dal sito:
http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/c_massa_iltuovolto_iocerco6.htm
CESARE MASSA
Il tuo volto, Signore, io cerco, non nascondermi il tuo volto. Sal 27,8
CERCARE ED ESSERE CERCATI
L’incipit di questa lectio divina è una preghiera. E con essa inizia una riflessione che ben si addice al tempo della storia, che è sempre tempo di avvento, tempo dell’attesa, dell’invocazione, del desiderio che Dio si manifesti, che « faccia su di noi brillare la luce del suo volto » (Nm 6,25) nella contemplazione del volto del Figlio, « irradiazione della sua gloria » (Eb 1,3).
Molti salmi riprendono questo tema del volto, un tema che Mosè ha inaugurato quando, « parlando con Dio faccia a faccia, come un uomo parla con un altro [uomo] » (Es 33,II), chiede, al di là di questo dialogo colmo dell’intimità con il suo Signore: « Mostrami la tua gloria! » (Es 33,18), e si sente rispondere: « Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te … Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo » (Es 33,19-20).
Tuttavia, in quella stessa pagina, dentro quella stessa rivelazione, Dio fa un posto per chi desidera vedere il suo volto: « Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere » (Es 33,21-23). Resta il desiderio di vedere il volto di Dio, ma come lui veramente è, non è stato ancora rivelato (cf. 1Gv 3,2) né per Mosè né per i suoi discepoli e nemmeno per i cristiani, i quali tuttavia sono figli di Dio e tali possono proclamarsi in tutta verità.
Desiderare il volto di Dio più semplicemente vuol dire desiderare Dio (un desiderio nobile che ha percorso la storia di tutte le religioni e la vita dei grandi e dei piccoli mistici, dove tuttavia si può riscontrare qualcosa di indebito oltre che di impossibile: una sorta di pretesa di appropriazione cui Dio per sua natura sfugge sempre). Anche Dio ha un mistero da proteggere: ciò che lui è in se stesso e il volto che esprime questa sua trascendente, imprendibile, ineffabile identità. A Mosè e all’uomo può bastare « tutto il suo splendore »: quella gloria visibile di cui « sono pieni i cieli e la terra ».
Nonostante il rifiuto di Dio a mostrare il suo volto, nonostante la mano con cui il Signore copre il proprio passaggio, obbedendo all’unica possibilità offerta di « vederlo di spalle » – che è la via del seguirlo – l’ orante di Israele ha continuato a pregarlo così: « Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto » (Sal 4,7), e così a invocarlo sulla stessa Gerusalemme: « Fa’ splendere il tuo volto sopra il tuo santuario » (Dn 9,17).
E il motivo di questa insistenza terminologica è chiaro: il volto è il fascino di una persona in tutta la gamma della bellezza possibile, anche in chi è senza bellezza. Il volto è la spia dell’anima, dunque, non solo un’ »anagrafe » personale con i tratti distintivi e riconoscibili, ma anche una « biografia » messa davanti agli occhi di tutti: una biografia esteriore, talvolta vera, talvolta falsata, in cui può trovarsi tutta la felicità o tutto il dolore di una vita. E dove può affiorare, consapevolmente o meno, anche qualche traccia della biografia interiore.
Non stupisce che l’orante di Israele si rivolga a Dio e, anzi, esorti i fedeli a « ricercare sempre il suo volto » (Sal 105.4) e con certezza indichi il destino ultimo di sé e di ogni uomo: « Contemplerò il volto di Dio » (Sal 17,15), soprattutto quale ricompensa di un agire retto: « Gli uomini retti vedranno il suo volto » (Sal 11, 7).
Tuttavia, si dà il caso che Dio nasconda il suo volto. Non solo a motivo della sua trascendenza, ma anche a motivo dell’infedeltà dell’uomo, quando l’uomo in qualche modo si sottrae alla presenza del Signore e si colloca lontano dal suo volto. Fin dalle prime pagine del libro della Genesi, tipico dei comportamenti umani, i progenitori si nascondono: « Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino » (Gen 3,8).
Al di là delle distrazioni parziali che ci possono affliggere nella quotidianità del nostro vivere, l’esperienza della sottrazione di sé allo sguardo di Dio all’ atto di un fatto deplorevole per la coscienza umana – fatto sempre possibile – può avvenire nella forma di una fuga pericolosa, quasi definitiva, se non soccorrono la grazia di Dio e la memoria dei suoi giorni in noi. Grazia e memoria che sono come l’incalzare di Dio: « [Adam], dove sei? » (Gen 3,9). Grazia e memoria che sono come un dolore, quello che fa esclamare il levita esiliato del salmo 42: « Quando verrò e vedrò il volto di Dio? » (v. 3). Per lui il volto di Dio è la gloria del culto che si celebra in Gerusalemme, negli splendidi cortei verso la casa di Dio, tra voci di gioia e di lode e clamore festoso (cf. Sal 42,5).
Poiché esiste anche questa realtà: quella dell’esilio storicamente esperimentato da Israele nella persecuzione egiziana e nella deportazione babilonese (e poi nella diaspora mediterranea, di cui si fa eco il salmo 44: « Ci hai dispersi in mezzo alle nazioni » [v. 12]). Ed esiste pure la realtà di un sentimento d’esilio quando sembra che Dio non parli più; quando sembra che Dio abbia voltato le spalle al suo popolo; quando sembra che Dio non esista… e il cuore sospira e, impaziente, osa porre domande a Dio: « Fino a quando mi nasconderai il tuo volto? » (Sal 13,2). E anche, curioso, osa chiedere: « Perché, Signore, mi nascondi il tuo volto? » (Sal 88,15).
Sono domande sofferte – il salmo qui non è solo poesia ma grido di una vita esiliata – che vengono dal ricordo doloroso di un peccato e delle sue conseguenze: « In me l’anima mia si abbatte dalla terra del Giordano e dell’Ermon, dal monte Misar. Vortice a vortice grida con la voce dei suoi gorghi: tutte le tue onde e i tuoi flutti sono passati sopra di me » (Sal 42,7-8), nonché dal ricordo di un pentimento esibito a gran voce: « Le lacrime sono il mio pane di giorno e di notte mentre dicono a me tutto il giorno: ‘Dov’è il tuo Dio?’ » (Sal 42,4).
L’esiliato sa bene il perché dell’esilio (il « quando finirà » non lo può sapere). Lo ha imparato dal profeta Isaia: « I vostri peccati gli hanno fatto nascondere il suo volto » (Is 59,2). E conosce anche che cosa significhi per la propria felicità di vita sapere che Dio gli ha nascosto il volto: « Quando hai nascosto il tuo volto, sono stato turbato » (Sal 30,8); e: « Se nascondi il tuo volto vengo meno » (Sal 104,29).
Tuttavia sa anche che, come Dio nel giardino di Eden non ha abbandonato i trasgressori ma ha dato loro un perizoma che coprisse la loro nudità corporea e spirituale (cf. Gen 3,21), così per i loro discendenti Dio preparerà una nuova patria per quanti « sono andati piangendo e ora ritornano con gioia », quasi increduli: « Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion ci sembrava di sognare » (Sal 126,r); e tornerà a mostrare il suo volto fedele e benigno.
C’è una domanda che fa male e ferisce l’ esiliato, forse più del dolore della sua lontananza: quella di chi si beffa di lui e, più ancora, sembra beffarsi di Dio; di fronte alla tribolazione evidente dell’uomo esiliato, gli oppressori ripetono la domanda che non è mai cessata nella storia della fedeltà israelitica e di quella cristiana: « Dov’è il tuo Dio? » (Sal 42,4.11). Domanda che può sembrare imbarazzante perché è priva di risposta e perché è vera. Dio lì non c’è. Dio lì non si vede. Dio lì non soccorre. Dov’è il tuo Dio? È una domanda che ha suoni cupi se formulata nelle anticamere delle camere a gas: « Dov’è il tuo Dio? ». E una domanda che ha echi severi se formulata a chi resta fedele nonostante la persecuzione, l’oppressione, la minaccia di morte: « Dov’è il tuo Dio? ». E anche quando trionfa l’insignificanza, la banalità, l’ostentazione della ricchezza e la mancanza di risorse spirituali, ci si può chiedere – se altri non lo chiedono -: « Dov’è il nostro Dio? ».
Non è cosi facile che avvenga, ma tale domanda può risvegliare alle radici una fede sopita e dimentica. « Dirò al Signore »: c’è già molta forza in questa risoluzione. Volgere il volto verso Dio nella preghiera è un passo di grande significato spirituale; Dio è già dentro il cuore e lo agita e lo volge e gli ispira i sentimenti e le parole: « Dirò al Signore: ‘Perché mi hai scordato? Perchè me ne andrò cosi triste schiacciato dal nemico?’. I miei oppressori mi insultano, mi spezzano le ossa, mentre dicono a me tutto il giorno: ‘Dov’è il tuo Dio?’ » (Sal 42,10-11). Ancora domande come una cascata dell’Ermon rivolte a Dio; ma ora anche a se stesso: « Perché ti abbatti, anima mia, perché ti agiti in me? ». E la risposta che viene dalle profondità della fede: « Spera in Dio: ancora lo esalterò, mia salvezza e mio Dio » (Sal 42,12).
Adesso rinasce la speranza e con la speranza un anelito più purificato: « Come una cerva anela ai corsi delle acque, cosi la mia anima anela a te, o Dio. La mia anima ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio? » (Sal 42,r-2). E anche la domanda luminosa come il giorno: « Di giorno il Signore conceda il suo amore » (Sal 42,9). E anche la lode che sia come un canto con lui: « Di notte il suo canto con me preghi il Dio della mia vita » (ibid.).
E questo, è « la lode nel paese del mio esilio » (Tb r 3,7). E la lode di tutti noi, che non abbiamo qui una città permanente e che cerchiamo la futura. E che, tuttavia, non trascuriamo i nostri doveri di uomini collocati tra molti fratelli bisognosi anche del nostro amore.
Nel « paese del mio esilio », tuttavia, risuona una promessa. Come fu all’inizio con i nostri pro genitori, cosi Dio ci cerca nei nostri interessati nascondigli; fra il fogliame di un giardino che rischia ogni giorno di diventare foresta, ci dà un anticipo di dignità con il dono di qualcosa che vesta le nostre nudità spirituali e l’accompagna con la promessa della donna vittoriosa sullo spirito del male: « Porrò inimicizia tra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno » (Gen 3,15).
Questa ricerca intelligente, amorosa e concreta di Dio dentro la nostra storia comune (e dentro la nostra personale, piccola storia) si chiama vocazione: è una ricerca non generica, non vaga, non episodica. Dio chiama per nome (e poi, magari, dà un nome nuovo). Dio chiama dentro un disegno che resta misterioso e, dentro questo disegno, Dio chiama per un compito: obbedendogli, la « linea di Dio » si renderà manifesta.
Dio cerca Abramo nella terra di Ur: ed è in lui che Dio cerca la nuova umanità secondo il suo cuore. E dopo di lui, e in grazia della fede abramitica, Dio continuerà il suo favore ai patriarchi. E quando, nella sua lunga storia, Israele si mostrerà infedele, Dio « resterà fedele, perché non può venir meno a se stesso » (2Tm 2,13). Allora cercherà i suoi con la voce dei profeti. Una voce talvolta severa, come quella di Isaia: « La testa è tutta malata, tutto il cuore langue. Dalla pianta dei piedi alla testa non c’è in esso una parte illesa, ma ferite e lividure e piaghe aperte, che non sono state ripulite, né fasciate… È rimasta sola la figlia di Sion, come una capanna in una vigna, come un casotto in un campo di cocomeri, come una città assediata… » (Is 1,5-8). Ma Isaia è anche suggeritore di speranza: « Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli; a esso affluiranno tutte le genti » (Is 2,2). Legge la storia della ricerca premurosa da parte di Dio e la canta come « un cantico d’amore per la sua vigna » (Is 5,1) e grida la consolazione di Dio con il vaticinio dell’ Emmanuele: « Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele » (Is 7,14); « Un germoglio spunterà dal tronco di lesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore » (Is 11,1-2). Annuncia sventure e devastazioni, ma anche il banchetto divino; ripete i « guai! » del giudizio ultimo ma anche il perdono di Dio: « Eppure il Signore aspetta di farvi grazia, per questo sorge per avere pietà di voi, perché un Dio giusto è il Signore; beati coloro che sperano in lui! » (Is 30,18).
E questa voce profetica durissima e tenerissima si leva con il profeta Osea, sfogo di una persona tradita: « Non siete mio popolo ». Chiamala Izreel, città dell’ assassinio e del sangue; chiamala « non-amata », città fatta di non-amore; chiamala « non-mio-popolo », città fatta di abbandono. E, tuttavia:
Ecco, l’attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore… Là canterà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese di Egitto… Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’ amore. Ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore (Os 2,16-22).
Dio ci cerca: « Il mio diletto bussa: ‘Aprimi’ » (Ct 5,2). È detto all’umanità. È detto alla chiesa nei giorni delle sue afflizioni. Nelle stagioni del suo, esilio. Nei tempi scarsi della sua vera felicità. E detto a me: aprimi! Sembra quasi che il suo bisogno di amore sia superiore al mio. Dalla terra del mio esilio, dal nascondiglio in cui mi hanno come confinato le mie insufficienze, sembra quasi impossibile che Dio venga a cercarmi. E tuttavia questo è il compito di Dio, come mi viene incontro nel mistero della sua incarnazione – cioè del suo amore fatto carne d’uomo -: « Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare ciò che era perduto » (Lc 19,10). Non è questo il senso di ogni giorno natalizio in noi? E il suo battere alla porta per venire » a cenare lui con me e io con lui » (Ap 3,20), non è questo il clima dell’intimità festosa di ogni giorno natalizio in noi?