Archive pour octobre, 2010

LUNEDÌ 4 OTTOBRE 2010 – XXVII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

LUNEDÌ 4 OTTOBRE 2010 – XXVII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

SAN FRANCESCO D’ASSISI (f)

MESSA DEL GIORNO

Seconda Lettura  Gal 6,14-18
Il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo.
 
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati
Fratelli, quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo.
Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura. E su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia, come su tutto l’Israele di Dio.
D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo.
La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con il vostro spirito, fratelli. Amen

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dalla lettera agli Efesini di san Paolo, apostolo 4, 1-24

A ciascuno è stata data la sua grazia, per edificare il corpo di Cristo
Fratelli, vi esorto io, il prigioniero del Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti.
A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Per questo sta scritto: Ascendendo in cielo ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini (Sal 67, 19).
Ma che significa la parola «ascese», se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose.
E’ lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo. Questo affinché non siamo più come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l’inganno degli uomini, con quella loro astuzia che tende a trarre nell’errore. Al contrario, vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità.
Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani nella vanità della loro mente, accecati nei loro pensieri, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro, e per la durezza del loro cuore. Diventati così insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza, commettendo ogni sorta di impurità con avidità insaziabile.
Ma voi non così avete imparato a conoscere Cristo, se proprio gli avete dato ascolto e in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, per la quale dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici. Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera.

Responsorio   1 Cor 2,4.2
R. La mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, * ma sulla manifestazione dello spirito e della sua potenza.
V. Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo e questi crocifisso,
R. ma sulla manifestazione dello spirito e della sua potenza.

Seconda Lettura
Dalla «Lettera a tutti i fedeli» di san Francesco d’Assisi
(Opuscoli, ed. Quaracchi 1949, 87-94)

Dobbiamo essere semplici, umili e puri
Il Padre altissimo fece annunziare dal suo arcangelo Gabriele alla santa e gloriosa Vergine Maria che il Verbo del Padre, così degno, così santo e così glorioso, sarebbe disceso dal cielo, e dal suo seno avrebbe ricevuto la vera carne della nostra umanità e fragilità. Egli, essendo oltremodo ricco, volle tuttavia scegliere, per sé e per la sua santissima Madre, la povertà.
All’approssimarsi della sua passione, celebrò la Pasqua con i suoi discepoli. Poi pregò il Padre dicendo: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice» (Mt 26, 39).
Pose tuttavia la sua volontà nella volontà del Padre. E la volontà del Padre fu che il suo Figlio benedetto e glorioso, dato per noi e nato per noi, offrisse se stesso nel proprio sangue come sacrificio e vittima sull’altare della croce. Non si offrì per se stesso, non ne aveva infatti bisogno lui, che aveva creato tutte le cose. Si offrì per i nostri peccati, lasciandoci l’esempio perché seguissimo le sue orme (cfr. 1 Pt 2, 21). E il Padre vuole che tutti ci salviamo per mezzo di lui e lo riceviamo con puro cuore e casto corpo.
O come sono beati e benedetti coloro che amano il Signore e ubbidiscono al suo Vangelo! E’ detto infatti: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore e con tutta la tua anima, e il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10, 27). Amiamo dunque Dio e adoriamolo con cuore puro e pura mente, perché egli stesso questo ricerca sopra ogni cosa quando dice «I veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4, 23). Dunque tutti quelli che l’adorano devono adorarlo in spirito e verità. Rivolgiamo a lui giorno e notte lodi e preghiere, perché dobbiamo sempre pregare e non stancarci mai (cfr. Lc 18, 1), e diciamogli: «Padre nostro, che sei nei cieli» (Mt 6, 9).
Facciamo inoltre «frutti degni di conversione» (Mt 3, 8) e amiamo il prossimo come noi stessi. Siamo caritatevoli, siamo umili, facciamo elemosine perché esse lavano le nostre anime dalle sozzure del peccato.
Gli uomini perdono tutto quello che lasciano in questo mondo. Portano con sé solo la mercede della carità e delle elemosine che hanno fatto. E’ il Signore che dà loro il premio e la ricompensa.
Non dobbiamo essere sapienti e prudenti secondo la carne, ma piuttosto semplici, umili e casti. Non dobbiamo mai desiderare di essere al di sopra degli altri, ma piuttosto servi e sottomessi a ogni umana creatura per amore del Signore. E su tutti coloro che avranno fatte tali cose e perseverato fino alla fine, riposerà lo Spirito del Signore. Egli porrà in essi la sua dimora ed abitazione. Saranno figli del Padre celeste perché ne compiono le opere. Saranno considerati come fossero per il Signore o sposa o fratello o madre.

Responsorio   Mt 5, 3. 5. 6
R. Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli! * Beati i miti, perché erediteranno la terra!
V. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati!
R. Beati i miti, perché erediteranno la terra!

Omelia per l’8 ottobre 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/13744.html

Omelia (10-10-2008) 
a cura dei Carmelitani

1) Preghiera

O Dio, fonte di ogni bene,
che esaudisci le preghiere del tuo popolo
al di là di ogni desiderio e di ogni merito,
effondi su di noi la tua misericordia:
perdona ciò che la coscienza teme
e aggiungi ciò che la preghiera non osa sperare.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…

2) Lettura del Vangelo

Dal Vangelo secondo Luca 11,15-26
In quel tempo, dopo che Gesù ebbe scacciato un demonio, alcuni dissero: “È in nome di Beelzebul, capo dei demoni, che egli scaccia i demoni”. Altri poi, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo.
Egli, conoscendo i loro pensieri, disse: “Ogni regno diviso in se stesso va in rovina e una casa cade sull’altra. Ora, se anche satana è diviso in se stesso, come potrà stare in piedi il suo regno? Voi dite che io scaccio i demoni in nome di Beelzebul. Ma se io scaccio i demoni in nome di Beelzebul, i vostri discepoli in nome di chi li scacciano? Perciò essi stessi saranno i vostri giudici. Se invece io scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio.
Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, tutti i suoi beni stanno al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via l’armatura nella quale confidava e ne distribuisce il bottino.
Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde.
Quando lo spirito immondo esce dall’uomo, si aggira per luoghi aridi in cerca di riposo e, non trovandone, dice: Ritornerò nella mia casa da cui sono uscito. Venuto, la trova spazzata e adorna. Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui ed essi entrano e vi alloggiano e la condizione finale di quell’uomo diventa peggiore della prima”.

3) Riflessione

? Il vangelo di oggi ci parla di una lunga discussione attorno all’espulsione di un demonio muto che Gesù aveva compiuto dinanzi alla gente.
? Luca 11,14-16: Tre diverse reazioni dinanzi alla stessa espulsione. Gesù stava scacciando demoni. Dinanzi a questo fatto ben visibile, davanti a tutti, si ebbero tre reazioni diverse. La gente rimase ammirata, applaudì. Altri dicevano: « È in nome di Beelzebul, capo dei demoni, che egli scaccia i demoni”. Il vangelo di Marco dice che si trattava di scribi che erano venuti a Gerusalemme per controllare l’attività di Gesù (Mc 3,22). Altri chiedevano ancora un segno dal cielo, perché non erano convinti dal segno così evidente dell’espulsione fatta dinanzi a tutta la gente.
? Luca 11,17-19: Gesù mostra l’incoerenza degli avversari. Gesù usa due argomenti per ribadire l’accusa di stare scacciando un demonio in nome di Beelzebul. In primo luogo, se il demonio scaccia il proprio demonio, divide se stesso e non sopravvive. In secondo luogo, Gesù gli restituisce l’argomento: Ma se io scaccio i demoni in nome di Beelzebul, i vostri discepoli in nome di chi li scacciano? Con queste parole, anche loro stavano scacciando demoni in nome di Beelzebul.
? Luca 11,20-23: Gesù è l’uomo più forte che è venuto, segno dell’arrivo del Regno. Qui Gesù ci porta nel punto centrale del suo argomento: “Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, tutti i suoi beni sono al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via l’armatura sulla quale contava e ne distribuisce il bottino”. Nell’opinione della gente di quel tempo, Satana dominava il mondo mediante i demoni (daimônia). Era un uomo forte e ben armato che guardava la sua casa. La grande novità era il fatto che Gesù riusciva a scacciare i demoni. Segno che era ed è l’uomo più forte che è venuto. Con l’arrivo di Gesù il regno di Beelzebul entra in declino: “Se invece io scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio”. Quando i magi del Faraone videro che Mosè faceva cose che loro non erano capaci di fare, furono più onesti degli scribi dinanzi a Gesù e dissero: “Qui c’è il dito di Dio!” (Es 8,14-15).
? Luca 11,24-26: La seconda caduta è peggio della prima. All’epoca di Luca negli anni 80, di fronte alle persecuzioni, molti cristiani ritornarono indietro ed abbandonarono le comunità. Ritornarono a vivere come prima. Per avvertire loro e tutti noi, Luca conserva queste parole di Gesù sulla seconda caduta che è peggiore della prima.
? L’espulsione dei demoni. Il primo impatto causato dall’azione di Gesù tra la gente è l’espulsione dei demoni: “Perfino agli spiriti impuri dà ordini e gli obbediscono!” (Mc 1,27). Una delle cause principali della discussione di Gesù con gli scribi era l’espulsione dei demoni. Essi lo calunniavano dicendo: “E’ posseduto da Beelzebul! “È in nome di Beelzebul, capo dei demoni, che egli scaccia i demoni!” Il primo potere che gli apostoli ricevettero quando furono mandati in missione fu quello di poter scacciare i demoni: “Dette loro potere sugli spiriti immondi” (Mc 6,7). Il primo segnale che accompagna l’annuncio della resurrezione è l’espulsione dei demoni: “I segnali che accompagneranno coloro che credono sono questi: scacceranno i demoni nel mio nome!” (Mc 16,17). L’espulsione dei demoni era ciò che più colpiva la gente (Mc 1,27). Raggiungeva il centro della Buona Novella del Regno. Per mezzo dell’espulsione Gesù restituiva le persone a sé stesse. Restituiva loro il giudizio, la coscienza (Mc 5,15). E soprattutto il vangelo di Marco, dall’inizio fino alla fine, con parole quasi uguali, riporta senza sosta la stessa immagine: “E Gesù scacciava i demoni!” (Mc 1,26.34.39; 3,11-12.22.30; 5,1-20; 6,7.13; 7,25-29; 9,25-27.38; 16,17). Sembra un ritornello che si ripete sempre. Oggi, invece di usare sempre le stesse parole, useremmo parole diverse per trasmettere la stessa immagine e diremmo: “Il potere del male, Satana, che fa tanta paura alla gente, Gesù lo vinse, lo dominò, lo afferrò, lo sconfisse, lo scacciò, lo eliminò, lo sterminò, lo distrusse e lo uccise!” Il Vangelo ci vuol dire con questo che: “Al cristiano è proibito aver paura di Satana!” Per la sua risurrezione e per la sua azione liberatrice, Gesù allontana da noi la paura di Satana, dà libertà al cuore, fermezza nell’azione e fa spuntare la speranza sull’orizzonte! Dobbiamo camminare lungo la Strada di Gesù con il sapore della vittoria sul potere del male!

4) Per un confronto personale

? Scacciare il potere del male. Qual è oggi il potere del male che massifica la gente e gli ruba la coscienza critica?
? Puoi dire di te stesso/a che sei totalmente libero/a e liberato/a? In caso di risposta negativa, qualche parte di te è sotto il potere di altre forze. Cosa fai per scacciare questo potere che ti domina?

5) Preghiera finale

Le opere del Signore sono splendore di bellezza,
la sua giustizia dura per sempre.
Ha lasciato un ricordo dei suoi prodigi:
pietà e tenerezza è il Signore. (Sal 110)

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 7 octobre, 2010 |Pas de commentaires »

IMMAGINE PER OGGI: B.V. DEL ROSARIO

IMMAGINE PER OGGI: B.V. DEL ROSARIO dans immagini sacre

http://www.santiebeati.it/

Publié dans:immagini sacre |on 7 octobre, 2010 |Pas de commentaires »

SALMI 113-118: L’HALLEL EGIZIANO

dal sito:

http://www.paroledivita.it/upload/2005/articolo5_25.asp

SALMI 113-118: L’HALLEL EGIZIANO
 
Rita Torti Mazzi

I Sal 113-118 costituiscono l’Hallel, che già nel Talmud babilonese è detto «egiziano», in quanto, come commenta Rashi a bBerakot 56a[1], è detto a Pasqua per celebrare l’uscita dall’Egitto. Secondo i maestri furono scelti questi salmi, perché contengono cinque temi fondamentali della fede giudaica: l’esodo (Sal 114,1), la divisione del Mar Rosso (Sal 114,3), il dono della Torah al Sinai (Sal 114,4; cf. Gdc 5,4-5), la risurrezione dei morti (Sal 116,9) e la sofferenza che precede la venuta del Messia (Sal 115,1) (bPesachim 118a). Tutto converge verso la Pasqua ultima, verso la redenzione messianica.
L’Hallel è nato per la Pasqua e la sua origine sarebbe molto antica: «Al tempo in cui Israele uscì dall’Egitto, uscì dalla sua schiavitù di fango e mattoni, fu allora che dissero l’Hallel» (Midrash Salmi 113,2). Se Rabbi Eleazaro l’attribuiva a Mosè e al popolo d’Israele «quando erano risaliti dal mare», altri invece l’attribuivano a Davide, ma si preferiva la prima opinione, perché non sembrava possibile «che il popolo d’Israele avesse offerto l’agnello pasquale o preso i rami di palma [il lulav, composto da palma, mirto, salice e cedro, che si agita a Sukkot], senza avere mai detto canto [di lode]» (bPesachim 117a).

L’Hallel nella liturgia di Israele

Si sa dalla Mishnah che l’Hallel era cantato nel tempio durante gli otto giorni della festa delle Capanne (Sukkah IV 5), il 14 Nisan, nel momento in cui nel tempio si offriva il sacrificio pasquale (Pesachim V 7), e nelle case durante il Seder pasquale (Pesachim X 6). Dopo la distruzione del tempio divenne parte integrante della liturgia sinagogale. Il Talmud stabilisce che si reciti completo, dopo la camidah (preghiera delle Diciotto benedizioni) del mattino, negli otto giorni della festa delle Capanne (Sukkot), negli otto giorni della «festa delle luci» (o della «Dedicazione», Chanukkah), nel primo giorno di Pasqua (Pesach) e della festa delle Settimane (Shavucot) [nella diaspora nei primi due giorni] e nel Seder pasquale (bArachin 10b). Si recita invece abbreviato (omettendo i Sal 115,1-11 e 116,1-11) negli ultimi sei giorni di Pesach (secondo il Midrash Dio rimproverò gli angeli che si apprestavano a intonare canti di giubilo mentre gli egiziani perivano nel mare, dicendo: «Le opere delle mie mani periscono nel mare e voi osate cantare canti di giubilo?») e anche all’inizio di ogni mese (Rosh Chodesh), secondo un uso sviluppatosi prima in Babilonia e poi in Israele (bTaanit 28b).
Nel Seder pasquale si recita l’Hallel diviso. Prima di bere la seconda coppa, chi presiede ricorda che in ogni generazione ognuno ha l’obbligo di considerarsi come se egli stesso fosse uscito dall’Egitto (cf. Es 13,8) e per questo deve «ringraziare, lodare, glorificare, esaltare colui che ha fatto ai nostri padri e a noi tutti questi miracoli […]. Diciamo dunque davanti a lui: Alleluia!» (Pesachim X 5). Seguono i Sal 113-114 e poi la benedizione della «redenzione», di cui la seconda parte, attribuita a Rabbi Aqiba (verso il 135 d.C.), ha un evidente carattere messianico (Pesachim X 6).
La seconda parte dell’Hallel (Sal 115-118) si recita invece dopo il pasto sulla quarta coppa e si conclude con la «benedizione del canto» (bPesachim 118a).
Non si sarebbe potuto recitare l’Hallel al di fuori della festa: chi lo dice ogni giorno lo svilisce e lo profana (bShabbat 118b). La gioia che vi si esprime è incontenibile: deve essere cantato «con bellezza» (Cantico Rabba II 31) e cioè con forza, con entusiasmo. Si dice: «La Pasqua “nella casa” e l’hallel fora il tetto» (Cantico Rabba, II 31)[2]. Uno dei modi più comuni e antichi di recitarlo comporta la ripetizione di «alleluia» da parte dell’assemblea a ogni mezzo versetto dei salmi: complessivamente 123 volte[3].

Unità e molteplicità

L’Hallel è sempre stato sentito nella tradizione ebraica come un unico poema, con cui Israele loda il Signore per le meraviglie da lui compiute e lo ringrazia. È composto secondo un ordine; se non si leggesse secondo quest’ordine non si adempirebbe il precetto (bMeghillah 17a). Riassume tutta la storia della salvezza:
«Quando Israele uscì dall’Egitto» [Sal 114,1] si riferisce al passato. «Non per noi, Signore, non per noi» [Sal 115,1] alle presenti generazioni; «Amo, perché il Signore ascolta la mia voce» [116,1] ai giorni del Messia; «Legate la festa con funi» [118,27] ai giorni di Gog e Magog; «Mio Dio sei tu e ti rendo grazie» [118,28] al secolo futuro (jBerakot II 4; jMegillah II 1. et al.).
Ma, pur facendo parte di un insieme, i singoli salmi che costituiscono l’Hallel (Sal 113-118), restano evidentemente dei testi a sé stanti, ciascuno collocato nel proprio tempo e ciascuno con il proprio genere letterario.

Salmo 113: invito alla lode universale

Apre l’Hallel il Sal 113, che nel v. 1 invita «‘i servi del Signore» (possono esserlo, perché sono stati liberati dalla «schiavitù» d’Egitto) a una lode universale, che abbraccia il tempo («ora e sempre», v. 2) e lo spazio («dal sorgere del sole al suo tramonto», v. 3, e quindi dall’est all’ovest, su tutta la terra).

1 Alleluia

   Lodate, servi del Signore,
   lodate il nome del Signore.
2 Sia benedetto il nome del Signore
   ora e sempre.
3 Dal sorgere del sole al suo tramonto,
   sia lodato il nome del Signore.
4 Su tutti i popoli eccelso è il Signore
   più alta dei cieli è la sua gloria.
5 Chi è pari al Signore nostro Dio
   che siede nell’alto
6 e si china a guardare
   nei cieli e sulla terra?
7 Solleva l’indigente dalla polvere,
   dall’immondizia rialza il povero
8 per farlo sedere tra i principi
   tra i principi del suo popolo
9 fa abitare la sterile nella sua casa
   quale madre gioiosa di figli.

In ebraico il salmo inizia e termina con l’alleluia, che abbraccia a un tempo la lode e il nome divino (Hallelu-Yah = «Lodate YHWH»), unificando la composizione in una grande inclusione. E l’alleluia risuona ancora due volte nel v. 1, nell’imperativo hallelu («lodate»). Nei vv. 2-3, disposti chiasticamente, si riprende l’invito, esortando a «benedire», a «lodare» il nome del Signore (cf. Zc 14,9).

La motivazione della lode è la «grandezza» del Signore, su cui si insiste nella seconda strofa, affermandone con forza l’incomparabilità (v. 5): è «eccelso» sopra tutti i popoli; la sua gloria (kabod) arriva fin sopra i cieli (v. 4: cf. Is 6,3; Sal 29), ma mentre «sta in alto (siede per giudicare)» allo stesso tempo «si abbassa per guardare» (vv. 5-6; cf. Is 57,15). Cerca gli ultimi della terra e ne capovolge la situazione: i vv. 7-9 mostrano che il Signore è grande perché esalta gli umili, i poveri (cf. Is 66,2). La maestà di Dio si manifesta nella sua misericordia.
«Chi è pari al Signore nostro Dio?», chiede il salmista con una domanda retorica nel Sal 113,5. Che nessuno sia pari al Dio d’Israele lo dicono chiaramente i due salmi che seguono immediatamente, i Sal 114 e 115, considerati nella LXX un’unità (113A e 113B): il primo mostra il cosmo intero sconvolto dalla presenza del Signore accanto al suo popolo, il secondo ne proclama la superiorità assoluta sugli idoli dei pagani.

Salmo 114

1 Alleluia

   Quando Israele uscì dall’Egitto,
   la casa di Giacobbe da un popolo barbaro,
2 Giuda divenne il suo santuario,
   Israele il suo dominio.
3 Il mare vide e si ritrasse,
   il Giordano si volse indietro;
4 i monti saltellarono come arieti,
   le colline come agnelli di un gregge.
5 Che hai tu, mare, per fuggire
   E tu, Giordano, perché torni indietro?
6 Perché voi, monti, saltellate come arieti?
   E voi, colline, come agnelli di un gregge?
7 Trema, o terra, davanti al Signore,
   davanti al Dio di Giacobbe,
8 che muta la rupe in un lago,
   la roccia in sorgenti d’acqua.

Nei primi quattro versi si riassume il cammino che porta il popolo di Dio dall’Egitto alla terra promessa: il mare e il Giordano si fanno da parte per lasciarlo passare; montagne e colline tremano, quando Dio si manifesta sul Sinai per dare la Torah a Israele.
Il locutore sa cosa sta succedendo, ma finge di non sapere per suscitare una certa attesa, mettendo così in evidenza l’eccezionalità dell’avvenimento: perché il mare, il fiume, le montagne sono sconvolti da questo popolo in marcia? Il salmista non cerca una risposta alla sua domanda, né si preoccupa di darla, ma nel v. 7 invita la terra a tremare davanti al Dio di Giacobbe. Allora tutto diventa chiaro: lo sconvolgimento cosmico è provocato dalla presenza di Dio accanto al suo popolo[4]. Il Signore è il Dio creatore, che fa sgorgare l’acqua dalla roccia (v. 8). La sua potenza creatrice trasforma tutto: la roccia diventa stagno e il granito sorgente (v. 8: cf. Es 17,6): anche in altri passi l’episodio di Meriba è descritto come un prodigio di Dio (Is 48,21; Sal 107,35) come una figura dell’esodo futuro, una nuova creazione (Is 35,6s; 41,18; 43,20). Anche a Israele Dio dà una nuova identità, ne fa il suo popolo e lo conduce nella terra promessa ai Padri: il v. 1 sottolinea sia la sua separazione dall’Egitto, sia la relazione di appartenenza a Dio (cf. v. 7).

Salmo 115

1 Non a noi, Signore, non a noi,
   ma al tuo nome da’ gloria,
   per la tua fedeltà, per la tua grazia.
2 Perché i popoli dovrebbero dire:
   «Dov’è il loro Dio?»
3 Il nostro Dio è nei cieli,
   egli opera tutto ciò che vuole.
4 Gli idoli delle genti sono argento e oro
   opera delle mani dell’uomo.
5 Hanno bocca e non parlano,
   hanno occhi e non vedono,
6 hanno orecchi e non odono,
   hanno narici e non odorano.
7 Hanno mani e non palpano,
   hanno piedi e non camminano;
   dalla gola non emettono suoni.
8 Sia come loro chi li fabbrica
   e chiunque in essi confida.
9 Israele confida nel Signore:
   egli è loro aiuto e loro scudo.
10 Confida nel Signore la casa di Aronne:
   egli è loro aiuto e loro scudo.
11 Confida nel Signore chiunque lo teme:
   egli è loro aiuto e loro scudo.
12 Il Signore si ricorda di noi, ci benedice:
   benedice la casa d’Israele,
   benedice la casa di Aronne.
13 Il Signore benedice quelli che lo temono,
   benedice i piccoli e i grandi.
14 Vi renda fecondi il Signore,
   voi e i vostri figli.
15 Siate benedetti dal Signore
   che ha fatto cieli e terra.
16 I cieli sono i cieli del Signore
   ma ha dato la terra l’ha data ai figli dell’uomo.
17 Non i morti lodano il Signore
   né quanti scendono nella tomba.
18 ma noi, i viventi, benediciamo il Signore
   ora e per sempre

L’inizio è insolito: un grido improvviso rivolto al destinatario della lode, il cui nome (YHWH) è invocato fin dal v. 1 e ripetuto poi in ogni verso nei vv. 9-18. Si vuole scuotere il Signore, sottolineando che sono in gioco il suo onore, la sua fama. Dio non può venire meno, senza perdere di credibilità, alle qualità essenziali su cui si fonda l’alleanza: l’amore, la magnanimità, la fedeltà, la lealtà, la verità.
Nel duplice «Non a noi!» risuona il desiderio di uscire dalla vergogna: se Dio glorifica il suo nome, anche i suoi fedeli verranno glorificati[5].
Se gli altri popoli dubitano delle capacità del Dio d’Israele ed esprimono il loro scherno con la domanda: «Dov’è il loro Dio?» (v. 2), l’orante col suo «perché?» esorta il suo Dio a intervenire e, replicando in base al significato letterale dell’interrogativa degli avversari, li mette a tacere con una stupenda risposta: «Il nostro Dio è nei cieli e opera tutto ciò che vuole!» (v. 3).
Reagendo all’insulto, si glorifica Dio, riuscendo a ribaltare la situazione: non il Signore, ma gli idoli dei pagani sono un nulla; nei vv. 4-8 se ne sottolinea l’impotenza con sette negazioni enfatiche. Gli idoli sono opera delle mani dell’uomo: chi confida in essi resta confuso. Possono invece confidare nel Signore, Israele, la casa di Aronne, coloro che lo temono: per tre volte si ripete che egli è veramente «loro aiuto» e «loro scudo» (vv. 9-11). Se gli idoli sono impotenti (vv. 4-8), non lo è certamente il Signore, che si ricorda del suo popolo e lo benedice (vv. 12-13). È il Creatore del cielo e della terra, e, come ha benedetto in passato, così benedirà anche in futuro: una benedizione che è fecondità (vv. 14-15). E la fede diventa lode, una lode che dura per tutta la vita, costituendo l’atteggiamento fondamentale del credente (vv. 17-18).

Salmo 116: l’azione di grazie

La lode è concatenata alla supplica nel Sal 116, nel quale LXX e Vulgata vedono due blocchi distinti (i vv. 1-9 costituiscono il Sal 114; i vv. 10-19 il Sal 115).

1 Alleluia.

   Amo il Signore perché ascolta
   il grido della mia preghiera.
2 Verso di me ha teso l’orecchio
   nel giorno in cui lo invocavo.
3 Mi stringevano funi di morte,
   ero preso nei lacci degli inferi.
   Mi opprimevano tristezza e angoscia.
4 e ho invocato il nome del Signore:
   ti prego, Signore, salvami!
5 Buono e giusto è il Signore,
   il nostro Dio è misericordioso.
6 Il Signore protegge gli umili;
   ero misero ed egli mi ha salvato.
7 Ritorna, anima mia, alla tua pace,
   poiché il Signore ti ha beneficato;
8 egli mi ha sottratto dalla morte,
   ha liberato i miei occhi dalle lacrime,
   ha preservato i miei piedi dalla caduta.
9 Camminerò alla presenza del Signore
   sulla terra dei viventi.

10 Alleluia.

   Ho creduto anche quando dicevo:
   «Sono troppo infelice».

11 Ho detto con sgomento:
   «Ogni uomo è inganno».
12 Che cosa renderò al Signore
   per quanto mi ha dato?
13 Alzerò il calice della salvezza,
   e invocherò il nome del Signore.
14 Adempierò i miei voti al Signore,
   davanti a tutto il suo popolo.
15 Preziosa agli occhi del Signore
   è la morte dei suoi fedeli.
16 Sì, io sono il tuo servo, Signore,
   io sono tuo servo, figlio della tua ancella;
   hai spezzato le mie catene.
17 A te offrirò sacrifici di lode
   e invocherò il nome del Signore.
18 Adempirò i miei voti al Signore
   davanti a tutto il suo popolo,
19 negli atri della casa del Signore
   in mezzo a te, Gerusalemme

Si può considerare il salmo una composizione unitaria, racchiusa dal termine «invocare» nei vv. 2 e 17. Lo stesso verbo ricorre anche nei vv. 4 e 13, ma la prima volta il salmista ha invocato il nome del Signore per essere salvato dalla morte (v. 3), la seconda volta, invece, lo invoca per rendergli grazie. I vv. 8-9 in posizione centrale[6] mettono bene a fuoco la situazione: l’orante ha attraversato una prova mortale, ma è stato liberato; resterà in vita. Cosa potrà dare al Signore in cambio di quanto ha ricevuto? (v. 12).
Ha ricevuto la vita e pertanto deve offrire la vita che gli è stata donata. L’orante comprende che il fatto di non morire gli permette di continuare a invocare il nome di YHWH e questa volta non per chiedere aiuto, ma semplicemente per rendere grazie[7].
La supplica era il grido della sua fede; la stessa fede viene ora espressa nell’azione di grazie: alzerà «il calice della salvezza» invocando il nome del Signore davanti al suo popolo (questa seconda parte del Sal 116 è diventata nella liturgia cristiana il salmo eucaristico per eccellenza).

Salmo 117

In questo salmo, il più breve di tutto il Salterio, l’invito alla lode è universale, anche se la motivazione è nazionale:

1 Alleluia.

   Lodate il Signore, popoli tutti,
   Voi tutte nazioni, dategli gloria;
2 perché forte è il suo amore per noi
   e la fedeltà del Signore dura in eterno.

Israele parla alle nazioni: «La lode ha per contenuto un avvenimento annunciato da Israele, annunciato fuori di Israele. Israele che loda è Israele che testimonia»[8]. In Rm 15,9 Paolo, citando questo salmo in una catena di citazioni bibliche, dirà che le nazioni pagane «glorificano Dio per la sua misericordia».

Salmo 118

L’Hallel termina col Sal 118, che ricorda agli ebrei la liberazione dall’Egitto, la salvezza operata dalla destra del Signore: la Pasqua è il giorno fatto dal Signore per il suo popolo (v. 24), il giorno in cui Israele è stato scelto come pietra angolare (v. 22) per costruire la dimora di Dio in mezzo agli uomini. Il salmo si apre e si chiude con l’invito a celebrare il Signore «perché è buono, perché eterna è la sua misericordia» (vv. 1.29). I diversi gruppi a cui viene rivolto l’invito (cf. Sal 115,9-11) rispondono in coro: «Eterna è la sua misericordia» (vv. 2.3.4), ritornello ripetuto in ogni versetto anche nel Sal 136. Un personaggio principale (il re? Il popolo rappresentato da un individuo?), superato un grave pericolo, rende grazie pubblicamente: loda il Signore perché l’ha esaudito, l’ha salvato (vv. 14-15.21). L’intera comunità chiede: hoshya-na = salvaci! (v. 25). è l’Osanna (cf. Mc 11,9), utilizzato dopo l’esilio (in particolare nella festa delle Capanne) essenzialmente come domanda. Si rinnova la domanda per il futuro, acclamando il Signore, l’unico capace di salvare. Al culmine della cerimonia (vv. 28-29) il personaggio principale pronuncia il suo atto di fede e di fedeltà verso il Signore («Sei tu il mio Dio») e, al tempo stesso, la sua azione di grazie, a cui tutti sono invitati a unirsi.

——————————————————————————–

[1] I testi del Talmud babilonese sono preceduti dalla lettera b, quelli del Talmud palestinese (o di Gerusalemme) dalla lettera j.
[2] Oppure: «La Pasqua “come un’oliva” [la porzione di agnello pasquale che spetta a ciascuno è piccola come un’oliva] e l’hallel fora il tetto» (jPesachim VII 12).
[3] Cf. U. Neri (ed.), Alleluia. Interpretazioni ebraiche dell’Hallel di Pasqua (Sal 113-118), Città Nuova, Roma 1981.
[4] R. Torti Mazzi, Quando interrogare è pregare. La domanda nel Salterio alla luce della letteratura accadica, San Paolo, Cinisello B. 2003, 276.
[5] Torti Mazzi, Quando interrogare è pregare, 249.
[6] Per l’analisi della struttura, cf. J.N. Aletti – J. Trublet, Approche poétique et théologique des Psaumes. Analyses et methodes, Cerf, Paris 1983, 38-39.
[7] Torti Mazzi, Quando interrogare è pregare, 263.
[8] P. Beauchamp, Salmi notte e giorno, Cittadella, Assisi 1983, 115.

VOCAZIONE, BENEDIZIONE, POPOLO E TERRA: UN ITINERARIO TEMATICO ATTRAVERSO GENESI 12 (ABRAMO)

dal sito:

http://www.paroledivita.it/upload/2007/articolo6_27.asp

VOCAZIONE, BENEDIZIONE, POPOLO E TERRA: UN ITINERARIO TEMATICO ATTRAVERSO GENESI 12 (ABRAMO)
 
Tiziano Lorenzin

(citazioni di Paolo)

C’è stato un tempo nella storia del popolo ebraico, in cui la figura dell’antico patriarca Abramo ha avuto un’importanza fondamentale. Fu dopo il ritorno dall’esilio di Babilonia. I rimpatriati si erano mescolati con i fratelli sempre rimasti nella terra santa, i quali non avevano avuto scrupoli nell’unirsi in matrimonio con gente straniera.
In quella situazione era forte il rischio di perdere la propria identità, soprattutto in mancanza di un’indipendenza politica. I sacerdoti, custodi della tradizione – soprattutto della tradizione riletta alla luce del sacerdote e profeta Ezechiele – si resero conto del pericolo che Israele potesse scomparire dalla scena mondiale, divenendo un popolo come gli altri. Perciò l’aiutarono a riscoprire le radici della propria storia, che è una storia di elezione per una missione in favore di tutta l’umanità.
Due realtà distinguevano il vero ebreo da chi non lo era: una vita secondo la legge donata dal Signore mediante Mosè nel deserto e una genealogia che ascendesse fino ad Abramo. Nel libro dell’Esodo la comunità poteva ritrovare gli elementi essenziali della sua costituzione, nel libro della Genesi invece essa poteva riconoscere chi fossero veramente i suoi antichi padri. Sia il cammino del popolo, nato dalle acque del Mar Rosso, attraverso il deserto fino alla terra promessa dove ora si trovano, sia i racconti della chiamata di Abramo, sono preceduti da una lunga storia delle origini (Gn 1-9), che narra come la creazione – e ogni vivente nella creazione – vive solo per la misericordia di Dio, che mantiene il suo sì alla vita, proprio di fronte al peccato della prima coppia umana, e di tutta l’umanità. La parola di Dio è prima delle cose: egli crea e salva parlando[1].

Vocazione

Quello che interessa nel racconto della storia di Abramo è soprattutto l’appello di Dio, che – in un mondo in cammino verso la morte – chiama a vivere come sue creature secondo la sua volontà. Nell’antica storia di Abramo i sacerdoti del post-esilio rileggevano la recente storia del popolo: il Signore dalla massa di ossa aride dei deportati in Babilonia, solo con la parola aveva creato un popolo nuovo che si è messo in cammino verso la terra santa, e aveva ridato la speranza di un futuro agli esiliati (cf. Ez 37).
L’opera della salvezza incomincia, infatti, con le stesse parole con cui inizia l’opera della creazione: «Il Signore disse» (Gn 12,1; cf. 1,3). Secondo la teologia tradizionale ebraica il Signore con dieci parole ha creato tutto il mondo, perché nella prima pagina della Bibbia (Gn 1) per dieci volte ricorre la frase: «Dio disse». Di fronte al ritorno al caos nella storia delle relazioni umane, Dio continua a essere il Dio della vita, intervenendo ancora una volta con la sua parola. È una parola però che mette in movimento la storia.
La parola (dabar) divina, infatti, è presentata nella Bibbia essenzialmente come parola che proclama e si attua nel momento in cui viene pronunciata, oppure chiama chi la ode, ad attuare. L’azione non è qualcosa di distinto dal parlare, ma consiste nell’atto del discorso stesso.
Il Signore e Abramo appaiono di fronte a noi quasi improvvisamente. Dio parla e Abramo si mette in movimento[2]. Abramo e Sara si devono mettere in cammino a occhi chiusi, senza discutere. L’uomo che Dio ha scelto per ridonare la vita al mondo intero non è più l’Adamo che può mangiare dell’albero della vita. È un uomo vecchio, che finora ha condotto un’esistenza insignificante, segnata dalla morte prematura del fratello e dalla solitudine per la mancanza di figli a causa della sterilità della moglie Sara. È una famiglia che è giunta al termine della sua storia e non ha più futuro. La rinuncia alle certezze è l’unica via per uscire dalla morte e dalla sterilità. Rimanere al sicuro sotto la protezione del loro clan, significa per Abramo e Sara rinunciare ad aver speranza (Gn 12,1)[3].
Abramo ha dovuto fare un taglio netto, abbandonando la terra cioè la sua nazionalità, il suo parentado ossia il luogo di nascita, il suo casato, la famiglia: quando il Signore irrompe nella sua vita, secondo la cronologia, suo padre in realtà era ancora vivo e morirà almeno sessanta anni dopo la partenza del figlio. Lascia un padre conosciuto e amato per seguire un Dio che secondo altre tradizioni ebraiche (cf. Gs 24,2.14; Gdt 5,7-9) egli non aveva mai conosciuto prima di allora, essendo stato un idolatra. Ma questo per lui e sua moglie era l’unica possibilità per trovare un senso al loro vivere.
Le promesse divine, una grande discendenza e una terra, sono legate all’esecuzione dell’ordine: «Vattene». Si tratta di fare la stessa esperienza dell’esodo che in seguito faranno gli Israeliti dalla casa di schiavitù dell’Egitto e poi di Babilonia. Nel suo cammino Abramo è sostenuto dalla promessa divina che sempre lo precede e dalla fedeltà di Dio alla parola data; una parola che a poco a poco si manifesta in tutta la sua portata e fa sì che il futuro diventi presente. Abramo imparerà a credere camminando.

Benedizione

È credendo nella speranza divina contro la speranza umana che Abramo divenne padre di una moltitudine di popoli (Rm 4,18)[4]. Abramo riceve una parola che va al di là di ogni pretesa umana. È una parola che esige una conversione: credere che il dialogo di Dio con lui possa avere un incidenza universale, credere inoltre che la propria storia personale possa essere messa in rapporto alla storia della creazione intera[5]. Al centro del discorso che Dio fa ad Abramo c’è la frase: «Sii una benedizione» (Gn 12,2). La benedizione con la quale Abramo è benedetto è una promessa per la sua vita, ma al tempo stesso essa avrà conseguenze positive per tutti i popoli del mondo.
La parola di Dio: «Sii una benedizione» non è da intendersi come un comando morale, ma come una parola che ha la forza di creare, come la parola di Dio: «Sia la luce» (Gn 1,3). Se Dio promette ad Abramo un grande nome e di essere una benedizione, questo succede: egli riceve una grande nome ed è una benedizione. Egli ascolta la parola del Signore e inizia un esodo. Esce dal mondo globalizzato e imperialista simbolizzato dalla «torre di Babele» ed entra nel mondo dove gli uomini sono diversi per lingua, cultura e religione. In questo mondo si incomincia a sentire la presenza della benedizione divina fatta ad Abramo:

Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra (v. 3).

La Bibbia CEI ha tradotto: «Si diranno benedette», ma il testo potrebbe essere inteso anche al passivo: «In te saranno benedette tutte le famiglie della terra», come in Gn 17,4; 18,18b, 22,18; 26,4b; 28,14 e come interpreta la traduzione greca dei LXX. Comunque non sembra che la forma riflessiva sia meno universalistica di quella passiva: quando le famiglie della terra si benedicono in Abramo, vuol dire che chiedono una benedizione su di sé invocando il nome di Abramo e, ovviamente, ricevono la benedizione. La grande novità di questo testo è proprio la benedizione promessa per tutti i popoli, vale a dire la salvezza universale per la mediazione e l’intercessione di Abramo, mediante la sua elezione. Con Abramo e la sua discendenza comincia propriamente la salvezza.
Stupisce il fatto che Dio voglia in tutti i modi contrastare le maledizioni che gli uomini si lanciano l’un l’altro a causa della volontà imperialistica degli abitanti di Babele, non proponendo una conferenza mondiale con un programma universale di riforme. Per creare la comunione tra i popoli, rispettando la lingua di ognuno, egli invece si impegna nell’accompagnamento di un’unica famigliola che è ormai giunta al capolinea della sua vita: una realtà piccola e insignificante. Secondo la Genesi, infatti, per lunghi anni sembra che il Signore non si interessi che di questa famiglia itinerante. Ma questo sembra il suo metodo: salvare i molti (tutte le nazioni) servendosi dei pochi (della discendenza di Abramo, in particolare del resto che aveva sperimentato la sua fede). Più avanti questo programma si concretizzerà quando per salvare Sodoma basterebbero dieci giusti (Gn 18,32).
Questa coscienza della propria missione universale è rimasta nel cuore delle comunità giudaica fino ai tempi di Gesù[6].
Anche per Gesù di Nazaret il regno è come una semente di senape e non come il cedro del Libano di cui parla Ez 17,23. Però esso diventa una pianta sopra la quale vengono a posarsi gli uccelli: le nazioni pagane che sanno riconoscere le manifestazioni minime del regno (Mc 4,32). È il regno a ridare vita a quelli che sono isteriliti (Lc 7,22). Esso è una novità dirompente, perché può far risorgere i morti. In Gesù, figlio di Davide, figlio di Abramo (Mt 1,1), Israele era pronto per la sua elevata missione di portare la benedizione, promessa nella elezione di Abramo, alle nazioni pagane. Mediante la sua azione pasquale di morte e risurrezione, Cristo inserì la sua vita nella missione sacerdotale d’Israele per le nazioni[7]. Per il popolo di Israele si trattava ancora una volta di accogliere la promessa fatta ad Abramo, uscendo dalla presente sterilità, partecipando alla missione salvifica di Gesù, il figlio di Abramo per eccellenza, o di perseverare in quella realtà di morte. È l’invito che fa loro Pietro nel suo kerygma dopo la guarigione del paralitico:

Dio, dopo aver risuscitato il suo servo, l’ha mandato prima di tutto a voi per portarvi la benedizione e perché ciascuno si converta dalle sue iniquità (At 3,26).

E anche Paolo, nella fedeltà di Gesù al Padre, vede realizzarsi l’agire di Abramo che crede alla parola del Signore, abbandonando ogni sicurezza dietro a sé. Questo fatto avrebbe dovuto aprire il cuore di Israele alla propria vocazione altruista e universale ereditata da Abramo:

E la Scrittura, prevedendo che Dio avrebbe giustificato i pagani per la fede, preannunziò ad Abramo questo lieto annunzio: In te saranno benedette tutte le genti. Di conseguenza, quelli che hanno la fede vengono benedetti insieme ad Abramo che credette» (Gal 3,8-9).

Anche i credenti in Cristo provenienti dalle nazioni pagane possono entrare nell’ambito della benedizione di Abramo. Il vangelo di Paolo è il compimento della promessa fatta ad Abramo. Israele aveva la missione di portare la fede messianica al mondo, però il suo nazionalismo gli impedì di accettare il modo come il Messia si presentava. Oggi quando esiste una corrente di simpatia per Gesù di Nazaret nel mondo intellettuale ebraico, potrebbe essere il momento per ricordare che i Giudei sono portatori di una benedizione per i molti[8].

Popolo

Il popolo d’Israele ebbe coscienza chiara di essere portatore di una benedizione in favore dell’umanità, soprattutto nell’esilio e nel post-esilio, dopo la catastrofe della caduta di Gerusalemme, della distruzione del tempio, della fine della dinastia di Davide, della perdita della terra. In quella situazione fu necessario un nuovo orientamento della fede nel Signore. Dio che fu in grado di dare un figlio a una donna sterile come Sara e a un uomo anziano come Abramo, era ancora in grado di crearsi un nuovo popolo, che fosse segno della sua presenza e che documentasse la sua azione salvifica presso i popoli pagani.
Questo andavano dicendo i sacerdoti agli esiliati ritornati da Babilonia in seguito alla predicazione del Deuteroisaia. Come Abramo anch’essi erano stati scelti per una missione universale. Questa coscienza di un’elezione è la base sulla quale Israele può ricostruire la sua vita religiosa. È in questo contesto che la comunità si pone una domanda che sarà in seguito ricorrente nella storia del popolo: chi è il vero ebreo?
Riscrivendo l’antica storia del patriarca Abramo, i sacerdoti spiegano che il vero ebreo è solo chi ha fatto il cammino di fede di Abramo. È colui che come lui ha scoperto di essere chiuso in un cerchio di morte, di avere una vita senza senso, perché senza più una terra dove stabilirsi con i propri figli. Il vero ebreo è colui che come Abramo ha ascoltato l’invito del Signore a uscire da questo luogo di sterilità e di schiavitù e gli ha creduto mettendosi in cammino verso la terra promessa. Non era invece vero ebreo chi non aveva fatto questo itinerario di fede, accettando il compromesso con gli idoli dei popoli vicini.
San Paolo si troverà sulla stessa linea, quando dirà: «Sappiate dunque che figli di Abramo sono quelli che vengono dalla fede» (Gal 3,7). Egli mostra poi che Abramo fu giustificato solo per la fede, per cui solo quelli che nascono dalla fede sono i figli di Abramo. Ma per lui si tratta della fede in Cristo:

Non tutti i discendenti di Israele sono Israele, né per il fatto di essere discendenza di Abramo sono tutti suoi figli (Rm 9,6b-7a).

Per essere vero figlio di Abramo ed ereditare le sue benedizioni, sia che si tratti di giudeo o pagano, si deve accettare Gesù Cristo:

Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa (Gal 3,26-29).

Terra

Il popolo portatore di una benedizione per tutti i popoli del mondo vive in una terra concreta che era stata promessa ad Abramo:

Vàttene dalla tua terra, dal tuo parentado e dal tuo casato, verso la terra che io ti farò vedere (Gn 12,1).

Il libro della Genesi si apre con un racconto di una terra (il giardino), donata e perduta. I primi uomini sono posti nel giardino «perché lo coltivino e lo custodiscano» (Gn 2,15)[9]. Ad Abramo Dio promette la terra, ma sarà un dono che rimane sospeso per parecchi secoli, il tempo che lo separa da Giosuè, Dio infatti gli dice: «Alla tua discendenza io darò questo paese» (Gn 12,7). È importante che la discendenza del patriarca si rafforzi, che diventi un popolo solido e robusto in Egitto prima di poter pretendere di occupare la terra[10]. È come se Dio dicesse: Bisogna diventare figli di Abramo per possedere la terra. Il rinvio non significa però fallimento. La fedeltà del Signore dura di generazione in generazione[11].
Questo cammino spirituale viene narrato dal libro dell’Esodo fino al Deuteronomio. Si tratta di uscire da una terra di schiavitù, dove il popolo è costretto a fare mattoni per il faraone, e di attraversare per quarant’anni un deserto privo di vita, prima di raggiungere i confini della terra promessa. Soltanto in Canaan saranno veramente liberi e autonomi, lavoreranno per se stessi. La terra sarà allora il luogo del riposo dopo vagabondaggio nel deserto, simbolo del caos delle origini.
Anche Abramo desidera questo riposo nella terra promessa da Dio. Egli viene sepolto dai figli, Isacco e Ismaele, nella caverna di Macpela, acquistata in Canaan dagli Ittiti. (Gn 25,9). Stranamente solo attraverso la sua morte Abramo entra in possesso della terra per i suoi successori. Egli rimane la santa radice interrata che permetterà ai rami dell’albero di moltiplicarsi e di allungarsi. Sarà però un riposo molto precario, perché il deserto è molto vicino. Il rischio del caos continua come una minaccia lungo la storia del popolo:

Badate che, se contaminate il paese, esso non vi vomiti come ha vomitato le nazioni che vi stavano prima di voi (Lv 18,28).

Il popolo non riandrà in Egitto, ma a Babilonia, sarà sradicato dalla propria terra per non aver saputo difendere la propria libertà. I sacerdoti richiamando la promessa fatta ad Abramo poterono rianimare gli ebrei esiliati. Se era vero che non erano riusciti a conservare la propria libertà, rispettando l’alleanza (Dt 4,40), la promessa di Dio era invece un impegno senza condizioni. Il ritorno alla terra però dovrà passare per il ritorno spirituale al Signore: «Ritorna a me, poiché io ti ho riscattato» (Is 44,22 e 55,7).
La terra rimane sempre un dono e non una ricompensa. Se la terra è un dono essa è sacra. Non deve essere profanata dalla presenza di idoli e dai sacrifici umani: «Hanno profanato il mio paese con i cadaveri dei loro idoli» (Ger 16,18), essi «versarono sangue innocente, il sangue dei figli e delle figlie, sacrificati agli idoli di Canaan» (Sal 106,38).
La terra d’Israele è un territorio affidato al popolo come un tutto. Le proprietà private in Israele sono frutto di una ripartizione del territorio nazionale, una ripartizione idealmente egualitaria, cioè proporzionale all’ampiezza e al numero dei membri del clan, e tirata a sorte, perché non si verificassero favoritismi (cf. Gs 13 e 21). La terra è affidata da Dio al suo popolo perché essa nutra ogni membro della comunità. I profeti alzeranno la voce in difesa degli emarginati dagli ingiusti accaparratori di terreni:

Sono avidi di campi e li usurpano, di case e se le prendono. Così opprimono l’uomo e la sua eredità (Mic 2,2).

Il Sal 37 aiuta questi diseredati a pregare così:

Confida nel Signore e fa’ il bene; abita la terra e vivi con fede […]. I miti invece possederanno la terra e godranno di una grande pace (vv. 3.11).

La terra come dono di Dio educa l’Israelita a un profondo senso religioso. Tutto proviene dal Signore e tutto deve ritornare a lui. È questo il senso del gesto del contadino ebreo che si presenta al sacerdote:

Ora, ecco, ho portato le primizie
dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai concesso.
Le deporrai al cospetto del Signore tuo Dio
e ti prostrerai al cospetto del Signore tuo Dio (Dt 26,10).

Le primizie sono deposte davanti al Signore, professato come il Signore della storia. Esse sono in realtà un simbolo delle prime esperienze di libertà nella terra donata dal Signore. La comunità giudaica al tempo della riforma liturgica di Giosia, portando le sue primizie della terra davanti al Signore, riconosceva che senza il Signore non sarebbe stato possibile avere tutto il raccolto promesso. Il raccolto poteva essere devastato da un disastro improvviso. Così in realtà fu dopo pochi anni. Con la morte del re Giosia nel 609 a Meghiddo, e poi con la deportazione della popolazione di Gerusalemme in Babilonia, sembrava che tutto ormai fosse perduto.
Ritornata dall’esilio, la comunità aveva capito che assolutamente non poteva più abbandonare il Signore, per non rischiare di essere ancora una volta cacciata dalla propria terra. Consegnare ora le primizie davanti all’altare del Signore significava presentare i primi frutti della fede purificata dalle sofferenze dell’esilio. Con questa offerta il popolo esprime la propria gratitudine, perché solo per l’intervento del Signore è potuto ritornare nella propria terra. Le parole, che l’Israelita pronuncia, sono il suo credo. In esso non troviamo affermazioni astratte su Dio. La terra dove scorre latte e miele, ma anche le primizie che egli sta offrendo, sono dono del Signore. A questo Dio d’Israele, egli si prostra in adorazione. Egli è il Signore della storia. Nella grande storia della salvezza si inserisce anche lui, l’umile contadino di Israele. La terra è stata concessa personalmente a lui. Egli sembra dire: «Questo è il mio Dio». Non conosce definizioni astratte. È certo che Dio esiste e ha cura di lui, perché oggi egli si trova nella terra promessa, non in esilio:

Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion ci sembrava di sognare (Sal 126,1).

Ora il sogno si è avverato. Dio c’è veramente![12].

La terra per l’Israelita è anche un trampolino per staccarsi dalla terra stessa. Così l’ha sperimentata un devoto ebreo – probabilmente un levita – dopo aver superato una crisi profonda di fede, che l’aveva condotto a un passo dall’apostasia:

Fuori di te nulla bramo sulla terra (Sal 73,25).

Una rilettura della storia attuale di Israele
Infine, meditare sulla pagina della Genesi che ricorda la promessa della terra fatta ad Abramo, può essere anche un’occasione per poter rileggere la situazione odierna del popolo d’Israele ritornato nella sua terra dopo la Shoah. È stato un ritorno non facile. Secondo un profondo conoscitore della storia attuale d’Israele, F. Rossi de Gasperis[13], la riconquista della terra promessa assomiglia molto alla conquista spettacolare del paese ad opera di Giusuè: guerre-lampo, miracolose vittorie militari, prodezze strepitose, rapidissimi spostamenti di confini, ripartizioni di territorio, colonizzazioni esemplari. Tutto come a Gerico, ad Ai, a Gabaon o alle acque di Merom.
Quella di Giosuè fu una conquista lampo, ma molto più precaria del previsto. Israele si trovò subito minacciato e costretto alla difesa come ai tempi di Debora e di Barak e poi ai tempi di Saul e Davide. Fin dagli inizi il popolo scopre che la terra è solamente un dono gratuito e non una ricompensa per le sue opere buone. Nella terra-dono gli ebrei dovettero accettare la presenza dell’altro: i Gabaoniti continuarono ad abitare in Israele (Gs 9,16-22), i Daniti condizionati dalla presenza degli Amorrei (Gdc 1,34-35) e dei Filistei (Gdc 13-16) dovettero cercare a nord un territorio dove stabilirsi (Gdc 17-18). Davide trovò scampo presso i Filistei (1Sam 27).
Il dono che Israele ha ricevuto con la sua elezione in Abramo non è destinato a un’appropriazione gelosa ed esclusiva:

Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini (Lv 25,23).

Ogni relazione con la terra implica una relazione con Dio che l’ha donata e con i fratelli e le sorelle che vi abitano. Gli Israeliti poterono offrire al Signore le primizie dei frutti della terra, che essi impararono a coltivare dai Cananei, i loro nemici per antonomasia[14], e i Cananei impararono da Israele a conoscere il Signore.
Forse oggi si tratta di ritornare ancora una volta alla radice, ad Abramo, che ha trovato finalmente pace il giorno della sua sepoltura a Ebron, in un territorio pagano alla presenza dei suoi due figli Isacco e Ismaele. È una radice che può ridonare vita non solo ai due figli (ebrei e arabi), ma anche all’ulivastro innestato secondo san Paolo nell’antico ulivo.
——————————————————————————–

[1] Cf. P. Beauchamp, L’uno e l’altro testamento, Paideia, Brescia 1985, 245.
[2] Cf. I. Zatelli, «La chiamata dell’uomo da parte di Dio nella Bibbia al vaglio della “discourse analysis”», in Rivista Biblica 38 (1990) 13-26.
[3] Cf. W. Brueggemann, Genesi, Claudiana, Torino 2002, 149-159.
[4] Cf. M. Conti, «Le vocazioni individuali nel Vecchio Testamento», in A. Favale (ed.), Vocazione comune e vocazione specifiche. Aspetti biblici, teologici e psico-pedagogico-pastorali, LAS, Roma 1993, 101-106.
[5] Cf. A. Sicari, Chiamati per nome. La vocazione nella Scrittura, Jaca Book, Milano 1979, 23-35.
[6] Il Targum Neofiti, più antico della polemica tra il giudaismo e il cristianesimo sopra la fede offerta ai pagani, così traduce il nostro testo: «E nella tua giustizia saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Neofiti Gn 12,3b): la vita di fede di Abramo (e dei discendenti di Abramo) ha un effetto positivo su tutti i popoli.
[7] Cf. J.L. Espinel, «Israele y la benedictión de Abrahán para todas las gentes», in Estudios Bíblicos 50 (1992) 418.
[8] Cf. Espinel, «Israele y la benedictión de Abrahán», 422.
[9] Cf. A. Marchadour, Grandi temi biblici, Queriniana, Brescia 1990, 41-46.
[10] Cf. L. Alonso Schökel, «I cerchi della promessa e del dono», in Il mondo delle bibbia 40 (5/1997) 43-47.
[11] Cf. L. Alonso Schökel, Salvezza e liberazione: l’Esodo, EDB, Bologna 1997, 115-124.
[12] Cf. T. Lorenzin, Un cammino con Israele. Lectio per il tempo di Avvento e di Quaresima, Edizioni Paoline, Milano 2003, 65-74.
[13] F. Rossi de Gasperis, «La terra promessa, un dono da condividere», in Rassegna di Teologia 31 (1990) 608-614.
[14] L’inimicizia risale, secondo Gn 10, all’età post-diluviana.

Omelia 7 ottobre 2010: Commento a Gal 3,2

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/13769.html

Omelia (09-10-2008) 
Eremo San Biagio

Commento a Gal 3,2

Dalla Parola del giorno
“Questo solo io vorrei sapere da voi: è per le opere della Legge che avete ricevuto lo Spirito o per aver creduto alla predicazione?”

Come vivere questa Parola?
Al centro della Parola di oggi è il dono dello Spirito, ottenutoci da Gesù. Paolo richiama su di esso l’attenzione dei Galati che lo hanno un po’ messo da parte per puntare sulle opere della Legge. Come dire, sulle proprie forze. La tentazione sempre riemergente del protagonismo, anche nell’ambito della vita spirituale, che ci renderebbe creditori nei riguardi di Dio.
È per Gesù crocifisso e risorto che siamo stati redenti e non già per le nostre opere buone. Allora queste sono da trascurare? Certamente no! Ma è l’atteggiamento che le ispira a dover essere rimosso.
La Legge ci è data come indicazione di un’armonia, infranta dal peccato, che deve essere continuamente riconfermata perché la nostra vita personale e sociale possa affermarsi ed espandersi in pienezza, secondo il progetto di Dio. Non quindi un favore che facciamo al Creatore, ma un agire conformemente a quella dignità che ci viene dall’essere sua immagine: un realizzare noi stessi, operando in modo da coltivare quell’equilibrio interiore che ne è la necessaria premessa ed espressione. E tutto ciò non contando unicamente sulle nostre capacità, bensì sull’aiuto dello Spirito Santo che ci è dato in dono proprio per sostenerci ed orientarci.
Minimizzare, o addirittura ignorare la sua presenza e la sua azione, predispone all’amara esperienza di vedere i nostri sforzi votati all’infecondità. Parliamo di pace e seminiamo discordia, cerchiamo l’unità e la miniamo fin nelle sue profonde radici in noi stessi e intorno a noi, invochiamo la giustizia e calpestiamo i valori.

Oggi, nel mio rientro al cuore, verificherò lo spazio che lascio allo Spirito Santo nella mia vita. Mi riconsegnerò, quindi, a Lui perché ispiri e guidi ogni mia scelta e azione.

Spirito Santo, Spirito di Amore che dimori in me, prendi pieno possesso del mio essere, informa i miei pensieri ei miei sentimenti, orienta la mia volontà perché aderisca sempre e in tutto a quella di Dio.

La voce di un profondo conoscitore della Parola
La prima condizione per ricevere lo Spirito Santo non sono i meriti e le virtù, ma il desiderio, il bisogno, la sete
Raniero Cantalamessa 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 6 octobre, 2010 |Pas de commentaires »

Omelia per il 7 ottobre 2010: Beata Maria Vergine del Rosario.

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/19526.html

Omelia (07-10-2010) 
Monaci Benedettini Silvestrini

Beata Maria Vergine del Rosario.

Festa istituita dal Papa S. Pio V nel 1572, a ricordo della vittoria navale del 7 ottobre 1571 riportata dalle forze cristiane sui turchi minacciosi, vittoria attribuita dal santo pontefice all’intercessione di « Maria aiuto dei Cristiani » invocata contemporaneamente dalle confraternite del Rosario.
Il brano evangelico lucano di oggi, ritrae Maria SS.ma nel momento inaspettato e incomprensibile da parte umana, in cui l’angelo Gabriele annuncia alla Vergine di Nazaret che sta per divenire la madre di Dio fatto uomo. E’ il momento sublime della grandezza di Maria, « benedetta fra tutte le donne ». E’ l’inizio dell’interminabile catena delle « grandi cose » che l’Onnipotente ha compiuto in lei, nella sua assimilazione totale a Cristo suo figlio.
Celebrando questa festa con il Santo Padre Giovanni Paolo II in visita al santuario di Pompei, sfogliamo la sua bella enciclica del 16 ottobre 2002, intitolata « Rosarium Virginis Mariae », mettendoci con lui « alla scuola di Maria », perché occupi anche in noi un posto importante nella nostra vita spirituale. Ai noti cinque misteri della gioia, del dolore e della gloria il Servo di Dio Giovanni Paolo II, ha voluto aggiungere quelli della luce, anello mancante nella nostra meditazione sulla vita di Gesù.
Sulla preghiera del rosario, « compendio del Vangelo », si è formata la spiritualità delle nostre famiglie passate, raccolte nel silenzio serale avanti al quadro della Vergine in profonda meditazione. Se ne sente ora la mancanza, se ne vedono tristemente i risultati: l’invadente televisore strozza i sentimenti familiari, separa i cuori. Rimettiamoci sotto il manto di Maria, « madre, maestra, guida », che sostiene il fedele con la sua intercessione potente.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 6 octobre, 2010 |Pas de commentaires »
1...1718192021...23

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01