alla fine dei tempi (I domenica), a Giovanni Battista (Il e III domenica); agli antefatti immediati della nascita del Signore (IV domenica). Le letture dell’Antico Testamento sono profezie sul Messia e sul tempo messianico, tratte soprattutto dal libro di Isaia. Le letture dell’Apostolo contengono esortazioni e annunzi, in armonia con le caratteristiche di questo tempo.

2. Le ferie

Si ha una duplice serie di letture: una dall’inizio dell’Avvento fino al 16 dicembre, l’altra dal 17 al 24. Nella prima parte dell’Avvento si legge il libro di Isaia, secondo l’ordine del libro stesso, non esclusi i testi di maggior rilievo, che ricorrono anche in domenica. La scelta dei Vangeli di questi giorni è stata fatta in riferimento alla prima lettura. Dal giovedì della seconda settimana cominciano le letture del Vangelo su Giovanni Battista; la prima lettura è invece o continuazione del libro di Isaia, o un altro testo, scelto in riferimento al Vangelo. Nell’ultima settimana prima del Natale, si leggono brani del Vangelo di Matteo (cap. 1) e di Luca (cap. 1) che propongono il racconto degli eventi che precedettero immediatamente la nascita del Signore. Per la prima lettura sono stati scelti, in riferimento al Vangelo, testi vari dell’Antico Testamento, tra cui alcune profezie messianiche di notevole importanza.

La novena di Natale

Come si è appena visto, il tempo di Avvento guida il cristiano attraverso un duplice itinerario: « È tempo di preparazione alla solennità del Natale, in cui si ricorda la prima venuta del Figlio di Dio fra gli uomini, e contemporaneamente è il tempo in cui, attraverso tale ricordo, lo spirito viene guidato all’attesa della seconda venuta del Cristo alla fine dei tempi » (Norme per l’anno liturgico e il calendario, 39: Messale p. LVI). Nella liturgia delle prime tre domeniche e nelle ferie sino al 16 dicembre si può notare l’insistenza sul tema della seconda venuta di Gesù alla fine dei tempi, mentre nei giorni compresi tra il 17 e il 24 tutta la liturgia è ormai tesa verso la celebrazione della nascita del Figlio di Dio. La novena di Natale cade pienamente nel secondo periodo dell’Avvento.
Le novene sono celebrazioni popolari che nell’arco dei secoli hanno affiancato le « liturgie ufficiali ». Esse sono annoverate nel grande elenco dei « pii esercizi ». « I pii esercizi – afferma J. Castellano – si sono sviluppati nella pietà occidentale del medioevo e dell’epoca moderna per coltivare il senso della fede e della devozione verso il Signore, la Vergine, i santi, in un momento in cui il popolo rimaneva lontano dalle sorgenti della bibbia e della liturgia o in cui, comunque, queste sorgenti rimanevano chiuse e non nutrivano la vita del popolo cristiano ».
La novena di Natale, pur non essendo « preghiera ufficiale » della Chiesa, costituisce un momento molto significativo nella vita delle nostre comunità cristiane. Proprio perché non è una preghiera ufficiale essa può essere realizzata secondo diverse usanze, ma un indiscusso « primato » spetta alla novena tradizionale, nella notissima melodia gregoriana nata sul testo latino ma diffusa anche nella versione italiana curata dai monaci benedettini di Subiaco.
La domanda che ogni operatore pastorale dovrebbe porsi di anno in anno è: « come posso valorizzare la novena di Natale per il cammino di fede della mia comunità? ».
Può infatti capitare che tale novena continui a conservare intatta la caratteristica di « popolarità » venendo però a mancare la dimensione ecclesiale, celebrativa e spirituale. Tali dimensioni vanno recuperate e valorizzate per non far scadere la novena in « fervorino pre-natalizio ».

1. Recupero della dimensione ecclesiale-assembleare

Pur non essendo – come si è detto – una preghiera ufficiale della Chiesa, la novena può costituire un momento ecclesiale molto significativo. Molti vi partecipano perché « attratti » dalla « novena in latino » (le chiese in cui la si canta in « lingua ufficiale » sono gremite!) e vi si recano per una forma di godimento personale che pone radici nella nostalgia dei tempi passati e non nel desiderio di condividere un momento di approfondimento della propria fede. È bene che i partecipanti prendano coscienza che sono radunati per una celebrazione che ha lo scopo di preparare il cuore del cristiano a vivere degnamente la celebrazione del Natale.

2. Recupero della dimensione celebrativa

La novena di Natale è molto vicina alla celebrazione dei vespri. Va pertanto realizzata attraverso una saggia utilizzazione dei simboli della preghiera serale: la luce e l’incenso. È bene che vi sia una proclamazione della parola e una breve riflessione. L’intervento in canto dell’assemblea va preparato e guidato. È utile ricordare che l’esposizione del SS. Sacramento col solo scopo di impartire la benedizione eucaristica – usanza frequente nelle novene di Natale – è vietata (Rito del culto eucaristico n. 97).

3. Recupero della dimensione spirituale

La novena di natale è una « antologia biblica » ricca di nutrimento per lo spirito. È quindi l’occasione per proporre non una spiritualità devozionale ma ispirata profondamente dalla Parola di Dio. Non è l’occasione per fare « bel canto » ma per lasciarsi coinvolgere esistenzialmente dalla Parola di Dio cantata.

Enrico Beraudo

Omelia (24-11-2010) : Il cantico di Mosè e dell’Agnello

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/20646.html

Omelia (24-11-2010) 
Monaci Benedettini Silvestrini

Il cantico di Mosè e dell’Agnello

La visione che ci presenta l’odierna Liturgia della Parola, mentre ci porta a contemplare le meravigliose opere di Dio, rapendoci al di sopra della volta celeste, annuncia anche le dure prove riservate a chi vuol servire il Signore. E’ meravigliosamente bello poter unire la nostra voce con quella dello stuolo innumerevole di fedeli che hanno vinto la santa battaglia della vita, che non si sono lasciati ingannare dalle attrattive del male e quindi rendono grazie a Dio per la sua protezione. Grandi e meravigliosi le opere di Dio! Non solo le opere della creazione, ancor più quelle della redenzione dell’uomo. Tutte le genti alla fine dovranno riconoscere che solo il nostro Dio ha giusti giudizi e quindi dinanzi a Lui si prostreranno perché lui solo è santo e degno di adorazione. Ma quale la via che viene indicata per raggiungere questa beata assemblea? Ce lo dice San Luca: persecuzioni, prigioni, giudizi dinanzi a sinagoghe e governatori… Non basta! Anche qualche cosa di più grave e di inaudita sofferenza: tradimenti da parte di genitori, fratelli, parenti e amici: pena di morte per alcuni, per tutti odio a causa del nome di Gesù. In questi tragici eventi agli amici di Dio verrà data l’opportunità di rendere testimonianza alla verità, senza che si diano pensiero di preparare difesa alcuna. Parlerà lo Spirito di Gesù che non permetterà che non cada nemmeno una capello dal capo dei suoi amici. Dinanzi a questa previsione di Gesù, non si deve fare molto sforzo per vedere anche nei giorni nostri la verifica di quanto viene annunciato: persecuzioni contro la Chiesa e il Papa nel nostro mondo occidentale, tanto da voler distruggere con accanimento l’opera del Signore, prendendo pretesto da debolezze umane; persecuzione e martirio nelle regioni musulmane dove i seguaci di Gesù sono discriminati, impediti nella preghiera, perseguitati, messi a morte, costretti alla fuga o a una vita di terrore con chiese date alle fiamme, villaggi distrutti, privati dei diritti umani, derubati dei loro beni, tutto con la indifferenza di governi e di autorità civili. Ma la fiducia nella Parola del Signore dà sempre certezze di vittoria. La morte offre la corona del martirio, la spogliazione di beni, eterna gloria nei cieli, la persecuzione rende simili a Cristo, incompreso dal suo stesso popolo, rifiutato, crocifisso ma fatto risuscitare dal Padre e seduto sul trono per l’eternità. 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 24 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

Omelia per il 24 novembre 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/20631.html

Omelia (24-11-2010) 
Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno

Sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto.

Come vivere questa Parola?
Tra le pagine più drammatiche del vangelo c’è anche quella da cui è tolta questa pericope. Gesù parla di quelle cose che saranno preludio della fine di questo nostro mondo. Il clima apocalittico non è certo all’insegna di una festa, ma è un’occasione per riflettere anche su alcuni aspetti della nostra vita che, se nella quotidianità non sono tragici, rappresentano però la durezza e la fatica della sofferenza, qualche volta dello smacco, del fallimento e dell’appressarsi della morte.
Ma come può dunque dire il Signore che, dentro tutto questo, « neppure un capello del vostro capo andrà perduto »? Ecco, proprio qui riposa la nostra ferma speranza. Perché Dio è il Dio della salvezza e non della perdizione; è il Dio che non ha esitato, nel Figlio suo, a dare la sua stessa vita. E dunque non troverà modo, proprio nella sua onnipotenza amante di preservarci da quello che, per ognuno di noi, è male veramente?
Ci ha talmente amati da dare, in morte di croce, Gesù; come potrebbe lasciar perdere la preziosità che siamo dunque noi ai suoi occhi?
Mi soffermo su queste considerazioni e chiedo, in preghiera, che si rinvigorisca la mia fede.
Signore, tu sei infinita tenerezza! Fa di me un pozzo di fiducia inesauribile.

La voce di un padre spirituale
Ogni cosa passa! Abbiate cura dell’anima, confessatevi, fate la santa comunione, conducete una vita pura, fate elemosine di misericordia, fate tutto quello che potete e vivete nell’amore reciproco, perché l’amore non muore mai».
Padre Cleopa di Sihastria 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 24 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

A statue of Saint Paul the Apostle at the parish dedicated to him in the Roman Catholic Diocese of Cubao

A statue of Saint Paul the Apostle at the parish dedicated to him in the Roman Catholic Diocese of Cubao dans IMMAGINI (DI SAN PAOLO, DEI VIAGGI, ALTRE SUL TEMA) 450px-Saint_Paul_the_Apostle_at_the_Diocese_of_Cubao

http://en.wikipedia.org/wiki/File:Saint_Paul_the_Apostle_at_the_Diocese_of_Cubao.jpg

Paolo a Roma: Battezzare nel Tevere, celebrare nelle case

dal sito:

http://www.romasette.it/modules/news/article.php?storyid=4602

Paolo a Roma: Battezzare nel Tevere, celebrare nelle case
 
di Andrea Lonardo

I primi battesimi in Roma debbono essere avvenuti certamente nel Tevere, prima che si giungesse all’edificazione di battisteri stabili, sempre comunque con acqua corrente, nel periodo costantiniano.
Tertulliano, nel De baptismo, a cavallo fra il II ed il III secolo, ne accenna di passaggio, come un dato di fatto ovvio, solo per sottolineare che non bisogna badare alla diversità delle acque, come se ne esistessero di migliori o peggiori, poiché tutte ricevono la stessa forza sacramentale di rendere figli di Dio, per opera dello Spirito di Cristo:
«Non sussiste alcuna differenza fra chi viene lavato in mare o in uno stagno, in un fiume o in una fonte, in un lago o in una vasca, né c’è alcuna differenza fra coloro che Giovanni battezzò nel Giordano e Pietro nel Tevere, a meno che l’eunuco che Filippo battezzò con l’acqua trovata per caso lungo la strada abbia ottenuto in misura maggiore o minore la salvezza!»
Molti dei cristiani che accolsero Paolo a Roma devono aver ricevuto così il battesimo nel fiume a cui Roma deve la sua esistenza. I primi evangelizzatori dell’urbe, dei quali non si è conservato il nome, più volte scesero alle acque del Tevere insieme ai nuovi credenti che domandavano di ricevere il battesimo e più volte risuonò sulle rive del fiume di Roma la triplice domanda sulla fede in Dio Padre e nel Figlio e nello Spirito, forma primitiva del Credo cristiano che si svilupperà poi nel Simbolo degli apostoli e nel Credo niceno-costantinopolitano.
Dalla Lettera ai Romani appare con chiarezza che la composizione della prima comunità cristiana doveva essere mista, comprendendo nel suo seno cristiani che provenivano sia dal giudaismo, sia dal paganesimo.
Dalle attestazioni epigrafiche è ormai noto che la comunità ebraica era divisa in Roma, nel II-III secolo d.C., in sinagoghe ed è presumibile che molti di questi gruppi esistessero già in età neroniana. Se ne conservano, nelle epigrafi funerarie, 11 nomi: la sinagoga detta degli Ebrei (probabilmente la più antica, che doveva essere stata creata forse già al tempo dei Maccabei, nel II secolo a.C.), quella dei Vernaculi, quella detta degli Augustenses (probabilmente voluta dalla benevolenza dell’imperatore Augusto), quella detta degli Agrippini (voluta similmente da Marco Vipsanio Agrippa), quella dei Volumnenses (voluta forse da Volumnio, legato in Siria ed amico di Erode il grande), quella dei Campenses (dal Campo Marzio dove doveva avere il suo punto di riferimento), dei Suburenses (dalla Suburra, subito dietro i Fori imperiali, dove era certamente la sua localizzazione), quella dei Calcarenses (di più difficile localizzazione, forse verso l’antica Porta Collina), quella detta di Elaia (probabilmente a motivo della città greca da cui provenivano i suoi componenti), quella dei Tripolini e quella dei Sechenon (termine greco di non univoca interpretazione).
Le prime presenze ebraiche in Roma in ordine cronologico debbono essere situate nella zona di Trastevere, il primo quartiere nel quale vennero ad abitare gli ebrei di Roma, giunti al seguito dell’ambasciata dei Maccabei e poi, in gran numero, come schiavi, quando Pompeo conquistò la Giudea nel 63 a.C. La catacomba di Monteverde conserva molte epigrafi ebraiche proprio perché era il luogo di sepoltura dei primi ebrei romani residenti a Trastevere.
Le iscrizioni rivelano la presenza di un gran numero di liberti che accedevano pian piano alla libertà; non si ha notizia, per il I secolo, di una vita culturale ancora particolarmente attiva nella comunità ebraica romana (l’unica personalità ebraica di rilievo intellettuale nella Roma del I secolo d.C., oltre a quelle neotestamentarie, è la figura di Flavio Giuseppe, che fu ospitato nella residenza di Vespasiano antecedente alla sua salita al seggio imperiale, luogo nel quale lo storico scrisse anche le sue opere, avendo pieno accesso agli archivi dello stato romano).
Gli studi ipotizzano che a Roma vivessero all’epoca circa 15.000 ebrei – un numero simile alla consistenza attuale della comunità ebraica romana – sebbene tale cifra sia ampiamente opinabile, in quanto fondata su deduzioni e non su dati certi.
Quando Paolo venne ad abitare in Roma in attesa del processo, nella forma di una custodia militare, invitò subito i “primi” tra i giudei (At 28,17), le autorità delle diverse sinagoghe, ad incontrarlo. Non è certa la localizzazione di questo evento. La tradizione vuole che Paolo abbia vissuto i “due anni interi” (At 28,30) della sua permanenza in libertà vigilata nell’Urbe precisamente nel luogo dove sorge ora la Chiesa di San Paolo alla Regola, vicino Ponte Sisto e via Giulia. La Chiesa è stata restaurata proprio in vista dell’anno paolino e gli scavi sottostanti permettono di toccare con mano il livello dell’insula romana sulla quale fu edificata la chiesa.
Oltre alla basilica di S. Prisca, il terzo luogo romano che rivendica una abitazione paolina è la chiesa di Santa Maria in via Lata (via Lata era l’antico nome dell’attuale via del Corso). La cripta di questa Chiesa permette di venire a contatto con il sottostante livello romano di età neroniana ed invita a venerare i luoghi nei quali, secondo la tradizione, avrebbero dimorato Pietro e Paolo, ma anche gli evangelisti Luca e Giovanni.
Gli Atti e le lettere testimoniano che era proprio nelle case private che avveniva l’incontro delle comunità cristiane e la celebrazione dell’eucarestia. Personalità più abbienti della comunità dovevano possedere delle abitazioni spaziose e mettevano a disposizione i locali più ampi, probabilmente il triclinium, delle loro case per gli incontri.
È certo, dai testi neotestamentari, che le riunioni fin dal I secolo erano già settimanali, scandendo il tempo a partire dal giorno della resurrezione del Signore; esse comprendevano la preghiera, la lettura delle Scritture (cioè dell’Antico Testamento, al quale cominciavano ad aggiungersi gli scritti neotestamentari ancora indipendenti l’uno dall’altro), la predicazione di qualcuno degli apostoli o di personalità legate alla tradizione apostolica ed, infine, la fractio panis.
Lo stesso Paolo è descritto due volte, negli Atti, presiedere la celebrazione dell’eucarestia, una prima volta proprio in una casa privata a Tròade (in At 20,11, dopo il miracolo della resurrezione del giovinetto che era morto cadendo per essersi addormentato a motivo della lunghezza della riunione che si era protratta fino a mezzanotte!) ed una seconda sulla nave che si dirigeva verso Malta, poco prima del naufragio (At 27,35).
Quando Paolo ricorda ai Corinzi l’eucarestia che ha loro trasmesso dopo averla ricevuta a sua volta non ha in mente solo la consegna delle espressioni pronunciate da Gesù nell’ultima cena con il loro significato, ma, ben più significativamente, la tradizione stessa dell’evento liturgico che egli doveva aver presieduto nella comunità di Corinto e che aveva chiesto fosse perpetuato dai corinzi.
Senza poterne così individuare con esattezza i luoghi, la città di Roma, con il suo fiume e con le sue insulae romane sottostanti le successive chiese, ricorda a tutti i molti luoghi nei quali Paolo e le prime comunità cristiane celebravano l’iniziazione cristiana di coloro che «il Signore aggiungeva a coloro che erano salvati» (At 2,48).

20 marzo 2009

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