dal sito:
http://www.sanbiagio.org/lectio/11.pdf
PREGHIERA E DISAGIO ESISTENZIALE
Salmo 41(42)
Salmo 42(43)
TESTO SALMO 41 LINK:
http://www.bibbiaedu.it/pls/bibbiaol/GestBibbia_int2.Ricerca?Libro=Salmi&Capitolo=42
TESTO SALMO 42 LINK:
http://www.bibbiaedu.it/pls/bibbiaol/GestBibbia_int2.Ricerca?Libro=Salmi&Capitolo=43
E’ stato scritto di questo salmo: « Può essere letto come una metafora, rigorosa e penetrante, dell’intera vicenda umana e della speranza cristiana » (G. RAVASI, Il libro dei Salmi. Commento e attualizzazione, EDB
Vol.1 p. 774), « Ci parla del più profondo anelito dell’uomo: il desiderio di Dio » (C. MARIA MARTINI, I salmi, Piemme, p. 40).
L’attualità di questo salmo mi pare riguardi soprattutto un certo disagio esistenziale espresso nel salmo soprattutto là dov’è ripetuto: « Tutto il giorno mi dicono: Dov’è il tuo Dio? ». In effetti l’ateo teorico (e soprattutto pratico) di oggi, proprio questa domanda inquisitoria e spesso irridente butta in faccia a chi dice di aver fede. Penetrare dunque il salmo e assumerlo in preghiera significa acco-glierlo come una risposta a questo disagio attuale. Il carme è il saldarsi tra loro di due salmi: il 42 e il 43, e inizia il secondo libro dei salmi. Interessante: nell’organizzazione ebraica dei 5 libri della Torah (Parola di Dio all’uomo) corrispondono i 5 libri dei salmi, (parola dell’uomo a Dio). E’ così: Dio parla; l’uomo, con la preghiera, risponde! In un luogo deserto e montuoso domina un silenzio inquietato dal grido di una cerva assetata che lamenta non tanto e non solo la propria sete, quanto il dramma di aver molto corso e d’essere giunta al letto del torrente del tutto prosciugato. E’ un morir di sete, quello che canta il salmista esprimendo la sua tragedia di esule, isolato, scomunicato, da quella « fonte di acqua viva » che è il tempio di Gerusalemme. Bisogna tener conto che dal salmo 42 al 49 i salmi vennero a noi sotto il nome di « Salterio dei figli di Qorah ». Chi erano? « Attendevano al servizio liturgico, erano custodi della soglia della tenda » (Num 9,19) e con grande probabilità vissero nel periodo del post-esilio e del secondo tempio. Se, come tutto fa supporre, il protagonista autore del salmo è un sacerdote o un levita costretto a star lontano da quella soglia del tempio, varcata la quale un tempo aveva fatto l’esperienza della « shekinah » (la grande Presenza di Dio), si capisce meglio l’intensità drammatica del salmo stesso, l’intensità della « sete » esistenziale. Non è difficile cogliere l’armonica struttura di questo salmo scandita da un ritornello: « Perchè ti abbatti, anima mia, perchè su di me gemi? Spera in Dio, ancora potrò lodarlo, Lui, salvezza del mio volto e mio Dio ». L’incontriamo, infatti, in 42,6.12; 43,5. Penetrando il salmo con una lettura di consapevolezza esistenziale-spirituale, entriamo in un crescendo di umanissimo sentire che all’inizio è accoramento e tristezza, poi è quasi protesta intrisa di sdegno e di amarezza, da ultimo diventa un placarsi in speranza nel contattare nuovamente il Dio della vita. Sono dunque tre i nuclei (strofe) che vengono così scanditi: 1^ strofa 42,2-6; 2^ strofa 42,7-12; 3^ strofa tutto il salmo 43. Interessante notare che ben 22 volte torna nel salmo il nome di Dio invocato come « Dio vivente », « salvezza del volto », « Dio protettore e difesa », « Dio della gioia ». Significativo anche l’uso degli aggettivi e dei pronomi possessivi (mio Dio, Tuo Dio ecc.) che rendono più intimo il rapporto con Lui.
Prima strofa (42,1-6)
vv. 2-3: « Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente ».
Il lamento della cerva assetata è espressione intensa della sete del Dio vivente da parte del salmista lontano dal tempio santo di Dio. Bisogna dire subito che questo tema della sete è quanto di più profondamente sentito è nel cuore dell’uomo. A livello d’immagine della cerva lo troviamo nell’arte paleolitica delle pitture di Lascaux in Dordogna e in altre rappresentazioni d’arte antica. Nell’A.T. Geremia descrive la tragedia della siccità col terreno screpolato dove « la cerva partorisce e abbandona il figlio perché non c’è più erba » (Ger 14,5). Il senso tutto interiore e spirituale della sete è espresso in Amos 8,11.13: « Verranno giorni in cui…manderò non sete d’acqua ma d’ascoltare la parola di Dio (…). In quel giorno appassiranno le belle fanciulle e i giovani per la sete ». Ricordiamo anche il bellissimo salmo 62: « Di te ha sete l’anima mia. Perfino la mia carne anela a te ». Il verbo ebraico « amag » esprime una tensione tragica che l’italiano « anela » (o « sospira ») ben poco rende. Si tratta di un grido, di un lamento lacerante. Se poi la « sorgente », l’ »acqua fresca e viva » è Dio, non è difficile capire quanto l’abbandonare Lui e lo scavarsi « cisterne screpolate » alla ricerca di altri beni sia delusione, sia un male. (Cf Ger. 2,13). Il ripetersi per quattro volte del nome di Dio, esplicitato come il « Dio vivente », scava ancora più in profondità nella tensione di un desiderio-grido che riempie questi versi: « Quando verrò e vedrò il volto di Dio? » (v. 3.6).
v. 4 « Le lacrime sono il mio pane giorno e notte mentre tutto il giorno dicono a me: ‘Dov’è il tuo Dio?’ ».
Il dolore è antico come il mondo. Già nelle lamentazioni babilonesi sentiamo: « Non ho cibo da mangiare: il dolore è il mio pane; non ho acqua da bere: le mie lacrime mi sono bevanda (citato da G. RAVASI, Il libro dei Salmi, EDB vol 1 p. 766). Nell’A.T. leggiamo: « Di cenere mi nutro come di pane; alla mia bevanda mescolo il pianto » (Sl 102,10). « Tu ci disseti con lacrime abbondanti » (Sl 80,6). « Come pane non ho che singhiozzi, come acqua sgorgano i miei gemiti (Gb 3,24); (Cf Ger 8,14; Lam 3,15). Dentro tanta sofferenza è chiaro che risulta ancora più dura l’irridente provocazione di chi non crede; « Dov’è il tuo Dio? ». E’ uno schernire insolente e continuo, « notte e giorno », che acutizza dolore e disagio. Ripetuto nel salmo (Cf v. 11) risuona in altri passi biblici (Cf Sl 79,10; 115,2; Gl2,17; Mi 7,10). v. 5 « Questo io ricordo (…) avanzavo tra la folla (…) in voci esultanti e inneggianti di una moltitudine. Nel buio di tanto silenzio di Dio e dell’umiliante « starsene a tiro » di chi irride, quasi a sottolineare l’indifferenza o addirittura la non esistenza di Lui, acquista un tono ancora più struggente l’evocazione del passato. Il tempo in cui il salmista aveva goduto del Dio benevolo insieme a coloro che, come lui erano guide al tempio di tanti fedeli inneggianti al suo amore salvifico, ormai è un sogno irraggiungibile, che impregna di desolazione il presente.
v. 6 (ritornello) « Perché ti abbatti anima mia? Perché su di me gemi? Spera in Dio: ancora potrò lodarlo salvezza del mio volto e mio Dio »
Questo ritornello o antifona « è un raro esempio biblico di dialogo interiore e d’introspezione psicologica » (G. RAVASI. Op. cit. p 767). E’ importante cogliere la densità della parola « nefes » (Cf anche vv. 5 e 7). Ben più che il termine « anima, » esprime l’io profondo dov’è il « respiro » del proprio « esserci » come persona. E qui si acutizza la pena di questa « nefes » (« anima » in italiano) consapevole del proprio buio e vuoto interiore proprio perché, come dice il salmo 62,21 « Solo in Dio riposa l’anima (« nefes ») mia. Siamo al punto cruciale del salmo. Dopo questa piena presa di coscienza del buio del vuoto del turbamento, in cui il salmista è piombato lontano da Dio, dopo questo lamento gridato al proprio « nefes », sull’orlo della disperazione, ecco riaffiora improvvisa la SPERANZA, il coraggio di guardare a Dio, di credere in Lui, nonostante tutto. Questo è un tocco umano e spirituale bellissimo!
Seconda strofa (42,7-12) « Su di me si abbatte l’anima mia… ».
Non tutto si è già risolto in luce. L’anima (nefes) ancora si abbatte. L’orizzonte del fiume Giordano, del monte Hermon (identificato come la catena dell’Anti-Libano) e del monte Mizar (probabilmente un monticello di quella catena) è l’ambiente dove il salmista vive esule lontano dal tempio di Gerusalemme. Richiamando poi la faglia giordanica (400 m. sotto il livello del mare, il punto più basso insieme al Mar Morto, di tutta la superficie terrestre), l’autore evoca un paesaggio impressionante che rimanda a certi tragici quadri di Van Gogh. Abissi e gorghi caotici d’acque distruggitrici passano sulla sua anima, dice il salmista esprimendo a fortissimi tratti la sua debolezza interiore. v. 9 « Di giorno Jahweh mi manda la sua fedeltà, di notte il suo canto è con me… ». Di nuovo ecco la virata di bordo: non più guardare a sé ma aggrapparsi alla fedeltà di Dio e pregare Colui che il salmista arriva a chiamare: « il Dio della vita ». vv. 10-11 « Dirò a Dio, mia roccia: Perché mi hai dimenticato? (…) mi dicono tutto il giorno: « Dov’è il tuo Dio? ». Il salmista ha ben chiaro ora che, di fronte al fluttuare di tutto, Dio è roccia (« sela ») stabile, indefettibile. Però vive ancora il dramma del sentirsi come « dimenticato » da Lui. Se si pensa che nella Bibbia il dimenticato da Dio è il maledetto, il morto, lo sheol (Cf Sl 6,6; 88,6) si capisce come il cuore del salmista viva un dolore che è inguaribile, dato che, a intensificare il tutto, ritorna l’insolenza di avversari che irridono beffeggiando: « Dov’è il tuo Dio? ».
v. 12 « Perché ti abbatti anima mia?… »
Ritorna l’antifona. Ecco: proprio su questo presente tragico, apre nuovamente l’ala la speranza in Dio.
Terza strofa: (Sl 43)
v. 1 « Fammi giustizia, o Dio, difendi la mia causa… «
Qui il salmista è ancora proteso al Tempio di Gerusalemme, ma ormai con piena fiducia. Ora la preghiera del salmista diventa quel quieto rivolgersi a Colui che può prendere le difese del suo essere stato bandito da Lui e dal Tempio. Dio è qui invocato come giudice, come avvocato contro coloro che non solo irridono da atei, ma sono menzogneri e iniquamente hanno agito contro di lui.
v. 2 « Tu sei il Dio della mia fortezza. Perché mi respingi? Perché triste me ne devo andare oppresso dal nemico? »
Sembra di nuovo prevalere l’onda del più accorato lamento. Ed è forte quel « perché » che in tutto il carme (Sl 42 e 43) ritorna ben dieci volte a dimostrare che la fede biblica è dentro il vissuto anche più sofferto e la preghiera è anzitutto un grido esistenziale che non ha niente a che vedere con spiritualismi narcotizzanti. V. 3-4 « Manda la tua luce e la tua verità; siano esse guidarmi (…) . Verrò (…) al Dio della mia gioia e felicità, Ti loderò ».
La luce e la verità appaiono qui come due attributi divini personificati. Luce: espressione della benevolenza di Dio e sua risposta colma d’amore. Verità (emet): qui sinonimo di fedeltà (hesed) a esprimere la sentenza favorevole di Dio « testimone verace e fedele ». (Cf Ger 42,5) che ben conosce la coscienza del salmista. Il salmo ormai si trasfonde in gioia superlativa (Cf l’originale al v. 4= « gioia della mia felicità »). Espressivo anche il tradurre della TOB: « Il Dio che mi fa danzare di gioia ». E non è da dimenticare la Vulgata: « Ad Deum qui laetificat iuventutem meam » (al Dio che rallegra la mia giovinezza). Chiude in bellezza, il ritorno dell’antifona che, in questo crescendo di sofferenza e di speranza esalta con forza il Dio che risponde come salvezza all’uomo che, quasi disperato, lo cerca. Questa stupenda preghiera biblica è attualissima e può dunque oggi prestarsi a diventare la nostra preghiera esprimente il forte disagio che anche noi, a volte, soffriamo. In un mondo segnato dall’allontanamento da Dio, spesso aggravato dall’irrisione di molta gente atea, siamo messi a dura prova. Così quella che viene messa a cimento è soprattutto la speranza e la determinazione a pregare con perseveranza, ad ogni costo. E’ qui che il salmo, conducendoci a una presa di coscienza forte e viva della nostra sete che a dispetto di quel che ci fa credere il materialismo imperante è profonda sete di Dio, ci aiuta a « gridare » in preghiera questa stessa sete. In filigrana sentiamo allora emergere la divina risposta di Gesù alla Samaritana: « Chi beve dell’acqua che io gli darò non avrà più sete in eterno » (Gv 4,14) e nel tempio quando proclama: « Chi ha sete venga a me e beva. Scaturiranno dal suo intimo sorgenti d’acqua viva ». Se, come dice Bonhoeffer, « Gesù ha portato dinanzi a Dio tutto il dolore, tutta la gioia, tutta la gratitudine e la speranza degli uomini » (Cf Pregare i salmi con Cristo, Brescia 1978 p. 37), pregare questo salmo in Gesù e con Gesù vuol dire lasciarsi raggiungere dalla sua « acqua viva » e diventare « acqua di vita nello stile delle Beatitudini » per gli altri. Ho preso coscienza che la mia inquietudine, la mia sete di fondo è sete di Dio? Oppure, da solo o in coppia, lasciandomi manovrare dalla realtà consumistico-massmediale, entro nel giro della « fabbrica dei bisogni » e disattendo il mio rapporto con Dio nella preghiera, senza neppure « leggere » il senso della mia in inquietudine? Il mio pregare è anzitutto un presentarmi a Dio così come sono, un « gridare » a Lui la mia gioia ma anche tutto il mio dolore, la mia fatica esistenziale? Ciò che mi umilia o abbatte io lo consegno a Lui con fiducia o mi lamento da solo e con gli altri? Là dove avverto (verbalizzata o no) l’irridente provocazione degli atei: « Dov’è il tuo Dio? » come reagisco? Dov’è la mia « speranza »? In quiete contemplativa, visualizzo Gesù seduto al pozzo in dialogo con la Samaritana che dice, oggi, a me: « Chi beve dell’acqua che io gli darò non avrà mai più sete. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna » (Gv 4,14). Ascolterò anche in prospettiva escatologica: « Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello (…) sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi » (Ap 7,16-17).