Archive pour octobre, 2010

Parola di vita e di gioia: nessuno è mai perduto (sulla fragilità umana) (Ravasi)

dal sito:

http://www.stpauls.it/vita/0706vp/0706vp93.htm

Nella Sacra Scrittura

Parola di vita e di gioia: nessuno è mai perduto

di GIANFRANCO RAVASI   
 
    Il senso profondo della fragilità umana percorre tutta la Bibbia, a partire dalla caducità strutturale della creatura. A tal proposito la Genesi non lascia dubbi: l’uomo è polvere e torna alla polvere; è precario perché è finito. Ma c’è anche il risvolto delle responsabilità personali, delle miserie umane. La fragilità peccatrice, però, non è condannata: Cristo cerca chi si è perduto. 
È quasi impossibile, pur sfogliando tutti i dizionari biblici nelle principali lingue, imbattersi in una voce dedicata alla « fragilità ». La parola deriva dalla radice arcaica frag-, che ha dato origine a una costellazione di vocaboli latini e italiani come « (in)frangere », « naufrago », « frammento », « fragore », « frutta », « frattaglia », « frazione » « frattura » e così via.
C’è, dunque, qualcosa di spezzato alla base, proprio perché quella realtà è debole, fallace, gracile, precaria. È per questa via, di taglio più esistenziale, che è possibile isolare nella Sacra Scrittura il senso profondo della fragilità umana. Anzi, si ha la possibilità di individuare una vera e propria radice fondamentale della stessa antropologia biblica. Due sono i profili di questa labilità:

1 La finitudine

C’è innanzitutto la caducità strutturale della creatura, precarietà legata alla sua finitudine. Giobbe usa un’immagine folgorante: «L’uomo è ospite di una casa di fango, fondata sulla polvere, pronta a cedere al tarlo» (4,19). L’essere profondo, spirituale e intellettuale dell’uomo è deposto, come dirà il libro della Sapienza, in «una tenda d’argilla» (9,15). Qohelet con l’implacabile provocazione delle sue rilevazioni classificherà l’intero essere creato sotto quel vocabolo impietoso hebel, ossia « soffio, fumo, vuoto » e, riprendendo l’antica lezione della Genesi (3,19), concluderà amaramente: «Tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna alla polvere» (Qo 3,20).
Un monito che percorrerà anche la preghiera di Israele, se è vero che ripetutamente sentiamo i salmisti presentarsi davanti a Dio così: «In pochi palmi hai misurato i miei giorni, la mia esistenza davanti a te è un soffio. Solo un soffio è l’uomo che vive, come ombra è l’uomo che passa, solo un soffio che si agita. [...] Sì, sono un soffio i figli di Adamo; insieme sulla bilancia, sono meno di un soffio. [...] Essi sono carne, un soffio che va e non ritorna. [...] L’uomo è come un soffio, i suoi giorni sono un’ombra che passa» (Sal 39,6-7; 62,10; 78,39; 144,4). Molte sono le immagini che tratteggiano questa fragilità radicale dell’essere umano. La più comune e fragrante è quella dell’erba: «Sono come l’erba che germoglia al mattino; all’alba fiorisce, germoglia, alla sera è falciata e dissecca», canta ancora il Salmista (90,5-6).
A lui fa eco Isaia: «Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua gloria è come un fiore del campo: secca l’erba, il fiore appassisce quando il soffio del Signore spira su di essi» (40,6-7). Ma anche san Pietro nella sua Prima lettera contrapporrà alla Parola divina, ferma, stabile e indistruttibile, «i mortali che sono come l’erba e ogni loro splendore è come fiore d’erba: l’erba inaridisce e i fiori cadono; solo la parola del Signore rimane in eterno» (1,24-25).
C’è, dunque, una prima fragilità che è legata al limite creaturale, al nostro essere prigionieri del tempo che finisce e dello spazio che ci circoscrive. In questa luce si delineano tante figure che rivelano la consapevolezza della loro debolezza strutturale, dell’avere – per usare una celebre immagine paolina – «un tesoro in vasi di creta» (2Cor 4,7).
Pensiamo, ad esempio, a Mosè e al suo reiterato tentativo di sottrarsi alla sua missione, nella certezza di una impreparazione e di un ostacolo di fondo: «Mio Signore, io non sono un buon parlatore, non lo sono mai stato prima, sono impacciato di bocca e di lingua» (Es 4,10). Così Geremia non esiterà a obiettare: «Signore Dio, io non so parlare, perché sono giovane» (1,6). E lo stesso Salomone, nella notte antecedente alla sua intronizzazione, confessa a Dio: «Sono un ragazzo e non so come regolarmi» (1Re 3,7). Dopo tutto, l’intero popolo d’Israele nella sua storia secolare rivela un’immaturità sostanziale, a partire dalla nostalgia della schiavitù, pur di non rischiare l’avventura della libertà nel deserto e nella ricerca della terra promessa.
Gesù nella sua predicazione ha illustrato in modo vigoroso l’instabilità soprattutto dei giovani. Chi non ricorda la scenetta dei ragazzi che non s’accordano sul gioco da fare in piazza, se mimare un funerale o un matrimonio, e così perdono il tempo del divertimento (Mt 11,16-17)? Oppure, come non evocare la vicenda dei due figli difficili della parabola di Matteo 21,28-31, l’uno tutto parole e niente fatti e l’altro sgarbato e sguaiato ma alla fine buono?
È impressionante, ma proprio sulla base della verità dell’incarnazione, anche Cristo è rappresentato fragile nel momento della morte, quando implora il Padre di evitargli quel calice avvelenato (Mc 14,36) e la Lettera agli Ebrei non esita a dichiarare che Gesù «È in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anch’egli rivestito di debolezza» (5,2). Similmente san Paolo, che ci ha lasciato nel cap. 7 della Lettera ai Romani un ritratto vigoroso della frattura profonda dell’anima umana, si vedrà costretto a «vantarsi della sua debolezza», riconoscendo la sua fragilità (2Cor 11,30) e la spina che lo tormenta nella carne e nella vita.

2 La peccaminosità

A questo punto c’è da lasciare spazio all’altro profilo della finitudine creaturale, quello della sua peccaminosità. Non bisogna, infatti, ignorare che la pagina di antropologia che apre la Bibbia e ne costituisce il punto di riferimento capitale (Gen 2-3) comprende proprio la « frattura » delle tre relazioni costitutive dell’essere adam, ossia uomini: quella che intercorre con Dio dal quale si riceve la vita, la libertà e la coscienza; il rapporto col proprio simile, incarnato dalla donna; e infine il nesso con la materia, col creato, con gli animali.
Ecco, infatti, dopo il peccato, l’uomo espulso dal giardino del dialogo intimo con Dio; eccolo prevaricare sul prossimo, a partire dal dominio sulla donna (3,16) per giungere al fratricidio di Caino e alla prepotenza di Babele; ecco, infine, la dissociazione dell’uomo con la terra che si ribella generando «spine e cardi» (3,18).
Questa onda limacciosa lambisce tutta l’umanità e la storia biblica è una lunga vicenda di debolezze, di miserie, di fallimenti, di tradimenti, come per altro sarà la trama costante della storia umana. La fragilità peccatrice colpisce anche le grandi figure: pensiamo a Davide che per il corpo e il fascino di una donna, Betsabea, si trasforma in adultero e in assassino (2Sam 11-12) o alla ribellione tragica di suo figlio Assalonne o all’altro suo figlio e successore, il grande Salomone, che invecchia lasciandosi corrompere dal suo harem (1Re 11,1-13); oppure (tanto per scegliere a caso un altro esempio) la meschina figura rimediata dai due anziani vogliosi che attentano alla fedeltà di Susanna (Dn 13).
La gamma delle debolezze morali umane è quasi del tutto perlustrata dalle Sacre Scritture, a partire proprio da un Israele sistematicamente sedotto dall’idolatria (si legga la celebre e veemente pagina simbolica di Ez 16). Noi vorremmo solo evocare un tratto molto specifico di questa variegata fragilità, cioè la tipologia del tradimento e del relativo fallimento. Forse è poco nota la storia di Achitofel, consigliere di Davide che decide di passare nel campo avverso del ribelle Assalonne e che, alla fine, vistosi a sua volta tradito e perduto, «andò a casa sua nella sua città, sistemò i suoi affari familiari e s’impiccò» (2Sam 17,23). E naturalmente in dissolvenza vediamo profilarsi la tragedia di Giuda, traditore e suicida.
Ma ci sono anche debolezze meno clamorose ma altrettanto umilianti e infami: Pietro in quella notte, nel cortile del palazzo sinedrale, non esita – per evitare rischi personali – a spergiurare senza pudore: «Non conosco Gesù! Non sono un suo discepolo! Non so quello che dite!» (Lc 22,54-62).
Si potrebbe a lungo infierire sulle miserie della fragilità, soprattutto quando essa sconfina nella sua superficialità, nella tiepidezza incolore, quell’atteggiamento che suscita il « vomito » di Cristo, come si dichiara nella celebre invettiva dell’Apocalisse contro la Chiesa di Laodicea (3,15-16). Tuttavia non bisogna mai dimenticare che l’ultima parola divina nei confronti della fragilità creaturale e morale dell’umanità non è mai la condanna aspra e implacabile. Cristo va per monti e dirupi a cercare la pecorella smarrita, stando accanto a peccatori, pubblicani e prostitute.
Il Padre celeste è sempre sulla soglia di casa per riabbracciare quel figlio prodigo, debole e moralmente sfibrato per riportarlo alla vita, alla gioia, alla speranza, alla certezza di essere sempre amato. Nessuno è mai perduto, purché si lasci liberare e risollevare da Colui che «è venuto proprio per cercare chi era perduto», che è giunto in mezzo a noi non per badare ai sani ma ai malati, ai deboli, ai peccatori.

Gianfranco Ravasi
prefetto Biblioteca Ambrosiana e docente di esegesi biblica

Omelia per il 26 ottobre 2010: (Ef 5,21)

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/19743.html

Omelia (26-10-2010) 
Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno
Nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri. (Ef 5,21)

Come vivere questa Parola?
Che cos’è la sottomissione? Ne parla l’apostolo come di un atteggiamento da vivere nel timore (leggi: stupito amore di Cristo). Egli specifica che il marito è in certo senso il capo della coppia. La moglie dovrà tenerne conto ma sempre in riferimento a Cristo che è capo della Chiesa allo scopo di salvarla. D’altro canto il marito, lungi dall’esercitare da despota una sua priorità, è tenuto a circondare di amore la moglie, a farla vivere proprio in forza di un amore che è tale quando, come quello di Cristo per la Chiesa, non è fatto di parole, ma del totale dono di sé.
E allora, ritornando all’incisivo invito di Paolo preso qui in considerazione, la relazione è tutta giocata in quel sottomettere vicendevolmente ora un parere, ora un piacere, ora una possibile decisione. A favore della coppia e dei figli, o, in altro ambito, per il bene della comunità. Come a dire: per il regno di Dio « che solo amore e luce ha per confine »!
Sottomissione, intesa nel vigore della parola di Dio, non è dunque debolezza, difetto nel volere, nel sentire, deficienza di personalità. Vuol dire piuttosto: faccio zittire le pretese del mio orgoglio, della mia volontà di dominio e di possesso, della mia presunzione, perché, nell’umile amore, emerga dal mio cuore quella ricerca del vero bene che è « amore, pace e gioia, benevolenza, mitezza, magnanimità, dominio di sé » come dice Paolo scrivendo ai Galati.

Nella pausa contemplativa lascio, oggi, sedimentare in profondità questo invito di Paolo e lo applico non ad altri ma a me.

Signore, insegnami il ribaltamento completo delle visuali: quella mondana infatti considera un coniglio la persona che sa esercitare la sottomissione voluta per amore; quella evangelica la considera un puro voler somigliare a te che hai detto: Imparate da me che sono mite e umile di cuore.

La voce di un grande Papa
A tutti gli uomini di buona volontà spetta un compito immenso: il compito di ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà: i rapporti della convivenza tra i singoli esseri umani; fra i cittadini e le rispettive comunità politiche; fra le stesse comunità politiche; fra individui, famiglie.
Giovanni XXIII 

Omelia per il 26 ottobre 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/16458.html

Omelia (27-10-2009) 
a cura dei Carmelitani

1) Preghiera

Dio onnipotente ed eterno,
accresci in noi la fede, la speranza e la carità,
e perché possiamo ottenere ciò che prometti,
fa’ che amiamo ciò che comandi.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…

2) Lettura

Dal Vangelo secondo Luca 13,18-21
In quel tempo, Gesù diceva: « A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo rassomiglierò? È simile a un granellino di senapa, che un uomo ha preso e gettato nell’orto; poi è cresciuto e diventato un arbusto, e gli uccelli del cielo si sono posati tra i suoi rami ».
E ancora: « A che cosa rassomiglierò il regno di Dio? È simile al lievito che una donna ha preso e nascosto in tre staia di farina, finché sia tutta fermentata ».

3) Riflessione

• Contesto. Lungo il cammino che lo conduce a Gerusalemme Gesù viene attorniato da «miriadi» di persone (11,29) che si stringono attorno a Lui. Il motivo di tale attrazione delle folle è la Parola di Gesù. Nel cap. 12 si può notare l’alternanza dei destinatari della Parola: i discepoli (12,1-12), la folla (vv.13-21), i discepoli (vv.22-53), le folle (vv.54-59). Invece lo scandalo della morte è il tema dominante di Lc 13,1-35. Nella prima parte si parla della morte di tutti (vv.1-9), nella parte, invece, della morte di Gesù (vv.31-35); alla morte risparmiata ai peccatori perché attendono alla loro conversione. Ma un altro tema viene accostato a quello dominante: la salvezza donata agli uomini. La guarigione della donna curva, una figlia di Abramo, che Satana teneva legata da diciotto anni, viene liberata da Gesù. E nel cuore di questo cap. 13 troviamo due parabole che costituiscono un insieme tematico: il regno di Dio paragonato al «chicco di senape» e al «lievito».
•Il Regno di Dio è simile a un seme di senape. Tale seme è comunissimo nella Palestina ed in particolar modo vicino al lago di Galilea. È conosciuto per la sua singolare piccolezza. In Lc 17,6 Gesù utilizza tale immagine per esprimere la speranza che ha nei discepoli di avere un minimo di fede: «Se aveste fede quanto un granello di senape…». Questa parabola così semplice mette a confronto due momenti diversi della storia di un seme: quello in cui viene gettato nel terreno (gli inizi modesti) e quello in cui arriva a essere un albero (il miracolo finale). Quindi la funzione del racconto è di narrare la crescita straordinaria di un seme che viene gettato nel proprio giardino; a cui segue una crescita strabiliante, diventa un albero. Come questo seme anche il Regno di Dio ha la sua storia: il Regno di Dio è il seme gettato nel giardino, luogo che nel Nuovo Testamento è il luogo dell’agonia e della sepoltura di Gesù (Gv 18,1.26; 19,41); segue il momento della crescita e che si conclude col diventare un albero aperto a tutti.
• Il Regno di Dio è simile al lievito. Il lievito viene inserito in tre moggi di farina. Nella cultura ebraica il lievito era considerato un fattore di corruzione tanto che veniva eliminato dalle proprie case. Per non contaminare la festa di Pasqua che iniziava proprio con la settimana degli azzimi. Agli orecchi dei Giudei l’utilizzo di questo elemento negativo, per descrivere il Regno di Dio, risultava un motivo di turbamento. Ma il lettore ne scopre la forza convincente: è sufficiente mettere una piccola quantità di lievito in tre misure di farina per avere una grossa quantità di pasta. Gesù annuncia che questo lievito, nascosto o fatto sparire in tre misure di farina, dopo un certo tempo fa lievitare il tutto.
• Gli effetti del testo sul lettore. Cosa comunicano a noi queste due parabole? Il regno di Dio, paragonato da Gesù a un seme che diventa albero, è da accostare alla storia di Dio come una storia della sua Parola: è nascosta nella storia umana e sta crescendo; Luca pensa alla Parola di Gesù (il regno di Dio in mezzo a noi) che già conosce un suo sviluppo ma ancora non è diventato un albero. Gesù e lo spirito Santo stanno sostenendo questa crescita della parola. L’immagine del lievito fornisce un quadro di completezza a quello del seme. Il lievito è il Vangelo che è all’opera nel mondo, nelle comunità ecclesiali, nei singoli credenti.

4) Per un confronto personale

• Sei consapevole che il Regno di Dio è presente in mezzo a noi e che misteriosamente cresce e si diffonde nella storia di ogni uomo, nella chiesa?
• Il Regno è una realtà umile, nascosta, povera e silenziosa, immerso tra competizioni e piaceri della vita. Hai compreso dalle due parabole che non potrà da te essere intravisto se non assumi un atteggiamento umile e di silenzioso ascolto?

5) Preghiera finale

Beato l’uomo che teme il Signore
e cammina nelle sue vie.
Vivrai del lavoro delle tue mani,
sarai felice e godrai d’ogni bene. (Sal 127) 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 25 octobre, 2010 |Pas de commentaires »

C. Gli ebrei nelle lettere di Paolo e in altri scritti del Nuovo Testamento (Pontificia Commissione Biblica)

dal sito:

http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/pcb_documents/rc_con_cfaith_doc_20020212_popolo-ebraico_it.html#III-C

PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA

IL POPOLO EBRAICO E LE SUE SACRE SCRITTURE NELLA BIBBIA CRISTIANA

III. GLI EBREI NEL NUOVO TESTAMENTO (66-83)

C. Gli ebrei nelle lettere di Paolo e in altri scritti del Nuovo Testamento

79. La testimonianza delle lettere paroline sarà considerata secondo i raggruppamenti comunemente accettati: prima le sette lettere la cui autenticità è generalmente riconosciuta (Rm, 1-2 Cor, Gal, Fil, 1 Ts, Flm), poi Efesini e Colossesi, infine le Pastorali (1-2 Tm, Tt). Saranno poi esaminate la lettera agli Ebrei, le lettere di Pietro, Giacomo e Giuda, e l’Apocalisse.  

1. Gli ebrei nelle lettere di Paolo di non contestata autenticità

Personalmente Paolo continua a essere fiero della sua origine ebraica (Rm 11,1). Del tempo anteriore alla sua conversione egli afferma: « Facevo progressi nel giudaismo superando la maggior parte dei miei connazionali e dei miei coetanei per il mio accanito zelo per le tradizioni dei padri » (Gal 1,14). Diventato apostolo di Cristo, dice ancora, a proposito dei suoi rivali: « Sono ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! ». Sono stirpe di Abramo? Anch’io! (2 Cor 11,22). È anche capace però di relativizzare tutti questi vantaggi e di dire: « Tutte queste cose che erano per me un guadagno, le ho considerate una perdita a causa di Cristo » (Fil 3,7). Egli continua tuttavia a pensare e a ragionare come un ebreo. Il suo pensiero resta chiaramente impregnato di idee ebraiche. Nei suoi scritti si trovano non soltanto, come abbiamo visto sopra, continui riferimenti all’Antico Testamento ma anche molte tracce di tradizioni giudaiche. Inoltre, Paolo utilizza spesso tecniche rabbiniche di esegesi e di argomentazione (cf I. D. 3, n. 14). I legami di Paolo con il giudaismo si manifestano anche nel suo insegnamento morale. Nonostante la sua opposizione contro le pretese dei fautori della Legge, si serve egli stesso di un precetto della Legge, Lv 19,18 (« Amerai il prossimo tuo come te stesso »), per riassumere tutta la morale. 332 Questo modo di riassumere la Legge in un solo precetto è del resto tipicamente giudaico, come mostra un ben noto aneddoto, che mette in scena Rabbi Hillel e Rabbi Shammai, contemporanei di Gesù. 333 Qual era l’atteggiamento dell’apostolo nei riguardi degli ebrei? In linea di massima era un atteggiamento positivo. Li chiama: « miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne » (Rm 9,13). Convinto che il vangelo di Cristo è « potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima » (Rm 1,16), egli desiderava trasmettere loro la fede, non trascurando nulla a questo scopo; poteva affermare: « mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei » (1 Cor 9,20) ed anche: « con coloro che sono sotto la Legge sono diventato come uno che è sotto la Legge — pur non essendo personalmente sotto la Legge — allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la Legge » (1 Cor 9,20). Anche nel suo apostolato presso i Gentili cercava di essere indirettamente utile ai fratelli della sua stirpe, « nella speranza di salvare alcuni di essi » (Rm 11,14), contando in questo su un riflesso di emulazione (11,11.14): la vista della meravigliosa fecondità spirituale che la fede in Cristo Gesù dava ai pagani convertiti avrebbe suscitato negli ebrei il desiderio di non lasciarsi superare e li avrebbe spinti ad aprirsi a questa fede. La resistenza opposta dalla maggior parte degli ebrei alla predicazione cristiana metteva nel cuore di Paolo « un grande dolore e una sofferenza continua » (Rm 9,2), il che manifesta chiaramente quale fosse la profondità del suo affetto per loro. Si dichiara disposto ad accettare per loro il più grande e il più impossibile dei sacrifici, quello di essere egli stesso « anatema », separato da Cristo (9,3). Il suo affetto e la sua sofferenza lo spingono a cercare una soluzione: in tre lunghi capitoli (Rm 9–11), approfondisce il problema, o piuttosto il mistero, della posizione d’Israele nel disegno di Dio, alla luce di Cristo e della Scrittura, e termina la sua riflessione soltanto quando può concludere: « allora tutto Israele sarà salvato » (Rm 11,26). Questi tre capitoli della lettera ai Romani costituiscono la riflessione più approfondita, in tutto il Nuovo Testamento, sulla situazione degli ebrei che non credono in Gesù. In essi Paolo esprime il suo pensiero nel modo più maturo. La soluzione che propone è basata sulla Scrittura, che, in certi momenti, promette la salvezza solo a un « resto » d’Israele. 334 In questa tappa della storia della salvezza, c’è quindi solo un « resto » di Israeliti che credono in Cristo Gesù, ma questa situazione non è definitiva. Paolo osserva che, fin d’ora, la presenza del « resto » è una prova che Dio non ha « ripudiato il suo popolo » (11,1). Questo continua a essere « santo », cioè in stretta relazione con Dio. È santo perché proviene da una radice santa, i suoi antenati, e perché le sue « primizie » sono state santificate (11,16). Paolo non precisa se per « primizie » intenda gli antenati d’Israele o il « resto », santificato dalla fede e dal battesimo. Egli sfrutta poi la metafora agricola della pianta, parlando di alcuni rami tagliati e di innesto (11,17-24). Si comprende che quei rami tagliati sono gli Israeliti che hanno rifiutato Cristo Gesù e che le marze sono i Gentili diventati cristiani. A costoro — l’abbiamo già notato — Paolo predica la modestia: « Non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te » (11,18). Ai rami tagliati apre una prospettiva positiva: « Dio ha il potere di innestarli di nuovo » (11,23), e questo sarà anche più facile che nel caso dei Gentili, perché si tratta del « proprio olivo » (11,24). In fin dei conti, il disegno di Dio riguardo a Israele è interamente positivo: « il loro passo falso è stata la ricchezza del mondo », « che cosa non sarà la loro partecipazione totale alla salvezza? » (11,12). Un’alleanza di misericordia è assicurata loro da Dio (11,27.31). 80. Negli anni precedenti la composizione della lettera ai Romani, dovendo fronteggiare un’opposizione accanita da parte di molti suoi « consanguinei secondo la carne », Paolo aveva talvolta espresso vigorose reazioni di difesa. Sull’opposizione dei Giudei, egli scrive: « Dai Giudei cinque volte ho ricevuto i quaranta [colpi] meno uno » (cf Dt 25,3); subito dopo egli nota di aver dovuto far fronte a pericoli provenienti sia da parte dei fratelli della sua stirpe che da parte dei Gentili (2 Cor 11,24.26). Rievocando questi fatti dolorosi, Paolo non aggiunge alcun commento. Era pronto a « partecipare alle sofferenze di Cristo » (Fil 3,10). Ma ciò che provocava da parte sua un’accesa reazione erano gli ostacoli posti dai Giudei al suo apostolato presso i Gentili. Lo si vede in un passo della prima lettera ai Tessalonicesi (2,14-16). Questi versetti sono talmente contrari all’atteggiamento abituale di Paolo verso i Giudei che si è cercato di dimostrare che non erano suoi o di attenuarne il vigore. Ma l’unanimità dei manoscritti rende impossibile la loro esclusione e il tenore dell’insieme della frase non permette di restringere l’accusa ai soli abitanti della Giudea, com’è stato suggerito. Il versetto finale è perentorio: « L’ira è giunta su di loro, al colmo » (1 Ts 2,16). Questo versetto fa pensare alle predizioni di Geremia, 335 e alla frase di 2 Cr 26,16: « L’ira del Signore contro il suo popolo fu tale che non ci fu più rimedio ». Queste predizioni e questa frase annunciavano la catastrofe nazionale del 587 a.C.: assedio e presa di Gerusalemme, incendio del Tempio, deportazione. Paolo sembra prevedere una catastrofe nazionale di simili proporzioni. È opportuno osservare, a tale proposito, che gli eventi del 587 non erano stati un punto finale, perché il Signore aveva poi avuto pietà del suo popolo. Ne consegue che la terribile previsione di Paolo — previsione purtroppo avveratasi — non escludeva una riconciliazione posteriore. In 1 Ts 2,14-16, a proposito delle sofferenze inflitte ai cristiani di Tessalonica da parte dei loro compatrioti, Paolo ricorda che le chiese della Giudea avevano subito la stessa sorte da parte dei Giudei e accusa allora costoro di una serie di misfatti: « hanno ucciso il Signore Gesù e i profeti, hanno perseguitato noi »; la frase passa poi dal passato al presente: « essi non piacciono a Dio e sono ostili a tutti gli uomini, ci impediscono di predicare ai Gentili perché possano essere salvati ». È evidente che agli occhi di Paolo quest’ultimo rimprovero è quello più importante e che è alla base dei due giudizi negativi che lo precedono. Siccome i Giudei ostacolano la predicazione cristiana rivolta ai Gentili, sono « ostili a tutti gli uomini », 336 e « non piacciono a Dio ». Opponendosi con ogni mezzo alla predicazione cristiana, i Giudei del tempo di Paolo si mostrano perciò solidali con i loro padri che hanno ucciso i profeti e con i loro fratelli che hanno chiesto la condanna a morte di Gesù. Le formule di Paolo hanno l’apparenza di essere globalizzanti e di attribuire la colpa della morte di Gesù a tutti gli ebrei senza distinzione; l’antigiudaismo le prende in questo senso. Ma, collocate nel loro contesto, esse riguardano esclusivamente coloro che si oppongono alla predicazione ai pagani e quindi alla salvezza di questi ultimi. Venendo meno questa opposizione, cessa anche l’accusa. Un altro passo polemico si legge in Fil 3,2-3: « Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi dalla mutilazione (katatom); perché noi siamo la circoncisione (peritom) ». A chi si riferisce qui l’apostolo? Sono ingiunzioni troppo poco esplicite per poter essere interpretate con certezza, ma si può almeno escludere che riguardassero gli ebrei. Secondo un’opinione corrente, Paolo avrebbe di mira dei cristiani giudaizzanti, che volevano imporre l’obbligo della circoncisione ai cristiani provenienti dalle « nazioni ». Paolo applicherebbe ad essi, in modo aggressivo, un termine di disprezzo, « cani », metafora per l’impurità rituale che gli ebrei applicavano talvolta ai Gentili (Mt 15,26) e disprezzerebbe la circoncisione della carne, chiamandola ironicamente « mutilazione » (cf Gal 5,12) e opponendo ad essa una circoncisione spirituale, come faceva già il Deuteronomio, che parlava di circoncisione del cuore. 337 Il contesto sarebbe, in questo caso, quello della controversia relativa alle osservanze ebraiche all’interno delle chiese cristiane, come nella lettera ai Galati. Ma è forse meglio far riferimento, come per Ap 22,15, al contesto pagano in cui vivevano i Filippesi e pensare che Paolo attacchi qui delle usanze pagane: perversioni sessuali, azioni immorali, mutilazioni cultuali di culti orgiastici. 338 81. Riguardo alla discendenza di Abramo, Paolo fa una distinzione — l’abbiamo già visto — tra i « figli della promessa alla maniera di Isacco », che sono anche figli « secondo lo Spirito », e i figli « secondo la carne ». 339 Non basta essere « figli della carne » per essere « figli di Dio » (Rm 9,8). Perché la condizione essenziale è la propria adesione a colui che « Dio ha inviato [...] perché ricevessimo l’adozione a figli » (Gal 4,4-5). In un altro contesto, l’apostolo non fa questa distinzione, ma parla degli ebrei globalmente. Egli dichiara allora che essi hanno il privilegio di essere depositari della rivelazione divina (Rm 3,1-2). Questo privilegio, tuttavia, non li ha esentati dal dominio del peccato (3,9-19) e quindi dalla necessità di ottenere la giustificazione per la fede in Cristo e non per l’osservanza della Legge (3,20-22). Quando considera la situazione degli ebrei che non hanno aderito a Cristo, Paolo ci tiene ad esprimere la profonda stima che ha per loro, enumerando i doni meravigliosi che hanno ricevuto da Dio: « Essi che sono Israeliti, che [hanno] l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, — che [hanno] i padri e dai quali [proviene], secondo la carne, Cristo, che è sopra ogni cosa, Dio benedetto in eterno, amen » (Rm 9,4-5). 340 Nonostante l’assenza di verbi, è difficile dubitare che Paolo voglia parlare di un possesso attuale (cf 11,29), anche se, nel suo pensiero, questo possesso non è sufficiente, perché rifiutano il dono di Dio più importante, il suo Figlio, che pure è nato da essi secondo la carne. Paolo attesta a loro riguardo che « hanno zelo per Dio », ma aggiunge: « non con piena conoscenza; ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio » (10,2-3). Ciò nonostante, Dio non li abbandona. Il suo disegno è di usare loro misericordia. « L’indurimento » che colpisce « una parte » d’Israele è solo una tappa provvisoria, che ha una sua utilità temporanea (11,25); essa sarà seguita dalla salvezza (11,26). Paolo riassume la situazione in una frase antitetica, seguita da un’affermazione positiva:

« Quanto al vangelo, [sono] nemici a causa vostra,
quanto alla elezione, [sono] amati a causa dei padri,
perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! »
(11,28-29).

Paolo vede la situazione con realismo. Tra i discepoli di Cristo e i Giudei che non credono in lui c’è una relazione di opposizione. Questi Giudei contestano la fede cristiana; non accettano che Gesù sia il loro messia (Cristo) e il Figlio di Dio. I cristiani non possono non contestare la posizione di questi Giudei. Ma a un livello più profondo di questa relazione di opposizione esiste fin d’ora una relazione d’amore, e questa è definitiva, mentre l’altra è solo provvisoria. 

Omelia per il 25 ottobre 2010: Commento a Ef 4,32

dal sito: 

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/13890.html

Omelia (27-10-2008) 
Eremo San Biagio

Commento a Ef 4,32

Dalla Parola del giorno
“Siate benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo.”

Come vivere questa Parola?
Quella vita nuova che Cristo è venuto a portare e di cui l’altissimo prezzo è la sua morte in croce, trova qui una meravigliosa sintesi.
Dopo aver specificato la modalità concreta del reciproco amore che è appunto benevolenza, misericordia, assiduo perdono alla maniera di Dio in Cristo Gesù, Paolo invita a “camminare nella carità”. Così chiarifica con forza che non si tratta di un pressapochistico amore da filantropia o da romantico cuore tenero, ma piuttosto di entrare decisamente nel modo con cui Cristo ci ha amati. Non a parole, ma dando se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave profumo.
È evidente dunque quel che S. Paolo dirà a compimento del brano proposto dalla liturgia odierna. Avessimo anche camminato malamente nelle tenebre del peccato, se convertiamo il cuore a quella logica della carità di cui è detto sopra, diventiamo luce nel Signore. E che cosa dunque di più bello, di più profondamente incoraggiante, di più entusiasmante, può giungerci all’orecchio del cuore che quel finalissimo invito: “Comportatevi per ciò da figli della luce?”

Oggi, nella mia pausa contemplativa, ‘assorbo’ interiormente quel che il Signore stesso mi dice attraverso la parola di S.Paolo. Davvero la carità afferra la mia natura fatta per amare, la purifica, la potenzia, la rende tale da abilitarmi a “camminare nella carità”.

Signore, che mi hai creato a tua immagine, a immagine di Te che sei l’Amore, rendimi tu quello che sono chiamato ad essere: una persona che crede al primato della carità e cerca di viverlo.

Le parole di un fondatore
Noi dobbiamo chiedere a Dio non una scintilla di Carità, come dice l’Imitazione di Cristo, ma una fornace di Carità da infiammare noi e da rinnovare il freddo e gelido mondo, con l’aiuto e per la grazia che ci darà il Signore.
S. Luigi Orione 

Omelia per il 25 ottobre 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/8371.html

Omelia (25-10-2004) 
Eremo San Biagio

Commento Luca 13,10-17

Dalla Parola del giorno
C’era là una donna che aveva da diciotto anni uno spirito che la teneva inferma; era curva e non poteva drizzarsi in nessun modo. Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: «Donna, sei libera dalla tua infermità», e le impose le mani.

Come vivere questa Parola?
Che direbbero oggi gli esperti di questa donna curva? Senz’altro diagnosticherebbero la sua infermità come un irreversibile handicap fisico. Commiserando la sventurata. Gesù invece fa una diagnosi ben diversa, che a primo acchito ci sconvolge: la sua patologia è opera di Satana. E’ lui che la tiene accartocciata e ripiegata su se stessa, rendendola inabile ad alzare lo sguardo verso l’alto.
Quando può capitare una simile disgrazia? Intendo, anche a noi. Quando diamo a Satana l’opportunità di legarci. E lo facciamo volgendo le spalle a Dio, schiavi delle cose, servi del potere, valletti del piacere. Quando, a furia di guardare solo alle cose della terra, c’incurviamo a tal punto da rimanere anchilosati, incapaci di raddrizzarci e glorificare Dio.
Ed è una vera ‘dis-grazia’, perché sciupiamo la grazia di Dio, narcotizzando lo spirito fino a far sopire il desiderio di una vita autentica. Ma è proprio qui, tra le catene di un’esistenza balorda, che maggiormente si manifesta la misericordia del Signore: « Donna – le disse Gesù – sei libera ». Libera d’amare e di magnificare Dio con la tua vita.

Oggi, nella mia pausa contemplativa, rinfrancherò il cuore nella consolazione: per Dio, non è mai troppo tardi! Avessi anch’io vissuto diciotto anni – una vita! – di debolezza spirituale, consumata nella complicità con il peccato, o forse semplicemente nella mediocrità, nella tiepidezza, ebbene, nonostante quest’abisso di non-senso, oggi Gesù impone su di me le sue mani e mi guarisce. A patto che lo voglia davvero!

Non permettere, o Signore, che gli interessi della terra mi accartoccino catalizzando la mia sensibilità fino a spegnere il desiderio di Te. Risuoni con forza al mio fragile cuore il tuo annuncio di risurrezione: « Sei libero! ».

La voce di un autorevole maestro spirituale
Dio, nella sua iniziativa di amore e di misericordia, proietta nell’oscurità della mia psiche, nel profondo della coscienza, la luce del suo progetto e mi porta a scoprire la verità di me stesso, rispetto a ciò che sono chiamato ad essere, a ciò che avrei dovuto essere, a ciò che posso essere con la sua grazia.
Carlo Maria Martini 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 24 octobre, 2010 |Pas de commentaires »

buona notte e buona domenica

buona notte e buona domenica dans immagini...buona notte...e rhododendron_racemosum_dfd

Rhododendron (racemosum)

http://www.floralimages.co.uk/page.php?taxon=rhododendron_racemosum,1

Publié dans:immagini...buona notte...e |on 23 octobre, 2010 |Pas de commentaires »
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