Archive pour novembre, 2010

Omelia per domenica 7 novembre 2010, 2 Tessalonicesi 2,16-3,5: La potenza della preghiera

dal sito:

http://www.nicodemo.net/NN/ms_pop_vedi2.asp?ID_festa=254

2 Tessalonicesi 2,16-3,5

La potenza della preghiera

La Seconda lettera ai Tessalonicesisi apre con un prescritto (2Ts 1,1-2), a cui fa seguito il ringraziamento tipico delle lettere paoline (2Ts 1,3-12). Al termine di esso si situa il brano centrale riguardante la venuta del Signore (2,1-12). Vengono poi alcune esortazioni (2,13 – 3,15) e il postscritto (3,16-18). Nella parte esortativa, dopo aver ringraziato Dio per averli scelti come primizia per la salvezza, l’autore, che si presenta come l’apostolo Paolo, invita i tessalonicesi a mantenere le tradizioni che hanno ricevuto da lui oralmente e mediante la lettera che ha inviato loro (2,13-15). Egli introduce poi una supplica al Signore Gesù e a Dio Padre in favore dei destinatari (2,16-17) e infine chiede a loro di pregare per lui (3,1-5). Nel testo liturgico sono riportate le ultime due di queste esortazioni.
Nella preghiera di intercessione l’autore si rivolge a Dio con queste parole: «E lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene» (2,16-17). L’autore prega perché sia il Signore Gesù che Dio Padre intervengano  per mantenere sempre vivo nei destinatari quell’impegno responsabile che nel versetto precedente aveva raccomandato loro. Egli si sofferma sul fatto che Dio ci ha amato e ci ha dato con la sua grazia una «consolazione (paraklêsis) eterna» e una «buona speranza» (elpis). La preghiera non è illusoria perché poggia sulla magnifica storia di amore di cui i destinatari sono stati beneficiari. Perciò l’autore chiede al Padre e al Signore Gesù che confortino (parakalesai) e confermino i loro cuori in ogni opera e parola buona.
Dopo aver assicurato la sua preghiera per i destinatari, il mittente domanda loro di pregare per lui: «Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata, come lo è anche tra voi, e veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi. La fede infatti non è di tutti» (3,1-2; cfr. anche 1Ts 5,25). Come oggetto della preghiera che richiede loro, il mittente indica la diffusione della parola del Signore e la liberazione dagli attacchi di uomini perversi. Ciò è naturale per chi è  impegnato nell’evangelizzazione e deve fare i conti ogni giorno con persone che non sono disposte ad abbracciare la fede. Il mittente e i destinatari pregano vicendevolmente. È questa una forma non trascurabile di solidarietà e fraternità cristiana. L’autore conclude la sua esortazione sulla preghiera con queste parole: «Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno» (3,3). Si puà pregare Dio e abbandonarsi nelle sue mani perché egli è fedele e opera coerentemente a favore dei credenti sostenendo la loro fede e proteggendoli dall’influsso malefico di Satana.
A partire da questa fiducia, l’autore può rivolgersi con serenità ai destinatari: «Riguardo a voi, abbiamo questa fiducia nel Signore: che quanto noi vi ordiniamo già lo facciate e continuerete a farlo» (3,4). Il brano ripete motivi già presenti nella prima lettera. In particolare si veda 1Ts 5,24 per il tema della fedeltà e 1Ts 3,13 per quello della saldezza invocata da Dio. Con la differenza che qui si insiste sulla continuità nell’obbedienza a ciò che Paolo ha comandato (da parangellô, annunziare). Appare ancora una volta la preoccupazione di far valere l’insegnamento del grande apostolo come tradizione autorevole.
Il brano termina con un voto benedicente: «Il Signore guidi i vostri cuori all’amore di Dio e alla pazienza di Cristo» (3,5).  Il sentiero sul quale devono incamminarsi i destinatari è quello segnato dall’amore di Dio e dalla pazienza (hypomonê) di Cristo, cioè dall’attesa costante della sua venuta finale. Il brevissimo testo caratterizza l’esistenza cristiana in rapporto all’amore che il Padre ha per noi e al futuro di salvezza promesso in Cristo.

Linee interpretative

La preghiera è l’atteggiamento fondamentale del credente. Essa non consiste in una pressione esercitata su Dio perché faccia quello che noi vogliamo, ma piuttosto in un mettersi in sintonia con le modalità del suo agire nel mondo. Se Dio non avesse per primo manifestato il suo amore, non sarebbe possibile pregarlo. La preghiera porta conforto e consolazione perché si basa sul riconoscimento della fedeltà di Dio, il quale non permette che il credente sia privato di tutto ciò che gli è necessario per combattere contro la potenza del male.
La preghiera ha anche una grande efficacia sul piano dell’evangelizzazione. Immedesimandosi con Paolo l’autore chiede ai destinatari di pregare perché per mezzo suo la parola del Signore possa diffondersi sempre più, superando tutte le resistenze che si oppongono alla sua opera. È chiaro che non si tratta di chiedere a Dio qualcosa che già non stia facendo, ma piuttosto di coinvolgere anche i destinatari in un progetto che può essere attuato efficacemente solo in chiave comunitaria, con la partecipazione di tutti. Solo chi prega per il successo dell’evangelizzazione si sentirà poi coinvolto personalmente nell’annunzio, e non farà mancare ai fratelli il supporto della sua collaborazione 

Omelia (07-11-2010) : Dio non è il Dio dei morti, ma dei vivi, perché tutti vivono per Lui

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/20527.html

Omelia (07-11-2010) 
mons. Gianfranco Poma

Dio non è il Dio dei morti, ma dei vivi, perché tutti vivono per Lui

Ci avviciniamo ormai al termine dell’anno liturgico e alla conclusione della lunga serie delle domeniche del tempo ordinario nelle quali abbiamo letto il Vangelo di Luca che, nella parte che lo distingue dai Vangeli di Marco e di Matteo, ci guida, al seguito di Gesù, nel viaggio verso Gerusalemme, dove avviene il suo « esodo », la sua partenza verso il Padre. Nella domenica XXXII ci è proposto il brano di Lc.20, 27-38: ormai siamo giunti a Gerusalemme, nel Tempio dove si concentra la attività di Gesù, il suo messaggio finale, il « discorso escatologico ». Luca descrive i capi dei sacerdoti e gli scribi che cercano di eliminare Gesù perché sono perplessi e diffidenti del suo insegnamento, ma ne sono impediti per l’entusiasmo del popolo per lui: così Luca prepara il suo lettore all’immagine positiva che darà del popolo nel racconto della Passione.
Il brano che oggi leggiamo (Lc.20,27-38), si presenta come una disputa scolastica tra le diverse tendenze del pensiero ebraico e forse ancora vive all’interno della comunità a cui Luca si rivolge, ma contiene un pensiero e un messaggio forte di Gesù per i suoi discepoli di ogni tempo. Si tratta di una disputa sulla risurrezione generata da una domanda di alcuni Sadducei: certamente la risposta di Gesù come è riportata da Luca, suppone la fede nella risurrezione di Gesù che è alla base della fede cristiana. Leggere questo brano del Vangelo, che, è bene sottolinearlo, presenta alcune difficoltà di interpretazione, in questa domenica, è occasione per ciascuno di noi per fermarci e chiederci che cosa pensiamo noi della risurrezione.
Dunque, dice il Vangelo, « gli si avvicinarono alcuni Sadducei i quali dicono che non c’è la risurrezione ». Questa è l’unica volta che Luca nomina i Sadducei nel Vangelo, che poi ritornano negli Atti degli Apostoli: si tratta, secondo Giuseppe Flavio, di una delle « scuole filosofiche » esistenti in seno al giudaismo, che riconosce autorità alla sola Scrittura e rifiuta la tradizione orale. Mentre i Farisei, se pure in modalità diverse, credono nella risurrezione, i Sadducei ritengono che l’al di là della morte di ogni persona umana sia assicurata dalla continuità e dalla sopravvivenza delle generazioni, unicamente attraverso il succedersi della procreazione per mezzo del matrimonio. Per questo per i Sadducei è strettamente necessario il matrimonio, perché solo attraverso questa via è assicurata la continua sopravvivenza dell’umanità, ed è in questa luce che essi spiegano la legge del levirato che essi attribuiscono a Mosè. I Sadducei quindi rivolgendosi a Gesù intendono, proprio fondandosi sull’autorità di Mosè, negare la risurrezione, deridendo coloro che la sostengono. Essi lo chiamano « Maestro »: avra’ il coraggio Gesù di contraddire Mosè? E con quale motivazione il « Maestro » potrà non schierarsi con gli « anti-dicenti » che c’è la risurrezione? La risposta di Gesù si svolge in due momenti: anzitutto dice il suo pensiero sulla risurrezione e poi fa riferimento all’autorità mosaica.
Dunque dice Gesù: « I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni di quel mondo e della risurrezione dei morti, non prendono né moglie né marito; infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio ». Gesù non rimane sul piano polemico dei suoi interlocutori ma espone il suo insegnamento con un colpo d’ala che lo libera dai condizionamenti con cui vorrebbero legarlo: e Gesù apre orizzonti nuovi per una vita che non è la continuazione della vita di « questo mondo », ma è la novità di cui egli solo può parlare perché è la manifestazione della propria esperienza di Figlio di Dio. Per comprendere adeguatamente il senso della Parola rivelatrice di Gesù, occorrerebbe confrontarla con testi corrispondenti di S.Paolo e di S.Giovanni: la risurrezione non è la riproduzione al di là della morte della stessa vita generata « in questo mondo » mediante il matrimonio. Gesù parla di « quel mondo » che è per quelli che « ne sono giudicati degni »: il participio passivo indica una azione di Dio che giudica coloro che ne sono degni, e tutto il Vangelo ci ha detto che il modo di Dio di valutare capovolge quello della razionalità umana (« innalza i poveri e abbassa i potenti »). Gesù parla del mondo « della risurrezione dai morti »: è il mondo di una vita che non è quella assicurata dalla continuità della procreazione mediate il matrimonio, ma che nasce dalla « risurrezione dai morti », cioè che oltrepassa la vita di « questo mondo » perché non è generata « da carne e da sangue » Chi la vive non può più morire, perché è come-angelo (cioè vive con Dio), è generato da una azione generante nuova: è figlio di Dio. Gesù parla della risurrezione come vita nuova, vita altra, vita dei figli di Dio: ci impressiona la molteplicità dei termini usati da Gesù per esprimere questa realtà nuova, segno della difficoltà di trovare un linguaggio adeguato per dire una realtà che va oltre quella normale di « questo mondo ». Ciò che va sottolineato, la rivelazione che viene da Gesù, è la chiara affermazione della risurrezione, come vita nuova, la vita dei figli di Dio. Ma Gesù non ne parla per togliere il velo del mistero di un al di là che deve rimanere tale: ne parla perché è un’esperienza che egli vive già nel presente e che propone a chi crede in lui. La parola di Gesù conduce dentro il mistero che ogni uomo vive dentro di sè: l’uomo nasce in « questo mondo », ma non si esaurisce in esso. Seguendo Gesù, credendo in lui, l’uomo entra in « quel mondo » che è il mondo di Dio, e vi entra già adesso: la parola di Gesù ci introduce nella novità della vita che egli propone, una vita in continua tensione, tra « questo » e « quel » mondo, tra ciò che nasce « dalla carne » e ciò che nasce « dall’alto », tra il « già » e il « non ancora », tra « il segno » e « la realtà », tra il « matrimonio » e la « verginità », in attesa che « passi la figura di questo mondo » e appaia la realtà di « quel mondo » che rimane per sempre. La proposta di Gesù è di vivere intensamente « questo mondo » come il terreno nel quale è deposto il seme di « quel mondo » che è bellezza, gioia, luce, amore: Dio.
Ai Sadducei e a noi, Gesù ricorda l’esperienza di Mosè perché noi la riviviamo: Dio è il Dio dei vivi e non dei morti, Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, è il mio Dio. Dio è l’ « amante della vita », Colui che ci ama: entrare in relazione con Lui, significa iniziare una vita che diventa sempre più intensa, quanto più si abbandona a lui e che diventa eterna quando è totalmente afferrata da lui. 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 6 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010 – XXXII DEL TEMPO ORDINARIO

DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010 - XXXII DEL TEMPO ORDINARIO dans AUTORE ANTICO (sconosciuto) 5147527915_ce21dacfaf

http://liturgiaincarnata.blogspot.com/2010/11/xxxii-domenica-del-tempo-ordinario.html

DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010 – XXXII DEL TEMPO ORDINARIO

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/ordinC/C32page.htm

MESSA DEL GIORNO

Seconda Lettura  2 Ts 2, 16 – 3, 5
Il Signore vi confermi in ogni opera e parola di bene.

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési
Fratelli, lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene.
Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata, come lo è anche tra voi, e veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi. La fede infatti non è di tutti. Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno.
Riguardo a voi, abbiamo questa fiducia nel Signore: che quanto noi vi ordiniamo già lo facciate e continuerete a farlo. Il Signore guidi i vostri cuori all’amore di Dio e alla pazienza di Cristo.

http://www.bible-service.net/site/379.html

2 Thessaloniciens 2,16-17 – 3,1-5

Confiance et prière sont les maîtres mots de cet extrait. Confiance en Dieu et confiance dans les frères, la confiance de Paul puise force et nourriture « dans le Seigneur ». Dieu, dans son amour de Père fait tout et donne tout : amour, grâce, réconfort, joyeuse espérance, force et protection. Les frères de Thessalonique sont fondés sur l’amour de Dieu, l’amour que Dieu a pour eux. Ils n’ont qu’à se laisser faire, à laisser agir « le Seigneur Jésus Christ et Dieu notre Père », dans une action conjointe. Ils n’ont qu’à s’ offrir à leur œuvre réconfortante, littéralement « consolante », œuvre de l’Esprit consolateur. Paul invite les frères à la prière. Prière pour lui, afin que, par lui, « la parole du Seigneur poursuive sa course ». Paul prie aussi pour ses frères : que le Seigneur Jésus les rende accueillants à l’amour qui vient de Dieu, et persévérants pour agir bien en attendant son retour

2 Tessalonicesi 2,16-17 – 3,1-5
 
La fiducia e la preghiera sono i tratti distintivi di questo stralcio. La fiducia in Dio e la fiducia tra i fratelli, la fiducia di Paolo trae forza e nutrimento « nel Signore ». Dio, nel suo amore paterno, è tutto e dà tutto: l’amore, la grazia, conforto, speranza gioiosa, forza e protezione. I fratelli di Tessalonica sono fondati sull’amore di Dio, l’amore che Dio ha per loro. Devono solo lasciarlo fare, lasciarlo agire per « il Signore Gesù Cristo e Dio Padre nostro » in un’azione comune. Essi non hanno che da offrire la loro opera confortante, letteralmente « consolante” opera dello Spirito consolatore. Paolo invita alla preghiera. La preghiera per lui, in modo che attraverso di lui,  » parola del Signore corra e sia glorificata, ». Paolo prega anche per i suoi fratelli: che il
Signore Gesù li renda aperti (recettivi) all’amore che viene da Dio, e la perseveranti per agire bene in attesa del suo ritorno.

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dall’«Omelia» di un autore del secondo secolo
(Capp. 1, 1 – 2, 7; Funk, 1, 145-149)

Cristo volle salvare tutto ciò che andava in rovina
Fratelli, ravviviamo la nostra fede in Gesù Cristo, vero Dio, giudice dei vivi e dei morti, e rendiamoci consapevoli dell’estrema importanza della nostra salvezza. Se noi svalutiamo queste grandi realtà facciamo male e scandalizziamo quelli che ci sentono e mostriamo di non conoscere la nostra vocazione né chi ci abbia chiamati né per qual fine lo abbia fatto e neppure quante sofferenze Gesù Cristo abbia sostenuto per noi.
E quale contraccambio potremo noi dargli o quale frutto degno di quello che egli stesso diede a noi? E di quanti benefici non gli siamo noi debitori? Egli ci ha donato l’esistenza, ci ha chiamati figli proprio come un padre, ci ha salvati mentre andavamo in rovina. Quale lode dunque, quale contraccambio potremo dargli per ricompensarlo di quanto abbiamo ricevuto? Noi eravamo fuorviati di mente, adoravamo pietre e legno, oro, argento e rame lavorato dall’uomo. Tutta la nostra vita non era che morte! Ma mentre eravamo avvolti dalle tenebre, pur conservando in pieno il senso della vista, abbiamo riacquistato l’uso degli occhi, deponendo, per sua grazia, quel fitto velo che li ricopriva.
In realtà, scorgendo in noi non altro che errori e rovine e l’assenza di qualunque speranza di salvezza, se non di quella che veniva da lui, ebbe pietà di noi e, nella sua grande misericordia, ci donò la salvezza. Ci chiamò all’esistenza mentre non esistevamo, e volle che dal nulla cominciassimo ad essere.

Esulta, o sterile, tu che non hai partorito; prorompi in grida di giubilo, tu che non partorisci, perché più numerosi sono i figli dell’abbandonata dei figli di quella che ha marito (cfr. Is 54,1). Dicendo: Esulta, o sterile, tu che non hai partorito, sottolinea la gioia della Chiesa che prima era priva di figli e poi ha dato noi alla luce. Con le parole: Prorompi in grida di giubilo…, esorta noi ad elevare a Dio, sempre festosamente, le voci della nostra preghiera. Con l’espressione: Perché più numerosi sono i figli dell’abbandonata dei figli di quella che ha marito, vuol dire che il nostro popolo sembrava abbandonato e privo di Dio e che ora, però, mediante la fede, siamo divenuti più numerosi di coloro che erano guardati come adoratori di Dio.
Un altro passo della Scrittura dice: «Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mt 9,13). Dice così per farci capire che vuol salvare quelli che vanno in rovina. Importante e difficile è sostenere non ciò che sta bene in piedi, ma ciò che minaccia di cadere. Così anche Cristo volle salvare ciò che stava per cadere e salvò molti, quando venne a chiamare noi che già stavamo per perderci.

Responsorio    Cfr. 1 Ts 5, 9-10; Col 1, 13
R. Dio ci ha destinati alla salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi, * perché viviamo insieme con lui.
V. Egli ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto,
R. perché viviamo insieme con lui.

Omelia per il 6 novembre 2010: (Fil 4,18)

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/20158.html

Omelia (06-11-2010) 
Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno

Sono ricolmo dei vostri doni ricevuti da Epafrodito, che sono un piacevole profumo, un sacrificio gradito, che piace a Dio. (Fil 4,18)

Come vivere questa Parola?
Paolo si trova in catene a causa della predicazione del vangelo. In questa situazione è raggiunto da un aiuto economico da parte dei Filippesi. Se ne rallegra, non tanto per l’indiscutibile sollievo materiale che gliene deriva, quanto piuttosto per ciò che il gesto rivela di benevolenza nei suoi riguardi e, in particolare, di sottomissione ai voleri di Dio.
Il linguaggio marcatamente commerciale: aprire « un conto di dare e avere », accreditare « il frutto in abbondanza sul vostro conto », è utilizzato per far passare dalla materialità del dono che ha come destinatario Paolo, al suo significato spirituale legato all’atteggiamento interiore che lo ha determinato.
È nelle profondità del cuore, infatti, che va rintracciato il senso e il valore intrinseco di quanto si compie. La stessa opera può rappresentare un vuoto bruciare incenso alla propria persona e un tacitare la propria coscienza, oppure un sacrificio di soave odore particolarmente gradito a Dio.
È l’intenzione a riscattare l’opera dalla sua inconsistente esteriorità, trasformandola in espressione di amore verso Dio e verso i fratelli. Non più gesto fugace ma autentico atto di culto realizzato in spirito e verità, secondo la raccomandazione di Gesù.

Nella mia pausa contemplativa, verificherò la radice dei miei gesti di attenzione verso gli altri, con l’impegno di rimuovere quanto può inquinarli e di purificare costantemente l’intenzione.

Purifica, Signore, il mio cuore, perché tutta la mia vita divenga un sacrificio di soave odore.

La voce di un saggio
La vita è oscurità se non vi è slancio, e ogni slancio è cieco se privo di sapienza, e ogni sapienza è vana senza agire, e ogni azione è vuota senza amore, e lavorare con amore è un vincolo con gli altri, con voi stessi e Dio.
Gibran Kahlil 

Omelia per il 6 novembre 2010: Fil 4,7

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/13989.htmlOmelia 


Eremo San Biagio

Commento su Fil 4,7

(08-11-2008)

Dalla Parola del giorno
Non è il vostro dono che io ricerco, ma il frutto che ridonda a vostro vantaggio.

Come vivere questa Parola?
La pericope propostaci dalla liturgia odierna si apre con un’esplosione di gioia. Ne è stato occasione il delicato intervento dei Filippesi che si sono fatti premura di soccorrere Paolo nelle sue necessità economiche.
Ma non è l’aiuto in sé il motivo per cui Paolo si rallegra, bensì la nobiltà dei sentimenti che l’hanno ispirato e soprattutto il frutto che tornerà a vantaggio degli stessi donatori.
Spesso quello che manca nella vita non sono i motivi di gioia, ma lo sguardo acuto che sa coglierli. Qui, Paolo ci mostra un progredire di motivo in motivo, scavando sempre più in profondità: c’è un dono iniziale che già suscita contentezza, ma oltre il dono ci sono cuori che l’hanno ispirato e dal cui calore ci si sente avvolti.
Lo scoprirsi amati è qualcosa di più che l’essere amati. Vi è un fondamentale passaggio dalla passività dell’essere amato all’attivo e coinvolgente riconoscimento di esserlo: è uno spalancare gli occhi su questa realtà, con gioioso stupore. Sì, ripeto, con gioioso stupore, perché se è vero che tutti ci portiamo dentro il bisogno insopprimibile di amare e di essere amati, è anche vero che non possiamo pretenderlo: l’amore è, per sua natura, gratuità.
Il riconoscere di essere amati è già un’incipiente risposta all’amore, perché rompe il guscio coriaceo del nostro egocentrismo per aprirci all’altro. Ma Paolo va ancora oltre. Il motivo della sua gioia è ‘il frutto’ che tornerà a vantaggio degli stessi donatori.
L’io è completamente accantonato per lasciare spazio agli altri del cui bene ci si rallegra. E la gioia si sposta: dall’essere amato all’amare.

Oggi, nella mia pausa contemplativa, chiederò a Dio-Amore di purificare il mio sguardo per cogliere i molti segni dell’amore che Lui e i fratelli pongono sul mio cammino e di aiutarmi a passare dall’essere amato, al riconoscerlo, dal riconoscimento alla risposta di amore, in un clima di gioia diffusiva.

Dio-Amore, che mi avvolgi quotidianamente di tenerezza, scrosta il mio cuore, così che possa ritrovare il gioioso stupore di scoprirsi amato e il coraggio di uscire da se stesso per andare verso gli altri in gratuità.

Le parole di santa di oggi
Un cuore gioioso è il normale risultato di un cuore che arde d’amore.
Madre Teresa di Calcutta 

Omelia per il 6 novembre 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/16574.html

Omelia (07-11-2009) 
Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno

« Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti »

Come vivere questa Parola?
La frase si situa subito dopo la parabola dell’amministratore infedele. I beni demandati all’amministrazione di questo dipendente non sono suoi e si identificano con le cose di poco conto a cui qui si accenna. La loro gestione rappresenta una palestra in cui esercitarsi, un tirocinio che abilita al corretto possesso della vera ricchezza: delle ‘cose importanti’, cioè delle sole che veramente contano e che nessuno potrà più sottrarci perché si identificano con i beni imperituri della vita eterna.
Servirsene con leggerezza a proprio esclusivo vantaggio, senza tener conto della volontà di Colui che ne ha conferito l’amministrazione in vista di una loro equa e puntale distribuzione a vantaggio di tutti, mette a rischio l’ingente capitale di cui si diventa coeredi nella misura in cui si assume l’atteggiamento del Figlio. Il vero amministratore fedele è colui che si configura a Cristo Gesù, lui che « pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini » (Fl 2,6-7).
Quanto si è ricevuto in dono da Dio, sia in beni materiali sia in capacità personali, non può mai essere considerato un possesso esclusivo. La sua amministrazione deve tener conto dell’intenzionalità di chi l’ha elargito, che non è mai solo quella di una gratificazione individualista, ma anche di un servizio ai fratelli. La tentazione è quella di nascondersi dietro al fatto che « sono cose di poco conto » e, in fondo, ‘che male c’è’, non ‘fanno tutti così’?
La fedeltà nelle grandi cose non si improvvisa e, comunque, non si può essere fedeli a ‘intermittenza’! O si aderisce a Dio con tutto se stessi o le nostre proteste di amore sono parole che, private del loro senso, si riducono a suoni inarticolati.

Nella mia pausa contemplativa, verificherò l’atteggiamento che assumo nell’amministrazione dei miei beni materiali e spirituali e chiederò al Signore di insegnarmene il retto utilizzo.

Rendimi, Signore, consapevole della mia posizione di « amministratore » di beni che sono solo tuoi e che devo gestire a vantaggio di tutti, perché a ogni uomo sua svelato il tuo volto di Padre provvido.

La voce di un dottore della Chiesa
Un’amministrazione dei beni temporali giusta, conforme al dovere […], procura il merito per ottenere i beni eterni, purché non possieda mentre la si possiede […]. Perciò, lasciate andare le cure delle cose passeggere, cerchiamo i beni duraturi e sicuri, innalziamoci al di sopra delle nostre ricchezze terrene.
S. Agostino 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 5 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

Conversione dell’Apostolo Paolo (25 gennaio 2009)

ancora un bel commento sulla conversione di San Paolo, dal sito:

http://www.domenicanipistoia.it

Conversione dell’Apostolo Paolo

di Alessandro Cortesi op – 25 gennaio 2009
 Pistoia – Italia

Festa della conversione di san Paolo – anno paolino

At 22,3-16; Sal 116; 1Cor 7,29-31; Mt 16,15-18

In quest’anno paolino la festa della conversione di san Paolo coincide con la domenica e si può essere celebrata l’Eucaristia con le letture della festa (mentre la seconda lettura è tratta dalla liturgia della III domenica del tempo ordinario).
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La figura di Paolo è affascinante e complessa. Tutta la sua vita trova un momento di svolta nell’evento descritto per tre volte in contesti diversi nel testo degli Atti degli apostoli (ai capitoli 9, 22 e 26) come accaduto sulla via di Damasco. Ma anche Paolo stesso fa riferimento, a suo modo, nella lettera ai Galati, al passaggio fondamentale della sua vita avvenuto a metà degli anni ’30 del I secolo. In questo testo Paolo parla della sua esperienza per affernare che il vangelo da lui annunziato non è ‘modellato sull’uomo’, cioè non è frutto di pensiero o di opera umana ma è un dono. Egli stesso l’ha ricevuto ‘per rivelazione di Gesù Cristo’. Paolo non dice come ciò avvenne, ma gli è chiaro il senso profondo di tale evento: « quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco » (Gal 1,15-17).
In queste poche righe dettate dalla sua voce, viene espressa l’esperienza unica e totalmente gratuita di sentirsi chiamato e oggetto di un dono di benevolenza. La ‘rivelazione’ riguarda non qualcosa, ma qualcuno: ‘colui che mi scelse fin dal seno di mia madre… si compiacque di rivelare a me suo Figlio’. C’è una centralità di Gesù Cristo, unita al dono di grazia del Padre che segnerà d’ora in poi la vita di Paolo: la bella notizia che dovrà annunziare proviene da Gesù Cristo. In altri testi Paolo dirà che il ‘vangelo’ è l’agire di Dio che ci ha amati gratuitamente, ci ha liberati dal peccato in Cristo e in lui siamo salvati per mezzo della fede (Rom 1,16; 3,21). E’ un rapporto con Gesù nella sua condizione di risorto, in vista di un compito che Paolo avverte inscindibilmente legato a questa chiamata. Da qui ha inizio una missione determinata: annunziare il Cristo in mezzo ai pagani. Paolo sottolinea l’autorità della chiamata e della scelta e con essa la gratuità. Non sente perciò la necessità di andare a Gerusalemme dagli apostoli.
Le pagine degli Atti degli apostoli riprendono questi dati assai sobri e ne offrono una narrazione ampliata: Paolo è presentato come fariseo zelante, in viaggio verso Damasco per ricercare i cristiani di costì – ‘coloro che erano della via’ – e per farli prigionieri. Due elementi segnano l’evento che accade sulla via: la voce e la luce. La voce, appello di Gesù a Paolo, genera un breve dialogo ed è percepita da Paolo solamente (in At 22,7, mentre in At 9,7 è udita anche dagli altri) mentre la luce è vista anche dai presenti: « Saulo Saulo perché mi perseguiti? » « chi sei Signore? ». Nella domanda di Paolo già è racchiusa la professione di fede nel Cristo come Signore, la voce risponde rinviando alla vicenda di Gesù di Nazareth ed al rapporto tra Gesù e i suoi discepoli: « io sono Gesù il Nazareno che tu perseguiti ». Compare qui la stretta identificazione tra Gesù e i suoi discepoli perseguitati. Inoltre in At 22 Paolo riceve il comando di recarsi a Damasco dove avrebbe poi ricevuto indicazioni: la narrazione accentua la cecità di Paolo, condotto per mano dai compagni fino a Damasco: lì l’incontro con il cristiano Anania gli fa riacquistare la vista. At 9 amplia questo momento e narra di una visione di Anania che recandosi da Paolo dice « mi ha mandato a te il Signore Gesù che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo » (At 9,17). Allora Paolo recuperò la vista e fu battezzato. La luce folgorante aveva causato la cecità, ora la presenza e la compagnia di Anania fa riacquistare la vista e il battesimo è presentato come ‘illuminazione’ e possibilità di sguardo nuovo.
Questi testi ci fanno entrare nell’intimo della vicenda di Paolo. La prima questione è se quella di Paolo fu una vera e propria ‘conversione’. Paolo era un convinto credente nel Dio di Abramo, della promessa e della legge: l’evento di Damasco gli rovescia il modo di considerare la religione e la vita stessa, ma gli fa percepire in modo più profondo la sua stessa tradizione di fede. Nella lettera ai Galati Paolo sottolinea il riferimento a Dio che lo scelse fin dal seno di sua madre: la sua fede rimane ancorata al Dio di Israele. Pur in tale continuità a Damasco irrompe una luce nuova, il Risorto lo investe della sua presenza e lo conduce a concepire in modo nuovo il rapporto con il Dio dei padri. Sta qui l’origine di quella tensione che Paolo vivrà nel sentirsi fratello e membro del popolo d’Israele, interrogandosi sul ruolo del suo popolo nella storia della salvezza, e contemporaneamente nell’avvertire la profonda novità dell’incontro personale con Gesù Cristo e l’apertura del vangelo a tutta l’umanità. Paolo vive la consapevolezza di essere stato chiamato gratuitamente, non per le sue opere, né per il suo zelo religioso, né per la sua cultura raffinata. Credere per lui diviene allora affidamento che sgorga dal sapersi toccato dalla gratuità di Dio senza alcun merito. Il vangelo che Paolo accoglie è la bella notizia del dono di presenza di Gesù il risorto. Tutto ormai nella sua vita ruoterà attorno all’essere ‘in Cristo’.
Da questo incontro deriva quanto Paolo scrive ai Corinzi: ‘il tempo ormai si è fatto breve’. Tutta la vita diviene momento di passaggio in cui stare dentro le situazioni, ma nel contempo guardare all’approdo finale, cioè all’incontro con Cristo. Vivere come se… non è una forma di estraneità e di disimpegno, piuttosto l’attuare una fedeltà al tempo ed alle situazioni con uno sguardo proteso all’orizzonte ultimo della vita che è l’incontro con Cristo che comunica la grazia del Padre.
Nella sua esperienza di essere stato scelto come apostolo (cfr Rom 1,1) Paolo ha compiuto il comando lasciato da Gesù ai suoi: « Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura’. Non solo gli ebrei, non solo coloro che appartengono ad una religione, non solamente una categoria particolare, ma ogni uomo e donna può aprirsi ad accogliere, nella fede, nella sua vita questo dono di grazia.

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