Archive pour novembre, 2010

Omelia per il 9 novembre 2010: « Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere. »

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/16605.html

Omelia (09-11-2009) 
Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno
« Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere. »

Come vivere questa Parola?
Gesù scaccia i mercanti dal tempio. Il tempio per il popolo d’Israele è il luogo della presenza di Dio, dove lo si poteva incontrare, dove si esprimeva solennemente il culto pubblico. Il pio israelita era tenuto a pellegrinarvi ogni anno. Una pratica alla quale rimase fedele anche Gesù e i suoi santi genitori. Un legame affettivo lega il fedele ebreo a questo luogo, un legame non estraneo nemmeno a Gesù. Ma proprio con Gesù sta avvenendo un qualcosa di nuovo: sia la presenza di Dio in mezzo al suo popolo, sia il culto vengono portati al ‘compimento’ e quindi prendono nuove connotazioni. È questo il senso profondo dell’episodio evangelico che oggi la liturgia ci offre per celebrare la festa della Dedicazione della Basilica Lateranenese, cattedrale della Chiesa di Roma, costruita da Costantino al tempo di Silvestro I (314-335), è ritenuta la madre di tutte le Chiese dell’Urbe e dell’Orbe.
Nella prima parte del vangelo, notiamo che Gesù non contesta il tempio ma gli abusi che si associano alla prassi liturgica: c’è chi ne approfitta per i propri interessi, giocando sulla vendita degli animali per l’offerta. Forse sono anch’io uno di questi mercanti del tempio. Davanti a Dio mi presento con meriti da vantare, con doni da elargire, con calcoli di entrate e uscite. Ma Dio non si merita, non si calcola, si accoglie.
Si, Gesù ha molto amato il tempio di Gerusalemme, lo ha ammirato, si è indignato coi mercanti, ha pianto pensando alla sua distruzione imminente, ma lo ha anche radicalmente contestato: « Né in Samaria, né in Gerusalemme adorerete il Padre, ma in spirito e verità ». « Distruggete questo tempio e io in tre giorni lo farò risorgere. Ma parlava del tempio del suo corpo ».
Gesù vuole farci ‘vedere’ il luogo dove più forte è la presenza di Dio: non nelle pietre, bensì nel perimetro vivo di un corpo di carne. La piena rivelazione di Dio è l’umanità di Gesù, non la sua predicazione, né la sua ‘abitazione’. La nostra fede passa per l’umanità di Cristo: lì vediamo il volto accogliente, amante, perdonante del Padre.

Oggi nel mio rientro al cuore pregherò lo Spirito Santo perché mi aiuti a volgermi ‘verso oriente’, cioè verso Gesù poiché solo Lui è la Via che conduce a ‘Casa Trinità’.

Spirito Santo, effusione d’Amore tra il Padre ed il Figlio, apri i miei occhi perché contempli il Volto di Gesù in ogni ‘umanità’ che mi tende la mano.

La voce di un grande vescovo
È bello oggi dire alla Chiesa: « Ti amo, come casa mia ». Ma è giusto anche esortare la Chiesa a non avere porte ermeticamente chiuse, ma a essere, come felicemente esortava Giovanni XXIII, « la fontanella posta al centro della piazza del paese, dove tutti, ma proprio tutti, coloro che hanno sete, senza alcuna distinzione, possano bere.
Mons. Riboldi 

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Veduta della Piazza di San Giovanni in Laterano (1746-48)

Veduta della Piazza di San Giovanni in Laterano (1746-48) dans immagini sacre 7sangiovorig

GIOVAN BATTISTA PIRANESI, Veduta della Piazza di San Giovanni in Laterano
 (Vedute di Roma, 1746-48) – altre notizie sul sito:

http://www.scudit.net/mdborsa2007aftgiov.htm

Publié dans:immagini sacre |on 8 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

L’incenso (alcuni elementi del rito della dedicazione)

dal sito:

http://www.spiox.org/elementi_rito.html

ALCUNI ELEMENTI DEL RITO DELLA DEDICAZIONE

Come incenso…

“Come incenso salga a te la mia preghiera, le mie mani alzate come sacrificio della sera”. Così il salmo 140 (141) descrive poeticamente la preghiera serale del pio israelita.
L’incenso è un segno liturgico carico di significato. La parola incenso deriva dal latino incendere che significa bruciare. È composto da resine pregiate ridotte in polvere che, versate su carboni ardenti, creano una cortina di fumo profumata. L’uso dell’incenso è assai antico. Nelle culture pagane si attribuivano ad esso delle proprietà particolari come la purificazione dell’aria ammorbata e l’allontanamento degli spiriti cattivi. Nei testi dell’Antico testamento si accenna frequentemente all’uso dell’incenso. Nel tempio di Gerusalemme era stato edificato un altare apposito (l’altare dell’incenso o dei profumi) nel quale si bruciavano gli aromi (Cfr. Es 30 e Lc 1,8). Nonostante l’uso dell’incenso fosse frequente nel culto israelitico, nella liturgia cristiana stenta ad entrarvi poiché esso ricordava il culto pagano verso gli idoli e l’imperatore. Solo dopo il IV secolo, svanendo tale concezione pagana, esso fu introdotto anche nella liturgia cristiana. Inizialmente l’incenso precedeva le processioni pontificie, in seguito si attribuì questo onore all’altare e alla croce dopo la processione di ingresso della messa.
L’incenso è da porre in relazione con il senso della vista che con quello dell’olfatto. La cortina di fumo che sale è il simbolo del sacrificio dell’uomo che lentamente si erge verso Dio. La consumazione della vittima sacrificale attraverso il fuoco aveva come fine quello di far raggiungere a Dio, nei cieli, attraverso il fumo, lo stesso sacrificio. Questo il senso dell’olocausto (= consumazione completa della vittima nel fuoco
sacrificale; cfr. Es 29,18). L’incenso, invece, vuole rendere visibile l’intenzione di elevare a Dio dei “sacrifici spirituali” come ad esempio la preghiera (Sl 140,2). Il buon profumo dell’incenso vuole significare la bontà stessa del sacrificio dell’uomo al cospetto di Dio. Inoltre La “colonna di fumo” è segno della presenza di Dio (Es 19,18; Is 4,5; 6,4).
Nella liturgia attuale l’incenso può essere usato con una certa frequenza anche se facoltativamente. Nella messa si usa: durante la processione di ingresso davanti alla croce; per incensare l’altare prima dei riti iniziali; alla processione e alla proclamazione del vangelo; durante l’offertorio (si incensano le offerte, l’altare, la croce, il sacerdote e l’intera assemblea); all’ostensione post-consacratoria dell’ostia e del calice (circa le modalità da seguire per l’incensazione si può leggere PNMR 235-236). Durante l’adorazione eucaristica si usa l’incenso all’inizio dell’esposizione e prima della benedizione. L’incenso è usato in abbondanza nel rito di dedicazione della chiesa e dell’altare. Un uso particolare è quello destinato alla salma, nel rito delle esequie, come segno di rispetto verso il corpo destinato alla risurrezione. Il
Significato dell’incenso come segno della preghiera che sale verso Dio sarebbe da recuperare e valorizzare nella celebrazione comunitaria dei vespri, soprattutto la Domenica sera. Nel vespro solenne l’incenso viene usato durante il canto del Magnificat.
Lo strumento liturgico utilizzato per l’accensione dell’incenso si chiama turibolo. Esso generalmente è realizzato da un piccolo braciere sorretto da tre catenelle e dotato un coperchio forato reso mobile da un’altra catenella scorrevole. Il ministro incaricato di portare il turibolo si chiama turiferario. Il contenitore nel quale si ripone la scorta dell’incenso non ancora bruciato si chiama navicella. La navicella può essere portata dallo stesso turiferario o da un altro ministro.
Forse l’uso dell’incenso in molte comunità ecclesiali è ormai scomparso, in altre invece può essere eccessivo. È importante riscoprire la portata simbolica di questo gesto liturgico purificandolo dalle inutili incrostazioni esclusivamente scenografiche o baroccheggianti.

Come olio profumato…

La Bibbia riscontra una ricorrenza notevole dei termini olio e unguento: nell’Antico Testamento sono presenti più di duecento volte, circa trenta nel Nuovo Testamento. L’olio è un elemento fra i più comuni nella vita dell’uomo, perciò esso assume, anche a livello simbolico, innumerevoli significati. L’uso cultuale dell’olio pone le sue radici nell’ambito dei diversi valori simbolici che in esso è possibile individuare. I testi biblici rivelano svariate sottolineature che è opportuno tenere presenti.
La capacità dell’olio di penetrare in profondità. L’olio si presenta come una materia particolarmente assorbibile dai corpi. Pensiamo alle pitture ad olio in cui il pigmento si fissa in un’altra materia grazia alla capacità dell’olio di farsi assorbire da essa. La Bibbia coglie questa proprietà e nel salmo 109 leggiamo: «Si è avvolto di maledizione come di un mantello: è penetrata come acqua nel suo intimo e come olio nelle sue ossa». L’olio entra ancor più in profondità dell’acqua.
La proprietà terapeutica. Ancora oggi siamo soliti usare dei farmaci a base di olio, si pensi alle pomate, alle lozioni o a qualsiasi unguento medicinale. L’olio restituisce forza, lenisce i dolori, tonifica i muscoli, sana le ferite (Sl 92,11; Is 1,6; Mc 6,13; Lc 10,34).
Segno di prosperità. La benedizione di Dio nei riguardi del suo popolo trova la sua concretizzazione nel dono della terra e di tutto ciò che in essa o tramite essa si produce. L’olio è menzionato più volte come segno della provvidenza di Dio e della conseguente prosperità dell’uomo Il libro del Siracide afferma: «Le cose di prima necessità per la vita dell’uomo sono: acqua, fuoco, ferro, sale, farina di frumento, latte, miele, succo di uva, olio e vestito» (Sir 39,26). E in Geremia l’olio è indicato come dono speciale da parte di Dio: «Verranno e canteranno inni sull’altura di Sion, affluiranno verso i beni del Signore, verso il grano, il mosto e l’olio, verso i nati dei greggi e degli armenti. Essi saranno come un giardino irrigato, non languiranno più» (Ger 31,12).
Segno di bellezza e di gioia. Ancora oggi la cosmesi fa largo uso di prodotti a base di olio. Gli unguenti profumati sono citati con frequenza nell’Antico Testamento e il loro uso è un modo per prepararsi ad incontri significativi, mettendo in evidenza la bellezza dei lineamenti (Est 2,12; Is 57,9; Ez 16,18). L’olio è anche segno della bellezza e della gioia di stare insieme, come canta il salmo 133: «Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme! È come olio profumato sul capo, che scende sulla barba, sulla barba di Aronne, che scende sull’orlo della sua veste». È inoltre compito dell’Unto per eccellenza, del Messia, restituire la gioia di cui è segno l’olio, egli infatti è inviato per «allietare gli afflitti di Sion, per dare loro una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell’abito da lutto, canto di lode invece di un cuore
mesto» (Is 61,3).
Segno di consacrazione di persone. L’unzione è il segno del passaggio dei poteri e dell’invio a missione. La Bibbia presenta tre personaggi tipici ai quali era riservato tale gesto: i sacerdoti, i re e i profeti (1Sam 16,13: consacrazione del re Davide; Es 29,4ss: consacrazione di Aronne come sommo sacerdote; 1Re 19,16: consacrazione del profeta Eliseo). È nell’ambito di tale prassi che sorge l’immagine dell’unto per eccellenza che assume in sé le caratteristiche di tutti coloro ai quali era destinata l’unzione. Si tratta della figura del Messia, l’Unto di Dio, il Cristo.
Segno di consacrazione di oggetti o luoghi. Non solo le persone, ma anche le cose e i luoghi possono essere oggetto di consacrazione tramite unzione: «Poi Mosè prese l’olio dell’unzione, unse la dimora e tutte le cose che vi si trovavano e così le consacrò» (Lev 8,10).
In ciascuna di queste caratteristiche scopriamo qualche elemento dell’attuale significato liturgico dell’olio e dell’unzione. Vedremo in seguito come a tale ricchezza di significato, corrisponde anche una ricchezza sacramentale e celebrativa.

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9 novembre 2010: Dedicazione della Basilica Lateranense

dal sito:

http://liturgia.silvestrini.org/santo/335.html

Dedicazione della Basilica Lateranense

Cattedrale della Città di Roma

BIOGRAFIA
L’anniversario della dedicazione della basilica, costruita dall’imperatore Costantino sul colle Laterano a Roma, fu celebrato, e a quanto sembra fin dal secolo XII, il 9 novembre. Inizialmente fu una festa solo della città di Roma. In seguito la celebrazione fu estesa a tutte le chiese di rito romano per onorare la basilica chiamata chiesa – madre di tutte le chiese dell’Urbe (di Roma) e dell’Orbe (del mondo), e come segno di amore e di unione verso la cattedra di Pietro, che, secondo sant’Ignazio di Antiochia, “presiede a tutta l’assemblea della carità”.

DAGLI SCRITTI…
Dai «Discorsi» di san Cesario di Arles, vescovo
Con il battesimo siamo tutti diventati tempio di Dio
Con gioia e letizia celebriamo oggi, fratelli carissimi, il giorno natalizio di questa chiesa: ma il tempio vivo é vero di Dio dobbiamo esserlo noi. Questo é vero senza dubbio. Tuttavia i popoli cristiani usano celebrare la solennità della chiesa matrice, poiché sanno che é proprio in essa che sono rinati spiritualmente. Per la prima nascita noi eravamo coppe dell’ira di Dio; secondo nascita ci ha resi calici del suo amore misericordioso. La prima nascita ci ha portati alla morte; la seconda ci ha richiamati alla vita. Prima del battesimo tutti noi eravamo, o carissimi, tempio del diavolo. Dopo il battesimo abbiamo meritato di diventare tempio di Cristo. Se riflettiamo un pò più attentamente sulla salvezza della nostra anima, non avremo difficoltà a comprendere che siamo il vero e vivo tempio di Dio. «Dio non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo» (At 17, 24), o in case fatte di legno e di pietra, ma soprattutto nell’anima creata a sua immagine per mano dello stesso Autore delle cose. Il grande apostolo Paolo ha detto: «Santo é il tempio di Dio che siete voi» (1 Cor 3, 17).
Poiché Cristo con la sua venuta ha cacciato il diavolo dal nostro cuore per prepararsi un tempio dentro di noi, cerchiamo di fare, col suo aiuto, quanto é in nostro potere, perché questo tempio non abbia a subire alcun danno per le nostre cattive azioni. Chiunque si comporta male, fa ingiuria a Cristo. Prima che Cristo ci redimesse, come ho già detto, noi eravamo abitazione del diavolo. In seguito abbiamo meritato di diventare la casa di Dio, solo perché egli si é degnato di fare di noi la sua dimora. Se dunque, o carissimi, vogliamo celebare con gioia il giorno natalizio della nostra chiesa, non dobbiamo distruggere con le nostre opere cattive il tempio vivente di Dio. Parlerò in modo che tutti mi possano comprendere: tutte le volte che veniamo in chiesa, riordiniamo le nostre anime così come vorremmo trovare il tempio di Dio. Vuoi trovare una basilica tutta splendente? Non macchiare la tua anima con le sozzure del peccato. Se tu vuoi che la basilica sia piena di luce, ricordati che anche Dio vuole che nella tua anima non vi siano tenebre. Fà piuttosto in modo che in essa, come dice il Signore, risplenda la luce delle opere buone, perché sia glorificato colui che sta nei cieli. Come tu entri in questa chiesa, così Dio vuole entrare nella tua anima. Lo ha affermato egli stesso quando ha detto: Abiterò in mezzo a loro e con loro camminerò (cfr. Lv 26, 11.12). (Disc. 229, 1-3; CCL 104,905-908)

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Festa della dedicazione della Chiesa (di dom Prosper Guéranger)

stralcio, dal sito:

http://www.unavoce-ve.it/pg-dedicazione.htm

L’anno liturgico

di dom Prosper Guéranger

FESTA DELLA DEDICAZIONE DELLA CHIESA

Santità delle nostre Chiese.

Domum Dei decet sanctitudo: Sponsum eius Christum adoremus in ea (invitatorio di Mattutino). Il pensiero liturgico del giorno è precisato in questa formula invitatoriale. « Deve essere santa la casa di Dio: in essa adoriamo il Cristo, suo Sposo ». Che mistero è questo di una casa, che nello stesso tempo è sposa?
Sono sante le nostre Chiese per l’appartenenza a Dio, per la celebrazione del Sacrificio, per le preghiere e le lodi che vi si offrono all’ospite divino. Per un titolo più valido di quello che potevano vantare l’antico tabernacolo e il tempio, la dedicazione le ha separate da tutte le case degli uomini e esaltate sopra tutti i palazzi della terra. Tuttavia, nonostante i riti che le riempiono di magnificenza, nel giorno della consacrazione che le riserva a Dio, esse sono sempre senza sentimento e senza vita. Che dobbiamo dire allora, se non che la sublime funzione della dedicazione delle chiese come pure la festa che ne perpetua il ricordo, non si arrestano al santuario costruito con le nostre mani, ma si elevano a realtà viventi e più auguste? La gloria principale del nobile edificio è simboleggiarne la grandezza. L’umanità sotto l’ombra delle sue volte si inizierà a ineffabili segreti, il mistero dei quali si compirà oltre l’esistenza del mondo, nel meriggio del cielo. Vediamo la dottrina relativa a questo punto.

Il mistero della dedicazione.

Dio ha un solo santuario degno di lui: la sua vita divina, il tabernacolo di cui è detto che egli si circonda (Sal 17,12) quando curva i cieli (ivi 10) rende fitte le tenebre (ivi 12) agli occhi mortali, luce inaccessibile (1Tm 6,16) in cui abita nella sua gloria la tranquilla Trinità. Nondimeno, o Dio altissimo, ti degni comunicare alle anime nostre questa vita divina, che i cieli non possono contenere (3Re 8,27) e meno ancora la terra, e fai gli uomini partecipi della tua natura (2Pt 1,4). Nulla allora impedisce che in lui risieda la Santa Trinità. Tu fin dal principio (Pr 8,22) come legge del mondo in formazione (ivi 27) all’abisso, alla terra e al cielo potevi dichiarare che le tue delizie sarebbero nello stare con i figli degli uomini (ivi 31).
Venuta la pienezza dei tempi, Dio mandò il Figlio suo (Gal 4,4) facendolo figlio di Adamo, perché nell’uomo abitasse corporalmente la pienezza della divinità (Col 2,9). Da quel giorno la terra vinse il cielo e ogni cristiano fu partecipe di Cristo e, fatto dimora dello Spirito Santo (1Cor 3,16), portò Dio nel suo corpo (ivi 6,20). Il tempio di Dio è santo, diceva l’Apostolo, e il tempio siete voi, tempio è il cristiano, tempio è l’assemblea cristiana.
Poiché Gesù Cristo chiama tutta l’umanità a partecipare della sua pienezza (Gv 1,16; Col 2,10), l’umanità a sua volta completa Cristo (Ef 1,23). Essa fu ossa delle sue ossa, carne della sua carne (Gen 11,23), un corpo solo (Ef 6,30), formando con lui l’ostia, che deve eternamente bruciare sull’altare dei cieli nel fuoco dell’amore; in quanto poi è la pietra d’angolo, su essa sono poste altre pietre viventi (1Pt 2,4-7): l’assemblea dei predestinati, che sotto la cura degli architetti apostolici (1Cor 3,10) sorse tempio santo del Signore (Ef 2,20-22). Così la Chiesa è la Sposa e per Cristo e con Cristo è casa di Dio.
Lo è in questo misero mondo in cui si tagliano, nella fatica e nella sofferenza, le pietre elette, che saranno poi poste nel luogo previsto dal disegno di Dio (Inno di Vespro). Lo è nella felicità del cielo, dove il tempio eterno si accresce di ogni anima partita di quaggiù, in attesa che, compiuto con l’arrivo del nostro corpo immortale, sia dedicato dal nostro grande Pontefice, nel giorno della inimitabile dedicazione che chiuderà i tempi (1Cor 15,24): consegna solenne del mondo riscattato e santificato al Padre che gli diede il proprio Figlio (Gv 3,16), a Dio divenuto tutto in tutti (1Cor 15,28).
Sarà allora evidente che la Chiesa fu l’archetipo mostrato in anticipo sulla montagna (Es 26,30) e che ogni tempio fatto da mano d’uomo non poteva essere che sua figura e ombra (Ebr 8,5; 9,24). Allora la profezia di san Giovanni, il prediletto, sarà realizzata: Ho veduto la città santa, la nuova Gerusalemme, che discendeva dai cieli, ornata come una sposa per lo sposo e ho udito una gran voce che veniva dal trono e diceva: Qui è il tempio di Dio (Ap 21,2.3).
Era anche conveniente che questa festa illuminasse con i primi raggi dell’eternità l’anno liturgico al suo declino. È uno degli Angeli che portano le coppe piene dell’ira di Dio che additò all’Evangelista profeta la Sposa dell’Agnello nello splendore dei suoi ricchi ornamenti (ivi 9) e la speranza di contemplarla nella sua gloria sia il nostro conforto nei giorni tristi. L’attesa della sua prossima apparizione animerà i giusti nell’ora degli ultimi combattimenti.
Ma già ora, figli della Sposa, applaudiamo alla nostra Madre (Sequenza Ierusalem et Sion filiae) e questo giorno, carissimo al suo cuore, sia pari per noi alle solennità più grandi (Ct 3,11), perché ricorda e la sua nascita al fianco dall’Adamo celeste e la sua consacrazione beata che le dà diritto alle compiacenze del Padre, all’amore del Figlio, alle generosità del divino Spirito.
Quando, all’inizio del secolo XIX, furono rese al culto le chiese di Francia, la Santa Sede dispose che la festa della dedicazione, celebrata prima singolarmente nell’anniversario della dedicazione di ogni chiesa, fosse celebrata da tutte le chiese nello stesso giorno con unica festa, cui fu conservato l’onore del rito doppio di prima classe. La Santa Sede mostrava così che ai suoi occhi la festa della dedicazione conservava tutta la sua importanza.
Fissando la festa in domenica la Chiesa assicurava ai fedeli la possibilità di avere ogni anno gli insegnamenti sublimi che da essa derivano e dei quali si compiacevano i nostri padri.

La cerimonia della dedicazione.

Il nome di chiesa dato al tempio cristiano viene dall’assemblea dei battezzati, che si raduna in esso. La dedicazione dell’edificio sacro nell’ispirazione e nella trama che ne fanno una delle più auguste funzioni liturgiche, si ispira alle fasi successive della santificazione del popolo eletto. Da principio il tempio con le pareti nude e le porte chiuse non ci rappresenta altro che l’umanità fatta per Dio, ma vuota di lui a causa del peccato originale. Ma gli eredi della promessa non hanno disperato; anzi, hanno digiunato e pregato nella notte. Il mattino li ha trovati intenti a supplicare con i salmi penitenziali, ispirati a Davide dal suo castigo e dal suo pentimento.
All’alba, sotto la tenda in cui risuonava la preghiera dell’esilio (sub tentorio ante fores Ecclesiae consecrandae parato, Pontificale Romano), è apparso il Verbo Salvatore. E la persona del Pontefice, vestito delle insegne del suo ministero, ci rappresenta il Salvatore vestito della nostra natura. Dio fatto uomo si unisce alla preghiera degli altri uomini suoi fratelli portandoli davanti al tempio sempre chiuso, con essi si prostra e raddoppia le suppliche.
Attorno al tempio, inconscio dei suoi destini, si delinea allora la paziente strategia che Dio vuole seguano la sua grazia e i ministri di essa, stringendo di assedio le anime smarrite. Tre volte il Vescovo fa il giro dei muri esterni e tre volte tenta di forzare le porte, ostinatamente chiuse; ma è un investimento fatto esclusivamente di preghiere che salgono al cielo, la forza consiste in una persuasione misericordiosa, sospettosa dell’umana libertà: Apritevi, o porte, ed entrerà il Re della gloria. Finalmente l’infedele cede e anche la porta del tempio è conquistata. Pace eterna a questa casa in nome dell’Eterno. Ma non è tutto fatto, anzi ora si incomincia: dell’edificio, ancora profano, bisogna fare una dimora degna di Dio. Introdotto nella chiesa, il Vescovo continua a pregare. L’umanità, di cui la futura chiesa sarà simbolo, assorbe il suo pensiero. Sa che, caduta da tanto tempo, il suo male peggiore è l’ignoranza. Levandosi allora, con il pastorale traccia, su due linee di cenere, che si dirigono trasversalmente da una estremità all’altra del tempio e s’incrociano al mezzo della grande nave, l’alfabeto greco e l’alfabeto latino, elementi primi delle due lingue principali nelle quali si conservano a nostro vantaggio la Tradizione e la Scrittura. Le lettere sono tracciate con l’aiuto del bastone pastorale sulla cenere e sulla croce, perché la scienza ci viene dall’autorità dottrinale, che è compresa solo dagli umili e si riassume in Gesù crocifisso.
Illuminata ora come il catecumeno, l’umanità chiede di essere purificata col tempio e il Pontefice, per preparare gli elementi per tale purificazione, che gli sta a cuore, si ispira ai dati migliori del simbolismo cristiano. Mescola l’acqua e il vino, la cenere e il sale, che figurano l’umanità e la divinità del Salvatore, la sua morte e la Risurrezione. Come Cristo ci precedette nell’acqua del Giordano, le aspersioni cominciano dall’altare, che appunto rappresenta Cristo e proseguono poi nell’intero edificio. Una volta a questo punto non solo l’interno, ma l’esterno dei muri, il pavimento e in qualche luogo anche il tetto erano inondati della pioggia santificante, che caccia il demonio, prepara la casa a Dio e la prepara ai favori che poi seguiranno.
Nell’ordine delle operazioni di salvezza l’acqua chiama l’olio, che col secondo sacramento conferisce al cristiano la perfezione del suo essere soprannaturale, che fa i re, i sacerdoti e i pontefici. Per questo l’olio santo cola adesso a fiotti sull’altare che è Cristo capo, Pontefice e Re, e poi dall’altare, come l’acqua, corre ai muri e alla chiesa intera. Davvero ormai il tempio è degno di questo nome, chiesa, perché le pietre, così battezzate, così consacrate con l’Uomo-Dio, nell’acqua e nello Spirito Santo, rappresentano l’assemblea degli eletti, legati tra loro e con la pietra divina dal cemento indistruttibile dell’amore.
Gerusalemme, loda il Signore, loda il tuo Dio, o Sion! (Sal 147). I canti, che dall’inizio della funzione furono continui e rilevarono della funzione stessa i mirabili sviluppi, raddoppiano adesso di entusiasmo, raggiungono la sommità del mistero e nella Chiesa, intimamente associata all’altare, salutano la Sposa dell’Agnello. Dall’altare l’incenso si eleva a volute e sale fino alle volte percorrendo le navate e impregnando tutto il tempio del profumo dello Sposo. Ecco ora che si avanzano i suddiaconi della Santa Chiesa e presentano al Vescovo i doni fatti in questo grande giorno alla Sposa, le vesti preziose che essa ha preparato per sé e per il Signore. Nei primi secoli del Medioevo, aveva luogo a questo punto la trionfale traslazione delle Reliquie destinate ad essere poste nell’altare, che fino a quel momento erano rimaste sotto la tenda dell’esilio. In Oriente anche oggi la consacrazione della Chiesa si corona così. Vado a prepararvi un posto, disse l’Uomo-Dio, e quando l’avrò preparato, ritornerò a voi, per prendervi con me, affinché dove io sono siate anche voi. Nell’uso dei Greci, il Pontefice depone le Sante Reliquie sulla patena e le porta, elevate sopra la sua testa, onorando, come i venerandi Misteri, i resti preziosi, perché l’Apostolo disse ai fedeli: Voi siete il Corpo di Cristo e sue membra. In Occidente, fino al secolo XIII e oltre veniva sigillato nell’altare, insieme con le Sante Reliquie, il Signore stesso nel suo corpo eucaristico, realizzando così, dice san Pier Damiani, la Chiesa unita al Redentore, la Sposa allo Sposo. Era la consumazione finale, il passaggio dal tempo all’eternità

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Omelia per l’8 novembre 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/8561.html

Omelia (13-11-2006)
 
Monaci Benedettini Silvestrini

Se sette volte al giorno facesse ritorno a te dicendo: « Mi pento », tu perdonagli

La pagina evangelica di oggi si articola intorno a tre argomenti messi insieme in un passaggio in crescendo: lo scandalo, il perdono e la fede. Il primo argomento verte sulla gravità dello scandalo, cioè di qualsiasi ostacolo che venga messo sul cammino dei ‘semplici’ e che rischia di distoglierli dal seguire fedelmente Gesù. Egli ne proclama l’inevitabilità, ma grave sarà la responsabilità di chi provoca la perdita della fede. Nel caso deprecabile che a rimanere scandalizzato sia « uno di questi piccoli, è meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino e gettato nel mare ». Tale sentenza dà la misura della gravità di uno scandalo che fuorvia la gente semplice, allontanandola forse per sempre dalla strada della salvezza. L’avvertimento è rafforzato da una messa in guardia: « state attenti a voi stessi ». Il secondo argomento riguarda il rimprovero al fratello che pecca, e il perdono « se si pente ». Anche se ciò succedesse « sette volte al giorno » – molte volte – qualora ritorni dicendo: « Mi pento, gli perdonerai. Il perdono è alla basa della vita comunitaria, e la prontezza a perdonare non può avere limiti. Dopo quello sul perdono, vi è il terzo argomento riguardante la fede, introdotta da una richiesta degli apostoli: « Aumenta la nostra fede ». Essi erano consapevoli che la fede non è mai sufficiente e che il Signore la può accrescere. Gesù non risponde direttamente, né insegna loro una tattica per conquistarla. Dice solamente: « Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: « Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe ». Esagerazione intenzionale. E’ la condizione « se » che limita il potere dell’impossibile e mette in atto comunque una potenza divina. I discepoli chiedono quantità, ma Gesù parla di qualità; basterebbe un po’ di fede, purché sia autentica. In sintesi: la misericordia, necessaria al discepolo per superare lo scandalo e perdonare efficacemente, è quell’esperienza profonda di fede da cui scaturisce la missione al mondo, come testimonianza dell’amore gratuito di Dio.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 7 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

Il tuo volto, Signore, io cerco, non nascondermi il tuo volto. Sal 27,8

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/c_massa_iltuovolto_iocerco6.htm

CESARE MASSA

Il tuo volto, Signore, io cerco, non nascondermi il tuo volto. Sal 27,8

CERCARE ED ESSERE CERCATI

L’incipit di questa lectio divina è una preghiera. E con essa inizia una riflessione che ben si addice al tempo della storia, che è sempre tempo di avvento, tempo dell’attesa, dell’invocazione, del desiderio che Dio si manifesti, che « faccia su di noi brillare la luce del suo volto » (Nm 6,25) nella contemplazione del volto del Figlio, « irradiazione della sua gloria » (Eb 1,3).

Molti salmi riprendono questo tema del volto, un tema che Mosè ha inaugurato quando, « parlando con Dio faccia a faccia, come un uomo parla con un altro [uomo] » (Es 33,II), chiede, al di là di questo dialogo colmo dell’intimità con il suo Signore: « Mostrami la tua gloria! » (Es 33,18), e si sente rispondere: « Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te … Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo » (Es 33,19-20).

Tuttavia, in quella stessa pagina, dentro quella stessa rivelazione, Dio fa un posto per chi desidera vedere il suo volto: « Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere » (Es 33,21-23). Resta il desiderio di vedere il volto di Dio, ma come lui veramente è, non è stato ancora rivelato (cf. 1Gv 3,2) né per Mosè né per i suoi discepoli e nemmeno per i cristiani, i quali tuttavia sono figli di Dio e tali possono proclamarsi in tutta verità.

Desiderare il volto di Dio più semplicemente vuol dire desiderare Dio (un desiderio nobile che ha percorso la storia di tutte le religioni e la vita dei grandi e dei piccoli mistici, dove tuttavia si può riscontrare qualcosa di indebito oltre che di impossibile: una sorta di pretesa di appropriazione cui Dio per sua natura sfugge sempre). Anche Dio ha un mistero da proteggere: ciò che lui è in se stesso e il volto che esprime questa sua trascendente, imprendibile, ineffabile identità. A Mosè e all’uomo può bastare « tutto il suo splendore »: quella gloria visibile di cui « sono pieni i cieli e la terra ».

Nonostante il rifiuto di Dio a mostrare il suo volto, nonostante la mano con cui il Signore copre il proprio passaggio, obbedendo all’unica possibilità offerta di « vederlo di spalle » – che è la via del seguirlo – l’ orante di Israele ha continuato a pregarlo così: « Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto » (Sal 4,7), e così a invocarlo sulla stessa Gerusalemme: « Fa’ splendere il tuo volto sopra il tuo santuario » (Dn 9,17).

E il motivo di questa insistenza terminologica è chiaro: il volto è il fascino di una persona in tutta la gamma della bellezza possibile, anche in chi è senza bellezza. Il volto è la spia dell’anima, dunque, non solo un’ »anagrafe » personale con i tratti distintivi e riconoscibili, ma anche una « biografia » messa davanti agli occhi di tutti: una biografia esteriore, talvolta vera, talvolta falsata, in cui può trovarsi tutta la felicità o tutto il dolore di una vita. E dove può affiorare, consapevolmente o meno, anche qualche traccia della biografia interiore.

Non stupisce che l’orante di Israele si rivolga a Dio e, anzi, esorti i fedeli a « ricercare sempre il suo volto » (Sal 105.4) e con certezza indichi il destino ultimo di sé e di ogni uomo: « Contemplerò il volto di Dio » (Sal 17,15), soprattutto quale ricompensa di un agire retto: « Gli uomini retti vedranno il suo volto » (Sal 11, 7).

Tuttavia, si dà il caso che Dio nasconda il suo volto. Non solo a motivo della sua trascendenza, ma anche a motivo dell’infedeltà dell’uomo, quando l’uomo in qualche modo si sottrae alla presenza del Signore e si colloca lontano dal suo volto. Fin dalle prime pagine del libro della Genesi, tipico dei comportamenti umani, i progenitori si nascondono: « Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino » (Gen 3,8).

Al di là delle distrazioni parziali che ci possono affliggere nella quotidianità del nostro vivere, l’esperienza della sottrazione di sé allo sguardo di Dio all’ atto di un fatto deplorevole per la coscienza umana – fatto sempre possibile – può avvenire nella forma di una fuga pericolosa, quasi definitiva, se non soccorrono la grazia di Dio e la memoria dei suoi giorni in noi. Grazia e memoria che sono come l’incalzare di Dio: « [Adam], dove sei? » (Gen 3,9). Grazia e memoria che sono come un dolore, quello che fa esclamare il levita esiliato del salmo 42: « Quando verrò e vedrò il volto di Dio? » (v. 3). Per lui il volto di Dio è la gloria del culto che si celebra in Gerusalemme, negli splendidi cortei verso la casa di Dio, tra voci di gioia e di lode e clamore festoso (cf. Sal 42,5).

Poiché esiste anche questa realtà: quella dell’esilio storicamente esperimentato da Israele nella persecuzione egiziana e nella deportazione babilonese (e poi nella diaspora mediterranea, di cui si fa eco il salmo 44: « Ci hai dispersi in mezzo alle nazioni » [v. 12]). Ed esiste pure la realtà di un sentimento d’esilio quando sembra che Dio non parli più; quando sembra che Dio abbia voltato le spalle al suo popolo; quando sembra che Dio non esista… e il cuore sospira e, impaziente, osa porre domande a Dio: « Fino a quando mi nasconderai il tuo volto? » (Sal 13,2). E anche, curioso, osa chiedere: « Perché, Signore, mi nascondi il tuo volto? » (Sal 88,15).

Sono domande sofferte – il salmo qui non è solo poesia ma grido di una vita esiliata – che vengono dal ricordo doloroso di un peccato e delle sue conseguenze: « In me l’anima mia si abbatte dalla terra del Giordano e dell’Ermon, dal monte Misar. Vortice a vortice grida con la voce dei suoi gorghi: tutte le tue onde e i tuoi flutti sono passati sopra di me » (Sal 42,7-8), nonché dal ricordo di un pentimento esibito a gran voce: « Le lacrime sono il mio pane di giorno e di notte mentre dicono a me tutto il giorno: ‘Dov’è il tuo Dio?’ » (Sal 42,4).

L’esiliato sa bene il perché dell’esilio (il « quando finirà » non lo può sapere). Lo ha imparato dal profeta Isaia: « I vostri peccati gli hanno fatto nascondere il suo volto » (Is 59,2). E conosce anche che cosa significhi per la propria felicità di vita sapere che Dio gli ha nascosto il volto: « Quando hai nascosto il tuo volto, sono stato turbato » (Sal 30,8); e: « Se nascondi il tuo volto vengo meno » (Sal 104,29).

Tuttavia sa anche che, come Dio nel giardino di Eden non ha abbandonato i trasgressori ma ha dato loro un perizoma che coprisse la loro nudità corporea e spirituale (cf. Gen 3,21), così per i loro discendenti Dio preparerà una nuova patria per quanti « sono andati piangendo e ora ritornano con gioia », quasi increduli: « Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion ci sembrava di sognare » (Sal 126,r); e tornerà a mostrare il suo volto fedele e benigno.

C’è una domanda che fa male e ferisce l’ esiliato, forse più del dolore della sua lontananza: quella di chi si beffa di lui e, più ancora, sembra beffarsi di Dio; di fronte alla tribolazione evidente dell’uomo esiliato, gli oppressori ripetono la domanda che non è mai cessata nella storia della fedeltà israelitica e di quella cristiana: « Dov’è il tuo Dio? » (Sal 42,4.11). Domanda che può sembrare imbarazzante perché è priva di risposta e perché è vera. Dio lì non c’è. Dio lì non si vede. Dio lì non soccorre. Dov’è il tuo Dio? È una domanda che ha suoni cupi se formulata nelle anticamere delle camere a gas: « Dov’è il tuo Dio? ». E una domanda che ha echi severi se formulata a chi resta fedele nonostante la persecuzione, l’oppressione, la minaccia di morte: « Dov’è il tuo Dio? ». E anche quando trionfa l’insignificanza, la banalità, l’ostentazione della ricchezza e la mancanza di risorse spirituali, ci si può chiedere – se altri non lo chiedono -: « Dov’è il nostro Dio? ».

Non è cosi facile che avvenga, ma tale domanda può risvegliare alle radici una fede sopita e dimentica. « Dirò al Signore »: c’è già molta forza in questa risoluzione. Volgere il volto verso Dio nella preghiera è un passo di grande significato spirituale; Dio è già dentro il cuore e lo agita e lo volge e gli ispira i sentimenti e le parole: « Dirò al Signore: ‘Perché mi hai scordato? Perchè me ne andrò cosi triste schiacciato dal nemico?’. I miei oppressori mi insultano, mi spezzano le ossa, mentre dicono a me tutto il giorno: ‘Dov’è il tuo Dio?’ » (Sal 42,10-11). Ancora domande come una cascata dell’Ermon rivolte a Dio; ma ora anche a se stesso: « Perché ti abbatti, anima mia, perché ti agiti in me? ». E la risposta che viene dalle profondità della fede: « Spera in Dio: ancora lo esalterò, mia salvezza e mio Dio » (Sal 42,12).

Adesso rinasce la speranza e con la speranza un anelito più purificato: « Come una cerva anela ai corsi delle acque, cosi la mia anima anela a te, o Dio. La mia anima ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio? » (Sal 42,r-2). E anche la domanda luminosa come il giorno: « Di giorno il Signore conceda il suo amore » (Sal 42,9). E anche la lode che sia come un canto con lui: « Di notte il suo canto con me preghi il Dio della mia vita » (ibid.).

E questo, è « la lode nel paese del mio esilio » (Tb r 3,7). E la lode di tutti noi, che non abbiamo qui una città permanente e che cerchiamo la futura. E che, tuttavia, non trascuriamo i nostri doveri di uomini collocati tra molti fratelli bisognosi anche del nostro amore.
Nel « paese del mio esilio », tuttavia, risuona una promessa. Come fu all’inizio con i nostri pro genitori, cosi Dio ci cerca nei nostri interessati nascondigli; fra il fogliame di un giardino che rischia ogni giorno di diventare foresta, ci dà un anticipo di dignità con il dono di qualcosa che vesta le nostre nudità spirituali e l’accompagna con la promessa della donna vittoriosa sullo spirito del male: « Porrò inimicizia tra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno » (Gen 3,15).

Questa ricerca intelligente, amorosa e concreta di Dio dentro la nostra storia comune (e dentro la nostra personale, piccola storia) si chiama vocazione: è una ricerca non generica, non vaga, non episodica. Dio chiama per nome (e poi, magari, dà un nome nuovo). Dio chiama dentro un disegno che resta misterioso e, dentro questo disegno, Dio chiama per un compito: obbedendogli, la « linea di Dio » si renderà manifesta.

Dio cerca Abramo nella terra di Ur: ed è in lui che Dio cerca la nuova umanità secondo il suo cuore. E dopo di lui, e in grazia della fede abramitica, Dio continuerà il suo favore ai patriarchi. E quando, nella sua lunga storia, Israele si mostrerà infedele, Dio « resterà fedele, perché non può venir meno a se stesso » (2Tm 2,13). Allora cercherà i suoi con la voce dei profeti. Una voce talvolta severa, come quella di Isaia: « La testa è tutta malata, tutto il cuore langue. Dalla pianta dei piedi alla testa non c’è in esso una parte illesa, ma ferite e lividure e piaghe aperte, che non sono state ripulite, né fasciate… È rimasta sola la figlia di Sion, come una capanna in una vigna, come un casotto in un campo di cocomeri, come una città assediata… » (Is 1,5-8). Ma Isaia è anche suggeritore di speranza: « Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli; a esso affluiranno tutte le genti » (Is 2,2). Legge la storia della ricerca premurosa da parte di Dio e la canta come « un cantico d’amore per la sua vigna » (Is 5,1) e grida la consolazione di Dio con il vaticinio dell’ Emmanuele: « Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele » (Is 7,14); « Un germoglio spunterà dal tronco di lesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore » (Is 11,1-2). Annuncia sventure e devastazioni, ma anche il banchetto divino; ripete i « guai! » del giudizio ultimo ma anche il perdono di Dio: « Eppure il Signore aspetta di farvi grazia, per questo sorge per avere pietà di voi, perché un Dio giusto è il Signore; beati coloro che sperano in lui! » (Is 30,18).

E questa voce profetica durissima e tenerissima si leva con il profeta Osea, sfogo di una persona tradita: « Non siete mio popolo ». Chiamala Izreel, città dell’ assassinio e del sangue; chiamala « non-amata », città fatta di non-amore; chiamala « non-mio-popolo », città fatta di abbandono. E, tuttavia:

Ecco, l’attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore… Là canterà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese di Egitto… Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’ amore. Ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore (Os 2,16-22).

Dio ci cerca: « Il mio diletto bussa: ‘Aprimi’ » (Ct 5,2). È detto all’umanità. È detto alla chiesa nei giorni delle sue afflizioni. Nelle stagioni del suo, esilio. Nei tempi scarsi della sua vera felicità. E detto a me: aprimi! Sembra quasi che il suo bisogno di amore sia superiore al mio. Dalla terra del mio esilio, dal nascondiglio in cui mi hanno come confinato le mie insufficienze, sembra quasi impossibile che Dio venga a cercarmi. E tuttavia questo è il compito di Dio, come mi viene incontro nel mistero della sua incarnazione – cioè del suo amore fatto carne d’uomo -: « Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare ciò che era perduto » (Lc 19,10). Non è questo il senso di ogni giorno natalizio in noi? E il suo battere alla porta per venire » a cenare lui con me e io con lui » (Ap 3,20), non è questo il clima dell’intimità festosa di ogni giorno natalizio in noi?

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