Archive pour novembre, 2010

LA SECONDA VENUTA DI CRISTO

dal sito:

http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/escatologia/venutanikolai.htm

San Nikolai Velimirovich, vescovo di Ohrid e Zhicha

LA SECONDA VENUTA DI CRISTO

La comprensione ortodossa della Seconda Venuta di Cristo è chiara: il Signore Gesù Cristo veramente tornerà. Il suo secondo avvento, non è un mito, né una promessa vuota, né è una metafora, infatti, ogni volta che si celebra la Divina Liturgia, il sacerdote fa un proclamazione al Padre che rivela come la Chiesa risponde non solo alla Seconda Venuta di Cristo, ma a tutta la Sua opera.

Ricordando questo comandamento di salvezza (il comandamento di Gesù a mangiare la sua carne e bere il suo sangue) e tutto ciò che è stato fatto per noi, la Croce, la Tomba, la Risurrezione il terzo giorno, l’Ascensione al Cielo, l’Assisa alla destra e la Seconda e gloriosa Venuta – noi ti offriamo ciò che è tuo, da ciò che è tuo, in tutto e per tutto*.

I cristiani ortodossi credono anche la rivelazione del Nuovo Testamento della seconda venuta di Cristo è intesa a stimolare la nostra preparazione, non le nostre speculazioni su di essa. Questo spiega la relativa semplicità con cui il Credo di Nicea, la confessione più universale della fede di tutta la cristianità, indirizzi al ritorno di Cristo: “Egli… di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, il cui Regno non avrà fine”. L’enfasi dell’Ortodossia storica è che Gesù tornerà, non quando Egli tornerà.

Così san Paolo scrive: “rinunciando all’empietà e ai desideri mondani, per vivere in questo mondo sobriamente, giustamente e in modo santo, aspettando la beata speranza e l’apparizione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore, Gesù Cristo, che ha dato se stesso per noi per riscattarci da ogni iniquità e purificarsi un popolo che gli appartenga, zelante nelle opere buone (Tito 2, 12-14).

Ci sono segni della Venuta di Cristo, per essere sicuri. Gesù profetizzò tanti eventi che avrebbero avuto luogo nel mondo, prima del Suo ritorno (Matteo 24; Luca 21, 7-36). Ma persino qui gli insegnamenti di Gesù in questi evangeli si concludono con la sua esortazione alla virtù, alla giustizia, e alla preparazione per il Giudizio. Cristo e gli apostoli danno ammonimenti severi, impliciti ed espliciti, contro il tirare a indovinare il tempo della sua venuta (Matteo 24, 3-8. 36.43.44.50; Luca 21, 7-9.34; Atti 1, 7; I Tessalonicesi 5, 1-3; II Pietro 3, 8-10).

Gran parte della moderna cristianità ha ceduto alla divisiva speculazione riguardo al ritorno di Cristo. Siamo stati divisi in partiti pre-millenari, post-millenari, e millenari. Suddividendo ancora di più, ci sono aderenti alla pre-tribolazione, medio-tribolazione, e post-tribolazione. Cristiani separati e nuove denominazioni si slanciano intorno a interpretazioni di eventi che non sono ancora nemmeno venuti ad accadere!

Nel corso della storia la Chiesa ortodossa ha fermamente insistito sulla realtà della Seconda Venuta di Cristo come una convinzione consolidata, ma ha concesso libertà sulla questione di quando ciò si verificherà. Nell’ultimo capitolo dell’Apocalisse Gesù dice le parole: “Io vengo presto”, per tre diverse volte (Apocalisse 22, 7.12.20). La sua Venuta avverrà in un giorno, in un’ora in cui non ci si aspetta, l’apostolo Giovanni, l’autore dell’Apocalisse, conclude il suo libro con un avvertimento: “Io lo dichiaro a chiunque ode le parole della profezia di questo libro: se qualcuno vi aggiunge qualcosa, Dio aggiungerà ai suoi mali i flagelli descritti in questo libro; se qualcuno toglie qualcosa dalle parole del libro di questa profezia, Dio gli toglierà la sua parte dell’albero della vita e della santa città che sono descritti in questo libro” (Apocalisse 22, 18-19).

Confessare il ritorno di Cristo è stare saldamente all’interno della Tradizione Apostolica. Aggiungere il “quando” alla promessa della sua venuta è contrario alle Scritture. Come membri della Sposa di Cristo, dobbiamo invece vigilare per essere pronti.

Tradotto per Tradizione Cristiana da E. M. novembre 2009

INIZIO DELL’AVVENTO (DIVO BARSOTTI)

dal sito:

http://www.figlididio.it/meditazioni/inizioavvento.html

INIZIO DELL’AVVENTO

DIVO BARSOTTI

Brescia 1-12-1984 – Ritiro

Sono molto contento di poter iniziare l’Avvento con voi, con i Vespri di questa sera; infatti, ci introduciamo in questo tempo così sacro dell’anno che inizia la liturgia. Bisogna dunque prepararci ad un rafforzamento spirituale, a rinnovare i nostri propositi e ad impegnarci con maggiore fedeltà e amore a rispondere a Dio. Ma che cosa è in realtà l’Avvento?
Abbiamo poc’anzi recitato le Lodi di Dio Altissimo, nelle quali san Francesco esalta il Signore negli attributi che gli sono propri (Sapienza, Amore…). Ma c’è un nome nell’Apocalisse che Dio si dà e che risponde più precisamente a quello che è l’Avvento: Dio è « Colui che è, che era e che viene ». È importante insistere sull’aspetto del Dio « che viene » in quanto Egli si è comunicato all’uomo e continua a comunicarsi a noi. Noi aspettiamo la venuta del Signore, e forse crediamo che questa avvenga nell’atto della nostra morte, oppure alla fine del mondo; invece dobbiamo sapere che Dio non ha tempi successivi: Egli viene sempre, oggi, domani e per sempre nell’eternità. Per questo motivo la nostra anima deve vivere la continua sorpresa dell’incontro col Signore. La novità della venuta la sperimenta l’uomo, non Dio. Dal momento che Dio è infinito è l’anima che, nella misura in cui percepisce la Presenza, si incontra continuamente con un Dio che rimane sempre nuovo per lei.
Anche se l’anima non può accogliere pienamente l’infinità di Dio, rimane vero che la vita spirituale è una continua giovinezza, e non può che essere così dal momento che l’incontro con Dio reca nell’anima sensibile un continuo fremito di stupore.
La prima cosa che s’impone per noi dunque è una viva attenzione al Signore. Egli viene sempre, ma spesso l’incontro non avviene perché noi viviamo una vita superficiale sul piano spirituale, una certa dissipazione: le cose di quaggiù ci attraggono così tanto da rendere indisponibile l’anima a questo meraviglioso incontro. Solo raramente ci troviamo in condizioni spirituali tali da percepire questo « venire » di Dio. Di qui cosa ne viene? Non certo che cambi il Signore, Lui che sempre si fa presente, ma che cambi la nostra anima, in modo da vivere sempre un’attesa, una speranza. Ecco perché il tempo dell’Avvento è il tempo della speranza. Soltanto quest’ultima apre le porte del nostro cuore ad accogliere Dio. Dobbiamo sapere che Egli si dà nella misura che noi si spera, e che senza la speranza non vi è alcuna possibilità di accoglierlo.
Dio è trascendenza infinita e non può avere alcun rapporto con l’uomo, fintanto che l’uomo rimane uomo. Ma ci dona degli « organi » mediante i quali la creatura può entrare in comunione con Lui. Gli organi con i quali noi instauriamo contatti e conosciamo le cose quaggiù sulla terra sono gli occhi, mentre l’organo attraverso il quale stabiliamo un contatto con Dio è la fede, che Egli ci dona appunto per « vedere » la sua Luce. Oltre a ciò vi sono altri organi, poiché la conoscenza sola non basta: vi è la ‘carità, che è l’organo mediante il quale la nostra anima, la nostra volontà si apre ad accogliere l’Amore divino e vive di Dio; vi è la speranza, la virtù che fa presente Dio nell’uomo. Noi uomini, in quanto uomini, non abbiamo la capacità di avere sempre presente quello che conosciamo; infatti, chi di noi ha continuamente presente tutto ciò che abbiamo imparato sui banchi di scuola? Allo stesso modo non possiamo avere un amore in atto nei confronti di tutte le persone che amiamo, appunto perché non è sempre in atto né l’amore, né l’intelligenza, né la volontà, né la conoscenza. Una cosa però abbiamo sempre presente: di esistere, abbiamo la coscienza continua del nostro essere. A questo organo naturale che possiamo chiamare « auto-coscienza » corrisponde, sul piano soprannaturale, la speranza.
Sul piano umano la speranza è attesa di qualche cosa che deve venire ma non si può disporre del futuro né tanto meno possiamo ringiovanire. E la presenza di Dio nell’uomo ci rende capaci della vita eterna. La speranza ebraica attendeva il Messia che doveva venire, la speranza cristiana già fa presente il regno di Dio in noi, già implica la presenza di Dio nel cuore dell’uomo, già implica la vita eterna che noi possediamo. « Chi mangia lamia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna ed io lo risusciterò, ma ha la vita eterna ». Anche la I Lettera di san Giovanni dice lo stesso. La speranza è la capanna dello Spirito. Noi non abbiamo ancora una percezione veritiera di questa presenza di Dio, tuttavia l’inizio c’è già. Per questo si dice che la vita cristiana è già l’inizio di questa vita eterna. Mediante la speranza noi siamo già in paradiso.
Quando ci libereremo di questo corpo che ci lega a una realtà che non è la realtà divina allora è come i candelotti che Gedeone aveva messo nei cocci a tutti i suoi soldati. Così noi portiamo dentro di noi la luce di Dio. Poi: si rompono i cocci e la luce risplende. Cosi sarà la nostra morte. È il rompersi di questo coccio che nasconde ancora questa luce che è in noi e questa luce noi la vedremo. Oggi, l’esperienza sensibile e psicologica, nascondono questa vita profonda che è la vita dello spirito; quando noi saremo liberati da questi veli irraggerà come improvvisamente questa luce che già portiamo nel cuore. Vivere nella speranza vuol dire sperimentare e vivere Dio che viene. Ecco l’Avvento. L’Avvento è una stagione tra le più belle dell’anno. Nella parabola delle dieci vergini quando lo Sposo arriva Gesù dice: « Ecco lo Sposo viene, andategli incontro ». L’anima tutta si protende verso questo Dio che viene che si dona. Vivere l’Avvento è questo. Noi viviamo la vita cristiana sempre come esercizio di virtù morali o come impegno nella parrocchia, e non si vive il mistero di questo Dio che si dona all’anima, che si comunica che viene a noi. Quando Lui viene tutto rifiorisce nell’anima, se l’anima lo accoglie, ringiovanisce lo spirito anche nei giovani che spesso hanno perduto la freschezza della vita. L’Avvento in modo speciale ci chiama a realizzare questo mistero di Dio che viene, che entra in noi; ci rinnova onde possiamo contemplarlo con occhi nuovi, e ci dona un amore più ardente per poter vivere questo possesso di Dio che Egli ci fa di Se stesso. Allora vi chiedo che in questo Avvento viviate questa esperienza di un incontro con Lui. Bisogna allora che i nostri occhi rimangano aperti nel buio, che non è totale e si ha la percezione molto vaga di questo venire di Dio nella nostra anima. Ma questa percezione non potremo averla se non vivremo nel silenzio e nel raccoglimento. Questo venire di Dio è così breve, così povero di luce, perché l’alba è appena appena e non te ne accorgi. Bisogna vigilare dice Gesù. Può accadere di dormire per le cose di Dio; anche le Vergini della parabola dormivano tutte e per questo la nostra vita cristiana è così povera, così misera. Allora anche se Dio viene non ce ne accorgiamo. Una delle cose più gravi della vita spirituale è precisamente questa: di dormire. L’anima deve mantenersi desta, attenta, in silenzio.
Allora la nostra vita spirituale rifiorirà perché nella vita religiosa occorrono pause di silenzio, pensiamo ai Carmelitani ai Trappisti.
C’è in noi purtroppo una malsana curiosità che ci porta fuori dal raccoglimento, ci distrae in cianfrusaglie inutili e questo significa che non sappiamo come riempire il nostro vuoto.
Ma è invece in questo vuoto che dobbiamo rimanere sempre, in un’attesa ardente e nella misura che vivremo in questo vuoto e questo silenzio Dio non si farà attendere.
Perché nel momento stesso che speri, dice san Giovanni dalla Croce, ottieni. Dio aspetta solo le condizioni dell’anima per poterlo ricevere.
Perciò se l’anima vive in questa attesa, immediatamente Egli viene. Per questo è molto bello nell’incontro della settimana fare prima un tempo di silenzio, perché così Dio parla all’anima l’anima percepisce questa presenza divina la illumina e la infiamma d’amore.
Egli è colui che viene.
Noi crediamo che la vita cristiana sia come qualche cosa che possediamo, meriti, virtù, ecc. È tutto sbagliato. La vita cristiana è la presenza di Dio nel cuore dell’uomo. E se Dio si fa presente nel tuo spirito vuoi tu non amarlo?
Allora la carità cristiana diviene il fondamento delle virtù teologali.

Vespro

Vogliamo vivere davvero l’Avvento?
Noi pensiamo che anche questi messaggi di Medjugorje siano preludio di qualche cosa che dovrà avvenire e quello che già stupisce è che la Madonna abbia ripetuto e insistito: « Ma voi non dovete aver paura, non abbiate paura ».
C’è come una promessa di essere preservati qualunque cosa avvenga. La protezione di Lei ci sosterrà ci custodirà; questo potrebbe anche succedere se noi dovessimo morire perché anche nella morte avremmo la custodia da parte della Vergine. Non abbiate paura. Sono le parole della prima antifona. L’annunzio è sempre la buona novella, quella del Cristo che viene a meno che l’anima non si chiuda e non rifiuti l’Amore. Gesù viene per dare la vita, perché vuole comunicare la salvezza. L’annuncio che dobbiamo fare dunque alle nazioni, ai popoli, è un annuncio di pace e di salvezza.
Anche il messaggio di Fatima ci parla di questo rinnovamento. Parla di castighi, ma poi il suo Cuore Immacolato trionferà, la Russia si convertirà, addirittura a Medjugorje si dice che la Russia diventerà la perla della Chiesa cattolica. Non soltanto si tratta di una conversione, ma di un rovesciamento totale. Le parole della Madonna, anche se non escludono un castigo, penso che debbano attribuirsi a una grande speranza. Comunque se la Madonna da la Salette, da Fatima, fino ad oggi continua a parlarci di un castigo e poi ad annunciarci una salvezza vuol dire che questa salvezza è imminente. Una salvezza che esigerà certamente una trasformazione dei popoli e delle nazioni.
Sembra quasi umanamente improbabile tutto questo perché l’uomo si allontana sempre più da Dio però Lei lo ha affermato. C’è da notare che il castigo sembra sempre condizionato alla preghiera e alla penitenza. I castighi dipendono dal fatto che l’uomo vuole o non vuole Dio perché se non vuole Dio, rimane nella sua pena. La visione di una guerra atomica è terrificante, ma non sappiamo nulla perché l’evento è chiuso nel segreto, ma la Madonna a Fatima accenna a un rinnovamento del mondo intero, della Chiesa e delle anime nei confronti di Dio. A Medjugorie si dice che la Russia diventerà la nazione pilota della Chiesa cattolica. Come avverrà tutto questo? È difficile per noi immaginarlo. Le cose sembrano andare in senso inverso, perché anche se c’è un’aspirazione molto vaga in senso religioso nei giovani però un’adesione alla Chiesa come tale non c’è. Sentono piuttosto l’appello alle religioni asiatiche dove si raggiunge una certa pace interiore attraverso dei metodi tecnici secondo una metafisica in cui non c’è differenza fra la creatura e il Creatore perché non esiste creazione. Queste filosofie escludano la trascendenza, hanno portato sempre più ad accantonare Dio, a far sì che l’uomo sia lui il salvatore di se stesso. Dobbiamo dunque aspettare il Signore, sperare, attendere qualche cosa anche sul piano delle nazioni, sul piano della storia.
Se diamo un’occhiata alla storia possiamo dire di aver visto in essa l’intervento divino. Pensiamo cosa ha vissuto l’Europa e il mondo tra il 1940 e il 1945. Sembrava che la Germania volesse invadere il mondo, anche la Francia con la sua cultura era la nazione pilota, poi tutto finì. Qualcosa del genere potrebbe avvenire nei riguardi del comunismo della Russia o del mondo occidentale invaso dall’edonismo, da un egoismo feroce, dalla droga. Anche il terzo mondo va sempre più impoverendosi perché i ricchi tolgono ai poveri il necessario per vivere. Comunque la cosa importante è questa: Egli viene. La storia rimane per noi cristiani sacramento di Dio. La sacramentalità della religione cosmica sono le cose della creazione del mondo: gli alberi, le foreste, l’aria, il mare… Ma la rivelazione profetica è la storia, la legge, la civiltà. Anche noi cristiani dobbiamo credere che c’è stato un intervento divino durante la guerra che ha impedito che le cose andassero al peggio. Ci sarà anche domani questo intervento, ce lo dicono le antifone lette questa sera: rinnovamento continuo del nostro spirito nella percezione della esperienza di Dio. Ma la venuta del Cristo è anche sul piano della storia per le nazioni della terra che dovranno conoscerlo nei doni che Egli porta con sé: pace, giustizia, serenità, sicurezza.
Anche noi non crediamo perché siamo sempre più sgomenti per tutto quel lo che può venire di male e non pensiamo che la storia non sfugge alle mani di Dio. Nonostante tutto risponde a un suo disegno. Perciò dobbiamo essere tranquilli.
Dio non ci fa mancare nulla anche nei beni terrestri; ce li toglie nella misura che sono superflui.
I mezzi per vivere (vestire, mangiare ecc.) servono anche alla vita spirituale perché se non abbiamo queste cose la nostra anima si turba. Se c’è un attaccamento disordinato a questi beni allora Dio ce li può togliere perché e indispensabile avere una certa libertà interiore.
Il mezzo che necessita ai nostri giorni è molto più grande di quello che fosse ieri per san Francesco. Basta pensare al modo in cui il Santo dormiva nella nuda roccia e per cuscino aveva una pietra. Il discorso vale per il riscaldamento, un focolare di legna, diverso da quello di oggi. Dio sa benissimo che siamo creature che hanno bisogno, perciò non dobbiamo spaventarci. Egli non ci farà mancare quello che ci è necessario. Anche nei lager, nelle prigioni comuniste, al tempo del nazismo Dio non ha mai fatto mancare il soccorso; ce lo dona nella misura che noi ne abbiamo la necessità. Viviamo dunque giorno per giorno come dice il Vangelo, fidandoci di Lui che è Padre. Dio lascia grande spazio agli uomini, cioè non si può dire che i miracoli non li fa, agisce attraverso le cause seconde. Nel caso della fame nel mondo oppure dei lager fascisti o del Gulach, evidentemente è mancata una risposta degli uomini a una sollecitazione di Dio perché Dio non agisce direttamente. All’agire direttamente di Dio vorrebbe dire prendere il posto delle cause seconde, allora si cadrebbe nell’eresia dell’occasionismo quasi che Dio dovesse intervenire sempre. Allora aspettiamo. Dio agisce attraverso di noi.
Per la fame nel mondo la colpa è degli uomini e delle nazioni che hanno soltanto agito nello sfruttare questi popoli. La siccità dell’Etiopia: la Russia non ha fatto altro che mandare armi e così hanno alimentato la guerriglia e la terra non si coltiva più perché è solo teatro di guerra.
Questo è l’agire dell’uomo.

U.S.F.P.V.

Publié dans:LITURGIA, MEDITAZIONI |on 26 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

Omelia per il 26 novembre 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/16712.html

Omelia (27-11-2009) 
a cura dei Carmelitani

1) Preghiera

Ridesta, Signore, la volontà dei tuoi fedeli
perché, collaborando con impegno alla tua opera
di salvezza,
ottengano in misura sempre più abbondante
i doni della tua misericordia.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…

2) Lettura

Dal Vangelo secondo Luca 21,29-33
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola: « Guardate il fico e tutte le piante; quando già germogliano, guardandoli capite da voi stessi che ormai l’estate è vicina. Così pure, quando voi vedrete accadere queste cose, sappiate che il regno di Dio è vicino.
In verità vi dico: non passerà questa generazione finché tutto ciò sia avvenuto. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno ».

3) Riflessione

- Il vangelo di oggi ci presenta le raccomandazioni finali del Discorso Apocalittico. Gesù insiste su due punti: (a) sull’attenzione che bisogna dare ai segni dei tempi (Lc 21,29-31) e (b) sulla speranza, fondata nella fermezza della parola di Dio, che scaccia la paura e la disperazione (Lc 21,32-33)..
- Luca 21,29-31: Guardate il fico e tutte le piante. Gesù ordina di guardare la natura: « Guardate il fico e tutte le piante; quando già germogliano, guardandoli capite da voi stessi che ormai l’estate è vicina. Così pure, quando voi vedrete accadere queste cose, sappiate che il regno di Dio è vicino ». Gesù chiede di contemplare i fenomeni della natura per imparare come leggere ed interpretare le cose che stanno avvenendo nel mondo. I germogli sul fico sono un segno evidente che l’estate è ormai vicina. Così quando appaiono i sette segnali sono una prova che « il Regno di Dio è vicino! » Fare questo discernimento non è facile. Una persona sola non si rende conto di questo. Riflettendo insieme in comunità appare la luce. E la luce è questa: sperimentare in tutto ciò che succede la chiamata a non chiudersi nel presente, bensì mantenere aperto l’orizzonte e percepire in tutto ciò che succede una freccia che si dirige verso il futuro. Ma l’ora esatta della venuta del Regno, nessuno la conosce. Nel vangelo di Marco, Gesù arriva a dire: « Quanto poi a quel giorno o a quell’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli nel cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre! » (Mc 13,32).
- Luca 21,32-33: « In verità vi dico: non passerà questa generazione finché tutto ciò sia avvenuto. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno ». Questa parola di Gesù evoca la profezia di Isaia che dice: « Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua gloria è come un fiore del campo. Secca l’erba, il fiore appassisce quando il soffio del Signore spira su di essi. Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio dura sempre » (Is 40,7-8). La parola di Gesù è fonte della nostra speranza. Ciò che dice avverrà!
- La venuta del Messia e la fine del mondo. Oggi, molta gente vive preoccupata della fine del mondo. Alcuni, basandosi in una lettura errata e fondamentalistica dell’Apocalisse di Giovanni, giungono perfino a calcolare la data esatta della fine del mondo. Nel passato, a partire dai « mille anni » citati dall’Apocalisse (Ap 20,7), si soleva ripetere: « L’anno mille è passato, ma il duemila non passerà! » Per questo, nella misura in cui il 2000 si avvicinava, molti erano preoccupati. C’era gente che angosciata per la venuta della fine del mondo, si tolse la vita. Ma il 2000 passò e non avvenne nulla. Non avvenne la fine del mondo! Nelle comunità cristiane dei primi secoli ci fu la stessa problematica. Vivevano nell’aspettativa della venuta imminente di Gesù. Gesù veniva a realizzare il Giudizio Finale per mettere fine alla storia ingiusta del mondo qui sulla terra ed inaugurare la nuova fase della storia, la fase definitiva del Cielo Nuovo e della Terra Nuova. Pensavano che questo sarebbe avvenuto tra una o due generazioni. Molta gente sarebbe stata ancora viva quando Gesù fosse apparso glorioso nel cielo (1Ts 4,16-17; Mc 9,1). C’erano persone che non lavoravano perfino più, perché pensavano che la venuta fosse cosa di pochi giorni o settimane (2Tes 2,1-3; 3,11). Pensavano così. Ma fino ad oggi, la venuta di Gesù non si è ancora avverata! Come interpretare questo ritardo? Per le strade delle città, la gente vede dipinte sui muri scritte che dicono Gesù ritornerà! Viene o non viene? E come sarà la sua venuta? Molte volte, l’affermazione « Gesù ritornerà » viene usata per intimorire le persone ed obbligarle a frequentare una chiesa determinata!
Nel Nuovo Testamento il ritorno di Gesù è sempre motivo di gioia e di pace! Per coloro che sono sfruttati ed oppressi, la venuta di Gesù è una Buona Novella! Quando ci sarà questa venuta? Tra i giudei, le opinioni erano varie. I sadduccei e gli erodiani dicevano: « I tempi messianici verranno! » Pensavano che il loro benessere durante il governo di Erode fosse espressione del Regno di Dio. Per questo, non accettavano cambiamenti e combattevano la predicazione di Gesù che invitava la gente a cambiare e a convertirsi. I farisei dicevano: « La venuta del Regno dipenderà dal nostro sforzo nell’osservanza della legge! » Gli esseni dicevano: « Il Regno promesso arriverà solo quando avremo purificato il paese da tutte le impurità ». Tra i cristiani c’era la stessa varietà di opinioni. Alcuni della comunità di Tessalonica in Grecia, appoggiandosi nella predicazione di Paolo, dicevano: « Gesù ritornerà! » (1 Tes 4,13-18; 2 Tes 2,2). Paolo risponde che non era così semplice come loro immaginavano. Ed a coloro che non lavoravano dice: « Chi non lavora non ha diritto di mangiare! » (2Tes 3,10). Probabilmente, si trattava di persone che all’ora dei pasti andavano a mendicare cibo presso la casa del vicino. Altri cristiani pensavano che Gesù sarebbe ritornato solo dopo che il vangelo fosse stato annunziato al mondo intero (At 1,6-11). E pensavano che, quanto maggiore fosse lo sforzo per evangelizzare, tanto più rapidamente sarebbe avvenuta la fine del mondo. Altri, stanchi di aspettare, dicevano: « Non tornerà mai! (2 Pt 3,4). Altri, basandosi in parole di Gesù dicevano con ragione: « E’ già in mezzo a noi! » (Mt 25,40). Oggi avviene la stessa cosa. C’è gente che dice: « Come stanno le cose sia nella Chiesa che nella società, stanno bene ». Non vogliono cambiamenti. Altri aspettano la venuta immediata di Gesù. Altri pensano che Gesù ritornerà solo attraverso il nostro lavoro e annuncio. Per noi, Gesù è già in mezzo a noi (Mt 28,20). E’ già accanto a noi nella lotta per la giustizia, per la pace e per la vita. Ma la pienezza non è ancora giunta. Per questo, aspettiamo con perseveranza la liberazione dell’umanità e della natura (Rom 8,22-25).

4) Per un confronto personale

- Gesù chiede di guardare il fico per contemplare i fenomeni della natura. Nella mia vita ho imparato già qualcosa contemplando la natura?
- Gesù disse: « Il cielo e la terra scompariranno, ma le mie parole non scompariranno ». Come incarno nella mia vita queste parole di Gesù?

5) Preghiera finale

Signore, beato chi abita la tua casa:
sempre canta le tue lodi!
Beato chi trova in te la sua forza:
cresce lungo il cammino il suo vigore. (Sal 83) 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 26 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

SONS OF SONGS SERIES SHEPHERD

 SONS OF SONGS SERIES SHEPHERD  dans immagini sacre 21%20NAOMI%20SONS%20OF%20SONGS%20SERIES%20SHEPHERD%20S%20VISI

http://www.artbible.net/1T/Son0101_6songs_love/index_13.htm

Publié dans:immagini sacre |on 25 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

L’OMELIA E LA SPIRITUALITÀ DELL’ASCOLTO (P. Matias Augé)

dal sito:

http://liturgia-opus-trinitatis.over-blog.it/article-l-omelia-e-la-spiritualita-dell-ascolto-59771685-comments.html#anchorComment

L’OMELIA E LA SPIRITUALITÀ DELL’ASCOLTO

di P. Matias Augé

Viviamo in una società che è stata definita società dell’immagine, una società che non favorisce l’ascolto. Molteplici immagini accompagnate da molteplici parole e in rapida successione si sovrappongono confusamente sugli schermi della TV e dei telefonini, sui giornali, nei siti internet, nelle sale cinematografiche, in migliaia di libri sfornati dalle case editrici, nei graffiti delle mura delle città. Non è possibile prestare vero ascolto, dare retta a tutti questi molteplici messaggi, che somigliano ad un torrente impetuoso le cui acque scivolano lungo in pendio dei nostri sensi e della nostra mente. Nella nostra società c’è la prevalenza del “vedere” e del “sentire” sull’“ascoltare”.

Nell’antica civiltà ebraica, invece, le cose stavano in un altro modo. La possibilità di accedere alla Parola di Dio mediante la sua lettura in un testo scritto era molto ridotta, data la rarità di quanti erano in grado di leggere e la scarsità di testi scritti. Per l’antico ebreo la possibilità pressoché unica era, quindi, quella di sentir proclamare la Parola di Dio. Questo fatto ha affinato nel popolo eletto la capacità di ascolto. La Bibbia ci trasmette il ricordo delle reazioni di volta in volta suscitate nei pii ebrei da questo “ascolto”. Così, ad esempio, dopo che Mosè, disceso dal monte Sinai, lesse al popolo il libro dell’alleanza, gli israeliti risposero entusiasticamente: “Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto” (Es 24,7). La stessa preghiera ebraica è ritmata dallo Shema’ Jisra’el, “Ascolta, Israele” (cf Dt 6,4-9), un comando che, in varie forme, è ripetuto più volte nella Torah. Possiamo ben dire che nella società e religiosità bibliche c’è l’assoluta prevalenza dell’ “ascoltare” sul “sentire”.

Il “sentire” si esaurisce perlopiù in una semplice sensazione fisica o anche emotiva; “ascoltare” è invece qualcosa di più profondo. Si potrebbe dire che, se per Dio “in principio è la Parola” (cf Gv 1,1; Gen 1,3.6), per l’uomo “in principio è l’ascolto”. Nella Bibbia si tratta di un ascolto del cuore. Il credente, come “deve amare il Signore con tutto il cuore”, deve anche tenere la Parola di Dio “fissa nel cuore” (cf Dt 6,5.6). La Parola deve superare le barriere dell’ascolto puramente fisico e della comprensione intellettuale per spingersi nelle profondità dell’uomo fino a raggiungere la sua più profonda interiorità, appunto il “cuore”. Il cuore assomiglia al “grembo materno” ove il germe seminato vive e cresce. Sono noti i testi di Luca in cui egli parla del cuore di Maria: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19) e ancora: “Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore” (Lc 2,51). Le parole “custodire” e “meditare” traducono due parole greche che significano rispettivamente: “cutodire” e “mettere insieme” (symbállo), “raccogliere” e “ricordarsi” (diateréo). Così, secondo i due contesti, il senso è che Maria, ricordando le profezie delle Scritture, ne ha viste alcune realizzarsi sotto i suoi. E ora, nel profondo della sua coscienza, nel suo cuore, mette i fatti a confronto.

All’ascoltatore della Parola si richiede un’attenta cura delle disposizioni personali e interiori (generosità, fiducia, povertà, disponibilità, libertà interiore, apertura, sforzo di attenzione, impegno, obbedienza nella fede ecc.) e delle condizioni ambientali o esterne (clima di deserto, di silenzio, di solitudine, di fede, di speranza, di carità, di preghiera ecc.) che possono favorire quell’itinerario della Parola che va dall’orecchio (o dagli occhi) al cuore.

Ecco quindi che l’omileta dev’essere anzitutto ascoltatore assiduo della Parola, abitato dalla Parola (cf Gv 5,38), deve nutrire una spiritualità dell’ascolto, deve far sì che la Parola che  predica diventi anzitutto per lui stesso una parola ascoltata e accolta nel cuore. Soltanto così potrà poi essere ministro efficace della Parola. L’omelia infatti deve, a sua volta, aiutare l’assemblea ad ascoltare la Parola. L’omileta vive della Parola che esce dalla bocca di Dio (cf Mt 4,4; Dt 8,3), si fa servo di questa Parola e ne diventa annunciatore in mezzo all’assemblea; ciò però è possibile e fecondo soltanto se l’omileta è un uomo di preghiera. Preghiera che nasce nell’ascolto della Parola e prepara all’ascolto dell’assemblea. Preghiera e servizio della Parola vanno insieme (cf At 6,4)

L’Istruzione Liturgicae Instaurationes afferma: “Lo scopo dell’omelia è di rendere comprensibile ai fedeli la Parola di Dio che è stata loro annunziata e di adattarla alla sensibilità della nostra epoca”. Le parole dell’omelia sono mediatrici della Parola. La Proposizione 15 del Sinodo dei Vescovi sul tema La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, termina con questa affermazione: “… i Padri sinodali auspicano che si elabori un Direttorio sull’omelia, che dovrebbe esporre, insieme ai principi dell’omiletica e dell’arte della comunicazione, il contenuto dei testi biblici che ricorrono nel lezionario in uso nella liturgia”. L’omelia è quindi un atto di comunicazione, e ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione. Nel caso dell’omelia, l’aspetto contenutistico è decisamente quello preminente, e tuttavia l’aspetto relazionale ha un suo peso non trascurabile, anzi rilevante. L’omileta quindi oltre che nell’ascolto della Parola, il cui contenuto deve poi trasmettere, deve esercitarsi anche nell’ascolto dell’assemblea, destinataria dell’omelia, deve cioè stabilire con la sua comunità una vera relazione, una vera comunicazione. Parliamo perciò di una spiritualità dell’ascolto dell’assemblea.

Si può affermare che in linea di massima la disposizione relazionale dell’assemblea è corrispondente a quella che anima l’omileta. Se, cioè, egli nutre vera stima, attenzione, vicinanza e disponibilità ad essere utile, se ha un approccio sincero nei confronti degli ascoltatori, se le sue parole sono vere, nascono dal cuore, allora la comunicazione ha tutte le possibilità di riuscire. L’omileta deve vivere, poi, in sintonia intima con la comunità a cui si rivolge, immedesimarsi con essa, far sì, come dicono le prime battute della Gaudium et spes, che “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono”, siano pure “ le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce” sue. Non si deve dimenticare che il destinatario della Parola è l’uomo, tutto intero, con i suoi problemi esistenziali e concreti di ogni giorno e che la Parola di Dio è più Parola di Dio sull’uomo che parola di uomo su Dio. 

“IL PRETE, MINISTRO E TESTIMONE DELLA SPERANZA” (alla scuola di san Paolo)

dal sito:

http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/s2magazine/objects/obj_14160/files/formazione/formazione_presbiterio_berranger.doc

Olivier de Berranger -   vescovo di Saint-Denis (Francia)

“IL PRETE, MINISTRO E TESTIMONE DELLA SPERANZA”  (alla scuola di san Paolo)

Mi è stato chiesto di meditare insieme con voi su “il prete, testimone della speranza nel suo ministero”. Nel mettermi in particolare alla scuola di san Paolo, attraverso le sue Lettere, sono giunto a riflettere direttamente sul “ministero della Speranza” che è il nostro. La formula, come tale, non vi si trova. L’Apostolo parla del ministero del Vangelo, del ministero dello Spirito, del ministero della Nuova Alleanza, del ministero della riconciliazione… ma non del ministero della Speranza in quanto tale, né, in un altro luogo, d’un ministero della Fede o della Carità. Eppure, la speranza è certamente al cuore della sua testimonianza apostolica. Essa è pure, forse, la questione fondamentale che si pongono i nostri contemporanei, e ciò di cui, come preti, abbiamo noi stessi il più grande bisogno. Per tale motivo m’applicherò a trattarne, considerando in primo luogo in san Paolo la speranza come il fondamento dell’itinerario cristiano nel mondo, dicendo poi, sempre alla scuola di Paolo, come il nostro ministero può  trovarvi rispettivamente una fonte di rinnovamento e l’oggetto stesso della sua testimonianza. In seguito, in una seconda parte, farò qualche suggerimento per un aggiornamento di questa dottrina nella nostra situazione attuale.

I.- La speranza in san Paolo

1. La speranza a fondamento dell’itinerario cristiano.        Con Paolo, nella Lettera ai Romani,
mettiamoci di fronte all’itinerario di Abramo. Ricordiamo come l’Apostolo invita a “camminare sulle orme della fede del nostro padre Abramo”, questa fede che in lui ebbe forza sufficiente per farlo partire verso una terra a lui sconosciuta ( cfr. Rm 4, 12). Per Paolo, in questa lettera, ciò che importa evidentemente è mostrare che la fede, avendo preceduto la circoncisione, resta decisiva oltre quella. C’è un “Vangelo nascosto” in tutta la storia giudaica, una sorte di preesistenza di Cristo nella fede di coloro che, nel corso dei secoli di attesa di Cristo, hanno camminato sulle orme di Abramo. Essi sono i profeti, i santi e gli anawim, i poveri di Yahvé. L’orizzonte che Paolo svolge nel suo ministero di Apostolo, questo ingresso delle “nazioni” nel Popolo di Dio di cui si tratta nel “primo concilio di Gerusalemme” (cfr. At 15, 14), lungi dall’essere allora, secondo lui,  un inizio assoluto, si riallaccia alle origini, In Abramo, Dio ha “giustificato” in anticipo la fede degli incirconcisi. Dio ha amato i pagani. Anche presso di loro esiste un “Vangelo nascosto”.
 Tutto il proposito di Paolo sarà di spiegare come Abramo, e l’universalità delle nazioni che
la sua fede genera, sono stati fatti “eredi del mondo” ad opera di questa fede (cfr. Rm 4, 13s). Fede nella remissione dei peccati per tutti gli uomini, fede assoluta in Dio che promette la nuova nascita  di un popolo impossibile da contare, anticipando già sulla buona novella della resurrezione dei morti intravista già dal profeta Ezechiele: “un esercito grande, sterminato!” (cfr. Ez 37, 10). Abramo, partendo alla chiamata del suo Dio, non aveva altro punto d’appoggio che la sua fede. Aveva camminato contra spem in spem, “sperando contro ogni speranza” (4, 18). Aveva creduto perché era stabilito su una speranza divina, una speranza che Dio gli aveva donato e alla quale egli aveva dato il suo assenso. Come ha scritto Gerhard von Rad nel suo magnifico commento al libro della Genesi (1972), quando Abramo parte verso il paese di Moria con il figlio Isacco, non è più soltanto al suo passato che egli rinuncia, la terra dei suoi padri, come quando aveva abbandonato Ur dei Caldei, è il suo stesso futuro che egli abbandona a Dio (cfr. Gen 22, 1-19). E ora, noi che ascoltiamo la lettura di questo brano durante la Veglia pasquale, noi vi scopriamo l’annuncio del mistero del Figlio unico offerto per la salvezza di tutti i popoli. La speranza di Abramo ha trovato il suo adempimento in Cristo. La nostra speranza per noi si fonda ormai  sulla Morte e la Risurrezione del Signore. E noi, preti, non è stato per esserne i ministri e i testimoni che abbiamo “lasciato tutto” e seguito Gesù (cfr. Mt 19, 27) ?
 Ma continuiamo con san Paolo: “Per suo mezzo (il Signore Gesù Cristo) abbiamo anche
ottenuto, mediante la fede, di accedere a questa grazia nella quale ci troviamo, e ci vantiamo nella speranza della Gloria di Dio. E non soltanto questo: noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, e la pazienza una virtù provata e virtù provata la speranza. E la speranza non fa arrossire (cfr. Rm 10, 11; Sal 119, 6. 116) perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5, 2-5). La speranza di Abramo si manterrà viva  nei cristiani di ogni tempo e di tutte le latitudini. Per la grazia essa alimenta, in mezzo alle miserie e alle tribolazioni, una gioia e una forza interiori, frutto di questo amore personale (agàpe) diffuso nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è stato donato. Quando ci è stato donato? Ma al momento del nostro battesimo, della nostra cresima, della nostra ordinazione. Più fondamentalmente, questi avvenimenti sacramentali hanno inizio con la morte di Cristo, “mentre eravamo ancora peccatori” (Rm 5, 8). Ma, ed è tutto lo sviluppo ulteriore della lettera che pone questa questione, se la sua Morte  ci ha permesso d’essere tanto largamente beneficiari di un così grande amore, che ne sarà della sua Vita? E’ grazie alla risurrezione di Cristo che tutto il nostro essere è riconciliato e salvato nella speranza! E questa speranza non delude. Ogni volta che celebriamo la Pasqua del Signore nell’eucaristia, ogni volta che accogliamo il perdono del Salvatore nella riconciliazione, noi lasciamo che di nuovo lo Spirito Santo “riversi” l’amore di Dio nei nostri cuori!

Tutta la Chiesa 

 A nostra volta; lasciamoci confermare nell’amore; stabilire nella speranza. Non è forse un invito a questa parrhèsia, cara a san Paolo, la certezza apostolica che non si lascia fuorviare dalle contraddizioni, pur in mezzo alle debolezze e alle tribolazioni “per le quali noi siamo fatti” (cfr. 1 Ts 3, 3, traduzione Osty)! Il “noi” di Paolo, nella lettera ai Romani, sembra dapprima che indichi lui, con i suoi collaboratori, ministri del Vangelo. Esso indica però in seguito o allo stesso tempo, come spesso negli  scritti apostolici, tutta la Chiesa  acquistata dal sangue di Cristo (cfr. Rm 3, 25; 5, 9; At 20, 28). Ma la testimonianza che questa deve  rendere al suo Signore nel mondo non può rimanere ristretta a coloro che lo hanno già ricevuto.  Come l’ha affermato in maniera così forte il Vaticano II – come il ministero di Giovanni Paolo II, quale è stato percepito nel vasto mondo, lo ha specialmente mostrato – il “noi” di Paolo ingloba   tutta l’umanità (= mentre noi eravamo senza forza… mentre noi eravamo ancora peccatori”, Rm 5, 6-8). O piuttosto, avrei voglia di dire, questo “noi” ingloba la Chiesa  nell’umanità, nel suo seno, perché, un po’ alla maniera del serpente ragno nel deserto, essa vi è presente come segno premonitore che la condizione ferita e lacerata degli uomini non è più definitivamente mortale. Questa condizione, Dio, “per il grande amore con il quale ci ha amati” (cfr. Ef 2, 4, propter nimiam charitatem suam), l’ha assunta “mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato” (Rm 8, 3). Ci ha liberati nella speranza dalla schiavitù del peccato e della morte. La Chiesa, secondo il Vaticano II, è “sacramento universale di salvezza”. Essa dunque è là per significare mediante tutto il suo essere, la sua prassi, la sua capacità d’inserzione nel cuore del mondo, e soprattutto mediante un amore coestensivo a questa umanità, ferita ma amata e ricca di grazie nascoste, che la riconciliazione operata da Cristo si attualizza di nuovo oggi  presso tutti i popoli della terra.
 Paolo c’invita ad andare ancora più lontano. Conosciamo questa specie di inno cosmico che egli inserisce nella stessa lettera sul tema dell’attesa della creazione: “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui  che l’ha sottomessa – e nutre la speranza  di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione   geme e soffre  fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo…”. Paolo evoca il gemito della creazione tutta intera (8, 22), poi il nostro (8, 23) e in fine quello dello Spirito in noi (8, 26). Il più percepibile, dall’interno della storia, è il nostro, in quanto noi siamo membri di questa umanità attraversata dal male. Ma, secondo san Paolo, esso viene come eco a quello della creazione, presa “dalle doglie del parto”. Confrontato con questo gemito lacerante, il grido dello Spirito è “inesprimibile”, ma è esso che, nei nostri cuori, trasforma le grida dell’universo in preghiera. E’ lui che ci fa presentire che il parto nel dolore è quello dei “figli di Dio”.
Tra la tensione della creazione verso “la rivelazione dei figli di Dio” e “l’attesa impaziente della redenzione del corpo”, in noi che possediamo le primizie dello Spirito, si gioca una sorte di reciprocità. In effetti il corpo umano, sottomesso ai ritmi della natura e votato, come essa, all’inevitabile corruzione, è la garanzia  tangibile  della nostra appartenenza cosmica. Ma il gemito interore dello Spirito attesta una trasfigurazione escatologica della creazione, della quale la promessa glorificazione dei corpi è la garanzia. Nella sua bellezza e finitudine, i suoi ritmi e le sue rotture, la creazione tutta intera è tesa verso questa trasfigurazione futura. “Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza” (8, 24-25).
2. Il ministero della speranza. Il Padre de Lubac, che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente, mi aveva fatto osservare un giorno, quando era ancora a Fourvière,  che i primissimi scritti cristiani cominciavano col citare preghiere di ringraziamento. Sono quelle dell’Apostolo Paolo, unite a quelle dei suoi compagni d’apostolato, secondo quanto leggiamo nelle prime righe delle sue lettere ai Tessalonicesi: “Ringraziamo sempre Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere… “ ( 1 Ts 1, 2s; cfr.  2 Ts 1, 3s). Del resto la maggior parte delle lettere di Paolo cominceranno così, mostrando quanto per lui la preghiera è al cuore del ministero. Amo in particolare quella che egli redige ancora al termine della sua vita, nella lettera agli Efesini: “ … il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui. Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi…” (Ef 1, 17-18).
 Mentre la lettera ai Romani, l’abbiamo appena richiamato, parlava della “speranza che non vede”, facendo piuttosto pensare a questo “specchio (con visione confusa)” del cantico della carità a proposito della fede (cfr.  1 Cor 13, 12), qui si parla della “speranza che ci attende nei cieli” (cfr. Col 1, 5), detto in altri termini, della speranza come oggetto della predicazione e del ministero. Non quindi una speranza provvisoria, fuggitiva, che deve scomparire, ma la speranza teologale propriamente detta, quella di cui Paolo ci dice giustamente, al termine dell’inno all’Agàpe, che essa non passa, che ella rimane per sempre con la fede e la carità, perché Dio è “sempre più grande”, perfino per i santi e per gli angeli! Ora è proprio di questa speranza che Paolo si sente ministro, una speranza fondata saldamente  su “Colui che in tutto ha potere di fare molto più di quanto possiamo di quanto possiamo domandare o pensare secondo la potenza che già opera in noi” (Ef 3, 20). Per lui questa speranza ha un nome, essa è personificata, è Gesù, il Cristo. Lo afferma nell’indirizzo che introduce la prima lettera a Timoteo: “Paolo, apostolo di Cristo Gesù, per comando di Dio nostro Salvatore e di Cristo Gesù  nostra speranza” (1 Tim 1, 1). La “lettera di missione” che Paolo ha ricevuto direttamente da Dio non è dunque quella di un ministero di speranza che in qualche maniera sarebbe fondato su un’idea, una semplice formulazione o un sistema di valori, è quella del Dio vivente, quale si è rivelato nella nostra storia in Gesù il Cristo (cfr. 1 Tim 4, 10).
 “Vescovo per voi, cristiano con voi”: il celebre motto di sant’Agostino è vero di ogni ministero nella Chiesa. Quello dei preti, oggi più che mai, non si comprende che nel suo rapporto indissolubile al sacerdozio dei battezzati, come lo ha messo in luce la Costituzione Lumen gentium. Già in san Paolo, che non  esita a redigere, per esempio nel finale della lettera ai Romani, la lista dei suoi collaboratori nel servizio missionario, uomini e donne, giovani e coppie, questo legame appare  come attaccato sulla speranza che lo abita (cfr. Rm 16, 1-16). “La nostra speranza riguardo a voi è ferma, scrive egli ai Corinzi: sappiamo che, partecipando alle nostre sofferenze, voi parteciperete pure alla nostra consolazione” (2 Cor 1, 7). Se riprendiamo tutte le citazioni d’una preghiera costante per i  suoi corrispondenti, possiamo pure fare nostro, riguardo a tanti fedeli laici di oggi, quello che egli vi esprime  di riconoscenza: “…continuamente memori davanti a Dio e Padre nostro del vostro impegno nella fede, della vostra operosità nella carità e della vostra costante speranza nel Signore nostro Gesù Cristo. Noi ben sappiamo, fratelli amati da Dio, che siete stati eletti da lui” (1 Ts 1, 3-4).

Una lotta

 Ma noi sappiamo quanto un tale ministero fu egualmente fonte di tensioni per Paolo. Le
due lettere ai Corinzi sono eloquenti a questo proposito. Là intuiamo,  per esempio, la lotta che egli ha dovuto condurre  per non lasciare che questo ministero si lasciasse determinare da problemi di denaro. Confrontando le affermazioni delle sue lettere ai racconti degli Atti, possiamo notare che, tuttavia, questi problemi non furono secondari per lui. Se ne fece anche il testo d’un’ecclesiologia in prima gestazione, desiderando che la generosità verso i poveri della Chiesa-Madre di Gerusalemme da parte delle Chiese nate dai gentili, fosse segno di unità. Ma il ministero, esso, quali che fossero i suoi diritti, doveva restare libero, “per non recare intralcio al Vangelo di Cristo” (1 Cor 9, 12). Non è forse per noi un gran conforto vedere il lato appassionato di questo grande apostolo nella relazione che egli stringe, attraverso il suo  stesso ministero, con le diverse comunità che egli fonda o che aiuta a strutturarsi? Che ci può essere di più attuale che la sua focosa arringa davanti ai Corinzi, movendo dal conflitto che questi sembrano più o meno voler attizzare tra il ministero di Apollo e il suo? Fatte le debite proporzioni, credo che non sarebbe, senza dubbio, difficile  trasferire  alla situazione del ministero odierno ciò che egli scriveva  allora: “Già siete sazi, già siete diventati ricchi; senza di noi già siete diventati re. Magari foste diventati re! Così anche noi potremmo regnare con voi. Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all`ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi” (1 Cor 4, 8-13). Anche se questi ultimi tratti possono sembrare molto lontani (ma, per mia parte, penso al ministero di certi vescovi e sacerdoti cinesi, tra gli altri), l’insieme della descrizione mi sembra applicarsi mutatis mutandis alla nostra situazione.
 Per concludere provvisoriamente su questa tematica della speranza nel ministero in san Paolo, lasciatemi ritornare con voi sul “tesoro” che, egli ci dice, “noi portiamo in vasi di creta”. Ciò ci introdurrà del tutto naturalmente alla seconda parte di questo intervento. “Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo” (2 Cor 4, 8-10). L’attualità alla quale faccio allusione, per interpretare questi testi nel nostro presente, non è superficiale, essa si affonda nella carne della nostra esperienza di uomini e di preti. Senza pretendere di applicarci in maniera letterale o fondamentalista la parola di Paolo, è tempo di evocare alcune sfide cui noi siamo confrontati senz’altro qui e ora.

II. – La speranza per i preti di oggi

 Non so se voi avete letto la conferenza del Padre Timothy Radcliffe, l’anziano Maestro dell’Ordine dei Predicatori, su I preti e la crisi di disperazione nella Chiesa. L’aveva presentata negli Stati Uniti, per la federazione nazionale dei consigli presbiterali nell’aprile 2004. Questa conferenza, tradotta in francese,  è apparsa nella Documentation catholique nello stesso anno1. Merita la digressione. Noi parliamo del ministero della Speranza. Il Padre Radcliffe, lui, non teme di affrontare con una grande libertà le ragioni di una disperazione latente, che sembra ben oltrepassare i soli problemi del clero americano. Egli lo fa con il suo stile, il suo humour tutto inglese, ed è possibile che questa o quella osservazione da parte sua non ci piaccia. Ma questa conferenza ha per lo meno due meriti. Innanzitutto essa mette il dito sulle cause reali dello scoraggiamento più o meno larvato presso un grande numero di preti. Inoltre essa si sforza di proiettare su questa situazione la luce della speranza pasquale, specialmente a partire dall’Eucaristia.
Citiamo la sua costatazione di partenza: “Sono numerose le ragioni che spiegano  che noi possiamo essere demoralizzati… La maggior parte delle diocesi e degli ordini religiosi soffrono per mancanza di vocazioni. Numerosi sacerdoti sono partiti, senza parlare dei terribili scandali di pedofilia e del modo con cui questi sono stati trattati. Che voi siate demoralizzati  è dunque del tutto comprensibile”. Padre Radcliffe aggiunge che se è già imbarazzante essere demoralizzati per un autista di taxi, un  avvocato, un ragioniere o un barbiere, ciò non è necessariamente incompatibile con l’esercizio della loro professione. “Invece, egli aggiunge, un sacerdote che non è mai su di morale, è colpito nella sua capacità di adempiere la sua missione”.
 Per tentare di ridare il gusto della speranza, la sua argomentazione va quindi a posarsi sul racconto dell’Ultima Cena, non nella forma paolina (collocata già in un clima di crisi, quella della Chiesa di Corinto già divisa) ma nei Sinottici. Ascoltiamo ancora Padre Radcliffe: “Osservate l’Ultima Cena. Si  tratta della nostra storia fondante, la storia della Nuova Alleanza di Dio con noi. Il paradosso è che l’Ultima Cena ha luogo in un momento in cui i discepoli perdono il filo della storia. E’ chiaro ch’erano arrivati a Gerusalemme  pieni di speranza. Forse credevano che il Messia stava per mettersi alla testa d’una ribellione contro i Romani. Come l’hanno confessato i discepoli sulla via di Emmaus: “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele!” (Lc 24, 21). Ma tutto crolla al momento della Ultima Cena. Giuda ha venduto il Cristo, Pietro è sul punto di tradirlo e il resto dei discepoli si prepara a fuggire… Il nostro sacramento della speranza ci racconta la storia della perdita d’ogni speranza”. Per concludere: “In quanto cristiani, non dobbiamo temere la crisi che la nostra comunità attraversa attualmente. Le crisi sono la “specialità della casa” (in francese nell’originale; cfr. più sopra: “le tribolazioni per le quali noi siamo fatti”, 1 Ts 3, 3). La Chiesa è nata da una di queste. Esse la rinnovano e la ringiovaniscono. Come questa crisi qui, si domanda egli alla fine, ringiovanirà la nostra Chiesa tanto amata?”.
E’ facile ritrovare questo testo e lavorarlo, se possibile in équipe, poiché, come lo ricorda Padre Radcliffe citando Pastores  dabo vobis, “il ministero ordinato è di natura  comunitaria” e non può essere adempiuto (e quindi neanche riflettuto) che come “opera collettiva” “Conservando nella  memoria questa conferenza, non ritornerò sui tre argomenti che tratta: distanza sperimentata così di frequente tra il discorso sull’ideale cristiano e l’esperienza reale  della gente (ivi compresa la nostra), problema – non assai nuovo, ma struggente a lungo andare – dei conflitti all’interno della Chiesa, infine il dramma degli “scandali che hanno mortificato la Chiesa  in questi ultimi anni”. Credo piuttosto di parlarvi brevemente di tre altre questioni:
1. Verità mediatica e verità della fede – 2. L’amore nel celibato sacerdotale – 3. Ministero dei preti e missione dei laici. Per restare, a proposito di questi temi di vita, alla trama che ci ha guidati fin qui, io mi riferirò ogni volta all’Eucarestia, ma nel racconto dell’ultima Cena in san Paolo.
1. Verità mediatica e verità della fede. Enunciandola così la contraddizione salta agli occhi. E’
quella che noi abbiamo provato recentemente al momento dell’agonia e della morte di Giovanni Paolo II e poi, poco dopo, al momento dell’elezione di Benedetto XVI. Quanti di quelli che avevano giudicato in maniera perentoria e da lungo tempo, che Giovanni Paolo avrebbe dovuto dare le dimissioni, sono stati costretti a rivedere le loro idee davanti alla marea umana che si è riversata, dappertutto nel mondo, al momento della sua morte  e davanti alla gratitudine espressa talvolta là dove la si sarebbe meno attesa? Come non rilevare questo sensus fidelium presente tra gli umili della terra e che si fa beffa perfettamente dei pregiudizi di ciò che si ritiene ecclesiasticamente corretto? Riguardo  alle prime reazioni suscitate nella stampa europea attorno alla personalità di Benedetto XVI, esse hanno semplicemente riflettuto un apprezzamento unilaterale, politico, del suo ministero anteriore, arrivando talvolta fino alla caricatura e alla calunnia, senza la comune misura  con la dimensione spirituale dell’avvenimento e della persona. Ma forse non lo potevano?
          Non è che un esempio, ma è emblematico, della questione della verità nel mondo mediaticizzato. Come superare la tentazione di stimare vero ciò di cui “si” parla  e come non dedurne che ciò di cui si parla non è “vero” che alla maniera con cui i media ne parlano? Non si tratta però per reazione di rigettare a priori  l’accostamento che fanno i media a un avvenimento. Giovanni Paolo nella enciclica Remptoris missio   (1990) ci ha insegnato a considerare il mondo della comunicazione come “il primo areopago dei tempi moderni”, e questa  espressione ci colloca nel solco dell’apostolo Paolo ad Atene. Ma per avanzare su questa via, noi dobbiamo, in un primo tempo, esercitare il nostro senso critico. Mi domando se, per noi preti in modo del tutto particolare, una nuova forma di digiuno non sarebbe di cercare di tanto in tanto di abbassare il sipario del piccolo schermo per consacrarci alla meditazione e alla preghiera. Così, saremo più disposti a “discernere”, nella massa delle informazioni, “tutto ciò che vi è di vero, tutto ciò che è nobile, giusto, puro, degno d’essere amato, d’essere onorato, ciò che si chiama virtù, ciò che merita lode “ (cfr. Fil 4, 8).
Adopero di proposito il termine “discernere” (diakrìnein)  nel senso che ha per san Paolo nel
racconto dell’istituzione dell’Eucaristia: “Colui che mangia e beve senza discernere il Corpo del Signore mangia e beve la propria condanna” (1 Cor 11, 29) Ciò non vuol dire che la fede che ci fa riconoscere questo Corpo santissimo nell’Eucarestia serve in maniera univoca per la valutazione che noi esercitiamo sull’attualità. Ma ciò indica una via per ricercare la verità dei fatti e delle persone, con l’intelligenza avvertita di coloro per i quali  tutto non è eguale. Nel racconto dell’Ultima Cena, l’Apostolo domanda di non banalizzare il Corpo consacrato. Analogicamente siamo chiamati a cercare la verità in mezzo al mondo come “uomini nuovi creati secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità” (cfr. Ef  4, 24).
2. L’amore nel celibato sacerdotale. Evocavo i numerosi passaggi delle lettere di san Paolo
che portano il segno d’un ministero apostolico vissuto in stretta relazione con vari collaboratori., uomini e donne, coppie, famiglie, comunità. Nell’attenzione che il mio proprio ministero di vescovo mi dà di fare al ministero dei preti della mia diocesi, sono stupito, nella loro esistenza concreta, per il posto di queste amicizie annodate nel corso della loro vita sacerdotale e delle responsabilità successive che hanno avuto. Questa dimensione sfugge, molto di frequente,  ancora là,  a coloro che pur sono assennati nel parlare nei media del celibato dei preti. Piacerebbe convocare certi giornalisti  ai funerali dei preti. Toccherebbero con mano ciò che vuol dire la fecondità d’una vita consacrata  a Gesù e alla Chiesa.
Certo, tutti siamo coscienti delle nostre fragilità. Dal clima di eroticizzazione delle nostre
società e a faccia della poca stima apparente di cui gode il prete, per lo meno in Francia, la castità dell’amore sacerdotale è diventata un mistero nascosto, perfino ai nostri occhi. Forse è là che l’amicizia tra preti, la partecipazione regolare delle gioie e delle sofferenze del ministero, meritano d’essere sostenute e vissute con una preoccupazione d’adattamento costante delle nostre diverse condizioni umane  della vita e della salute a situazioni pastorali esse stesse mutevoli. E’ uno dei ruoli del Consiglio presbiterale, tra i vari Consigli voluti dal Concilio, di farvi attenzione in comunione con il vescovo.
In fondo tuttavia questo problema non potrà trovare soluzione soddisfacente in una sorte di
vaso chiuso tra i preti. E’ tutta la Chiesa  cattolica  che deve sentirsi chiamata a ritrovare non già il senso del celibato solamente, ma una giusta stima dell’amore, sia esso coniugale nel matrimonio o altrimenti “nuziale”, oso dire, nel celibato consacrato. Se qualcuno ne ha reso testimonianza, nella sua vita d’uomo, di prete, di vescovo e di papa, è ben Giovanni Paolo II. Vi confesso d’essere stato io stesso rinvigorito, una sera a saint-Denis, dove mi è stato dato d’assistere in una antica officina abbandonata, al lavoro di teatro scritto da Karol Wojtyla “a” Cracovia a “su” Cracovia, intitolato La bottega dell’Orefice2. Accompagnata da un bel oratorio, secondo la tradizione del ”teatro rapsodico”, essa ha come sottotitolo Meditazioni sul sacramento del matrimonio che di tanto in tanto si trasforma in dramma. Come è successo che sono uscito da questa rappresentazione “rinvigorito”? Il lavoro non fa mai allusione al celibato come tale. Esso si svolge tutto interamente attorno all’amore coniugale, sulle modalità della più pura gioia  degli amanti o delle pene inerenti ai diversi conflitti della coppia, un po’ come ne L’Annonce à Marie di Paul Claudel. Ma giustamente, sono uscito di là impregnato da una coscienza ancora più viva che il celibato, donato per amore, è, esso pure, un bel mistero umano da vivere secondo la differenti tappe e le diverse età dell’esistenza, nell’umiltà e nel ringraziamento. Giovani Paolo II ha continuato con felicità la sua riflessione sull’amore nelle catechesi del mercoledì, dal 1979 al 1984. Non mi sembrerebbe troppo consigliarne la (ri)-lettura meditata, a piccole dosi 3. Al di là del teatro o di queste catechesi di Giovanni Paolo II, riconosciamo come la
dimensione eucaristica di tutto l’amore cristiano rimane ancora nascosta nel racconto  dell’Ultima Cena in Paolo e nei Sinottici. Ogni giorno noi preti ripetiamo queste parole, sotto una forma simile, in persona  Christi: “Questo calice è la nuova Alleanza nel mio sangue…” (1 Cor 11,  25). Il sacramento del matrimonio lega gli sposi a questa “alleanza”, e “questo mistero è grande” (cfr. Ef 5, 32). Quanto al nostro sacerdozio, offrendoci noi stessi ogni volta che celebriamo la Messa insieme con l’unico Prete, noi rinnoviamo la nostra consacrazione al suo servizio”per la moltitudine”.
3. Ministero dei preti e missione dei laici. Sarà una scommessa volere dire qualcosa di nuovo
su questo vasto problema in poche parole. Se ho scelto di affrontarlo, quand’anche in conclusione di questa conferenza, è perché esso è al cuore  del nostro ministero della speranza nella quotidianità dei giorni. Quando penso alle 83 parrocchie della mia diocesi e alle altre “comunità cristiane di vicinanza” che tentiamo di farvi vivere, ho una doppia preoccupazione. Quella, costante, da una parte, di rianimare o di attìzzare la fiamma del Vangelo  che brucia in mezzo all’umanità polifonica  di questa grande regione. E, d’altra parte, quella di trasformare, per quanto possibile, il sentimento di reale povertà che ci stringe (ometto qui i dettagli d’ordine statistico) in una occasione di rinascita evangelica.
La fiamma del Vangelo, nel tessuto denso delle nostre 40 città (diversamente senza
dubbio dai comuni molto più numerosi e talvolta dispersi delle vostre diocesi), dipende innanzitutto dall’interiorità e dal vigore della fede dei laici o delle persone consacrate. Io, per esempio, constato che là dove una comunità religiosa, in un “quartiere sensibile” diffonde attenzione  assai vicino agli abitanti, la speranza  è pronta a rinascere, si risvegliano delle generosità. Si allacciano dialoghi di vita con credenti di differenti religioni o con “uomini di buona volontà”. Ma soprattutto là dove un uomo o una donna apostoli, un consacrato o una consacrata o un laico (laica), là dove un diacono, un prete ama Gesù e ama i suoi fratelli e sorelle nell’umanità, la sua testimonianza ne guadagna altre, da vicino a vicino, e la viva fiamma del Vangelo  cresce, incerta agli inizi, poi di più in più chiara e pura. Spetta a noi scoprire  questi testimoni, sostenerli, accompagnarli incoraggiandoli perché portino un frutto di vita. Con essi, forse noi scopriremo dei talenti sommersi fino ad ora. Voglio dire: prima di  lamentarsi di non aver nessuno formato sul territorio, noi sapremo “discernere” i  battezzati pronti ad agire secondo le loro possibilità, posto che li si chiami.
Finalmente, la fonte di un’autentica rinascita per il ministero, nel suo rapporto con la
missione dei laici, è ancora e sempre da ricercare nel paradigma eucaristico. “Il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver rese grazie, lo spezzò e disse: Questo è il mio corpo che è per voi; fate questo in memoria di me” (1 Cor 11, 23b-24). Dopo il Concilio amiamo dire che l’Eucaristia  è “fonte e vertice della vita cristiana”. Ciò vale dunque anche della relazione tra preti e laici nei compiti ordinari della Chiesa. Sono vissuti sul modello del dono di sé, nell’amore e nella speranza? Il “fate questo in memoria di me” ha un’applicazione liturgica e sacramentale che si attua nella celebrazione del “mistero della fede”, dove ognuno trova il suo posto proprio in unione con l’unico sacrificio di Cristo. Ma questo “fate… “ trova ugualmente la sua applicazione nella divisione dei compiti al servizio della “moltitudine” per la quale questo sacrificio è offerto. Secondo l’antica formula del rito dell’ordinazione: Imitate quod tractatis, “imitate ciò che celebrate”. Allora il memoriale del Signore diventa veramente vertice di tutta la vita e fonte di speranza nella pratica del ministero.
        
+ Olivier  de Berranger  -  vescovo di Saint-Denis (Francia)

da (Prêtres Diocésaines 12/2005)
traduzione di don Antonio Dusini

———————————-
1) Documentation catholique N. 2322, 17.10.2004, p. 888-895.
2) Karol Wojtyla, La bottega dell’Orefice, e altri drammi, p. 5-91, Ed. Club della Famiglia,  1991      
     Milano.
3) Karol Wojtyla, Uomo e donna lo creò, catechesi sull’amore umano, Ed. Città Nuova,  1985
   Roma

Omelia (25-11-2010) : E’ caduta Babilonia

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/20647.html

Omelia (25-11-2010) 

Monaci Benedettini Silvestrini
 
E’ caduta Babilonia

La liturgia della Parola odierna ci offre uno spettacolo raccapricciante di rovina e di distruzione. Giovanni nell’Apocalisse ci descrive la distruzione di Babilonia, volendo indicare con questo nome la potenza di Roma che tanto sangue di martiri ha fatto scorrere nei primi tre secoli della Chiesa. La descrizione ha una forza espressiva impressionante: una grossa pietra viene gettata in mare indicando che con le stessa violenza precipiterà nella rovina la grande città, forse Roma pagana. Da ora in poi in essa regnerà sovrano il silenzio e la morte e diventerà covo di demoni e di animali immondi. Chi conosce la storia di Roma dopo la caduta dell’Impero troverà in questa previsione la conferma nei dati dei fatti. I redenti dal Signore invece intoneranno un inno di lode e di ringraziamento a Dio. Anche in Luca si parla di distruzione, però quella di Gerusalemme che avverrà con estrema violenza e sofferenza. Un avviso per i credenti di allora. Non recatevi a Gerusalemme, allontanatevene se vi trovate entro la sue mura. I suoi abitanti saranno passati a fil di spada e i superstiti, recati prigionieri in tutti i paesi. La storia ci informa che questa immane distruzione avvenne per opera di Tito negli anni 70 dopo la nascita di Gesù. Molti prigionieri furono portati a Roma a costruire il grande Colosseo. La storia degli uomini nei suoi ricorsi ci fa rivivere queste immani tragedie: imperi e uomini che sembravano eterni sono spazzati via dalla faccia della terra, esecrati per la loro tirannia totalitaria. Se ce ne fosse bisogno, anche questa ineluttabile scomparsa di super potenze e super uomini ci confermano nella fiducia di essere tra gli invitati al banchetto dell’Agnello » o anche vedere prossima la nostra liberazione quando vedremo accadere segni particolari, premonitori della prossima fine di questo mondo: « Alzatevi e levate il capo perché la vostra liberazione è vicina. Per chi si fida di Dio, ogni avvenimento viene letto come un suo atto di amore. Anche la mia fine, nella volontà del Signore. 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 25 novembre, 2010 |Pas de commentaires »
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