Archive pour octobre, 2010

Omelia 7 ottobre 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/16322.html

Omelia (08-10-2009) 
a cura dei Carmelitani

1) Preghiera

O Dio, fonte di ogni bene,
che esaudisci le preghiere del tuo popolo
al di là di ogni desiderio e di ogni merito,
effondi su di noi la tua misericordia:
perdona ciò che la coscienza teme
e aggiungi ciò che la preghiera non osa sperare.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…

2) Lettura del Vangelo

Dal Vangelo secondo Luca 11,5-13
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti; e se quegli dall’interno gli risponde: Non m’importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli; vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza.
Ebbene, io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto.
Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?
Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!”

3) Riflessione

? Il vangelo di oggi continua parlando del tema della preghiera, iniziato ieri con l’insegnamento del Padre Nostro (Lc 11,1-4). Oggi Gesù insegna che dobbiamo pregare con fede ed insistenza, senza venir meno. Per questo usa una parabola provocatoria.
? Luca 11,5-7: La parabola che provoca. Como sempre, quando Gesù ha una cosa importante da insegnare, ricorre ad un paragone, ad una parabola. Oggi ci racconta una storia strana che culmina in una domanda e rivolge la domanda alla gente che lo ascoltava ed anche a noi che oggi leggiamo o ascoltiamo la storia: « Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti; e se quegli dall’interno gli risponde: Non m’importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli”. Prima che Gesù stesso dia la risposta, vuole la nostra opinione. Cosa risponderesti: si o no?
? Luca 11,8: Gesù risponde alla provocazione. Gesù dà la sua risposta: “Vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza”. Se non fosse Gesù, avresti avuto il coraggio di inventare una storia in cui si suggerisce che Dio aspetta le nostre preghiere con insistenza? La risposta di Gesù rafforza il messaggio sulla preghiera, cioè: Dio aspetta sempre la nostra preghiera. Questa parabola ne ricorda un’altra, anch’essa in Luca, la parabola della vedova che insiste nell’ottenere i suoi diritti davanti al giudice che non rispetta né Dio né la giustizia e che dà ascolto alla vedova solamente perché vuole liberarsi dall’insistenza della donna (Lc 18,3-5). Poi Gesù trae le proprie conclusioni per applicare il messaggio della parabola alla vita.
? Luca 11,9-10: La prima applicazione della Parabola. “Ebbene io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto”. Chiedere, cercare, bussare alla porta. Se chiedete, riceverete. Se bussate alla porta vi si aprirà. Gesù non dice quanto tempo dura la richiesta, bussare alla porta, cercare, ma il risultato è certo.
? Luca 11,11-12: La seconda applicazione della parabola. “Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?” Questa seconda applicazione lascia intravedere il pubblico che ascoltava le parole di Gesù ed anche il suo modo di insegnare sotto forma di dialogo. Lui domanda: “Tu che sei un padre, quando tuo figlio ti chiede un pesce, gli daresti una serpe?” La gente risponde: “No!” –“E se ti chiede un uovo, gli daresti uno scorpione?” -“No!” Per mezzo del dialogo, Gesù coinvolge le persone nel paragone e, per la risposta che riceve da loro, le impegna con il messaggio della parabola.
? Luca 11,13: Il messaggio: ricevere il dono dello Spirito Santo. “Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!” Il dono massimo che Dio ha per noi è il dono dello Spirito Santo. Quando siamo stati creati, lui soffiò il suo spirito nelle nostre narici e noi diventammo esseri vivi (Gen 2,7). Nella seconda creazione mediante la Fede in Gesù, lui ci dà di nuovo lo Spirito, lo stesso Spirito che fece che la Parola si incarnasse in Maria (Lc 1,35). Con l’aiuto dello Spirito Santo, il processo di incarnazione della Parola continua fino all’ora della morte in Croce. Alla fine, all’ora della morte, Gesù consegna lo Spirito al Padre: “Nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Gesù ci promette questo spirito come fonte di verità e di comprensione (Gv 14,14-17; 16,13), un aiuto nelle persecuzioni (Mt 10,20; At 4,31). Questo Spirito non si compra a prezzo di denaro al supermercato. L’unico modo di ottenerlo è mediante la preghiera. Dopo nove giorni di preghiera si ottenne il dono abbondante dello Spirito il giorno di Pentecoste (At 1,14; 2,1-4).

4) Per un confronto personale

? Come rispondi alla provocazione della parabola? Una persona che vive in un piccolo appartamento in una grande città, come risponderà? Aprirebbe la porta?
? Quando tu preghi, preghi convinto/a di ottenere ciò che chiedi?

5) Preghiera finale

Renderò grazie al Signore con tutto il cuore,
nel consesso dei giusti e nell’assemblea.
Grandi sono le opere del Signore,
le contemplino coloro che le amano. (Sal 110) 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 6 octobre, 2010 |Pas de commentaires »

Omelia prima lettura Gal 2,12

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/13768.html

Omelia (08-10-2008) 
Eremo San Biagio

Commento a Gal 2,12

Dalla Parola del giorno
“Prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, Cefa prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi.”

Come vivere questa Parola?
Un tratto di fragilità colto in colui a cui Gesù aveva affidato il compito di “confermare i fratelli”, assicurandogli la sua assistenza: “Ho pregato per te”.
Un’ulteriore prova che nessuno è confermato in grazia e che bisogna vigilare continuamente perché l’uomo vecchio tende sempre a far capolino.
Le esigenze della vita cristiana si contrappongono all’andazzo delle masse, oggi come ieri, ed essere ‘segno di contraddizione’ è scomodo. La tentazione di nascondersi dietro modi di fare e di dire che vanno per la maggiore, può insinuarsi spingendo alla simulazione o al silenzio, facilmente interpretato come consenso, condivisione. E il ‘vino delle nozze’ torna ad essere ‘acqua insipida’, il ‘sale’ diviene buono solo per essere calpestato, perché incapace di ridare gusto e senso alla vita.
Un atteggiamento che si vorrebbe minimizzare, si rivela così un vero e proprio tradimento dell’essere cristiano, una contro testimonianza che crea confusione.
Il “guai a me se non evangelizzassi”, di Paolo, dovrebbe non lasciarci in pace e spingerci ad uscire allo scoperto, assumendoci in pieno la responsabilità di tenere accesa ed alta la luce da cui noi stessi siamo stati illuminati e che ora è affidata alle nostre mani, perché il mondo creda e credendo si salvi.

Oggi, nella mia pausa contemplativa, mi lascerò raggiungere dal richiamo di Paolo e mi impegnerò a vivere la mia fede in modo coerente e visibile.

Liberami, Signore, dalla tentazione di simulare posizioni e comportamenti di compiacente acquiescienza all’andazzo comune. Che io sia sale, luce là dove sono chiamato a vivere.

La voce di una testimone di oggi
Dio ci ha fatti alleanza. È per tutti che ciascuno riceve la fede. Una volta che la Parola di Dio è incarnata in noi, non abbiamo il diritto di conservarla per noi: noi apparteniamo, da quel momento, a coloro che l’attendono
Madeleine Delbrêl 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 5 octobre, 2010 |Pas de commentaires »

Omelia prima lettura Gal 2,2

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/19532.html

Omelia (06-10-2010) 
Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno

Esposi loro il Vangelo che io annuncio tra le genti, ma lo esposi privatamente alle persone più autorevoli, per non correre o aver corso invano. (Gal 2,2)

Come vivere questa Parola?
Come una rivelazione aveva aperto a Paolo gli occhi alla fede, così un’ulteriore rivelazione lo sollecita a prendere la via di Gerusalemme per confrontarsi con le « persone più ragguardevoli » circa la dottrina che va predicando con tanto calore.
Una duplice indicazione: depositaria, custode e interprete delle verità di fede è la Chiesa, cioè non un individuo singolo, sia pure illuminato, ma la comunità dei fedeli, che rimane pertanto un impre-scindibile punto di riferimento e di confronto. All’interno di essa, poi, le « persone più ragguardevoli », cioè gli apostoli, costituiscono il perno intorno a cui la stessa comunità si raccoglie, trovando in loro o-rientamento e guida.
Fidarsi unicamente delle proprie intuizioni o anche seguire le ultime stuzzicanti novità senza appurarne la fondatezza lascia adito al rischio o di non correre o di correre invano. Tutto quello che ha il sapore di una nuova conquista è da guardare con sospetto allora? Non è lecito cercare di dare un fon-damento, anche razionalmente più saldo, alla propria fede?
Gesù stesso ha messo sull’avviso che quanto i discepoli di allora, illuminati dalle sue parole, e-rano riusciti a comprendere, era suscettibile di ulteriori approfondimenti. Lo Spirito Santo è stato dona-to alla Chiesa anche per questo. Non solo quindi è possibile cercare di scandagliare i misteri di Dio alla luce della Rivelazione e delle nuove acquisizioni, anche scientifiche, ma è doveroso. Questo tuttavia non esonera dall’umile gesto di confrontarsi con chi può illuminare, come ha fatto Paolo.

Oggi, nella mia pausa contemplativa, rivedrò la mia posizione: sono di quelli che si accontentano di quanto hanno ricevuto alla catechesi di prima comunione fermi ad una fede infantile, oppure sono di quelli che anticipano il Concilio Vaticano III o anche IV?

Mettimi in cuore, Signore, una sana curiosità che mi spinga a interrogarmi e ad interrogare per meglio conoscerti, ma fa’ che essa vada di pari passo con l’umiltà di chi si lascia illuminare.

La voce di un testimone
La fede non è un approdo, ma un sicuro orientamento di grazia verso l’approdo. La traversata continua e faticosamente. Chi non ha la grazia di credere è tentato dall’incertezza e dal timore del niente. Chi ha la grazia di credere è travagliato dalla luce stessa che gli fu comunicata.
Primo Mazzolari 

Omelia per il 6 ottobre 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/13728.html

Omelia (08-10-2008) 
a cura dei Carmelitani

Commento Luca 11,1-4

1) Preghiera

O Dio, fonte di ogni bene,
che esaudisci le preghiere del tuo popolo
al di là di ogni desiderio e di ogni merito,
effondi su di noi la tua misericordia:
perdona ciò che la coscienza teme
e aggiungi ciò che la preghiera non osa sperare.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…

2) Lettura del Vangelo

Dal Vangelo secondo Luca 11,1-4
Un giorno, Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”. Ed egli disse loro: “Quando pregate, dite:
Padre, sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno;
dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
e perdonaci i nostri peccati,
perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore,
e non ci indurre in tentazione”.

3) Riflessione

? Nel vangelo di ieri abbiamo visto Maria seduta ai piedi di Gesù, all’ascolto della sua parola. Chi ascolta la parola di Dio dovrà dare una risposta nella preghiera. Così, il vangelo di oggi dà continuità al vangelo di ieri riportando il passaggio in cui Gesù, con il suo modo di pregare, suscita nei discepoli la voglia di pregare, di imparare da lui a pregare.
? Luca 11,1: Gesù, esempio di preghiera. “Un giorno, Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”. La domanda del discepolo è strana, poiché in quel tempo la gente imparava a pregare fin da piccoli. Tutti pregavano tre volte al giorno, la mattina, a mezzogiorno e la sera. Pregavano molto i salmi. Avevano le loro pratiche di devozione, avevano i salmi, avevano le riunioni settimanali nella sinagoga e gli incontri quotidiani a casa. Ma sembra che non bastasse. Il discepolo voleva di più: “Insegnaci a pregare!” Nell’atteggiamento di Gesù lui scoprì che poteva fare un passo in più, e che per questo aveva bisogno di un’iniziazione. Il desiderio di pregare è in tutti, ma il modo di pregare richiede un aiuto. Il modo di pregare matura lungo la vita e cambia lungo i secoli. Gesù fu un buon maestro. Insegnava a pregare con le parole e con la testimonianza.
? Luca 11,2-4: La preghiera del Padre Nostro. “Gesù rispose: “Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore, e non ci indurre in tentazione”. Nel vangelo di Matteo, in modo assai didattico, Gesù riassume tutto l’insegnamento in sette richieste indirizzate al Padre. Qui nel vangelo di Luca le richieste sono cinque. In queste cinque richieste, Gesù riprende le grandi promesse dell’Antico Testamento e chiede che il Padre ci aiuti a compierle. Le prime tre (o due) ci parlano della nostra relazione con Dio. Le altre quattro (o tre) ci parlano della relazione tra di noi…
Mt – Lc: Introduzione: Padre Nostro che sei nei cieli!
Mt – Lc: 1° richiesta: Santificato sia il tuo Nome
Mt – Lc: 2a richiesta: Venga il tuo Regno
Mt: 3a richiesta: Sia fatta la tua volontà
Mt – Lc: 4a richiesta: Pane di ogni giorno
Mt – Lc: 5a richiesta: Perdono dei debiti
Mt – Lc: 6a richiesta: Non cadere in tentazione
Mt: 7° richiesta: Liberaci dal male
? Padre (Nostro): Il titolo esprime la nuova relazione con Dio (Padre). E’ la base della fraternità
a) Santificare il Nome: Il nome di YAHVÉ. Sono con te! Dio con noi. Dio si fece conoscere con questo NOME (Es 3,11-15). Il Nome di Dio è santificato quando viene usato con fede e non con magia; quando è usato secondo il suo vero obiettivo, cioè: non per l’oppressione, ma per la liberazione della gente e per la costruzione del Regno.
b) Venga il tuo Regno: L’unico signore e re della vita umana è Dio (Is 45,21; 46,9). La venuta del Regno è la realizzazione di tutte le speranze e promesse. E’ la vita piena, il superamento delle frustrazioni sofferte a causa dei re ed i governi dell’uomo. Questo Regno si compirà, quando la volontà di Dio sarà fatta in pieno.
c) Pane di ogni giorno: Nell’esodo, ogni giorno, la gente riceveva la manna nel deserto (Es 16,35). La Provvidenza Divina passava per l’organizzazione fraterna, per la condivisione. Gesù ci invita a compiere un nuovo esodo, un nuovo modo di condividere in fraternità che garantisce il pane per tutti (Mt 6,34-44; Gv 6,48-51).
d) Perdono dei debiti: Ogni 50 anni, l’Anno Giubilare obbligava tutti a perdonare i debiti. Era un nuovo inizio (Lv 25,8-55). Gesù annuncia un nuovo Anno Giubilare, « un anno di grazie da parte del Signore » (Lc 4,19). Il Vangelo vuole ricominciare tutto di nuovo! Oggi, il debito esterno non è perdonato! Luca cambia “debiti” per “peccati”.
e) Non cadere in Tentazione: Nell’esodo, la gente fu tentata e cadde (Dt 9,6-12). Mormorò e volle tornare indietro (Es 16,3; 17,3). Nel nuovo esodo, la tentazione fu superata grazie alla forza che la gente ricevette da Dio (1Cor 10,12-13).
? La testimonianza della preghiera di Gesù nel Vangelo di Luca:
- A dodici anni di età, va al Tempio, nella Casa del Padre (Lc 2,46-50).
- Quando è battezzato ed assume la missione, prega (Lc 3,21).
- Quando inizia la missione, trascorre quaranta giorni nel deserto (Lc 4,1-2).
- Nell’ora della tentazione, affronta il diavolo con i testi della Scrittura (Lc 4,3-12).
- Il sabato Gesù partecipa alle celebrazioni nelle sinagoghe (Lc 4,16).
- Cerca la solitudine del deserto per pregare ( Lc 5,16; 9,18).
- La vigilia della scelta dei dodici Apostoli, trascorre la notte in preghiera (Lc 6,12).
- Prega prima dei pasti (Lc 9,16; 24,30).
- Prima di esporre la realtà e di parlare della sua passione, prega (Lc 9,18).
- Nella crisi, sale sul monte per pregare ed è trasfigurato mentre prega (Lc 9,28).
- Quando il Vangelo è rivelato ai piccoli, dice: “Padre io ti rendo grazie!” (Lc 10,21)
- Pregando, risveglia negli apostoli la volontà di pregare (Lc 11,1).
- Prega per Pietro perché la sua fede non venga meno (Lc 22,32).
- Celebra la Cena Pasquale con i suoi discepoli (Lc 22,7-14).
- Nell’Orto degli Ulivi, prega, mentre suda sangue (Lc 22,41-42).
- Nell’angoscia chiede agli amici di pregare con lui (Lc 22,40.46).
- Nell’ora di essere inchiodato alla croce, chiede perdono per i briganti (Lc 23,34).
- Nell’ora della morte, dice: « Nelle tue mani, consegno il mio spirito! » (Lc 23,46; Sal 31,6)
- Gesù muore lanciando il grido del povero (Lc 23,46).

4) Per un confronto personale

? Prego? Come prego? Cosa significa per me la preghiera?
? Padre Nostro: passo in rivista le cinque richieste e verifico come le vivo nella mia vita.

5) Preghiera finale

Lodate il Signore, popoli tutti,
voi tutte, nazioni, dategli gloria.
Forte è il suo amore per noi
e la fedeltà del Signore dura in eterno. (Sal 116) 

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DAVID UND DIE PSALMEN

 DAVID UND DIE PSALMEN dans immagini sacre 21%20LEIVE%20DAVID%20UND%20DIE%20PSALMEN

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Identità ministeriale e pastorale vocazionale : «Ravviva il dono di Dio» (2Tm 1)

dal sito:

http://www.vocazioni.net/index.php?option=com_content&view=article&id=1476:nelle-lettere-a-timoteo-e-tito-lidentikit-del-sacro-ministro&catid=28:articoli-e-studi-di-esperti&Itemid=128

Identità ministeriale e pastorale vocazionale

«Ravviva il dono di Dio» (2Tm 1)

Di Rinaldo Fabris, Presidente dell’Associazione Biblica Italiana

L’invito di Paolo al suo amato discepolo e fedele collaboratore, Timoteo, nella seconda Lettera: «Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te mediante l’imposizione delle mie mani», sta all’origine del sacramento dell’ordinazione al ministero nella tradizione della Chiesa (2Tm 1,6). Un rimando allo stesso rito si trova nella prima Lettera a Timoteo, dove si riportano le istruzioni dell’apostolo circa i compiti propri di Timoteo, proposto come modello dei pastori: «Non trascurare il dono che è in te e che ti è stato conferito, mediante una parola profetica, con l’imposizione delle mani da parte dei presbìteri» (1Tm 4,14). Il rapporto tra l’imposizione delle mani e il dono di Dio, che viene conferito come dono spirituale permanente, sono gli elementi costitutivi del sacramento dell’ordinazione ministeriale. Questo richiamo al rito dell’ordinazione al ministero si colloca nella cornice delle istruzioni ed esortazioni che l’apostolo invia a Timoteo perché sappia come comportarsi «nella casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità» (1Tm 3,15). L’analisi dei testi, nel rispettivo contesto, consente di tracciare il profilo ideale del ministro del Vangelo e del pastore, chiamato a prolungare il ruolo dell’apostolo Paolo nella Chiesa di Dio (1).

1. L’imposizione delle mani e il dono dello Spirito di Dio

Il testo più chiaro ed esplicito sul rapporto tra imposizione delle mani e dono dello Spirito di Dio si trova nella seconda Lettera a Timoteo (2Tm 1,6). Nell’intestazione della Lettera, Paolo si presenta come «apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio e secondo la promessa della vita che è in Cristo Gesù» (2Tm 1,1). La Lettera è indirizzata a «Timoteo, figlio carissimo» (2Tm 1,1). Nella breve preghiera di ringraziamento, Paolo rende grazie a Dio, ricordando Timoteo nelle sue preghiere «sempre, notte e giorno» (2Tm 1,3). In questo caso l’apostolo aggiunge un tocco che rivela il rapporto profondo e affettuoso con il suo collaboratore: «Mi tornano alla mente le tue lacrime e sento la nostalgia di rivederti per essere pieno di gioia» (2Tm 1,4). Paolo ricorda in particolare la famiglia di Timoteo, dalla quale ha ricevuto la fede cristiana e una solida formazione religiosa: «Mi ricordo infatti della tua schietta fede, che ebbero anche tua nonna Lòide e tua madre Eunice, e che ora, ne sono certo, è anche in te» (2Tm 1,5).
Dagli Atti degli Apostoli sappiamo che la mamma di Timoteo, residente a Listra, nell’Anatolia, era una credente cristiana di origine ebraica, mentre il padre era greco. Durante il viaggio missionario, che intraprende dopo il Concilio di Gerusalemme, Paolo ripassa nella comunità cristiana di Listra e prende con sé Timoteo che «era assai stimato dai fratelli di Listra e di Iconio» (At 16,2). Questa nota dell’autore degli Atti fa capire che Timoteo svolge già un’attività pastorale nelle comunità cristiane della regione anatolica.
Sullo sfondo del ricordo personale della famiglia cristiana di Timoteo si colloca l’invito pressante che Paolo gli rivolge all’inizio delle istruzioni pastorali: «Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani» (2Tm 1,6). Il tenore del testo fa capire che il gesto dell’imposizione delle mani da parte di Paolo per trasmettere il dono di Dio, s’innesta sulla fede familiare di Timoteo. L’apostolo ora lo esorta a «ravvivare il dono di Dio». Il verbo adoperato da Paolo, tradotto in italiano con « ravvivare », evoca l’immagine delle braci sotto la cenere. Perché si sprigioni la fiamma, che illumina e riscalda, il fuoco del focolare deve essere riattizzato. In realtà si tratta del chàrisma toù Theoù, dono che proviene da Dio e che ora è presente in Timoteo, grazie al gesto di imposizione delle mani da parte dell’apostolo.
Nella seconda Lettera a Timoteo, il chàrisma coincide con il dono dello Spirito, che viene da Dio e che ora dimora nell’apostolo e nel suo discepolo. Per incoraggiare Timoteo a condividere la sua testimonianza al Signore e le sue sofferenze nell’annuncio del Vangelo, Paolo rimanda allo Spirito che Dio «ci ha dato», non «uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza» (2Tm 1,7). Egli risale alla chiamata di Dio – klèsis hàgia, « santa chiamata » – che ha come scopo e risultato la salvezza dei credenti. Questa si fonda sull’iniziativa gratuita ed efficace di Dio, che in Cristo Gesù porta a compimento il suo progetto. La grazia di Dio che «ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo, per il quale io sono stato costituito messaggero, apostolo e maestro» (2Tm 1,9-10). Mediante il dono dello Spirito di Dio, ricevuto con l’imposizione delle mani, Timoteo partecipa e prolunga il ministero di Paolo nella proclamazione e testimonianza del Vangelo di Dio. L’apostolo lo esorta a condividere la sua fede e fiducia nel Signore che è «capace di custodire fino a quel giorno ciò che mi è stato affidato» (2Tm 1,12).
L’espressione « quel giorno » indica l’incontro finale con il Signore, che, come giusto giudice, gli darà la corona di giustizia, assieme a tutti quelli che ne attendono con amore la manifestazione (2Tm 4,8). Quello che è stato affidato a Paolo, e che egli ha trasmesso a Timoteo, è he kalè parathèke, « il bel/buon deposito », il Vangelo o la sana dottrina della fede. Perciò lo invita a tenere come punto di riferimento ideale «i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù» (2Tm 1,12). Alla fine rimanda esplicitamente alla presenza e all’azione dello Spirito Santo, che dona la forza di conservare il deposito: «Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato» (2Tm 1,14).
Il termine chàrisma, connesso con il gesto di imposizione delle mani, ricorre anche nella prima Lettera a Timoteo, dove Paolo prescrive al discepolo di presentarsi ai fratelli come «un buon ministro di Cristo Gesù, nutrito dalle parole della fede e della buona dottrina» (1Tm 4,6). Egli paragona l’esercizio della « vera fede », a quello che fanno gli atleti per conseguire un premio di poco conto, «mentre la fede è utile a tutto, portando con sé la promessa della vita presente e di quella futura» (1Tm 4,8). Il contenuto della fede, da accogliere e proporre a tutti, è la «speranza nel Dio vivente, che è il salvatore di tutti gli uomini» (1Tm 4,10). Paolo invita Timoteo a trasmettere con forza e autorevolezza queste cose ai fedeli, sia con l’insegnamento sia con l’esempio «nel parlare, nel comportamento, nella carità, nella fede, nella purezza» (1Tm 4,12). In attesa della venuta dell’apostolo, Timoteo deve dedicarsi «alla lettura, all’esortazione e all’insegnamento», tre aspetti o diversi momenti del ministero della parola (1Tm 4,13). Le esortazioni che seguono fanno leva su questo evento della « ordinazione » presbiterale. Timoteo deve avere cura di queste cose, dedicarsi ad esse interamente, vigilare costantemente su se stesso e sul suo insegnamento, perché questa è la condizione per salvarsi e salvare quelli lo ascoltano (1Tm 4,15-16).
Sullo sfondo di questo ritratto ideale del « ministro di Cristo » e dei suoi compiti, si colloca il richiamo al chàrisma, che gli è stato conferito mediante l’imposizione delle mani: «Non trascurare il dono che è in te e che ti è stato conferito, mediante una parola profetica, con l’imposizione delle mani da parte dei presbìteri» (1Tm 4,14). Qui la novità è rappresentata dal riferimento alla « parola profetica » e al gruppo dei « presbiteri », coinvolti nel gesto di imposizione delle mani. L’espressione dia prophetéias, tradotta « mediante una parola profetica », può indicare sia la preghiera ispirata, che accompagna il gesto di imporre le mani – preghiera liturgica – sia l’intervento dei « profeti » – persone ispirate – che depongono a favore del candidato all’ordinazione (cf 1Tm 1,18; 6,12b). Nella traduzione della CEI (2008) si suppone che i presbiteri come gruppo impongano le mani sul candidato al ministero. Il testo originale greco toù presbyteriou, può essere interpretato diversamente: «Con l’imposizione delle mani per far parte del presbiterio». In ogni caso, con queste espressioni si allude ad un contesto comunitario, dove si fanno preghiere, o si ascoltano le testimonianze ispirate, e i presbiteri, che formano un collegio autorevole, sono partecipi.
L’autore delle Lettere pastorali suppone che i suoi lettori o i destinatari conoscano il significato e la valenza religiosa del gesto di imposizione delle mani. Nella tradizione biblica il gesto di imporre le mani accompagna la preghiera di benedizione o di guarigione, ma è utilizzato anche per trasmettere un incarico. Dio comunica lo spirito di Mose a settanta collaboratori, scelti tra gli anziani di Israele. Nel testo biblico si dice che Dio pone lo spirito su di essi (Nm 11,25.30). Di Giosuè, che prende il posto di Mose nella guida del popolo di Dio, si dice che «era pieno di spirito di saggezza, perché Mose aveva imposto le mani su di lui» (Dt 34,9). Nel Libro dei Numeri si racconta il passaggio dalla guida di Mose a quella del suo successore, Giosuè, mediante il gesto dell’imposizione delle mani. Il Signore ordina a Mose di prendere Giosuè, figlio di Nun, «uomo in cui è lo spirito» (Nm 27,18). Egli deve porre la mano su di lui, farlo comparire davanti al sacerdote Eleazaro e a tutta la comunità e, alla presenza di tutti, deve trasmettergli i suoi ordini e la sua autorità «perché tutta la comunità degli Israeliti gli obbedisca» (Nm 27,19-20). Mose fa come il Signore gli ha ordinato: «Pose su di lui le mani e gli diede i suoi ordini» (Nm 27,23). A questo rito, chiamato in ebraico semikah, si ispira la tradizione giudaica per l’ordinazione dei rabbini.
Tenendo presente la tradizione biblica, si può interpretare il rito di imposizione delle mani nelle lettere pastorali non solo nel senso della trasmissione di un incarico – dall’apostolo al suo successore Timoteo, e da questi ai presbiteri – ma come comunicazione, in un contesto di preghiera, del dono dello Spirito di Dio, corrispondente al compito affidato. Non è casuale che l’autore delle lettere pastorali, per parlare di questo dono, ricorra al termine greco chàrisma, che, nelle lettere autentiche di Paolo, designa sia i doni suscitati dallo Spirito, sia i ministeri disposti da Dio per la nascita e crescita della Chiesa, corpo di Cristo (1Cor 12,4-6.28). Cesare Marcheselli-Casale, nel suo commento, riassume molto bene il significato del gesto di imposizione delle mani quando scrive: «Dio ha dato dunque a Timoteo, attraverso l’imposizione delle mani, un dono speciale che lo ha segnato per l’intero corso della sua vita… Questo dono è lo Spirito di Cristo, fattore funzionale essenziale del e nel ministero di Timoteo. Il compito di guidare la comunità, inoltre, chiede a Timoteo di saper trovare i mezzi e le vie per rendere visibile e concreta la presenza dello Spirito» (2).

2. L’identità del presbitero al servizio del Vangelo

L’apostolo Paolo, che scrive ai suoi discepoli e collaboratori Timoteo e Tito, traccia il profilo del ministro di Cristo, chiamato a servire il Vangelo nella Chiesa. I responsabili della Chiesa in Asia e a Creta devono affrontare una situazione di crisi, provocata dai falsi maestri, che propongono speculazioni sul destino degli uomini genealogie – definite « miti » e favole (1Tm 1,4; 4,7; 2Tm 4,4; Tt 1,14). Il loro insegnamento intacca il patrimonio della fede e minaccia la coesione delle comunità. Il compito del responsabile della comunità è di garantire la trasmissione della fede, richiamandosi alla figura autorevole dell’apostolo Paolo, maestro della verità e araldo del Vangelo. Nel servizio della Parola Dio, identificata con il Vangelo, i responsabili di comunità devono conservare la « sana dottrina » e custodire il « deposito » della fede. Come fedeli discepoli di Paolo, Timoteo e Tito devono scegliere persone fidate, capaci di insegnare la sana dottrina. Paolo esorta Timoteo ad attingere forza dalla grazia che è in Cristo Gesù, per trasmettere le cose che ha udito da lui davanti a molti testimoni, «a persone fidate, le quali a loro volta siano in grado di insegnare agli altri» (2Tm 2,1-2). Due esempi di istruzioni per il servizio della Parola si trovano nella prima e seconda Lettera a Timoteo (1Tm 4,8-16; 2Tm 3,10-4,6).
La sezione di 1Tm 4,8-16 è un piccolo manuale di ciò che deve fare il delegato di Paolo, che ha ricevuto un’investitura mediante l’imposizione delle mani. Egli deve esercitarsi nella « pietà », che riassume i doveri dell’uomo di Dio. Come responsabile della comunità deve combattere, con la speranza, fondata nel Dio vivente, che è il salvatore di tutti. La sua autorevolezza non dipende dall’età, ma dall’incarico e dal carisma ricevuti dall’apostolo. In sua assenza deve dedicarsi « alla lettura » – proclamazione liturgica della Parola del Signore – alla paràklèsis, « esortazione », interpretazione e applicazione della Sacra Scrittura, e alla didaskalia, « insegnamento », catechesi, istruzione, cui si attualizza la Parola di Dio. I compiti specifici di Timoteo – prototipo dei pastori – nella guida della comunità sono concentrati nel ministero della Parola. Per fare questo il discepolo di Paolo può contare sul carisma ricevuto per l’imposizione delle mani dell’apostolo (1Tm 4,14b).
La seconda Lettera a Timoteo è un discorso di addio dell’apostolo, il suo testamento prima di morire come testimone del Vangelo. Timoteo, che lo ha seguito fedelmente nelle sue peregrinazioni e sofferenze, ha imparato come si serve il Vangelo e ha visto chi sono i falsi maestri e quale sarà la loro fine (2Tm 3,10-13). Fin da piccolo ha imparato a conoscere le Sacre Scritture. L’apostolo lo esorta a rimanere fedele e saldo in quello che ha imparato dalla madre e dalla nonna (cf 2Tm 1,5). Le Sacre Scritture offrono la sapienza per la salvezza, che si ottiene «per mezzo della fede in Cristo» (2Tm 3,14-15). Infatti «tutta la Scrittura», in quanto scritta sotto l’azione dello Spirito di Dio – theópneustos – è utile per l’intera opera pastorale, che consiste nell’insegnare, convincere, correggere, formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio – il cristiano – sia preparato ad ogni opera buona. Questo è lo scopo dell’azione pastorale (2Tm 3,16-17). La Parola di Dio, attestata nella Sacra Scrittura, è adatta ed efficace per tutti i compiti pastorali nella comunità dei fedeli (3).
Dato il ruolo preminente della Parola di Dio per la guida e la vita pastorale della comunità cristiana, si comprende il pressante invito di Paolo a Timoteo: «Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento» (2Tm 4,1-2). Sulla base dell’autorità di Dio e di Gesù Cristo, giudice universale, con cinque imperativi si definisce il compito di Timoteo « evangelizzatore », in un contesto dove imperversano i « miti » che rispondono ai gusti e ai capricci degli ascoltatori. Timoteo, prototipo del responsabile della comunità, deve annunciare la Parola di Dio in tutte le forme e in ogni circostanza, poiché è necessario contrastare i falsi maestri. Come modello dei pastori, egli deve vigilare attentamente e svolgere il suo ministero – diakonia – che consiste nell’annuncio del Vangelo (2Tm 4,5).

3. La vocazione del pastore

Nelle Lettere pastorali, che si richiamano alla tradizione dell’apostolo Paolo, si ha un ritratto ideale del pastore, modello e guida della comunità cristiana. Il pastore è l’uomo di Dio, posto al servizio della comunità mediante il « dono spirituale », fonte e fondamento del compito pastorale. Il rito di imposizione delle mani, ripreso dalla tradizione biblica e giudaica, trasmette il chàrisma, « dono » spirituale, corrispondente al compito e al ruolo autorevole dei pastori nella Chiesa (1Tm 4,14; 2Tm 1,6). Paolo incarica i discepoli, Timoteo e Tito di scegliere e stabilire i responsabili nelle singole chiese: episkopos, presbyteroi, diàkonoi (4).
L’episkopos è il sovrintendente o « amministratore di Dio », che deve garantire il buon ordine e l’ortodossia nella chiesa locale. La sua autorità, tramite il discepolo, risale all’apostolo, che traccia il modello del suo compito e del suo stile pastorale. Dato che nelle Lettere pastorali si parla di episkopos al singolare, si pensa che egli sia il rappresentante o presidente del collegio dei presbyteroi. Almeno in un testo si fa riferimento al presbytérion e si menziona anche il ruolo di presidenza dei presbiteri (1Tm 4,14; 5,17). Il modello per questa struttura dell’ordinamento ecclesiale è quello del « consiglio degli anziani » dell’ambiente giudaico.
Anche i diàkonoi, nell’ordinamento ecclesiale delle Lettere pastorali, hanno un ruolo autorevole, perché ai candidati alla diakonia si richiedono qualità analoghe a quelle del candidato all’episokpè e al compito di presbiteri ( 1Tm 3,8-13). La qualifica di « diacono di Gesù Cristo » è data a Timoteo, proposto come modello di tutti i pastori nella Chiesa (1Tm 4,6). La sua attività, come quella dell’apostolo, è presentata come diakonia (1Tm 1,12; 2Tm 4,5.11). Dal momento che si parla di « diaconi » e di « diaconia » solo nella prima e seconda Lettera a Timoteo, si può pensare che questa forma di ministero sia propria di alcuni centri ecclesiali più importanti, con strutture più articolate.
I requisiti del pastore sono quelli di un cristiano maturo, capace di stabilire relazioni positive tra tutti i componenti della comunità. Il candidato all’episokpè deve essere «irreprensibile, marito di una sola donna, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro» (1Tm 3,2-3). Le qualità elencate per il responsabile della comunità cristiana sono quelle che, nell’ambiente greco-romano, si richiedono a quanti svolgono una funzione pubblica. L’episkopos-presbyteros, come capo della comunità cristiana, non solo dà il tono allo stile di vita dei suoi membri, ma la rappresenta all’esterno. Un tratto distintivo dell’episkopos-presbyteros, come quello dei diàkonoi, è di essere uno sposo fedele e un padre di famiglia, che sa educare i propri figli: «Perché, se uno non sa guidare la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?» (1Tm 3,5; cf 3,12; Tt 1,7-9). Il modello dei rapporti di comunità è quello della famiglia – óikos – perché la Chiesa è la « casa-famiglia di Dio » (1Tm 3,15) . I rapporti del pastore della comunità con le varie categorie di persone si ispirano al modello delle relazioni familiari: «Non rimproverare duramente un anziano, ma esortalo come fosse tuo padre, i più giovani come fratelli, le donne anziane come madri e le più giovani come sorelle, in tutta purezza» (1Tm 5,1-2; cf Tt 2,3). A tutti i cristiani si propone un ideale di vita spirituale, dove si coniugano insieme i valori umani – saggio equilibrio – e la coerenza tra fede e prassi per una testimonianza credibile.

4. Conclusioni

Come la chiamata alla fede, mediante l’annuncio del Vangelo, risale alla libera e gratuita iniziativa di Dio – chàris -, così il ruolo e il compito di guida responsabile della comunità dei credenti si fondano su un dono, il chàrisma, comunicato mediante l’imposizione delle mani. Nel gruppo delle Lettere pastorali, dove un paio di volte si fa riferimento a questo evento – chàrisma trasmesso con l’imposizione delle mani – si definisce l’identità del responsabile della Chiesa come servizio alla Parola di Dio, adatta ed efficace per ogni attività pastorale. Il pastore, chiamato a guidare la comunità, deve essere una persona capace di relazioni positive, in grado di dare buona testimonianza anche nell’ambiente esterno. Nella Chiesa, « famiglia di Dio », le relazioni si ispirano al modello familiare. Perciò il pastore responsabile deve essere uno sposo fedele e un buon padre, capace di trasmettere il Vangelo di Dio e di educare alla fede.

Note

1. Il gruppo delle Lettere pastorali – due a Timoteo e una a Tito – sostanzialmente omogenee per stile e contenuto, sono state scritte da un discepolo di Paolo, dopo la sua morte, per attualizzare e applicare il messaggio dell’apostolo in un nuovo contesto e in una diversa situazione vitale delle comunità cristiane (R. FABRIS, La tradizione paolina, Dehoniane, Bologna 1995; R. FABRIS – S. ROMANBXO, Introduzione alla lettura di Paolo, Boria, Roma 2006; 22009, pp. 169-173.
2. C. MARCHESELLI-CASALE, Le Lettere pastorali, Dehoniane, Bologna 1995, p. 650; cf P. IOVINO, Lettere a Timoteo. Lettera a Tito, Paoline, Milano 2005, pp. 116.184.
3. R. FABRIS, « LO Spirito santo e le Scritture in 2Tm e 2P ». in E. MANICARDI – A. POTA (edd.), Spirito di Dio e Sacre Scritture nelVautotestimonianza della Bibbia. XXXVSettimana Biblica Nazionale, Ricerche Storico Bibliche 12,1-2 (2000), pp. 297-320.
4. G. DE VIRGILIO (ed.), Chiesa e ministeri in Paolo, Dehoniane, Bologna 2003.

(Rinaldo Fabris, «Ravviva il DONO di DIO» (2Tm 1), Identità ministeriale e pastorale vocazionale, in « Vocazioni », n. 1, Gennaio/Febbraio 2010, pp. 5-14)
 

LA PREDESTINAZIONE DI CRISTO IN PAOLO E DUNS SCOTO

dal sito:

http://www.centrodunsscoto.it/articoli/La-predistinazione_di_cristo.pdf

LA PREDESTINAZIONE DI CRISTO IN PAOLO E DUNS SCOTO

Il nucleo attorno al quale si organizza l’intera visione teologica di Paolo è certamente l’annuncio del “disegno di Dio”. Lo si evince da Atti (20, 27), dove dichiara solennemente di aver annunciato “tutta la volontà di Dio”, e dalle lettere ai Romani (1,4; 8, 28-31) e agli Efesini (1, 3-14), in cui vengono presentate in rapida successione le tappe fondamentali del disegno di Dio: predestinazione, vocazione, giustificazione e glorificazione. Certamente queste tappe non sono da intendersi come successione temporale, perché Dio è assolutamente semplice, ma semplicemente come momenti logici del volere divino comprensibili al linguaggio umano.
La difficoltà maggiore di questi logici momenti è data sicuramente dal termine “predestinazione”, che costituisce ancora oggetto di approfondimento, e dalla cui risposta dipende anche il odo di interpretare il dato rivelato e, quindi, fare teologia. Poiché di questo argomento il beato Giovanni Duns Scoto ne ha discusso con una certa attenzione, è sembrato utile proporre in via del tutto schematica sia la prospettiva paolina sia la riflessione scotiana, in occasione del secondo millennio della nascita dell’Apostolo delle Genti (ca 8 a. C.), e del settimo centenario della morte del Dottor Sottile (1308-2008), così da assistere a un dialogo a distanza molto interessante per la teologia e la spiritualità.

1. Affermazioni di Paolo
Le affermazioni più esplicite di Paolo circa la “predestinazione di Cristo” si trovano sparse specialmente in quei luoghi in cui annuncia il “disegno di Dio”. Il primo testo da prendere in
considerazione è certamente quello ai Romani (8, 28-31): “Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli che ha anche ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che giustificati li ha anche glorificati”. A questo testo è bene avvicinare anche l’inizio del possente e impressionante inno al disegno di Dio nella lettera agli Efesini (1, 3-14):
-“Benedetto sia Dio, Padre del Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui [Cristo] ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi [del Padre] per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto; nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha abbondantemente riversata su di noi con ogni sapienza e intelligenza, poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra. In lui siamo stati fatti anche eredi, essendo stati predestinati secondo il piano di colui che tutto opera efficacemente conforme alla sua volontà, perché noi fossimo a lode della sua gloria, noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo”.
Questo “disegno” appartiene al mondo dell’eternità, si realizza nella pienezza del tempo e s’identifica con il mistero di Cristo, di cui lo stesso Paolo è stato costituito ministro (Ef 3, 1-12). Mistero che solo oggi – rivela Paolo – è stato rivelato e portato a conoscenza delle genti (Rm 16, 25-26). E dei tre momenti salienti del disegno di Dio – predestinazione redenzione e glorificazione – qui viene preso in considerazione soltanto il primo, perché più
rispondente ai fini della riflessione. Il testo più famoso e anche il più discusso è certamente quello ai Romani (1, 3-4): “Cristo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, [è] costituito [predestinato] Figlio di Dio, con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la resurrezione dai morti“. Il termine che ha richiamato l’attenzione degli studiosi è certamente quello di “predestinato”, dal latino della Volgata “praedestinatus”, che a sua volte traduce il greco “horisthentos” e anche “prohoristhentos”. Pur nella pluralità semantica del termine – destinare costituire separare scegliere – in cui i vari testi compaiono (Rm 1, 4; At 10, 42; 17, 31; ect.), si tratta sempre della predestinazione eterna dell’evento Cristo da parte di Dio. L’espressione “predestinazione di Cristo” è carica di un potenziale che il tempo non riuscirà a comprenderne a pieno il significato. L’enunciazione: nella predestinazione di Cristo siamo eletti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati davanti a lui nell’amore, e siamo predestinati alla filiazione adottiva mediante l’assimilazione a Cristo nella grazia della sua gloria, che si è manifestata in Cristo.
Difatti, in Dio il semplice dichiarare ha lo stesso valore che insediare, costituire, predestinare, perché una qualsiasi designazione a favore di Cristo non può non corrispondere a ciò che egli già è, e proprio dall’inizio del mondo, a partire dall’eternità per decreto di Dio. L’espressione “predestinazione di Cristo” viene precisato dai testi paralleli in cui si precisa la personalità dello stesso Cristo, come ad es. nella ai Colossesi (1, 15-20): “Egli [Cristo] è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è primo di tutte le cose e tutte sussistono in lui. Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle che stanno nei cieli”. Cristo viene presentato da Paolo strettamente associato al Padre nella sua attività creatrice, cioè come causa efficiente, formale e finale di tutta la creazione, in quanto “in Cristo abita corporalmente la pienezza della divinità” (Col 2, 9), e come “Primogenito di ogni creatura… tutto è stato creato per mezzo di lui e tutto sussiste in lui” (Col 1, 15-17). Difatti nella prima ai Corinzi (8, 6-7) scrive: “per noi c’è un Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui”. Le due lettere hanno in comune alcune caratteristiche che possono sintetizzarsi così: disegno di Dio, ricchezza di titoli e universalità delle affermazioni. L’intento di Paolo è di far conoscere il segreto disegno di Dio ad extra, basato sul “beneplacito della volontà del Padre”, tutto incentrato sulla predestinazione di Cristo, da cui dipende la nostra elezione e la nostra stessa predestinazione. Il discorso di Paolo è al presente, perché sempre attuale e presente è la predestinazione di Cristo, da cui provengono tutti i benefici all’uomo. Per questo Cristo viene celebrato anche come l’unico e autentico Mediatore tra Dio e gli uomini e tra gli uomini e Dio. E’ fuori dubbio che il soggetto principale del piano divino secondo i brani citati è Cristo, e che Cristo costituisce anche il Mediatore attraverso cui tutto ciò che Dio liberamente nella sua infinita bontà ha disposto di comunicare alle creature, lo vuole racchiuso in Cristo e da lui diffuso alle medesime. Difatti, per questo Dio “si compiacque di far abitare in Cristo tutta la pienezza della sua divinità”. Per esprimere questa priorità di Cristo in ordine alle creature, Paolo utilizza in poco spazio una tale ricchezza di “titoli” da far pensare a una cascata di gioielli: in ordine al Dio invisibile, lo presenta come “Immagine visibile”; in ordine alle creature tutte, come il “Primogenito”, cioè il Primo fra tutti; in ordine alla Chiesa, come Capo della sua elevazione; e in ordine a tutti gli esseri, come Principio della loro creazione e come Primogenito dei morti. E su tutti gli esseri, in cielo e sulla terra, Cristo è “al di sopra di tutto”, e “in tutte le cose Egli tiene il primato”, anche sul tempo perché eterno.
Altra caratteristica delle due lettere può essere l’universalità delle affermazioni. In brevissimo spazio, Paolo utilizza il termine “tutto” ben sei volte. Tutto è sottoposto all’influsso di Cristo: di tutte le creature egli è il Primo, perché causa efficiente, formale e finale; tutti gli esseri creati, perciò, devono a lui esistenza e conservazione. Il termine “tutto” viene anche chiarito da un passo della prima lettera ai Corinzi : «Quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa» (15, 27), cioè “tutto” vuol dire eccetto Dio, perché Dio non può essere soggetto a nessuno.

2. Posizione di Duns Scoto
Il tema della predestinazione è molto delicato e complesso. Qui viene accennato solo per definire la posizione di Cristo nel piano divino. Duns Scoto definisce in vari modi la predestinazione: «l’ordine di elezione attraverso la volontà divina di una creatura intellettuale o razionale alla grazia e alla gloria»1; e «il libero ed eterno decreto di Dio che preordina qualcuno alla gloria, e a tutto il resto solo come mezzo che conduce alla gloria»2.
La predestinazione riguarda tutti gli esseri ad extra di Dio, cioè Cristo, Maria, angeli, uomo, cose; e si realizza massimamente in Cristo, voluto per rendere la massima gloria estrinseca a Dio. E nell’euforia della sua intuizione, arriva a dire, per assurdo, che «se non fosse caduto né l’angelo e né l’uomo, Cristo sarebbe stato predestinato ugualmente anche se nessun altro essere fosse da creare»3.

 Si può parlare di una predestinazione di Cristo?
Alcuni autori rispondono di no; altri, sì. Tra questi ultimi c’è anche Duns Scoto4, che poggia la sua posizione sul testo di Paolo ai Romani: «Cristo è nato dalla stirpe di Davide secondo la carne ed è stato ‘predestinato’ Figlio di Dio in potenza» (1, 3-4), fondamentale per la sua cristologia. Primo punto da precisare è la posizione di Cristo nel disegno divino, cioè nel modo con cui tutte le opere di Dio hanno origine ad extra.
Nel concetto di predestinazione, Duns Scoto distingue due momenti logici: uno eterno, riguardante l’intenzione divina; l’altro temporale, riguardante la volontà divina che realizza le cose previste in modo “assoluto” e “simultaneo”. Di conseguenza definisce la predestinazione anche come «atto della volontà divina che elegge una creatura intellettuale alla grazia e alla gloria»5. Per quanto riguarda l’oggetto della predestinazione le ipotesi sono ugualmente due: quella riferita alla “persona”, e quella alla “natura”; per la prima, Cristo non può essere in nessun modo predestinato6; mentre per la seconda, Cristo può essere oggetto di predestinazione, perché è la natura umana a essere predestinata e non il Verbo7. Nella seconda ipotesi trova spazio la distinzione tra “predestinazione dell’uomo” e “predestinazione di Cristo”: la prima si realizza nella persona; e la seconda nella natura, per rispetto del mistero dell’Incarnazione. Benché l’uomo e Cristo siano stati predestinati ante fabricam mundi, tuttavia la loro predestinazione è qualitativamente diversa, perché nell’uomo la natura sussiste nella propria persona, mentre in Cristo la natura umana viene predestinata alla gloria non come sussistente in sé, ma come sussistente nella persona del Verbo8. Con questa precisazione si entra nel cuore del cristocentrismo. Il Dottor Sottile precisa che il termine “Cristo-uomo” è predestinato a essere Figlio di Dio, e fa da fondamento all’altra “Cristo, come Figlio di Dio, è predestinato a essere uomo”. Il Dottor Sottile afferma così che l’attività ad extra di Dio è rivolta direttamente all’umanità di Cristo, che, assunta dallo stesso Verbo, sarà mezzo di salvezza e di stabilità per tutti gli esseri. Pertanto, Cristo è considerato prima come uomo nella sua gloria, cioè come fine della predestinazione, e poi nella sua unione ipostatica, ossia come mezzo per raggiungere tale fine. In altre parole, Cristo è contemplato nell’unico atto di predestinazione e nel piano ontologico e piano storico, con la logica precedenza dell’uno sull’altro. E così riporta l’attenzione sul disegno salvifico di Dio.

Conclusione

Con l’interpretazione scotiana della predestinazione di Cristo, si tiene vivo il delicato rapporto tra mistero dell’Incarnazione e mistero della Redenzione. Per Duns Scoto il rapporto si risolve a vantaggio del primato assoluto di Cristo, in cui la redenzione è considerata meno un dono dovuto che un dono grande e libero di Cristo, che per questo merita il massimo riconoscimento e ringraziamento da parte dell’uomo. In forza di questo dono d’amore cristico, previsto da tutta l’eternità e continuato nella storia, Cristo è causa meritoria di ogni grazia per qualsiasi essere razionale. Attraverso il suo mistero pasquale, Cristo “brilla d’amore supremo” e diviene realmente unico Mediatore tra Dio e l’uomo, nel senso che questi non può ottenere né remissione né grazia né altro aiuto e neppure raggiungere il suo fine ultimo senza il Cristo e tramite il Cristo. Questo dialogo a distanza tra Paolo e Duns Scoto sulla predestinazione di Cristo tiene sempre vivo e attuale la prospettiva cristocentrica universale: l’amore è amore, e il dono d’amore o è libero o non è amore.

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NOTE

1Ordinatio, I, d. 40, q. un., n. 4: «Praedestinatio proprie sumpta dicit actum voluntatis divinae,
videlicet ordinationem per voluntatem divinam electionis alicuius creaturae intellectualis vel
rationalis ad gratia et gloriam». In senso più largo entra nel concetto di predestinazione anche
l’intelletto divino, che accompagna l’elezione. Per questo cf Lectura, I, d. 40, q. un., nn. 21-27.
2Ordinatio, III, d. 7, q. 3, n. 2: «Praedestinatio est praeordinatio alicuius ad gloriamprincipaliter et ad alia in ordine ad gloriam». Vedi anche Reportata parisiensia, III, d. 40, q. 4, n. 2.
Per una trattazione specifica cf W. Pannenberg, La dottrina della predestinatione di Duns Scoto,
ed. Biblioteca Francescana, Milano 1994.
3Reportata parisiensia, III, d. 7, q. 4, n. 4
4 Ordinatio, III, d. 7, q. 3.
5Ordinatio, I, d. 40, q. unica, n. 4: «Praedestinatio proprie dicit actum voluntatis divinae,
videlicet ordinationem per voluntatem divinam electionis alicuius creaturae intellectualis vel
rationalis ad gratia et gloriam».
6Cf Summa theologica, III, q. 24, a. 1.
7Cf Ordinatio, III, d. 7, q. 3.
8Cf Reportata parisiensia, III, d. 7, q. 4 e q. 3.

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