Filippesi 2,6-11 – « lectio »

dal sito:

http://www.adonaj.net/old/preghiera/lectio9.htm

LECTIO DIVINA 9 
 
“CRISTO GESU’, PUR ESSENDO…”

Filippesi 2,6-11

Introductio:   Preghiamo la Madonna, con l’Ave Maria, perché ci assista nell’accogliere Lo Spirito Santo.

“Vieni, Spirito Santo, nei nostri cuori e accendi
In essi il fuoco del tuo amore. Vieni, Spirito Santo,
E donaci per intercessione di Maria che ha saputo
Contemplare, raccogliere gli eventi della vita di
Cristo e farne memoria operosa, la grazia di
Leggere e rileggere le Scritture per farne anche
In noi memoria viva e operosa.
Donaci, Spirito Santo, di lasciarci nutrire da questi
Eventi e di riesprimerli nella nostra vita.
E donaci, Ti preghiamo, una grazia ancora più
Grande; quella di cogliere l’opera di Dio nella
Chiesa visibile e operante nel mondo”. Amen.

Lectio:     leggiamo il testo con attenzione

La lettera fu scritta a Roma, quando la prigionia di Paolo stava per finire ed egli prevedeva di essere nuovamente libero entro poco tempo: dunque, verso la metà dell’anno 63, dopo le lettere ai Colossesi, a Filemone.
La cristianità di Filippi, importante città della Macedonia, era stata la prima fondata da Paolo in Europa, allorché durante il suo secondo viaggio missionario era sbarcato in Macedonia tra la fine dell’anno 50 e gli inizi dell’anno 51. A questi suoi primogeniti europei egli rimase sempre attaccatissimo, e concesse loro un privilegio non concesso ad altri: e fu che, mentre Paolo nella sua fierezza non accettava mai soccorsi materiali dai suoi neofiti, li accettò invece più di una volta dai Filippesi. Ciò avvenne anche durante la prigionia romana degli anni 61-63. Quando i Filippesi seppero che il loro amatissimo maestro si trovava in tale stato, inviarono a Roma Epafrodito, uno dei membri più autorevoli della loro comunità, con l’incarico sia di assistere Paolo sia di reali soccorsi materiali da parte loro. Ma, durante la sua permanenza  aRoma, il buon Epafrodito fu colto da grave e lunga malattia, tantoché la notizia della malattia giunse a Filippi e di là si rispose a Roma che tutta la comunità era in trepidazione per il malato; più tardi, come Dio volle, Epafrodito guarì completamente e si preparò al ritorno.
In questa occasione Paolo gli affidò la presente lettera. In essa l’Apostolo risponde alle buone notizie recategli da Epafrodito, e mostra la sua riconoscenza per i soccorsi ricevuti; ma soprattutto egli intavola una serena ed affettuosa conversazione con quei suoi figli amatissimi, che sperava rivedere assai presto. Ma è anche una conversazione cristiana, di evangelizzatore ed evangelizzati: e perciò contiene, fra altri punti dottrinali, insegnamenti cristologici di particolare importanza.

Meditatio.

Paolo rileva la prima e fondamentale virtù sociale, l’umiltà, e canta il più luminoso esempio che ci è fornito dal capo stesso del corpo mistico: le membra perciò non possono fare a meno di nutrire “gli stessi sentimenti” del loro capo: Gesù Cristo.
Tuttavia, convinto di quanto difficile fosse il programma spirituale e morale proposto ai fedeli, Paolo vuol dimostrare che però è possibile, se imiteremo “l’esempio” di Cristo: infatti, lo stato di umiltà assunto da Cristo presuppone una rinuncia infinitamente più grande di quella che noi cristiani dobbiamo fare nei confronti dei nostri fratelli. “Pur essendo nella forma di Dio”(v.6), Cristo rinunciò a tutto lo splendore e alla gloria che competevano a questa sua condizione, per assumere l’ordinaria “forma di servo, diventando (in tutto) simile agli uomini” (v.7). Nella sua umanità, esclusa la parentesi della trasfigurazione, mai rifulse lo “splendore”, accecante della divinità; anzi, questo apparve come eclissato, cancellato, addirittura “svuotato” (v.7). E ciò non bastò a Cristo: dopo l’umiliazione dell’incarnazione, ecco l’umiliazione della morte di croce, accettata in piena “obbedienza” alla volontà del Padre (v.8).
Come ricompensa però di questa catena d’umiliazioni, Dio “sovraesaltò” (v.9) la “umanità” di Cristo nella resurrezione, dandole una dignità, una gloria e uno splendore (“nome”) che la pone sopra d’ogni essere creato (v.9), umano, angelico o demoniaco (v.10. Cifr. Efes.1,21; Ebr.1,4; 1Pt. 3,22). E questo perché è la “umanità” dello stesso Verbo di Dio, che tutti gli esseri ragionevoli finalmente proclameranno a piena voce “Signore”, Dio eterno e immutabile, dominatore dei secoli e “giudice dei vivi e dei morti” (2 Tim.4,1). Tale “confessione” di fede costituirà  la “gloria” più grande che si potrà dare al “Dio Padre” (v.11), perché implica la piena accettazione del suo disegno d’amore e di saggezza. Notiamo che manca una espressa conclusione di carattere ascetico-morale, tuttavia essa è implicata nel contesto: come Cristo dalla sua “umiliazione” ha ricavato la massima “gloria”, anche noi cristiani ritrarremo dalle nostre rinunce una grande gloria e ricompensa per noi stessi e per tutto il corpo mistico, il quale, proprio dai buoni sentimenti di tutti, crescerà più splendente e vitale.
Ne conviene che i vv. 6-11, del capitolo 2 della lettera sono dunque di una eccezionale importanza teologica. Non solo il contenuto è altamente poetico e come percorso da un fiotto di commozione, ma anche la forma esterna è poetica, un vero “inno” con un certo ritmo melodioso che ci eleva a vette spirituali immense.
Dal punto di vista teologico vi si afferma la preesistenza del Verbo e la sua divinità ( ricordiamo il prologo del Vangelo di Giovanni, 1,1-11), l’incarnazione e la morte di croce, la glorificazione di Gesù e il suo dominio universale come ricompensa dell’abbassamento della sua umanità. Dal punto di vista ascetico è la gran lezione dell’umiltà e dell’obbedienza che è proposta a tutti i credenti d’ogni tempo, perciò tali virtù non possono essere marginali nel cristianesimo, se costituiscono l’essenza della vita e dell’opera di Gesù.
La prima parte dell’inno (vv.6-8) tratta più direttamente di alcuni argomenti che ci riguardano più da vicino (come ai Filippesi), poiché vi troviamo un ritratto di Gesù, il quale non si è attaccato egoisticamente alla sua elevata condizione di vita “di natura divina”.
Gesù è colui che fece tutto il contrario di Adamo che, uomo, volle diventare Dio e, creatura, ardì ribellarsi e disobbedire al suo Creatore (Gn.3,5 il serpente dice: “ diventerete come dei”).
Rigettando il peccato di Adamo, Gesù liberamente rinuncia alla sua posizione elevata e assume la condizione di Adamo di schiavitù al peccato e alla corruzione; egli ha accettato “la condizione di servo”. Trovandosi in questa corrotta situazione umana, di cui noi siamo tutti partecipi, Gesù ha portato a compimento il cammino di Adamo umiliando maggiormente se stesso in obbedienza al Padre fino a patire la morte in croce ( “non c’è amore più grande, che dare la vita per i propri amici”). Esempio luminoso d’altruismo e, poniamo l’accento ancora, di umiltà, che indica la morte stessa. La morte di “croce”, per Paolo, non è simbolo d’infamia, ma di gloria.
Sebbene egli possa essere stato più specificatamente interessato alla prima parte dell’inno, la seconda (vv.9-11) è altrettanto espressiva, perché ciò che è accaduto a Gesù Cristo, il quale si è umiliato e morto e risorto, è importante come esempio di ciò che accadrà a noi (come ai Filippesi), che umiliandoci e, forse, subiremo la morte rendendo testimonianza al Vangelo. Come Dio Padre ha esaltato Gesù, il secondo Adamo, così anche noi cristiani che soffriamo e moriamo con la fede possiamo sperare di essere risuscitati a nuova vita quando il Signore glorioso tornerà (1 Ts.4,13-18). Il resto dell’inno esamina l’esaltazione di Gesù e la sua unicità: gli è stato dato un nome che è al di sopra di ogni nome, così che quando è pronunciato il cosmo risponde genuflettendosi e glorificando Dio Padre, confessando e pregando che “Gesù Cristo è il Signore”. La frase è allo stesso tempo un’invocazione e una professione di fede della sua identità.

Contemplatio.

Signore, noi ti lodiamo, ti adoriamo, ti benediciamo, ti glorifichiamo e ti rendiamo grazie per averci rivelato la tua persona divina. Se c’è uno che potrebbe a buon diritto chiudersi in se stesso e accontentarsi della propria autosufficienza, se c’è uno che potrebbe conservare gelosamente il “tesoro” inestimabile della propria esistenza, senza avere bisogno di entrare in rapporto con niente e  nessuno al di fuori di sé, questi sei tu Signore. L’aspetto sconvolgente e “scandaloso” della nostra fede cristiana è proprio questo: tu, uomo Gesù Cristo, sei Dio per natura, eppure tutta la tua vita è stata un uscire da te, un curare la prossimità con noi uomini peccatori. Senza l’affermazione della tua uguaglianza col Padre la tua vicenda sarebbe magari commovente e potrebbe essere esaltante, ma non più di quanto lo fossero le vicende di tanti eroi e benefattori dell’umanità. E l’immagine del Padre resterebbe un enigma insolubile, un mistero occulto e incomprensibile: Dio Padre potrebbe ancora essere un geloso custode della propria inarrivabile divinità.
Gesù ti sei “svuotato” della tua divinità e non ti sei accontentato di condividere la nostra condizione umana, ma ti sei spinto fino ad assumere la condizione di servo. Su questa strada sei andato sino in fondo: ti sei consegnato nelle mani dei peccatori; hai offerto liberamente la tua vita, in obbedienza al Padre, affrontando la più meschina e infamante delle morti per amore nostro. Dall’incarnazione alla crocifissione il tuo progetto è stato un atto d’obbedienza alla volontà divina che ti chiedeva di manifestare a tutta l’umanità l’abissale amore del Padre per i suoi figli. Questo è l’unico modello cui anche noi dobbiamo ispirarci Signore nostro. E’ il modello assoluto. Su di esso e solo su di esso saremo misurati, perché come tutti siamo stati chiamati ad essere perfetti come tu Gesù, fin da prima della creazione del mondo.
Gesù crocefisso e risorto noi ti proclamiamo Signore della voce del Padre. Il tuo nome è destinato ad essere ripetuto da ogni lingua, perché ogni creatura sia condotta a riconoscere la tua signoria, piegando il ginocchio di fronte alla tua regalità sul mondo. Noi non intendiamo tutto questo come una rivincita o un “pareggio dei conti”. Tu, Signore, non prendi una posizione di dominio e di prevaricazione che hai abbandonato solo nel fugace momento della morte in croce. Una volta per tutte, Gesù uomo Dio, ti manifesti proprio nella dedizione incondizionata di te, nell’amore sconfinato con cui ti sei posto al servizio della salvezza di tutti. Tu “regni” proprio dalla croce: questo è il segno tracciato sulla storia. Nella carità divina espressa attraverso il segno della croce vediamo insieme la gloria del Padre e il significato pieno d’ogni vicenda umana. Grazie, Gesù. Lode e gloria a te, sempre!

Conclusio.

Gesù, mio Signore, tu sei la sorgente della vita, venuto sulla terra per comunicare questa vita a tutti gli uomini. Tu mi porti la vita vera: spirituale, soprannaturale, divina. Tu mi dai la vita della grazia; mi rendi partecipe della vita della S.S. Trinità. La vita che mi porti è l’unica cosa che conta realmente. Coloro che la possiedono regnano per essa. Coloro che non l’hanno o l’hanno perduta, sono come morti, come se si trovassero nella Geenna. Ti sono veramente riconoscente e grato, Gesù mio, per il dono meraviglioso che mi consacra al mio Dio e fa di me un erede del Regno. “A fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre” (Ap.1,6).
Gesù mi doni questa vita di grazia per mezzo dei sacramenti. Entro in essa col battesimo: “Dovete nascere dall’alto”. Questa vita si sviluppa grazie all’Eucaristia, la carne che vivifica: “Io sono il pane di vita”. Nella Messa, l’acqua mescolata al vino per il sacrificio eucaristico, perde la sua identità e si confonde col vino. Così, quando ricevo te Signore, io prendo parte alla tua divinità e possiedo la tua vita.
Tu mi dai la vita, o Signore. Io l’accolgo e la faccio sviluppare in me. Tu sei la vita e io sono il tralcio. La tua linfa penetra in me e mi spinge a dare frutto. Tu mi hai esortato a non trascurare né sprecare i benefici di Dio. La grazia di Dio che è destinata a me personalmente dovrebbe essere ricevuta con rispetto, conservata con gelosa cura e assecondata. Devo riflettere sull’avvertimento che lo Spirito Santo fece dare all’angelo della Chiesa di Laodicea: “Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Ap.3,15-16).
Gesù, mio Signore, se è necessario, scuotimi dalla mia autosufficienza. La vita è breve. Non permettere che ne sprechi una parte. Concedimi piuttosto di ricavare il massimo profitto dalle grazie che mi metti a disposizione.
Con te “abbiamo in abbondanza”. Signore Gesù, tu dai senza misurare. Tu vuoi che io viva pienamente la mia vita spirituale. “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia” (Gv.1,16). La tua grazia non viene a me come un rivoletto, ma come l’onda abbondante e possente dei grandi fiumi che danno vita e prosperità. Quando procurasti il vino alle nozze di Cana, tu Signore, non ne desti qualche brocca, ma sei grandi giare riempite fino all’orlo ed erano i recipienti più grandi della casa. Quando moltiplicasti i cinque pani, tutti quelli che erano presenti mangiarono a sazietà e furono raccolti dodici canestri d’avanzi. Quando ordinasti agli Apostoli di gettare la rete al lato destro della barca, essa si riempì immediatamente di tale quantità di pesci, che i pescatori non riuscirono più a sollevarla e la dovettero trascinare a riva. Quando donasti il pane di vita – l’Eucaristia – tutti gli uomini furono invitati a mangiare di questo cibo celeste quanto più spesso volessero. Tu, Signore, dai sempre grazie abbondanti, nella misura in cui io le possa portare.
La grazia è venuta per mezzo tuo Gesù. Signore, che la tua grazia inondi l’anima mia fino a che io ti appartenga totalmente.

Tu sia benedetto in ogni istante della giornata, Signore Gesù. Amen. 

Publié dans : LECTIO DIVINA, Lettera ai Filippesi |le 31 octobre, 2010 |Pas de Commentaires »

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