Come san Paolo interpretava la Legge

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Come san Paolo interpretava la Legge       
 
venerdì 24 luglio 2009 

di Simone Venturini

In occasione dell’Anno paolino Antonio Pitta ha raccolto nel volume Paolo, la Scrittura e la Legge. Antiche e nuove prospettive (Bologna, Edizioni Dehoniane, 2009, pagine 259, euro 27,40) i risultati della ricerca esegetica degli ultimi trent’anni in ambito angloamericano che, per le sue caratteristiche di originalità, è stata definita come new perspective.
Da fariseo Paolo era un seguace zelante delle tradizioni orali ebraiche; uno zelo che fece di lui un fiero persecutore della Chiesa nascente. Chiamato sulla via di Damasco a riconoscere e testimoniare Gesù Cristo, Paolo ricorda comunque con accenti positivi il suo passato, fatto che – ricorda Pitta – pone in risalto la gratuità della sua adesione a Cristo. Tema centrale del volume è lo studio del costante riferimento scritturale di Paolo. Questo – leggiamo – è riscontrabile non solo nelle citazioni dirette, ma anche nelle riprese terminologiche o tematiche della lettera ai Filippesi, dove Paolo è paragonato a Giobbe ingiustamente accusato (1, 19) o laddove il modello di Adamo è applicato a Gesù (2, 10-11).

Dando ampio risalto all’impiego delle antiche tecniche retoriche in alcune lettere di Paolo, la new perspective ha permesso di studiare il modo in cui egli faceva uso delle Scritture. In proposito, Pitta osserva che tale ricorso si evidenzia nei casi di « reperimento delle prove » (inventio) a sostegno di un apparato di accusa o di difesa, o ancora in quelli in cui l’autorità delle Scritture è invocata a sostegno delle principali « tesi generali » (propositiones) delle grandi lettere.
Per Paolo l’autorità delle Scritture è indiscussa. Essa si esprime come una persona vivente (Galati, 3, 8; Romani, 9, 27); è la « lettera » contrapposta alla « novità dello Spirito » (Romani, 7, 6), l’insieme della Legge e dei Profeti (Galati, 4, 21b; Romani, 3, 21). Paolo usava il testo greco dell’Antico Testamento e tra i libri da lui più citati figurano Isaia, Salmi, Genesi, Deuteronomio ed Esodo. Consultava la Scrittura non su scomodi rotoli biblici, ma ricorreva a testimonia od excerpta, ossia collazioni di testi da usare al momento opportuno e documentati anche presso gli scritti di Qumrân.
Sul piano metodologico, Paolo adottava alcune regole esegetiche giudaiche, mentre lo schema rovesciato « adempimento-promessa », soggiacente alle citazioni, evidenzia che il contesto dei destinatari prevaleva su quello originale dei brani dell’Antico Testamento. Uno schema – afferma Pitta – non solo rovesciato ma talmente sbilanciato sull’adempimento, da affermare che è possibile un adempimento senza promesse, poichè Cristo morto e risorto è il vero interprete della Scrittura. Perciò la funzione delle citazioni scritturali non è più « normativa », bensì primariamente « etica ».
Si apre così la discussione sulla complessa questione della Legge, che l’autore affronta nelle lettere ai Galati e ai Romani. La terminologia compare per la prima volta nella prima lettera ai Corinti (9, 8.9; 14, 21.34), dove si delinea la funzione negativa della Legge (1 Corinzi, 15, 56) che sarà sviluppata nella lettera ai Galati, i quali pur non avendo conosciuto il giudaismo si lasciano imporre alcune osservanze giudaiche. Giustificati per la fede (Galati, 3, 1-4, 7) di Cristo (2, 16), la Legge non ha più carattere fondativo; essa non è eterna, ma posteriore alla promessa di Dio ad Abramo. Cristo, pur essendo venuto dopo la Legge, si è sottomesso alla « maledizione » della Legge (4, 4), per donare a tutti la benedizione di Abramo (3, 13).
Non solo la Legge, ma anche le opere della Legge – quali, per esempio, le questioni di purità alimentare (Galati, 2, 11-14), sono in antinomia con la fede di e in Gesù Cristo (Galati, 2, 16). Il conflitto tra i « forti » e i « deboli » (Romani, 14, 1-15, 13) è il terreno di studio che Pitta sceglie per illustrare la questione della Legge nella lettera ai Romani.
Gli studi storici e sociologici tipici della new persepctive ci hanno restituito la fisionomia essenziale della comunità romana. I forti e deboli erano fratelli che aderirono a quel giudaismo centrato su Cristo, provenivano dagli strati più umili della società e si riunivano nelle chiese domestiche in mancanza di una sinagoga o chiesa centralizzata. Motivi dell’attrito erano le norme (halakot) di purità alimentare (Romani, 14, 14) e del calendario giudaico verso le quali Paolo raccomandava rispetto da parte di coloro per i quali tutto è puro. Di fronte ai « diffamatori » di Roma (3, 8), Paolo avrà il difficile compito di dimostrare che la Legge, pur non salvando, non è abrogata, sebbene non sia rilevante per la giustificazione.
La giustificazione in Cristo, che libera dal giudizio escatologico (1, 18-3, 20), non comporta un atteggiamento contro la Legge (i forti) e quelli che ancora l’osservano (i deboli) non sono per essa giustificati. Sia i forti che i deboli sono morti alla Legge per vivere e servire il Signore (5, 1-8, 39). Il conflitto tra i due gruppi rischiava invece di vanificare la morte di Cristo e la stessa morte alla Legge.
Perciò, sia pur abrogata, la Legge tornava ad imperare? È il problema di Romani, 7, 7-25 dove Paolo sembra fare delle concessioni alla Legge per il bene dei deboli. Paolo, in realtà, nulla sta « concedendo » alla Legge, poiché al centro del brano vi è l’impotenza dell’io (7, 19), il quale pur riconoscendo il bene della Legge, non riesce ad attuarlo elevando nel contempo una tragica domanda di liberazione (7, 24). Solo Dio per mezzo di Gesù Cristo Signore nostro, (7, 25) che ci giustifica gratuitamente, può liberare l’umanità da questa situazione. La Legge è pervenuta al suo fine, che di per sé non comporta l’abrogazione, ma la consapevolezza che solo Dio giustifica in Cristo, per mezzo dello Spirito Santo (Romani, 3, 21-22; 8, 1-2).

(L’Osservatore Romano – 25 luglio 2009) 

Publié dans : Temi: La Legge |le 4 novembre, 2010 |Pas de Commentaires »

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